La pena dell’ergastolo, le riflessioni di un Giudice della Corte di Assise di Appello di Catanzaro


Grazie al Dott. Fabrizio Cosentino, Consigliere della Corte di Assise di Appello di Catanzaro, per tutto quel che oggi ha scritto nel suo elaborato “Origine e giustificazione della pena dell’ergastolo”, contro la pena dell’ergastolo e di quella accessoria dell’isolamento diurno, nonché sulle recenti riforme del legislatore ed in particolare sul divieto di giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena perpetua, per il quale sono stati già promossi diversi incidenti di costituzionalità, pendenti davanti al Giudice delle Leggi.

«Oggi la pena dell’ergastolo è ancora presente nell’ordinamento italiano, anzi, in qualche modo è stata rivalutata e rafforzata, con le ipotesi di c.d. ergastolo ostativo, nonostante alcuni ordinamenti, pur espressione di società meno evolute della nostra dal punto di vista economico, ne richiedano la disapplicazione (lo ricorda la vicenda del terrorista Battisti, estradato dal Brasile, con il patto che l’ergastolo venga commutato in anni trenta di reclusione). Contro l’ergastolo militano, anzitutto, le stesse ragioni fatte valere contro la pena di morte. Non è sanzione che abbia maggior efficacia deterrente, rispetto ad una condanna a trenta anni di reclusione. È una sanzione priva di umanità, perché preclude al reo ogni speranza di redenzione e lo condanna ad una sorta di damnatio memoriae.

È una sanzione contraria al principio costituzionale dell’emenda, perché non si prevede, a priori, un preciso programma riabilitativo, mentre le pene devono per necessità costituzionale – e già in partenza – tendere alla rieducazione del condannato. È sin troppo palese che non esiste una rieducazione fine a sé stessa, dovendo necessariamente conseguire all’avvenuta risocializzazione un risultato pratico. L’odierna totale chiusura di fronte alla c.d. “grande criminalità” è in linea teorica ingiustificata, nella misura in cui concede al reo di crimini organizzati la sola alternativa della collaborazione, concetto che non combacia necessariamente con quello di pentimento. È una sanzione contraria alla Convenzione sui diritti dell’uomo, perché in contrasto con l’art. 3 del trattato («nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani o degradanti»).

Sebbene sia sempre possibile riparare il danno di eventuali – neanche tanto infrequenti – errori giudiziari, l’ergastolo segregativo rende particolarmente doloroso riparare la ferita, spesso ad una intera vita di reclusione, attraverso il mero risarcimento pecuniario. Vale in buona misura anche per l’ergastolo l’osservazione secondo cui l’esecuzione della pena, «est irrévocable et peut etre infligée à un innocent». Per queste ragioni, si può dire che la sanzione dell’ergastolo condivide con la pena di morte l’accusa di rappresentare una pena crudele, inumana, degradante e che viola il diritto alla vita.»

Strasburgo condanna l’Italia per la morte di un detenuto. Vicenda analoga a quella avvenuta nel 2016 nel Carcere di Paola


Strasburgo condanna ancora l’Italia. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Prima Sezione, riunita in un Comitato composto da Armen Harutyunyan, Presidente, Pere Pastor Vilanova e Pauliine Koskelo, Giudici, nella causa promossa da Santo Citraro e Santa Molino contro Italia (Ricorso n. 50988/13), dopo aver deliberato in Camera di Consiglio il 28 aprile 2020, con Sentenza del 4 giugno 2020, ha dichiarato, all’unanimità, la Repubblica Italiana responsabile della violazione dell’elemento materiale dell’Articolo 2 della Convenzione condannandola anche al risarcimento dei danni (32 mila euro per danno morale e 900 euro per le spese, oltre alla maggioranza dovuta per eventuali imposte ed interessi) da versare, entro tre mesi, in favore dei ricorrenti.

I ricorrenti, signori Citraro e Molino, il 24 luglio 2013, introdussero un ricorso alla Corte di Strasburgo contro l’Italia, ai sensi dell’Art. 34 della Convenzione Europea, lamentando la violazione degli Articoli 2 e 3 della Convenzione, ritenendola responsabile del suicidio per impiccagione del loro figlio Antonio Citraro, 31 anni, di Terme Vigliatore, avvenuto nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 2001, mentre era detenuto nella cella n. 2 del reparto “sosta”, presso la Casa Circondariale di Messina.

All’epoca dei fatti, la morte di Citraro, in un primo momento venne etichettata come un suicidio e subito dopo, grazie alle denunce della famiglia, come omicidio colposo: il Gup del Tribunale di Messina dispose il rinvio a giudizio del Direttore dell’Istituto, di sei Agenti della Polizia Penitenziaria e del Medico Psichiatra per i reati di favoreggiamento, falso per soppressione, omicidio colposo, abuso dei mezzi di correzione e lesioni personali. Ma gli imputati, in tutti i gradi di giudizio, vennero assolti da ogni accusa.

I genitori del giovane detenuto però non si arresero e, dopo aver esaurito i rimedi giurisdizionali interni, assistititi dall’Avvocato Giovambattista Freni del Foro di Messina, proposero ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, nei giorni scorsi, dopo 19 anni, ha finalmente condannato l’Italia per le sue responsabilità. In particolare, i ricorrenti, lamentavano la violazione dell’Articolo 2 della Convenzione sostenendo, tra l’altro, che l’Amministrazione Penitenziaria, per mancanza di precauzioni e per negligenza, non avesse adottato le misure necessarie e adeguate idonee a impedire il suicidio del loro figlio, affetto da disturbi psichici, tant’è vero che in precedenza aveva più volte posto in essere atti di autolesionismo compresi tentativi di suicidio, che avevano portato il Magistrato di Sorveglianza di Messina a disporre il suo ricovero nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, provvedimento rimasto inevaso (solo pochi minuti prima del decesso di Citraro dal Ministero della Giustizia arrivò l’ordine di traduzione presso l’Opg).

Ebbene, la Corte di Strasburgo, ha deciso di condannare la Repubblica Italiana ritenendola responsabile in quanto l’Art. 2 della Convenzione obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. Tale obbligo sussiste, ancora di più, dal momento in cui le Autorità Penitenziarie siano a conoscenza di un rischio reale e immediato che la persona detenuta possa attentare alla propria vita.

Nel caso in questione, l’Amministrazione Penitenziaria, era perfettamente a conoscenza dei disturbi psichici e della gravità della malattia di cui era affetto il giovane detenuto, degli atti di autolesionismo e dei tentativi di suicidio che aveva posto in essere, dei suoi gesti e pensieri suicidi e dei segnali di malessere fisico o psichico (aveva completamente distrutto la cella, impedendo l’ingresso al personale, e faceva discorsi deliranti e paranoici).

Per tali motivi, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha ritenuto che le Autorità Penitenziarie non abbiano adottato le misure ragionevoli che erano necessarie per assicurare l’integrità del detenuto Antonio Citraro. Infatti, nella sentenza, i Giudici Europei scrivono chiaramente che “… le Autorità si sono sottratte al loro obbligo positivo di proteggere il diritto alla vita di Antonio Citraro. Pertanto, vi è stata violazione dell’elemento materiale dell’Articolo 2 della Convenzione.”

La vicenda della morte di Antonio Citraro è analoga a quella di tanti altri detenuti, parimenti affetti da disturbi psichici, verificatasi negli Istituti Penitenziari d’Italia. Tra le tante morti similari, ricordo particolarmente quella di Maurilio Pio Morabito, 46 anni, avvenuta il 29 aprile 2016, a poche settimane dal suo fine pena (30 giugno 2016), mentre era detenuto presso la Casa Circondariale di Paola. Morabito, come Citraro, si è impiccato nella cella n. 9 del reparto di isolamento, dopo aver posto in essere diversi atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, rifiutato di assumere i farmaci per timore di essere avvelenato ed anche di recarsi a colloquio con i propri familiari. Aveva finanche incendiato e distrutto, ripetutamente, le altre celle in cui era precedentemente allocato e per tale ragione era stato posto per diversi giorni in una cella liscia (cioè priva di ogni suppellettile), sporca e maleodorante, senza nemmeno essere sorvegliato a vista, lasciandogli addosso solo le mutande ed una coperta. Proprio utilizzando quest’ultima, che è stata annodata a forma di cappio alla grata della finestra della cella, di notte, è riuscito a togliersi la vita.

