Flick: Per la Consulta la pena non è vendetta. Si deve perseguire il reato non il nemico, mafioso o corrotto che sia


Intervista a Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale. “La decisione che ha reso non assoluto il vincolo della collaborazione perché il detenuto ostativo possa ottenere permessi ricorda che si deve perseguire il reato, non il nemico: mafioso o corrotto che sia”.

“Avevo un timore. Devo ammetterlo. Nel leggere il primo comunicato della Corte costituzionale, diffuso subito dopo la camera di consiglio sui permessi ai detenuti ostativi, ho temuto che i giudici volessero un po’ mettere le mani avanti, di fronte all’uragano delle critiche, per non dire dei tentativi di pressione.

In particolare nel passaggio in cui si precisava come il perimetro della decisione fosse limitato ai soli permessi e non agli altri benefici. E invece, l’ampio comunicato della Consulta arrivato poche ore fa è esemplare nella forza con cui afferma che “è giusto premiare chi collabora, ma non si può punire chi non collabora”. Ricorda che non si può perché altrimenti si aggiunge ulteriore afflizione alla pena, si punisce lo pesudo-reato della non collaborazione, e si irroga dunque una pena disumana”.

Giovanni Maria Flick rilegge le motivazioni della sentenza costituzionale che ha dichiarato illegittima la presunzione assoluta secondo cui il detenuto ostativo che non collabora resta legato all’organizzazione criminale e quindi non può ottenere permessi. Il presidente emerito della Consulta se ne compiace non solo per passione civile ma anche per aver partecipato, da giudice delle leggi, a precedenti decisioni che non sempre avevano avuto la stessa coraggiosa determinazione in materia di esecuzione penale.

Adesso, Presidente Flick, il fronte allarmista paventa rischi eccessivi per i giudici di sorveglianza. Si ipotizza un collegio unico nazionale che sollevi i singoli magistrati. Che ne pensa?

“Come fa un collegio unico a valutare con accuratezza, magari da Roma, se un detenuto ostativo di Canicattì conserva o meno legami con il contesto criminale? Posso usare un’espressione antipatica, per dire cosa penso di simili argomentazioni?”.

Siamo qui per questo…

“E allora le dico che mi pare davvero una carità pelosa. Nel momento in cui non si trovano altri argomenti ci si aggrappa alla necessità di proteggere il giudice dal rischio della decisione. Si dimentica o si finge di dimenticare che il rischio della decisione è la sostanza ultima del “mestiere di giudice”. E poi mi chiedo: perché ci si preoccupa di sostituire il singolo magistrato con un collegio in fase di esecuzione e non si ha la stessa premura per il giudice che ordina le misure cautelari?”.

Perché nell’esecuzione il principio di umanità si impone in modo per qualcuno insopportabile?

“Ecco, ci arriviamo tra un attimo. Vorrei prima segnalare che tante preoccupazioni sono sorprendentemente, diciamo così, rivolte verso quello stesso giudice sul quale si scarica magari una funzione sussidiaria nelle tematiche relative al rapporto tra diritto penale ed economia. Non aggiungo altro se non il fatto che simili responsabilità finiscono per esondare dal carico istituzionale e costituzionale che in realtà spetta al giudice”.

Ma insomma, un giudice di sorveglianza è affidabile o no?

“Lei ironizza, evidentemente. Mi pare chiaro che dietro la preoccupazione per i presunti nuovi rischi a cui la sentenza sul 4bis esporrebbe i magistrati di sorveglianza vi sia tutto quello sfondo di sostanziale sfiducia nei confronti dei giudici che assumono decisioni ritenute troppo clementi, troppo buone. Vi è cioè quella ricerca di automatismo legislativo che sottrae al giudice il suo preciso compito di valutazione del caso concreto: si pensi alla riforma alla legittima difesa”.

Come quella sulla Rigopiano?

“Ecco, è l’altra faccia della stessa medaglia. È il motivo che mi spinge a parlare di carità pelosa. È doveroso che i giudici, tutti, siano adeguatamente protetti; non è accettabile diffidare di loro per il semplice fatto che si distaccano dalle aspettative dell’opinione pubblica”.

La sentenza sul 4bis ha riaffermato il principio di umanità della pena?