Per la vicenda di Morabito, i familiari, non hanno ottenuto giustizia in sede penale, in quanto il procedimento è stato archiviato dal Gip del Tribunale di Paola su conforme richiesta avanzata dalla Procura della Repubblica. Recentemente però, assistiti dagli Avvocati Corrado Politi e Valentino Mazzeo del Foro di Reggio Calabria, hanno citato in giudizio il Ministero della Giustizia per sentirlo condannare al risarcimento dei danni. La causa attualmente è in corso presso il Giudice Civile del Tribunale di Reggio Calabria (ed io sono tra le persone che verranno sentite in merito dall’Autorità Giudiziaria).

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – Causa Citraro e Molino contro l’Italia (clicca per leggere)

Coronavirus, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo chiama a rapporto l’Italia per le condizioni delle Carceri


images_cedu.jpgBonafede dovrà rispondere entro martedì. Le domande sono le stesse poste quasi un mese fa dalle Camere Penali. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiesto spiegazioni urgentissime all’Italia sulla condizione dei detenuti. Vuole una risposta chiara e dettagliata entro martedì prossimo. Ha rivolto al governo un bel numero di domande sulle condizioni delle nostre prigioni, sul sovraffollamento, sulle misure che l’Italia ha preso per fronteggiare il virus e sul perché non vengono utilizzati massicciamente i domiciliari.

La Cedu si è riunita per rispondere al ricorso urgente di un prigioniero al quale è stata negata la scarcerazione. L’avvocato Caiazza, che è il Presidente della Camere Penali, ha fatto notare che le domande della Cedu sono praticamente identiche alle dieci domande che le Camere Penali hanno rivolto quasi un mese fa al ministro e al governo, ottenendo il silenzio, o al massimo il solito mezzo sorriso abituale del ministro Bonafede davanti alle telecamere. Per l’Italia e per il suo governo è uno schiaffo in pieno viso. Non è bello essere indicati da un organismo serio e solenne quale è la Cedu come violatori di diritti essenziali dell’uomo.

Siamo l’Italia, non siamo un Paese disperso del terzo mondo e non siamo un Paese guidato da qualche spietata dittatura. Eppure, sul tema carceri siamo il fanalino di coda della civiltà occidentale. Insieme al Belgio. Come è possibile? È presto detto: nel nostro Paese la ventata populista, che sta accarezzando tutta l’Europa e l’Occidente, ha preso un sapore giustizialista che negli altri Paesi è meno forte.

Il populismo nel resto d’Europa, e anche in America, è più un fenomeno simile a tutti i fenomeni classici di radicalizzazione della destra. Ha un aspetto più tradizionale, anti-establishment, anti-sinistra, xenofobo. Ma non trova, in genere, motivazioni particolarmente radicate nel giustizialismo. Il giustizialismo non manca mai, certo, ma è una componente aggiuntiva.

Da noi è diverso. Il populismo parte da molto lontano, gode di un sostegno generalizzato dei mass-media, è costruito quasi interamente – in tutte le sue sfaccettature – sull’idea del giustizialismo come ideologia di salvazione della società e di contrasto alla modernità e ai suoi peccati.

Nasce addirittura 25 anni fa, non oggi, coi movimenti – solo in parte spontanei – a favore dei magistrati milanesi che stavano smantellando la Prima Repubblica e lo spirito della Costituzione; e poi cresce con la Tv di Santoro, con i Girotondi di Flores, con le campagne del Corriere della Sera contro la Casta, col popolo viola, e infine con i 5 Stelle e con la crescita velocissima della Lega di Salvini.

Questo giustizialismo – anche così variegato, che va da un pezzo del vecchio Pci fino alla Lega – ha bisogno di simboli. Non gli basta più il ricordo di Mani Pulite. E il simbolo allora diventa il carcere. È il carcere lo strumento principale del giustizialismo, è il carcere il cuore della sua idea, e il carcere deve essere difeso con le unghie e coi denti. Da tutti.

Persino dagli amici magistrati, se dissentono. L’Europa, il Papa, il Presidente della Repubblica, l’Onu, e poi gli avvocati, gli operatori del carcere, persino un bel pezzo di magistratura chiedono un intervento di riduzione del numero dei detenuti. Ma c’è il nucleo duro del giustizialismo che regge impavido, e si trascina dietro un bel pezzo di opinione pubblica e del sistema dei mass media. È guidato ormai da due o tre leader riconosciuti: Travaglio, Gratteri, Di Matteo.

E non molla neppure un centimetro. Costringendo gli stessi 5 Stelle – che sono al governo e quindi in una posizione delicata – a non cedere, a mantenere il punto. Il Pd gli va dietro. Il fronte giustizialista, anche sul piano della comunicazione, usa tutti i mezzi. Chi vuole decongestionare le carceri, chi considera il sovraffollamento un problema, è evidentemente amico della ‘ndrangheta, di Cosa nostra, della camorra.

Gli avvocati, soprattutto, i radicali, e quei pochissimi e isolatissimi giornalisti che si occupano di questo problema. Chissà se ora useranno lo stesso schema col Papa e con la Cedu. Vaticano uguale mafia, Europa uguale mafia. Non ci sarebbe niente di cui stupirsi.

Piero Sansonetti

Il Riformista, 11 aprile 2020

Coronavirus, Il Governo non sta tutelando la salute dei detenuti


carcere foto chiavi sbarreSaranno solo tremila i beneficiari della detenzione domiciliare prevista per i carcerati dal decreto Cura Italia e “non si possono stabilire distanze di un metro in celle di 3 metri per 3 se al loro interno sono recluse 4 persone. Si azzera ogni reattiva difesa immunitaria”.

“Le pene che oltrepassano la necessità di conservare il deposito della salute pubblica sono ingiuste di lor natura”, scriveva Cesare Beccaria, ma il suo monito si è perso durante l’emergenza pandemica in atto. Le istituzioni sono immobili e il totale caos normativo di natura interpretativa e applicativa sulle misure detentive carcerarie rende tutto più complicato.

Eppure “Il diritto alla salute”, anche “intramurario”, è annoverato tra i diritti fondamentali e considerato diritto naturale, riconosciuto dalle convenzioni internazionali. La stessa “quarantena”, fu istituita a livello sovranazionale nel XIV secolo come strumento di protezione contro il dilagare della peste nera – ma è sancito soprattutto dall’articolo 32 della Costituzione Italiana.

Non sono bastate le esortazioni dell’Associazione nazionale magistrati, del Consiglio superiore della Magistratura e dello stesso Papa a convincere il governo ad affrontare con risolutiva determinazione la situazione all’interno degli istituti penitenziari. Sono delle vere e proprie bombe epidemiologiche non solo per i detenuti ma anche per i detenenti: la deflagrazione sarebbe distruttiva.

Il 15 marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha redatto delle linee guida applicabili in ambiente detentivo allo scopo di prevenire la diffusione del Sars-Cov 19. Tra queste raccomandazioni innanzitutto quella di osservare la distanza fisica di un metro. Ma come si può pensare, in Italia, di poter far rispettare questa cautela? Prossemica impossibile. Ed eccolo lì, il ritorno al problema del sovraffollamento carcerario che affligge il nostro paese. Secondo i dati del 29 febbraio forniti del Ministero della Giustizia, in Italia ci sono 61.230 detenuti (di questi soltanto 41.873 risultano essere condannati in via definitiva) a fronte di una capienza pari a 50.931 posti.