“Lo ha fatto nella misura in cui ha ricordato che la pena non può mai essere priva di speranza, altrimenti è appunto disumana e contraria alla dignità. Ma la Corte si è soprattutto allontanata da un’idea di esecuzione penale incentrata esclusivamente sull’inasprimento della sanzione, sulla vendetta. Inasprimento che troppo spesso non è tanto proporzionato alla gravità del fatto quanto ad altre finalità come quella di evitare la prescrizione. Ha implicitamente disvelato come una simile visione rischi di celarsi dietro alcune delle argomentazioni finora richiamate per difendere il nesso assoluto fra permessi e collaborazione: mi riferisco alla cosiddetta immodificabilità del dna mafioso. Ora, nel comunicato che riporta le motivazioni della Consulta, si ricorda che la pronuncia sui permessi riguarda tutti i reati assoggettati all’ostatività dell’articolo 4bis. E noi sappiamo che la categoria ormai comprende anche fattispecie del tutto estranee alla mafia, come la corruzione. La legge che ha esteso il regime ostativo alla corruzione segnala proprio quell’idea tutta basata sull’inasprimento delle pene di cui le dicevo”.

“Non si può punire chi non collabora”: esemplare. Ma perché la Corte ci arriva solo ora?

“La disumanità di una pena senza speranza era venuta da tempo all’attenzione della Corte, anche a proposito dell’ergastolo. In quel caso la si è superata in virtù di una contraddizione: nel senso che a un “fine pena mai” illegittimo nella sua dichiarazione si è contrapposta la legittimità della sua esecuzione, offerta dalla prospettiva della liberazione condizionale, quando sia meritata. Rispetto al 4bis, nel 2003 ricordo bene, da giudice costituzionale, le perplessità all’interno della Corte, che impedirono di accogliere la questione di legittimità costituzionale posta dalla Cassazione. Però nello stesso tempo si è passati poi progressivamente per le pronunce sui casi di collaborazione inesigibile e di ammissibilità alle misure alternative in casi come quello della madre che deve accudire figli piccoli. Certo, solo con la conclusione di questo percorso, la Corte costituzionale ha avuto ora il coraggio di quell’affermazione così netta: non puoi punire qualcuno solo perché non collabora”.

Quali sono gli altri pilastri della decisione?

“Il primo: la presunzione secondo cui chi non collabora conserva legami con l’organizzazione criminale non è irragionevole ma non può essere assoluta. Secondo: una simile presunzione impedisce al giudice di valutare in concreto il percorso del singolo condannato. Terzo: sempre quella presunzione assoluta si fondava su una presunzione statistica che non ammetteva controprova. Si escludeva che un detenuto ostativo potesse rifiutare la collaborazione per motivi diversi dal suo legame con la organizzazione criminale. Naturalmente la Corte ha indicato criteri rigorosissimi per la valutazione dell’effettiva rescissione di quel legame. Serve una prova che abbia la stessa forza di quel legame, basata anche su quel sistema di controlli da parte degli organi di polizia e di valutazioni dalla Procura nazionale antimafia che possono avere un rilievo ostativo molto rilevante, e che tengono conto anche del contesto esterno, non solo di quello personale in carcere”.

Ma la sentenza sui permessi è il primo passo verso il superamento dell’ergastolo ostativo?

“Non faccio pronostici da allibratore, mi perdoni. Penso, questo sì, che la tendenza debba essere quella di un superamento di una concezione che sta affermandosi e che non mi sembra condivisibile. Mi riferisco al paradosso per cui nell’accertamento processuale si dovrebbe giudicare il fatto e la pena e invece ora si giudica l’uomo, vale a dire il “mafioso” o il “corrotto”. Tanto è vero che le pene previste, ad esempio, per la corruzione impropria sono diventate ad esempio quasi più aspre di quelle previste per la corruzione propria, come se si guardasse appunto alla natura insuperabile di corruttore e non al fatto specifico. Allo stesso modo nella fase di esecuzione si è andati verso il rovesciamento del principio per cui occorre giudicare l’uomo e il suo percorso rieducativo: adesso si pretende di veder giudicata, nell’esecuzione, anche, se non soprattutto, la gravità del fatto in sé. Mi auguro questo sì, che la smettiamo di ragionare per apriorismi e per affermazioni di tipo dogmatico e torneremo a difenderci da chi viola un unico codice penale, e a farlo nei limiti delle regole del codice di rito e secondo la Costituzione. Senza distinguere tra codice penale e processuale per il nemico e codice per tutti gli altri”.

Errico Novi

Il Dubbio, 6 dicembre 2019

Corte Costituzionale Sentenza n. 253 del 2019 (clicca per scaricare)

Benefici e misure extramurarie ai detenuti minori anche se non collaborano con la Giustizia, illegittima la Riforma Bonafede


I detenuti minorenni e i giovani adulti, condannati per uno dei cosiddetti reati ostativi, possono accedere ai benefici penitenziari (misure penali di comunità, permessi premio e lavoro esterno) anche se, dopo la condanna, non hanno collaborato con la Giustizia. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale (Presidente Aldo Carosi, Relatore Giuliano Amato) con la Sentenza n. 263/2019 del 05/11/2019, depositata il 06/12/2019, accogliendo la questione di legittimità costituzionale promossa dal Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria in funzione di Tribunale di Sorveglianza (Presidente Estensore Roberto Di Bella), con Ordinanza del 28/12/2018, relativa all’applicazione dell’Art. 4 bis c. 1 e 1 bis dell’Ordinamento Penitenziario nei confronti dei condannati minorenni e giovani adulti, cioè del meccanismo ostativo all’accesso ai benefici penitenziari ed alle altre misure alternative alla detenzione in assenza di collaborazione con la Giustizia.

Questa sentenza, che ha dichiarato illegittimo l’Art. 2 c. 3 del D. Lgs.vo n. 121/2018 («fermo quanto previsto all’articolo 1, comma 1, ai fini della concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio e per l’assegnazione al lavoro esterno si applica l’articolo 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni») per violazione degli Artt. 76, 27 c. 3 e 31 c. 2 della Costituzione, è la prima sul nuovo Ordinamento Penitenziario Minorile recentemente approvato su proposta del Ministro della Giustizia On. Alfonso Bonafede. Il Governo Conte, infatti, aveva fatto l’esatto contrario di quanto delegato dal Parlamento con la Legge n. 103/2017: all’Art. 1 c. 85 lett. p) n. 5 e 6 era prescritto il divieto di automatismi e la necessità di un trattamento di favore e individualizzato per i minorenni ed i giovani adulti, non la estensione delle preclusioni assolute previste per gli adulti dall’Art. 4 bis O.P., peraltro ripetutamente censurate dall’autorevole giurisprudenza del Giudice delle Leggi. Per dirla con le parole della Consulta “La disposizione censurata appare in aperta distonia non solo rispetto al senso complessivo dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale in tema di esecuzione penale minorile, ma anche con le direttive impartite dal legislatore delegante”.

Oltre all’eccesso di delega di cui all’Art. 76 Cost., la Corte Costituzionale, richiamando la precedente giurisprudenza sulla finalità rieducativa della pena e sulle implicazioni nei confronti dei minori, ha ritenuto che la disposizione censurata contrastava anche con gli Artt. 27 c. 3 e 31 c. 2 Cost., perché l’automatismo legislativo si basa su una presunzione assoluta di pericolosità che si fonda soltanto sul titolo di reato commesso e impedisce perciò alla Magistratura di Sorveglianza una valutazione individualizzata dell’idoneità della misura a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione, che devono presiedere all’esecuzione penale minorile.

La Consulta, nella sentenza, ha richiamato la sua recente pronuncia sul cosiddetto ergastolo ostativo: “questa Corte, con sentenza n. 253 del 2019, relativa sia pure ai soli permessi premio, ha ritenuto che il meccanismo introdotto dall’art. 4-bis, anche laddove applicato nei confronti di detenuti adulti, contrasta con gli Artt. 3 e 27 Cost. sia «perché all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante», sia «perché tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’Art. 27, terzo comma, Cost.». Nell’esecuzione della pena nei confronti dei condannati per fatti commessi da minorenni, il contrasto di questo modello decisorio con il ruolo riconosciuto alla finalità rieducativa del condannato si pone in termini ancora più gravi. Con riferimento ai soggetti minori di età, infatti, questa finalità «è da considerarsi, se non esclusiva, certamente preminente» (sentenza n. 168 del 1994).”

La Corte Costituzionale ha chiarito che “Dal superamento del meccanismo preclusivo che osta alla concessione delle misure extramurarie non deriva in ogni caso una generale fruibilità dei benefici, anche per i soggetti condannati per i reati elencati all’Art. 4 bis O.P. Al Tribunale di Sorveglianza compete, infatti, la valutazione caso per caso dell’idoneità e della meritevolezza delle misure extramurarie, secondo il progetto educativo costruito sulle esigenze del singolo. Solo attraverso il necessario vaglio giudiziale è possibile tenere conto, ai fini dell’applicazione dei benefici penitenziari, delle ragioni della mancata collaborazione, delle condotte concretamente riparative e dei progressi compiuti nell’ambito del percorso riabilitativo, secondo quanto richiesto dagli Artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost.”.