L’Italia, non a caso, è stata condannata più volte, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalla Corte di Strasburgo per il trattamento inumano e degradante dei detenuti, costretti a vivere in spazi angusti e in pessime condizioni igienico sanitarie. “È insopportabile che io, ogni anno, debba fare lo stesso resoconto; che nulla sia cambiato; che nonostante l’evidenza drammatica di una condizione disumana, non un passo sia stato compiuto, per rendere più degna l’esecuzione penitenziaria”, ha detto Luca Bisori, presidente della Camera penale di Firenze. Sempre L’Oms ha raccomandato misure di protezione personale quali igiene delle mani, disinfestazione degli ambienti e uso di mascherine protettive. Ma ancora una volta sembra difficile pensare che siano reperiti i dispositivi sanitari necessari per tutti coloro che ruotano attorno alle strutture carcerarie, quando mancano in molti ospedali italiani.

“Il tema della compatibilità carceraria, cioè a dire del poter scontare la propria pena in galera è uno dei nodi cruciali del sistema penitenziario italiano”, spiega l’avvocato Salvatore Staiano, esperto di diritto penale e penitenziario, convinto che si debba evitare che i detenuti vivano un situazioni di abbattimento, di afflizione psicologica dovuta all’assoluta impossibilità difensiva contro il mostro invisibile del coronavirus. “Non si possono stabilire distanze di un metro in celle di 3 metri per 3 se al loro interno sono recluse 4 persone – continua l’Avvocato Staiano -, vi consegue una assoluta destrutturazione psicologica, i detenuti si sentono abbandonati e vinti. Si azzera ogni reattiva difesa immunitaria”.

Il carcere, infatti, cagiona, depauperandolo, un indebolimento del sistema immunitario e a dimostrarlo sarebbero i dati relativi al dilagare dell’epatite C, dell’Hiv e dei problemi psichiatrici e di astinenza da sostanze stupefacenti. Il Decreto Cura Italia, che ha introdotto misure per contrastare gli effetti provocati dall’emergenza epidemiologica in atto, – viste anche le numerose rivolte scoppiate all’interno delle carceri a causa della “serrata” che aveva bloccato, per tutelare la salute dei reclusi, ogni contatto con l’esterno, vietando così ai carcerati i colloqui con i familiari -, prevede la detenzione domiciliare per chi debba scontare una pena o un residuo di pena fino a 18 mesi. Previsione, diremmo sommessamente, debole e inefficace; potendosi bene elevare la quota di pena ad anni 3 comunque restando all’interno delle previsioni “liberatorie” dello stesso ordinamento penitenziario.

Ma saranno poco meno di tremila i beneficiari di questa misura. Inoltre, tale previsione, escludendo tutti i condannati per i reati ostativi, creerebbe una discriminazione: si andrebbe a tutelare la salute solo di una categoria di detenuti; basterebbe sogliare il beneficio anche in afferenza alla peculiare elevata pericolosità del detenuto postulante. Come se non bastasse, nel nostro sistema processuale, pur essendo considerato il carcere come extrema ratio, risulta che il 30% dei detenuti sia in carcerazione preventiva e in attesa di un esito definitivo, il che non esclude vi possa essere una assoluzione.

Forse, la pandemia in atto, potrebbe incentivare l’utilizzo di misure alternative alla detenzione. Se si considerasse il coronavirus elemento oggettivo di inapplicabilità della custodia carceraria, si alleggerirebbe la pressione delle presenze non necessarie nelle case circondariali, permettendo così il mantenimento della distanza di un metro e tutelando il diritto alla salute di 61.230 detenuti e di circa 45.000 soggetti che sostengono, orbitandone all’interno, l’intero sistema penitenziario.

Laura Caroleo

linkiesta.it, 6 aprile 2020

Prof. Palazzo (UniFirenze): Imporre agli ergastolani di collaborare è da Stato di Polizia, non da Stato di Diritto


Ancor prima di quella collegata alla rieducazione vi è più prosaicamente l’anima utilitaristica di spingere il condannato a rendere più agevole e penetrante il compito investigativo delle autorità.

L’ergastolo ostativo, originariamente previsto per alcuni reati associativi molto gravi, è stato esteso successivamente, mediante una serie di aggiunzioni, a reati che possono non avere niente a che fare con le organizzazioni criminali.

Il punto centrale della sua disciplina (che gli è valsa la qualificazione di “ostativo”) è noto: salve le ipotesi di collaborazione impossibile (perché il condannato niente sa) o irrilevante (perché l’autorità già sa tutto), l’accesso agli istituti di progressiva risocializzazione presuppone che il condannato “collabori” – magari a distanza di anni dal fatto – con l’autorità rivelando ciò che sa, segnatamente in ordine alla partecipazione di eventuali correi.

Solitamente si pensa che il requisito della collaborazione sia giustificato in ragione del fatto che senza di essa sarebbe impensabile la dissociazione del reo dall’originario ambiente criminoso e dunque impossibile un giudizio diagnostico/prognostico di cessata pericolosità. In sostanza, si collega funzionalmente la collaborazione a quella finalità rieducativa che non mancherebbe neppure nell’ergastolo in quanto, appunto, suscettibile di aperture progressive alla libertà.

A ben vedere le cose, però, il fondamento giustificativo della collaborazione come chiave di accesso ai “benefici” ha una doppia anima. Forse ancor prima di quella collegata alla rieducazione vi è più prosaicamente l’anima utilitaristica di spingere così il condannato – specie se intraneo ad organizzazioni criminose – a rendere più agevole e penetrante il compito investigativo delle autorità. Se si assume chiara consapevolezza di questa doppia anima dell’ostatività, ne discendono rilevanti conseguenze in punto di costituzionalità della preclusione. Fino a che quelle due anime vanno d’accordo, nel senso che la mancata collaborazione esprime nel caso concreto la persistenza della pericolosità ostacolando nello stesso tempo l’esauriente accertamento processuale, nulla quaestio (legitimitatis), essendo giustificata la perpetuità della pena sulla base dell’ormai consolidata giurisprudenza costituzionale e Cedu in materia di ergastolo.

Ma quando le due anime si dividono perché la mancata collaborazione non esprime la persistenza della pericolosità, essendo ad esempio motivata dalla volontà di non esporre sé o i propri congiunti a vendette o ritorsioni o essendo ispirata a ragioni morali di non nuocere ad altri, avendo però il condannato percorso positivamente il suo itinerario rieducativo, allora le cose cambiano radicalmente. È chiaro, infatti, che in tali ipotesi l’ostatività non può che fondarsi sull’esclusiva anima dell’agevolazione dell’accertamento processuale.

È come dire: tu puoi collaborare ma non lo fai, e allora non m’interessa se hai già raggiunto il risultato risocializzativo che sarebbe sufficiente ad uscire dal carcere e a rompere la perpetuità della pena. Ciò significa, in breve, che l’anima “processuale” dell’ostatività prevale su quella “rieducativa”. Ma questo bilanciamento è palesemente contrario alla Costituzione: mentre, infatti, la rieducazione è un valore espresso in Costituzione e dalla Corte costituzionale affermato in termini sempre più perentori e ricollegato dalla Corte di Strasburgo addirittura alla stessa dignità umana, l’agevolazione processuale coatta non solo non trova riconoscimento in Costituzione ma un suo sistematico uso quale strumento ormai pressoché ordinario per l’accertamento dei reati dovrebbe suscitare serissime perplessità. In fondo, si profilerebbe la trasformazione dello Stato di diritto in uno Stato di polizia, quasi esonerando l’autorità dal suo compito d’accertamento per trasferirlo coattivamente sui cittadini.