Corte Costituzionale – Sentenza n. 263/2019 (clicca per scaricare)

L’ex Pm Carofiglio : la scelta di collaborare, in un Paese civile, può essere sollecitata ma non imposta


Dopo la bocciatura di Strasburgo, mercoledì è attesa la pronuncia della Consulta sull’ergastolo ostativo che nega i benefici a chi non collabora. “Sì alla speranza dopo una lunghissima detenzione e un radicale ravvedimento. Ma l’ergastolo deve restare”.

Dice così a Repubblica Gianrico Carofiglio, romanziere ed ex pm. La Corte di Strasburgo ha bocciato l’ergastolo “duro”, detto “ostativo”, che fissa un principio, nessun beneficio a chi non collabora.

In attesa della decisione della Corte Costituzionale giuristi, opinionisti e magistrati si dividono. Lei da che parte sta?

“Non condivido l’idea di irrigidire la diversità di opinioni su un argomento così delicato. Dunque mi permetta di dire che non sto da nessuna parte o meglio, sto dalla parte della Costituzione che all’articolo 27 prevede che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

“Fine pena mai”: non è un giusto deterrente per chi ha soppresso scientemente una vita?

“Non sono favorevole all’abolizione dell’ergastolo. Ci sono reati di eccezionale gravità che richiedono pene altrettanto gravi. Deve però essere prevista la possibilità che anche i condannati all’ergastolo, dopo un lunghissimo periodo di detenzione in cui abbiano mostrato un radicale ravvedimento, possano avere una speranza”.

Strasburgo è contro una detenzione “inumana e degradante”. Ma chi è entrato a far parte di Cosa nostra, dove l’omicidio è la regola, e magari ha compiuto una strage, ha diritto a una riabilitazione?

“Non lo dico io, lo dice la Costituzione. Naturalmente rispetto a certi reati come quelli di mafia e di terrorismo i criteri per valutare l’eventuale ravvedimento devono essere particolarmente severi”.

Tra i diritti dei singoli e la tutela e la sicurezza della collettività non è obbligatorio scegliere la seconda?

“Attenzione: dire che si debba scegliere fra diritti dei singoli e tutela della collettività ci mette su una china pericolosissima. Alla fine di questa china ci sono i giudizi sommari senza garanzie e lo stato di polizia. Bisogna garantire la sicurezza della collettività senza violare i diritti costituzionalmente garantiti”.

Magistrati come Grasso, Scarpinato, Di Matteo, Cafiero De Raho, Roberti, Tartaglia, considerano la richiesta di Strasburgo un antistorico cedimento alla mafia. E con loro stanno i parenti delle vittime. Gli si può dar torto?

“Mi sono occupato di criminalità mafiosa, come pm, per oltre dodici anni. Su mia richiesta sono stati comminati centinaia di anni di carcere e decine di ergastoli. Si figuri se non sono sensibile al tema e alle ragioni dei familiari delle vittime. Ciò detto: la giusta, severa punizione di gravi reati non deve trasformarsi in spietata vendetta contraria al senso di umanità e alla Costituzione. Non si può negare a priori un beneficio a chi dopo aver scontato decine di anni di carcere provi di aver compiuto un proficuo percorso rieducativo e di aver troncato i collegamenti con le realtà criminose di provenienza. Bene sottolineare poi che la sussistenza di questi presupposti sarà sempre sottoposta al controllo di un Magistrato di Sorveglianza, senza la cui autorizzazione nessuno potrà ottenere benefici penitenziari”.

Ha letto le parole di Elvio Fassone su Repubblica? Dopo aver comminato un ergastolo questo giudice ritiene che a quel detenuto non si possa precludere comunque un futuro…

“Sono completamente d’accordo con Fassone. È stato uno straordinario magistrato ed è un uomo di grande cultura non solo giuridica”.

Riina chiedeva nel1993, mentre pianificava le stragi di Roma, Firenze e Milano, e dopo aver ucciso Falcone e Borsellino, che lo Stato cedesse su ergastolo e 41bis. Non basta per rendersi conto che resiste una specificità criminale italiana da cui non si può prescindere?