Questo è lo sfondo inquietante su cui si pone la quaestio legitimitatis dell’ergastolo ostativo. Ma non c’è nemmeno bisogno che la Corte costituzionale s’impegni expressis verbis su tale piano. Infatti, anche accreditando l’ostatività di un’anima (nobile) in funzione esclusivamente rieducativa, la preclusione si rivela chiaramente affetta da un’intrinseca irrazionalità.

Che senso ha precludere i benefici a chi rifiuta di collaborare per ragioni che non solo non siano incompatibili con la cessazione della pericolosità, ma che – tutto al contrario – possono addirittura essere espressione e conferma dell’avvenuto processo di risocializzazione? Sembra poi addirittura superfluo precisare che l’abolizione della presunzione assoluta non significherebbe rimettere tout court in libertà schiere di pericolosi mafiosi o incalliti delinquenti: è chiaro che l’ammissione ai benefici presuppone pur sempre un accertamento in concreto da parte del giudice di sorveglianza dell’assenza di pericolosità, costituendo indubbiamente la mancata collaborazione un importante indicatore negativo, ma niente di più e niente di meno di un indicatore. Se poi non ci si fidasse dei giudici, allora sarebbe un altro discorso: alla fine del quale, però, si staglierebbe nuovamente l’ombra dello Stato di polizia.

Francesco Palazzo, Emerito di Diritto Penale Università degli Studi di Firenze

Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2019

Bortolato (Magistrato): l’opinione pubblica crede che il “fine pena mai” non esista. E’ vero il contrario !


Nell’opinione pubblica, anche qualificata, continua a essere diffusa l’idea che l’ergastolo sia una pena riducibile e che il “fine pena mai” non esista.

È vero il contrario. Mentre è in calo il numero dei reati, le condanne all’ergastolo aumentano e, tra esse, quelle all’ergastolo effettivamente senza right to hope, senza via di uscita. Ostativo, viene comunemente definito. Un Magistrato di Sorveglianza ci spiega bene cosa è e perché non dovrebbe avere cittadinanza nel nostro ordinamento, tanto più dopo la sentenza della Corte di Strasburgo Viola c. Italia. Lo pubblichiamo per sfatare luoghi comuni e false giustificazioni, in attesa che il 22 ottobre si pronunci la Corte costituzionale.

1. L’ergastolo ieri e oggi – La prima volta in cui mi imbattei nell’ergastolo fu quando venni chiamato, allora diciottenne, alle urne per il referendum abrogativo del 1981: non ebbi alcun dubbio, fui tra quei 7.114.719 favorevoli alla sua abolizione (cioè il 22,6% dei votanti), contro quei 24.330.954 (il 77,4%), che si erano espressi in senso contrario all’abolizione. La proposta venne bocciata, eppure nei contestuali referendum sull’abolizione delle norme sulla concessione del porto d’armi e sull’interruzione volontaria della gravidanza la risposta negativa, cioè il no all’abolizione, aveva raggiunto percentuali ben maggiori, che si attestavano tra l’85 e l’89%: ciò significa che circa il 10% di quelle stesse persone che si erano espresse in senso contrario all’abrogazione della legge Cossiga, concepita per affrontare l’emergenza terrorismo in Italia degli anni 70, si era espresso nello stesso giorno in senso favorevole all’abolizione dell’ergastolo.

La seconda volta fu quando – molto più tardi – assunsi le funzioni di Magistrato di Sorveglianza: a quel punto il problema non fu più l’ergastolo ma il suo ulteriore aggravamento, quella sofferenza aggiuntiva, quell’inasprimento sanzionatorio – perché di questo si tratta – che va sotto il nome di “ergastolo ostativo”: la pena senza speranza, un passato che schiaccia il presente e toglie ogni speranza al futuro. L’ergastolano “ostativo” ha la quotidiana sensazione di avere ben poche speranze di accorciare quel fine pena, la sensazione di morire giorno per giorno tanto da voler a volte desiderare che la condanna sia tramutata in pena di morte.

Il primo argomento da sfatare è che l’ergastolo sia una condanna simbolica che, si dice, di fatto non sconta più nessuno. Alcuni dati: 1700 circa oggi gli ergastolani di cui oltre 1200 “ostativi”: dal 2004 al 2014 vi è stato un incremento degli ergastoli del 38%, eppure da un anno all’altro diminuiscono gli omicidi (dal 2017 al 2018 il 16,3% in meno e quelli di criminalità organizzata da 48 a 30 dal 2016 al 2017; gli omicidi volontari in Italia nel 2018 sono stati 319 dei quali 134 in ambito familiare/affettivo e dunque al di fuori di un contesto di criminalità organizzata). L’incidenza percentuale degli ergastolani sul totale dei condannati definitivi tra il 1998 e il 2008 è passata dal 2,5% al 5,29%: una pena dunque tutt’altro che desueta.

2. Ergastolo e compatibilità con la Costituzione repubblicana – Il più grave problema che si pone per l’ergastolo è quello della sua compatibilità con il principio della finalizzazione rieducativa della pena scolpito nell’art. 27 Cost.: se infatti per rieducazione non si può non intendere che reintegrazione, seppur tendenziale, dell’individuo nel contesto sociale, una misura come l’ergastolo, destinata ad escluderlo definitivamente, non può che risultare incompatibile con tale principio.

La Corte Costituzionale, riaffermando invece la costituzionalità di tale sanzione, ha dovuto fare riferimento al fatto che l’ergastolo non è effettivamente tale – e cioè una pena perpetua – in quanto ammette il rientro nella società attraverso la liberazione condizionale (beneficio previsto non dall’ordinamento penitenziario ma dal codice penale all’art. 176 cp), incorrendo così in un evidente paradosso: quello di riaffermare la costituzionalità di un istituto in quanto lo stesso non sia effettivamente tale, quando avrebbe invece dovuto pronunciarsi sulla fondatezza e compatibilità dei principi, non sulla loro occasionale (e del tutto aleatoria) disapplicazione. Del resto si consideri che in termini percentuali gli accoglimenti dell’istanza di liberazione condizionale (per tutte le pene, anche temporanee) si aggirano intorno al 3% circa delle istanze, spiegabile proprio perché la liberazione condizionale è un beneficio che dal 1992 è soggetto alle stesse condizioni di ammissibilità dettate nell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario per le misure alternative, prima fra tutte il requisito della “collaborazione” la cui mancanza di fatto rende ostativa la pena perpetua.

Con la sentenza n. 264 del 22 novembre 1974 l’ergastolo viene dichiarato conforme alla Costituzione con il rilievo che la funzione rieducativa non è l’unica funzione cui la pena deve assolvere, affiancandosi a tale funzione anche quella dissuasiva, preventiva e di difesa sociale (è la teoria “polifunzionale” della pena).

Si è così arrivati in Italia all’ergastolo moderno, pena mantenuta nella sua perpetuità ma temperata dalla concessione di molti benefici penitenziari [1]. Si è assistito ad un’opera di progressiva spoliazione dell’istituto che non si è voluto fin qui eliminare nel tentativo di renderlo compatibile con la finalità rieducativa della pena: ma il limite dell’ergastolo ostativo (che costituisce la stragrande maggioranza degli ergastoli) nondimeno – da 27 anni – è ancora lì.