“Infatti di questa specificità criminale bisogna tenere conto. I criteri per l’eventuale attenuazione dell’ergastolo ostativo, devono essere particolarmente stringenti. Io credo si debba istituire, in questa materia, quello che in gergo tecnico si chiama “presunzione relativa”. Tradotto per i non addetti ai lavori: sì presume che un condannato per mafia o per terrorismo sia comunque pericoloso a meno che non venga fornita la “prova” del contrario. Il Giudice di Sorveglianza potrebbe concedere dei benefici solo dopo un lungo periodo di detenzione, in presenza di una radicale critica del passato criminale e una sicura cessazione di ogni rapporto coni contesti di provenienza”.

Perché non è sufficiente la clausola dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario per cui l’accesso ai benefici è possibile solo se il detenuto collabora rompendo per sempre con il suo passato?

“Perché, a tacere d’altro, ci sono molti casi, dopo anni di detenzione, in cui la collaborazione è impossibile. E perché ci sono casi in cui un soggetto ha deciso di non collaborare (e la scelta di collaborare, in un paese civile, può essere sollecitata ma non imposta) ma ha comunque cambiato vita, troncando i rapporti con l’ambiente criminale di origine”.

Ammorbidire l’ergastolo non rende inutile la spinta stessa a collaborare?

“Nessuno vuole ammorbidire l’ergastolo. Bisogna solo rendere la normativa antimafia compatibile con la Costituzione. Chi decide di collaborare seriamente lo fa per un concorso di ragioni. Anche evitare lunghissimi anni di carcere duro. E questa motivazione rimarrà del tutto integra anche dopo un eventuale intervento su questa normativa. Non dimentichiamo che tutto il discorso fatto non riguarda il 41 bis, la norma che prevede il carcere duro per i mafiosi. La norma è fondamentale per il contrasto delle mafie e rimane, giustamente, intatta e operativa”.

Liana Milella

La Repubblica, 21 ottobre 2019

Ergastolo ostativo, domani la Corte Costituzionale deciderà se gli automatismi sono legittimi


Domani la Corte Costituzionale deciderà sull’ergastolo ostativo, che a mafiosi e terroristi impedisce anche solo di chiedere misure alternative. C’è di nuovo chi – come e quasi più di Berlusconi nel suo ventennio – sta sfiduciando i magistrati, vuole legare le mani ai giudici, e pretende di azzerarne la discrezionalità imprigionandola nelle gabbie di inderogabili automatismi dettati da rigide presunzioni legali di immutabilità: solo che quel “qualcuno” non è più il leader politico di turno, insofferente al controllo di legalità, ma paradossalmente sono proprio i magistrati.

O, almeno, quella schiera per lo più di Pm (in carica, in pensione, datisi alla politica o prestati ad altre amministrazioni) che, meglio accolti dal circuito mediatico-sociale in virtù dei crediti acquisiti con le proprie valorose indagini, da un mese stanno (come e più di politici quali Alfonso Bonafede e Matteo Salvini) sventagliando sui giornali e in tv una formidabile contraerea preventiva all’udienza di domani dei giudici della Corte Costituzionale: chiamata dalla Cassazione a decidere la norma che a ergastolani mafiosi o terroristi impedisce (salvo collaborino o la collaborazione sia impossibile) di poter dopo molti anni anche solo domandare ai Tribunali di Sorveglianza di valutare richieste di misure alternative contrasti o meno con gli articoli 3 e 27 della Costituzione.

E cioè se far discendere dalla collaborazione con la giustizia la prova legale della cessata pericolosità sociale del condannato impedisca alla magistratura di sorveglianza di valutare in concreto l’evoluzione personale del detenuto, e vanifichi così la finalità rieducativa della pena. Tema confinante con quello affrontato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo prima il 13 giugno e poi l’8 ottobre, quando la Cedu ha ritenuto che l’ostatività dell’ergastolo, se agganciata alla mancata collaborazione, violi il divieto di “trattamenti inumani o degradanti”; che la collaborazione non sia (come peraltro sperimentato nell’opportunismo di parecchi condannati) di per sé prova automatica della cessata pericolosità; e che l’Italia debba quindi modificare la norma.