Oggi la questione, dopo la condanna in sede europea (CEDU: sentenza Viola c. Italia del 13 giugno 2019), è tornata nuovamente all’esame della Corte Costituzionale (sulle due questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis sollevate dalla prima Sezione della Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia nei casi, rispettivamente, Cannizzaro e Pavone, la discussione è fissata il prossimo 22 ottobre) proprio perché il requisito della collaborazione rende di fatto inapplicabili tutti i benefici penitenziari. Non si è mai dunque spenta in Italia l’inquietudine, nonostante le passate stagioni terroristiche, la ferocia della criminalità organizzata e l’efferatezza di alcuni delitti, circa la compatibilità dell’ergastolo con le acquisizioni di civiltà maturate e, in particolare, sul nesso problematico che intercorre fra pena perpetua e diritti fondamentali, la prima irrimediabilmente intrecciata ad un retaggio millenario di vendetta sociale, del cui classico emblema (la pena di morte) essa ha preso ambiguamente il posto nei nostri tempi, i secondi proiettati invece verso il futuro e di fronte al quale l’alternativa ormai è tra la coscienza lacerata (i casi italiano e tedesco in cui l’istituto è mantenuto ma progressivamente sgretolato) [2] ovvero l’abolizione, secondo la strada imboccata da Spagna e Portogallo che, usciti da sanguinose dittature, hanno radicalmente rinnovato i propri ordinamenti cancellando nel sistema delle pene ogni residuo dei lasciti ancestrali. Il caso italiano, in particolare, tradisce ancora una volta il disagio a contemperare la pena massima con l’impianto della Carta: l’ergastolo si giustifica tanto quanto risulti abolito nei fatti, circostanza quest’ultima che, almeno per i 1255 ergastolani “ostativi”, non si verifica. Questa situazione non può durare a lungo risolvendosi in un’ipocrisia prolungata e per di più annidata in un istituto fortemente simbolico: non dimentichiamo che l’ergastolo infatti nasce (da Beccaria) come alternativa alla pena capitale, confermata dal fatto che esso è tuttora sconosciuto negli Stati in cui per i delitti più gravi è ancora in vigore la pena di morte.

3. L’ergastolo “ostativo” – L’ergastolo ostativo, l’ergastolo degli “uomini ombra”, dei “senza speranza”, crea disagio, prima di tutto nel Magistrato di Sorveglianza. Perché?

Perché di fronte all’ostatività (che discende dalla mancata collaborazione) appare del tutto irrilevante il percorso rieducativo del condannato: il giudice è impotente, nonostante l’approccio delle teorie della cd “nuova prevenzione” tenda a riproporre ampio spazio al riconoscimento della concretezza e della specificità delle situazioni in cui un reato avviene, delle caratteristiche e delle motivazioni dell’autore, della sua evoluzione personale; è sempre necessario avere il coraggio di guardare a fondo nella realtà dei fatti e delle persone coinvolte anche nei crimini più efferati e devastanti, evitando di rimuovere l’orrore con la durezza della sanzione che allontana e definitivamente seppellisce. Il giudice difronte all’ergastolo ostativo è espropriato del potere di decidere se accordare un qualche riconoscimento ai progressi del reo, progressi che possono non avere nulla a che vedere con la sua volontà di collaborare con la giustizia.

Vanno ricordate poi le enormi difficoltà dell’accertamento della collaborazione cd “impossibile” o “inesigibile” (alternativa alla collaborazione effettiva, essa consiste nell’impossibilità, riconosciuta dalla legge, di offrire una reale collaborazione poiché su quella vicenda penale ormai è stata fatta piena luce): si tratta di un accertamento rimesso a fattori esterni su cui il condannato non ha alcun dominio e che dipende perlopiù dai pareri delle Procure che hanno svolto le indagini.

Il Magistrato di Sorveglianza difronte all’ergastolo ostativo è inoltre consapevole dell”anima nera’ della preclusione dell’art. 4-bis: quel surplus di pena, quell’inasprimento sanzionatorio che rende la pena perpetua una pena senza speranza ed ha le mani legate perché non può nemmeno valutare le ragioni del silenzio di chi non vuole collaborare con la giustizia. Sia chiaro, la collaborazione è strumento strategico della lotta alla criminalità organizzata, insostituibile mezzo di repressione e prevenzione dei reati, e dove è “effettiva” consente ai condannati l’accesso anticipato alle misure alternative (a differenza di quella cd “impossibile”) ma le ragioni di una mancata collaborazione possono essere anche nobili o comunque comprensibili (la scelta morale di non voler barattare la propria libertà con quella degli altri, la paura di esporre i propri familiari a ritorsioni e vendette) eppure non sono valutabili dalla Magistratura di Sorveglianza che deve limitarsi a prenderne atto anche difronte alla dimostrazione, del tutto disgiunta dall’assenza di collaborazione, di una cessata pericolosità, magari dopo moltissimi anni dal reato.

Il problema è allora anche quello della libertà di autodeterminazione, che ha a che fare con la “dignità”, divenuto parametro costituzionale tout court: la preclusione derivante dalla mancata collaborazione non è solo irrazionale, è “violenta” perché coarta la libertà morale e rende l’uomo da fine a mezzo, il che significa usare gli strumenti della rieducazione per scopi che sono altri (assicurare alla giustizia ulteriori colpevoli) cioè negare in radice la funzione del Magistrato di Sorveglianza.

Dobbiamo inoltre chiederci se la mancata collaborazione sia effettivamente sempre e comunque sintomo di dissociazione dalle organizzazioni criminali di appartenenza. Non sono sconosciute da un lato collaborazioni del tutto strumentali ed anche “false” e, dall’altro, l’esistenza di più sicuri indici di rescissione dei legami. Si pensi che il “ravvedimento” (pieno riconoscimento della propria responsabilità ed assunzione di impegni riparatori, traduzione laica del concetto di “emenda”) è sufficiente per ottenere la liberazione condizionale (l’unico beneficio che può cancellare l’ergastolo) ma non basta per poter accedere ai benefici anche minori a chi non abbia collaborato pur ammettendo le proprie responsabilità. Con il ravvedimento il reo dimostra di aver raggiunto un grado di rieducazione tale da meritare il massimo beneficio ma se non fa i nomi dei correi non può accedervi: c’è qualcosa di fortemente irrazionale prima che ingiusto in questo meccanismo.

4. La quaestio di costituzionalità – Ci sono degli evidenti limiti nel petitum delle due questioni di costituzionalità sollevate e che verranno discusse il prossimo 22 ottobre: esse colpiscono infatti l’ostatività del solo permesso-premio, il primo beneficio che l’ergastolano può ottenere. Se esso costituisce lo “snodo” cruciale del trattamento, tuttavia la progressione trattamentale è l'”in sé” della rieducazione. Tutti i benefici – nell’ottica della preclusione – sono uguali, non si possono distinguere: se cadrà la preclusione tutti i benefici e le misure alternative saranno, senza distinzioni, ammissibili. È dunque necessario colpire la preclusione in sé, la sua irrazionalità intrinseca.

Spesso facendo il Giudice mi chiedo: ma cattivi si diventa? anch’io ne sarei capace? Vi sono studi criminologici che hanno passato in rassegna il genocidio in Ruanda, i suicidi e gli assassini di massa dei membri di diverse sette religiose, gli orrori dei campi di concentramento nazisti, la tortura praticata dalla polizia militare e civile e la violenza sessuale perpetrata su parrocchiani da sacerdoti cattolici. Si ricorda spesso il cd. “esperimento carcerario di Stanford”: nel 1971 sono stati reclutati con un annuncio su un giornale alcuni studenti “sani, intelligenti, di classe media, psicologicamente normali e senza alcun precedente violento”. L’esperimento doveva durare due settimane e coinvolgere i soggetti, suddivisi casualmente tra un gruppo di guardie ed uno di detenuti, in una simulazione di vita carceraria, allo scopo di mettere a fuoco le reazioni dei detenuti. Dopo soli cinque giorni, i lavori furono però interrotti: gli studenti che rivestivano il ruolo delle guardie si erano inaspettatamente trasformati in spietati aguzzini. È l'”effetto Lucifero”: la possibilità, cioè, che alcune particolari situazioni siano in grado di indurre persone ordinarie a compiere i peggiori crimini.