Tra le istruttive munizioni argomentative sciorinate appunto dagli scandalizzati dal verdetto della Cedu in vista di quello della Consulta, spicca l’uso cinico del morto. Non soltanto l’uso avvoltoiesco del dolore di molti parenti delle vittime, fingendo di dimenticare che altrettanti familiari spieghino invece, pur con pari dignità di sofferenza, di non sentirsi vendicati o risarciti dall’ergastolo ostativo. Ma anche l’appropriazione indebita (e talvolta usurpata) dell'”ipse dixit” di assassinati illustri, secondo diverse sfumature di strumentalità che dal “Così si cancella un caposaldo di Falcone” approdano sino al più disinvolto “Hanno riammazzato Falcone e Borsellino”, titolo di una prima pagina sotto la faccia dei giudici di Strasburgo tacciati di “non sapere cosa sia la mafia” e di “armare di nuovo i boss”.

Poi c’è il classico ricatto del “così si demolisce la lotta alla mafia” e “si esaudisce una delle richieste di Riina nel papello”, giacché la sola prospettiva teorica di poter non morire in carcere rilegittimerebbe il comando dei boss dal carcere: tesi contraddittoria in quanti, per motivare il no alla scarcerazione di Provenzano morente, argomentavano che proprio dall’ergastolo al 41 bis continuasse a esercitare il proprio ruolo.

Neppure si teme il ridicolo di spargere terrorismo psicologico con l’allarme che “rischino di uscire mille ergastolani”. Pura mistificazione, perché la decisione della Consulta, come quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, non solo non libererebbe i 1.106 ergastolani ostativi (sui 1.633 ergastolani definitivi), ma soprattutto consentirebbe soltanto che siano sempre e comunque i giudici dei Tribunali di Sorveglianza a poter valutare, caso per caso, il percorso rieducativo e la rescissione dei legami con la criminalità prospettati dai condannati dopo molti anni di carcere: esame individualizzato sulla scorta anche dei pareri delle Procure Antimafia, e nel quale è immaginabile che la mancata collaborazione continuerebbe a pesare in partenza come indice tendenzialmente negativo.

Ma proprio qui si coglie il nervo scoperto di una parte di magistratura che, sotto la postura muscolare che inscena, in realtà tradisce una inaspettata fragilità, cercando nelle preclusioni automatiche e nelle rigide presunzioni di permanente pericolosità una “coperta di Linus” con la quale difendersi dal rischio di dover decidere, dalla complessità di dover fare una prognosi sul cambiamento o meno di una persona in carcere, dal travaglio di doversi assumere una responsabilità.

Con l’unica attenuante, va riconosciuto, di vedersi poi pregiudizialmente massacrare dalla politica e dai mass media quella dolorosa volta (pur statisticamente infrequente) in cui a ricommettere un grave reato sia proprio un detenuto ammesso a qualche beneficio. Ma anche con l’aggravante “culturale” di alimentare inconsapevolmente, di automatismo in automatismo, quell’eterogeneo frullatore nel quale (si tratti di ostatività dell’ergastolo, di difesa “sempre” legittima in casa, o di sorteggio al Csm contro le nomine egemonizzate dalle degenerazioni correntizie) l’ingrediente-base è ormai l’abdicare alla funzione del magistrato, barattata con una qualche polizza di rassicurazione.

Luigi Ferrarella

Corriere della Sera, 21 ottobre 2019

Prof. Sergio Moccia: Lo Stato di diritto non conosce eccezione alle regole che pone. L’ergastolo ostativo è incostituzionale


La Grand Chambre della Corte europea per i diritti dell’uomo ha deciso di invitare l’Italia a modificare la legge che dispone l’ergastolo ostativo, quello, cioè, effettivamente senza fine, a meno che il recluso non decida di collaborare. In realtà la Grand Chambre ha ribadito quanto la Corte aveva già stabilito in una decisione del giugno scorso, contro cui il Governo italiano aveva presentato ricorso evidenziando, tra l’altro, la conformità della sanzione alla Costituzione italiana, stabilita nel 2003 da una decisione “tartufesca” della Corte costituzionale, che grida vendetta per la sua inconsistenza argomentativa.

In poche parole, secondo la Corte l’ammissione al beneficio è l’esito di una “libera scelta del condannato” di collaborare e quindi non viene in discussione l’art.27 c. 3 Cost.; ma la Corte non tiene conto che questa libera scelta può essere condizionata dai possibili riflessi sui familiari e del fatto che chi sia innocente, eppur condannato, non abbia alcun modo di “collaborare”, a meno di inventarsi qualcosa.