Il ricordo di quell’esperimento deve farci riflettere che certamente emergono situazioni difficili e per molti aspetti inquietanti, che esistono delitti assai efferati rispetto ai quali non sembra esservi alcuna pena idonea a compensare il male che hanno provocato, ma che, nel contempo, ogni situazione va sempre restituita alla sua complessità, alle sue caratteristiche reali e, soprattutto, alla sua effettiva possibilità di evoluzione. Ogni uomo va trattato come uomo: si tratta di una strada difficile, da praticare e svelare di caso in caso anche se questo è meno appagante della punizione esemplare.

Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze

http://www.questionegiustizia.it, 20 ottobre 2019

(Testo dell’intervento al Convegno “Eppur si muove. Carcere, costituzione, speranza”, Reggio Calabria – 4 ottobre 2019).

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[1] La legge Gozzini del 1986 ha abbassato il tetto di ammissione alla liberazione condizionale da 28 a 26 anni: dopo cinque anni di libertà vigilata, la pena si estingue e l’ergastolano diviene persona del tutto libera; la stessa legge stabilisce che la pena dell’ergastolo debba essere espiata negli stessi istituti in cui si espiano le pene detentive a tempo e prevede la possibilità per l’ergastolano di essere ammesso all’esperienza dei permessi-premio e al lavoro all’esterno dopo 10 anni; prevede la concedibilità della misura alternativa della semilibertà dopo l’espiazione di almeno vent’anni di pena ed infine la concedibilità della liberazione anticipata, intesa come sconto di pena di giorni 45 per ogni semestre, anche all’ergastolano, stabilendo che detto beneficio sia computabile nella misura della pena che occorre avere espiato perché questi sia ammesso ai benefici dei permessi-premio, della semilibertà e della liberazione condizionale.

[2] Nel caso italiano, nell’ipotesi di integrale concessione della riduzione di pena per liberazione anticipata, l’ergastolano (purché non ostativo) può aspirare alla concessione del suo primo permesso-premio dopo 8 anni di pena, della semilibertà dopo 16 anni di pena e della liberazione condizionale dopo 21 anni di pena.

L’ex Pm Carofiglio : la scelta di collaborare, in un Paese civile, può essere sollecitata ma non imposta


Dopo la bocciatura di Strasburgo, mercoledì è attesa la pronuncia della Consulta sull’ergastolo ostativo che nega i benefici a chi non collabora. “Sì alla speranza dopo una lunghissima detenzione e un radicale ravvedimento. Ma l’ergastolo deve restare”.

Dice così a Repubblica Gianrico Carofiglio, romanziere ed ex pm. La Corte di Strasburgo ha bocciato l’ergastolo “duro”, detto “ostativo”, che fissa un principio, nessun beneficio a chi non collabora.

In attesa della decisione della Corte Costituzionale giuristi, opinionisti e magistrati si dividono. Lei da che parte sta?

“Non condivido l’idea di irrigidire la diversità di opinioni su un argomento così delicato. Dunque mi permetta di dire che non sto da nessuna parte o meglio, sto dalla parte della Costituzione che all’articolo 27 prevede che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

“Fine pena mai”: non è un giusto deterrente per chi ha soppresso scientemente una vita?

“Non sono favorevole all’abolizione dell’ergastolo. Ci sono reati di eccezionale gravità che richiedono pene altrettanto gravi. Deve però essere prevista la possibilità che anche i condannati all’ergastolo, dopo un lunghissimo periodo di detenzione in cui abbiano mostrato un radicale ravvedimento, possano avere una speranza”.

Strasburgo è contro una detenzione “inumana e degradante”. Ma chi è entrato a far parte di Cosa nostra, dove l’omicidio è la regola, e magari ha compiuto una strage, ha diritto a una riabilitazione?

“Non lo dico io, lo dice la Costituzione. Naturalmente rispetto a certi reati come quelli di mafia e di terrorismo i criteri per valutare l’eventuale ravvedimento devono essere particolarmente severi”.

Tra i diritti dei singoli e la tutela e la sicurezza della collettività non è obbligatorio scegliere la seconda?

“Attenzione: dire che si debba scegliere fra diritti dei singoli e tutela della collettività ci mette su una china pericolosissima. Alla fine di questa china ci sono i giudizi sommari senza garanzie e lo stato di polizia. Bisogna garantire la sicurezza della collettività senza violare i diritti costituzionalmente garantiti”.

Magistrati come Grasso, Scarpinato, Di Matteo, Cafiero De Raho, Roberti, Tartaglia, considerano la richiesta di Strasburgo un antistorico cedimento alla mafia. E con loro stanno i parenti delle vittime. Gli si può dar torto?

“Mi sono occupato di criminalità mafiosa, come pm, per oltre dodici anni. Su mia richiesta sono stati comminati centinaia di anni di carcere e decine di ergastoli. Si figuri se non sono sensibile al tema e alle ragioni dei familiari delle vittime. Ciò detto: la giusta, severa punizione di gravi reati non deve trasformarsi in spietata vendetta contraria al senso di umanità e alla Costituzione. Non si può negare a priori un beneficio a chi dopo aver scontato decine di anni di carcere provi di aver compiuto un proficuo percorso rieducativo e di aver troncato i collegamenti con le realtà criminose di provenienza. Bene sottolineare poi che la sussistenza di questi presupposti sarà sempre sottoposta al controllo di un Magistrato di Sorveglianza, senza la cui autorizzazione nessuno potrà ottenere benefici penitenziari”.

Ha letto le parole di Elvio Fassone su Repubblica? Dopo aver comminato un ergastolo questo giudice ritiene che a quel detenuto non si possa precludere comunque un futuro…

“Sono completamente d’accordo con Fassone. È stato uno straordinario magistrato ed è un uomo di grande cultura non solo giuridica”.

Riina chiedeva nel1993, mentre pianificava le stragi di Roma, Firenze e Milano, e dopo aver ucciso Falcone e Borsellino, che lo Stato cedesse su ergastolo e 41bis. Non basta per rendersi conto che resiste una specificità criminale italiana da cui non si può prescindere?

“Infatti di questa specificità criminale bisogna tenere conto. I criteri per l’eventuale attenuazione dell’ergastolo ostativo, devono essere particolarmente stringenti. Io credo si debba istituire, in questa materia, quello che in gergo tecnico si chiama “presunzione relativa”. Tradotto per i non addetti ai lavori: sì presume che un condannato per mafia o per terrorismo sia comunque pericoloso a meno che non venga fornita la “prova” del contrario. Il Giudice di Sorveglianza potrebbe concedere dei benefici solo dopo un lungo periodo di detenzione, in presenza di una radicale critica del passato criminale e una sicura cessazione di ogni rapporto coni contesti di provenienza”.

Perché non è sufficiente la clausola dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario per cui l’accesso ai benefici è possibile solo se il detenuto collabora rompendo per sempre con il suo passato?

“Perché, a tacere d’altro, ci sono molti casi, dopo anni di detenzione, in cui la collaborazione è impossibile. E perché ci sono casi in cui un soggetto ha deciso di non collaborare (e la scelta di collaborare, in un paese civile, può essere sollecitata ma non imposta) ma ha comunque cambiato vita, troncando i rapporti con l’ambiente criminale di origine”.

Ammorbidire l’ergastolo non rende inutile la spinta stessa a collaborare?

“Nessuno vuole ammorbidire l’ergastolo. Bisogna solo rendere la normativa antimafia compatibile con la Costituzione. Chi decide di collaborare seriamente lo fa per un concorso di ragioni. Anche evitare lunghissimi anni di carcere duro. E questa motivazione rimarrà del tutto integra anche dopo un eventuale intervento su questa normativa. Non dimentichiamo che tutto il discorso fatto non riguarda il 41 bis, la norma che prevede il carcere duro per i mafiosi. La norma è fondamentale per il contrasto delle mafie e rimane, giustamente, intatta e operativa”.

Liana Milella

La Repubblica, 21 ottobre 2019

Prof. Galliani (UniMilano): Non si può essere contrari alla pena di morte e favorevoli all’ergastolo ostativo


L’ergastolo ostativo è equivalente al traino dei battelli controcorrente imposto nel 1778 dall’imperatore austriaco in seguito all’abolizione della pena di morte. Ecco perché. L’imperatore austriaco, nel 1778, abolisce la pena di morte. Per tenere alta la deterrenza, introduce: la detenzione, da trenta a cento anni, con cerchio di ferro al torace, ferri ai piedi, letto di assi, nutrimento a pane e acqua, isolamento; l’incatenazione, con totale impossibilità di movimento, che, una volta all’anno, per pubblico esempio, comprende anche delle bastonate; il traino dei battelli controcorrente sul Danubio.

Questo terzo surrogato della pena capitale era già stato testato. Durante un viaggio, il nostro si accorge della difficoltà di trasportare viveri, merci e armi sul Danubio. La corrente contraria è troppo forte: le navi devono essere trainate da uomini appostati sulla riva, grazie a lunghe corde. Così nasce il traino dei battelli e subito inizia la conta dei morti: informato, il sovrano incolpa le febbri palustri.

Dei 1.173 uomini al traino dei battelli dal 1784 al 1789, nel 1790 ne sopravvivono 452. Per cinque anni, ogni anno muoiono un numero doppio di uomini di quanti erano stati giustiziati negli anni precedenti. Il 17 luglio 1790, un decreto di Pietro Leopoldo, succeduto al fratello, abolisce il traino dei battelli.

Sono passati più di due secoli. Come dirci contrari alla pena di morte e favorevoli al moderno traino dei battelli, l’ergastolo ostativo? Proviamo a spiegare questa pena con un esempio, che non contiene tutti i casi, ma buona parte.

Famiglia e contesto disagiati. Assenza completa dello Stato. Smetti di cercare te stesso. Pensi che realizzarsi non dipenda anche da te, ma solo da altri, che ti cercano e non respingi. Spari e poi ancora spari. Uccidi, quasi senza farci caso. Vuoi essere riconosciuto. Falsi valori, ipocrisia, niente conta: sei finalmente uno di loro. Anche se hai solo venti anni, hai già perso amici, parenti e di lì a poco perderai anche la tua libertà, quella fisica. Inevitabile e giusta, inizia finalmente la detenzione. Capisci però che il carcere a qualcosa serve: hai un attimo per stare con te stesso, finalmente un attimo di libertà, anche se dietro le sbarre.

Lo Stato, prima assente, ora è presente. Non si preoccupa di te. Vuole che tu collabori con la giustizia. Se ti va bene, se i fatti sono tutti accertati, la collaborazione sarà impossibile. Non di meno, è una rarità: tu eri dentro un sistema, la mafia, dove di solito non si uccide per impulso, ma quasi sempre per utilità. Non usa la vendetta, di norma. Usa il calcolo, del quale tu nulla o quasi sapevi: quelli erano la pistola e l’obbiettivo, hai sparato, magari insieme a qualcuno di altro, perché così ti è stato detto di fare da tizio, incaricato da caio, con il via libera di sempronio.

In poche parole, non hai scampo. Certo che puoi fare qualche nome, ma sei sovrastato dalle paure. La fiducia, lo Stato, se la deve meritare e i collaboratori morti ammazzati non sono una rarità. Ci vuole una bella fiducia per fidarsi di questo Stato, che non riesce ad essere più forte della mafia. Non solo. Non vuoi far arrestare tuo fratello o una persona che è uscita dal giro, scontata la pena. Che fare: baratto la sua detenzione con la mia possibilità di libertà?

Qui inizia la storia, anzi finisce. Questo è l’ergastolo ostativo. I motivi che ti hanno spinto a non collaborare non cambiano nel tempo. Ma qualcosa succede. Eri quasi analfabeta, ora leggi romanzi, hai preso un diploma, poi una laurea. Ti sei impegnato in carcere e ora magari sai coltivare un orto. Hai iniziato a riscoprire te stesso: ti sei allontanato dall’uomo del reato. Inizi a capire chi sei. Solo così, riconoscendo te stesso, riconosci gli altri, quindi anche la società. Arriva poi la duplice svolta.

Ripercorri la tua vita, ti ricredi, fai di tutto perché altri non commettano i tuoi stessi errori. La mafia “fa schifo”: lo dici una, due, tre, tante volte. Ovvio che quando parli sei sempre sulla linea di confine tra l’ammettere gli errori, nel senso di ripercorrere ricredendoti la tua esistenza, e il giustificarli. Ma lo dici: non ti stai giustificando, stai solo raccontando la tua storia, sbagliata, ma sempre la tua storia, per quella che è: anche questo è legalità. La seconda svolta. Chiedi scusa, al quartiere dove sei nato, alla comunità e alle persone che hai ferito, ai parenti delle persone che hai ucciso. A volte dici: “se però fossi nato altrove”. Anche questo sembra giustificazione, ma è rivedere criticamente la propria esistenza.

L’uomo del reato, oggi, è cambiato. Ti senti pronto per andare di fronte ad un giudice: il percorso fatto è positivo, oppure manca qualcosa? Tutto qui. Quello che vorresti sarebbe questa possibilità. Senza mai nessuno che ti possa giudicare, ti sembrerebbe di morire, giorno dopo giorno, lentamente. Preferisci la pena di morte. Non sopporti che la tua pericolosità sia desunta e presunta, automatica, per via di quello che hai fatto quando eri ragazzino. Tanto vale farla finita subito: giustiziatemi.

La collaborazione con la giustizia è importante, ma non può essere l’unica cosa da considerare. E se il giudice si convincesse, non ci sarebbe alcun automatismo. Leggerà le relazioni del carcere, le informative della polizia, i pareri della procura antimafia. Se qualcosa non torna, prevale la pericolosità rispetto alla rieducazione. Come il nostro protagonista, ce ne sono circa 1.200, gli ergastolani ostativi italiani. Non possiamo attendere che uno ad uno escano dal carcere nell’unico modo oggi possibile, da morti, come quelli che trainavano i battelli sul Danubio.

Davide GallianiProfessore di Diritto Pubblico Università degli Studi di Milano

Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019

Prof.ssa Pecorella (UniBicocca): il regime ostativo non risponde ad esigenze di difesa sociale


Il condannato alla pena dell’ergastolo non può mai essere privato di una prospettiva concreta ed effettiva di liberazione. La questione dell’ergastolo ostativo pone la Corte Costituzionale di fronte a un bivio, dovendo scegliere se andare alla ricerca di possibili giustificazioni sul piano teorico della presunzione assoluta di non rieducabilità di chi non collabora con la giustizia oppure valutare quella presunzione alla luce dell’esperienza concreta maturata nei ventisette anni trascorsi dalla sua introduzione.

La Corte Europea, con la sua recente sentenza nel caso Viola, ha ritenuto la disciplina italiana contraria all’art. 3 Cedu perché impedisce al detenuto di vedere riconosciuti i progressi compiuti nel suo percorso rieducativo, fino a quando non collabora con la giustizia. Smentendo quella presunzione in senso contrario, si prende atto del fatto che la mancata collaborazione non ha impedito che un percorso rieducativo sia stato intrapreso dal detenuto e si esige, anzi, che i risultati di quel percorso siano valutabili dal giudice in vista della possibile e graduale uscita dal carcere. Perché il condannato alla pena dell’ergastolo non può mai essere privato di una prospettiva concreta ed effettiva di liberazione.

D’altra parte, abbiamo davanti agli occhi casi di ergastolani ostativi che, senza aver collaborato con l’autorità giudiziaria, hanno potuto ottenere dei benefici penitenziari o delle misure alternative alla detenzione, avendo partecipato attivamente al programma rieducativo durante i lunghi anni trascorsi in carcere. Sono gli ergastolani usciti dal regime ostativo attraverso il riconoscimento della inesigibilità della loro collaborazione, perché tutto è stato ormai chiarito o niente sono in grado di ulteriormente chiarire.