Tre, invece, gli argomenti – di ben altra consistenza, civile e giuridica – alla base della decisione della Corte europea dei Diritti umani (Cedu): in primo luogo, il contrasto con il principio di difesa della dignità umana di una norma che non consente a chi sia privato della libertà di poterla, a determinate condizioni, riacquistare; quindi, l’inconsistenza della presunzione di pericolosità a fronte della mancata collaborazione, senza considerare i progressi del singolo sulla via della legalità; ed infine il dubbio forte sulla libertà della scelta, tenuto conto delle possibili gravi conseguenze nei confronti di terzi.

Originariamente, a norma dell’art. 4-bis ord. penit., non è consentita l’applicazione dei benefici penitenziari, tra cui la liberazione anticipata, per gli “irriducibili” di mafia e terrorismo, per il solo fatto della mancata “collaborazione”. Inoltre, l’art. 41-bis ord. penit., per “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”, dà la facoltà di sospendere il trattamento rieducativo, ben oltre quanto richiesto da legittime esigenze di isolamento dall’esterno: il che altro non significa che l’adozione del carcere duro. Le due norme tracciano orientamenti rigoristico-deterrenti che poco hanno a che vedere con le disposizioni costituzionali in materia.

In generale, la via per ottenere i benefici per gli ergastolani è prevista valutando il percorso rieducativo e di reinserimento (formazione professionale, attività lavorativa e così via) a cui il recluso partecipa durante la permanenza in carcere. A questo punto non ha alcun fondamento razionale la presunzione assoluta secondo cui la mancata “collaborazione” sia in ogni caso ascrivibile all’assenza di progressi nella direzione della rieducazione. D’altro canto, come fa notare la Cedu, punire la mancata “collaborazione” non ha altro significato che effettuare violenza alla libertà morale del recluso, in palese violazione dell’art. 3 Cedu, che vincola anche l’Italia: norma posta a presidio della dignità umana, di cui è componente essenziale la libertà morale. A ciò si aggiunga che l’art. 27 c. 3, oltre al basilare principio di rieducazione, nella prima parte sancisce solennemente il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità.

Si replica diffusamente, anche da parte di chi dovrebbe avere contezza di Costituzione e Convenzioni, che il superamento della micidiale combinazione normativa, che dà vita all’ergastolo “ostativo duro”, sarebbe visto come un segnale di debolezza e pregiudicherebbe la lotta alle mafie, laddove la coazione a collaborare – in spregio alla normativa costituzionale e convenzionale vigente – rappresenterebbe uno strumento vincente.

Ma, a questo punto, visto che per esigenze di sicurezza o di ordine si possono impunemente violare norme fondamentali, viene da chiedersi perché non utilizzare mezzi più efficaci, più sbrigativi al fine di “ottimizzare” le “collaborazioni”.

Chi stabilisce qual è il limite della violazione della dignità umana? La verità è che lo stato di diritto non conosce eccezione alle regole che pone, pena la sua stessa credibilità. Insomma, si abbia il coraggio di abrogare l’art.27 c. 3 e si rinunci alla Cedu, se si vogliono perseguire in materia penale prospettive diverse dallo stato di diritto.

Il sistema penale a fondamento costituzionale ha la finalità di assicurare il singolo e la pacifica coesistenza fra i consociati, ma non di adottare qualsiasi mezzo ritenuto idoneo al suo perseguimento, altrimenti verrebbe in discussione uno dei due compiti fondamentali: la tutela del singolo. In altri termini è consentito l’intervento penale, ma sempre nel rispetto assoluto di predeterminate garanzie, dettate dalla Costituzione e dalle Convenzioni.

Ciò di cui si discute non è la convenienza dello scopo, ma la conformità dei mezzi adoperati rispetto all’assetto fondamentale dell’ordinamento giuridico.

In questa prospettiva l’intervento penale si giustifica se riesce ad armonizzare la sua necessità per il bene della società con il diritto, anch’esso da garantire, del soggetto al rispetto dell’autonomia, dunque della libertà e della dignità della sua persona.

Sergio MocciaEmerito di Diritto Penale Università degli Studi di Napoli Federico II

Il Manifesto, 18 ottobre 2019

Fiorentin (Magistrato di Sorveglianza): Anche agli ergastolani ostativi va assicurato il “diritto alla speranza”


Un passo di civiltà giuridica che non equivale a liberare i mafiosi. La dottrina si è schierata in favore della messa a regime costituzionale della pena perpetua ostativa, mentre voci di dissenso si sono levate dalla magistratura inquirente.

La decisione che Corte costituzionale assumerà all’udienza del 22 ottobre potrebbe segnare – anche sul versante del diritto interno – il fine corsa dell’ergastolo ostativo, già dichiarato “fuori legge” sul piano internazionale dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo con la sentenza del 13 giugno, Viola c. Italia, per il suo contrasto con l’esigenza del rispetto della dignità umana.