Come è potuto accadere? Nell’unico modo che l’ordinamento penitenziario contempla sulla base:

a) di una relazione positiva dell’equipe penitenziaria che, avendo più di chiunque altro osservato l’evoluzione del condannato durante la detenzione, ha ritenuto da lui compiuta quella “presa di distanza dal suo passato criminale” necessaria, ma anche sufficiente, per poter intraprendere un graduale percorso di ritorno alla libertà; nonché

b) sulla successiva pronuncia del giudice che quella relazione ha ritenuto di poter condividere, concedendo il beneficio penitenziario richiesto.

Perché negare questo stesso percorso, lungo e faticoso, ma ricco di speranza agli ergastolani che non collaborano, pur essendo ritenuti astrattamente in grado di farlo? Si dice che serve la loro collaborazione, sia pure a distanza di tanto tempo dai fatti. Se anche questa fosse la ragione, e se anche questa ragione fosse ritenuta sufficiente a giustificare il sacrificio della funzione rieducativa della pena nei confronti di questi soggetti, dovremmo arrenderci all’evidenza dei fatti: chi non ha collaborato nella fase processuale, ricavandone sensibili benefici in termini di pena, non decide di collaborare una volta che è stato condannato, se non sono cambiate o venute meno le ragioni, qualunque esse fossero, che gli hanno impedito di farlo nel momento più vantaggioso.

E se è vero che la preoccupazione per l’incolumità dei propri familiari è la ragione principale che inibisce la scelta di collaborare, difficile è immaginare che quella preoccupazione svanisca dalla mente del condannato proprio mentre si trova in carcere, lontano da tutto e da tutti e con il solo conforto dei suoi familiari. Una condizione, si noti, che l’ergastolano ostativo condivide con le persone condannate a pena temporanea e parimenti eseguite in regime ostativo: anche ad esse è precluso, se non collaborano con la giustizia, il normale percorso rieducativo e quindi un’effettiva chance di reinserimento una volta uscite dal carcere. Perché loro, a differenza degli ergastolani, riacquistano necessariamente la libertà, una volta terminata l’esecuzione della pena. E allora, possiamo davvero continuare a credere che il regime ostativo previsto dalla legge risponda a esigenze di difesa sociale?

Claudia Pecorella Professore di Diritto Penale Università di Milano Bicocca

Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019

Ergastolo ostativo, domani la Corte Costituzionale deciderà se gli automatismi sono legittimi


Domani la Corte Costituzionale deciderà sull’ergastolo ostativo, che a mafiosi e terroristi impedisce anche solo di chiedere misure alternative. C’è di nuovo chi – come e quasi più di Berlusconi nel suo ventennio – sta sfiduciando i magistrati, vuole legare le mani ai giudici, e pretende di azzerarne la discrezionalità imprigionandola nelle gabbie di inderogabili automatismi dettati da rigide presunzioni legali di immutabilità: solo che quel “qualcuno” non è più il leader politico di turno, insofferente al controllo di legalità, ma paradossalmente sono proprio i magistrati.

O, almeno, quella schiera per lo più di Pm (in carica, in pensione, datisi alla politica o prestati ad altre amministrazioni) che, meglio accolti dal circuito mediatico-sociale in virtù dei crediti acquisiti con le proprie valorose indagini, da un mese stanno (come e più di politici quali Alfonso Bonafede e Matteo Salvini) sventagliando sui giornali e in tv una formidabile contraerea preventiva all’udienza di domani dei giudici della Corte Costituzionale: chiamata dalla Cassazione a decidere la norma che a ergastolani mafiosi o terroristi impedisce (salvo collaborino o la collaborazione sia impossibile) di poter dopo molti anni anche solo domandare ai Tribunali di Sorveglianza di valutare richieste di misure alternative contrasti o meno con gli articoli 3 e 27 della Costituzione.

E cioè se far discendere dalla collaborazione con la giustizia la prova legale della cessata pericolosità sociale del condannato impedisca alla magistratura di sorveglianza di valutare in concreto l’evoluzione personale del detenuto, e vanifichi così la finalità rieducativa della pena. Tema confinante con quello affrontato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo prima il 13 giugno e poi l’8 ottobre, quando la Cedu ha ritenuto che l’ostatività dell’ergastolo, se agganciata alla mancata collaborazione, violi il divieto di “trattamenti inumani o degradanti”; che la collaborazione non sia (come peraltro sperimentato nell’opportunismo di parecchi condannati) di per sé prova automatica della cessata pericolosità; e che l’Italia debba quindi modificare la norma.

Tra le istruttive munizioni argomentative sciorinate appunto dagli scandalizzati dal verdetto della Cedu in vista di quello della Consulta, spicca l’uso cinico del morto. Non soltanto l’uso avvoltoiesco del dolore di molti parenti delle vittime, fingendo di dimenticare che altrettanti familiari spieghino invece, pur con pari dignità di sofferenza, di non sentirsi vendicati o risarciti dall’ergastolo ostativo. Ma anche l’appropriazione indebita (e talvolta usurpata) dell'”ipse dixit” di assassinati illustri, secondo diverse sfumature di strumentalità che dal “Così si cancella un caposaldo di Falcone” approdano sino al più disinvolto “Hanno riammazzato Falcone e Borsellino”, titolo di una prima pagina sotto la faccia dei giudici di Strasburgo tacciati di “non sapere cosa sia la mafia” e di “armare di nuovo i boss”.

Poi c’è il classico ricatto del “così si demolisce la lotta alla mafia” e “si esaudisce una delle richieste di Riina nel papello”, giacché la sola prospettiva teorica di poter non morire in carcere rilegittimerebbe il comando dei boss dal carcere: tesi contraddittoria in quanti, per motivare il no alla scarcerazione di Provenzano morente, argomentavano che proprio dall’ergastolo al 41 bis continuasse a esercitare il proprio ruolo.

Neppure si teme il ridicolo di spargere terrorismo psicologico con l’allarme che “rischino di uscire mille ergastolani”. Pura mistificazione, perché la decisione della Consulta, come quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, non solo non libererebbe i 1.106 ergastolani ostativi (sui 1.633 ergastolani definitivi), ma soprattutto consentirebbe soltanto che siano sempre e comunque i giudici dei Tribunali di Sorveglianza a poter valutare, caso per caso, il percorso rieducativo e la rescissione dei legami con la criminalità prospettati dai condannati dopo molti anni di carcere: esame individualizzato sulla scorta anche dei pareri delle Procure Antimafia, e nel quale è immaginabile che la mancata collaborazione continuerebbe a pesare in partenza come indice tendenzialmente negativo.

Ma proprio qui si coglie il nervo scoperto di una parte di magistratura che, sotto la postura muscolare che inscena, in realtà tradisce una inaspettata fragilità, cercando nelle preclusioni automatiche e nelle rigide presunzioni di permanente pericolosità una “coperta di Linus” con la quale difendersi dal rischio di dover decidere, dalla complessità di dover fare una prognosi sul cambiamento o meno di una persona in carcere, dal travaglio di doversi assumere una responsabilità.

Con l’unica attenuante, va riconosciuto, di vedersi poi pregiudizialmente massacrare dalla politica e dai mass media quella dolorosa volta (pur statisticamente infrequente) in cui a ricommettere un grave reato sia proprio un detenuto ammesso a qualche beneficio. Ma anche con l’aggravante “culturale” di alimentare inconsapevolmente, di automatismo in automatismo, quell’eterogeneo frullatore nel quale (si tratti di ostatività dell’ergastolo, di difesa “sempre” legittima in casa, o di sorteggio al Csm contro le nomine egemonizzate dalle degenerazioni correntizie) l’ingrediente-base è ormai l’abdicare alla funzione del magistrato, barattata con una qualche polizza di rassicurazione.

Luigi Ferrarella

Corriere della Sera, 21 ottobre 2019