Con voce unanime, la dottrina si è apertamente schierata in favore della “messa a regime costituzionale” della pena perpetua ostativa, mentre voci di dissenso si sono levate dalla magistratura inquirente, per il timore che un indebolimento o – peggio – una sterilizzazione della pena massima possa infliggere un colpo mortale alla lotta contro quello che la stessa Corte di Strasburgo ha definito il “flagello” mafioso.

Benché non possa sottovalutarsi il carattere anche fortemente simbolico del “fine pena mai”, alcune considerazioni dovrebbero allontanare timori del genere sollevato dagli inquirenti. Anzitutto, occorre chiarire che la Consulta non è affatto chiamata a dire la parola fine alla pena dell’ergastolo “costituzionalizzato” (compatibile cioè, con i princìpi della Costituzione che vogliono tutte le pene conformi al senso di umanità e rivolte al recupero sociale del condannato). Anche nel caso la Corte Costituzionale si pronunciasse in termini conformi alla recente sentenza europea, infatti, non si avrebbe alcun automatico accesso degli ergastolani “ex-ostativi” ai benefici penitenziari né alcuna rimessione in libertà di pericolosi boss mafiosi.

Si tratta di una considerazione che potrebbe risultare perfino banale, ma tale evidentemente non è, se anche i giudici alsaziani hanno sentito il bisogno di precisarlo in un passaggio della sentenza Viola. L’ergastolo, si ribadisce quindi, rimane tale. L’elemento di novità – se Roma parlasse il medesimo linguaggio di Strasburgo – sarebbe, infatti, rappresentato dalla restituzione alla Magistratura di Sorveglianza del vaglio sulla meritevolezza dei condannati all’ergastolo in rapporto ai singoli benefici penitenziari di volta in volta richiesti, con l’osservanza – a tutela delle esigenze di difesa sociale – di due fondamentali condizioni, già patrimonio del diritto vivente e dunque non in discussione: la progressione trattamentale che vuole, al concretizzarsi dei presupposti previsti dalla legge, l’accesso dei detenuti a forme iniziali di contatto con l’esterno, quali i permessi o le licenze, per arrivare quindi alla semilibertà e, solo al termine del percorso esecutivo, alla liberazione condizionale (criterio che sarà tanto più rigido quanto più rilevante sia il quadro criminologico del condannato); e l’accertamento dell’assenza di attuali collegamenti del soggetto con il sodalizio mafioso di appartenenza.

Il punto di equilibrio tra le esigenze rieducative connesse ai princìpi costituzionali e quelle di contrasto alla criminalità organizzata di matrice mafiosa, assicurato, nei termini sopra delineati, da una “costituzionalizzazione” dell’ergastolo ostativo costituirebbe inoltre, paradossalmente, la miglior garanzia della sopravvivenza della pena perpetua nel nostro sistema penale, dal momento che ben difficilmente si potrebbero trovare nella giurisprudenza convenzionale e in quella costituzionale anche solo un accenno di contrarietà alle pene di lunga durata e finanche all’ergastolo.

Ciò che conta, per le Corti di garanzia, è che l’ordinamento assicuri, anche al condannato per il più efferato dei delitti, dunque anche all’ergastolano, quel “diritto alla speranza” a che, al verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge e qualora non vi siano ragioni connesse al rischio di recidiva e la persona che si sia dimostrata meritevole di essere reinserita nella società libera, si schiuda per costui una concreta prospettiva di rilascio in seguito ad un riesame da parte dell’autorità giudiziaria.

Nessun “liberi tutti”, dunque, ma più semplicemente la restituzione alla magistratura di sorveglianza di quel vaglio sulla persona fondato su dati giudiziari, sulle informazioni e i pareri espressi dai vertici investigativi (Dna e Dda), sugli elementi desunti dall’osservazione sulla personalità del condannato attraverso un periodo di tempo anche protratto, in esito al quale può (ma non necessariamente deve) avviarsi un graduale percorso ai benefici penitenziari, attraverso un percorso graduale e costantemente sottoposto al controllo del giudice, dei servizi sociali e delle forze dell’ordine tale che, in caso di comportamenti del soggetto non conformi alla legge o alle prescrizioni imposte, può ricondurre il condannato all’espiazione della pena nel contesto detentivo.

Un sistema così strutturato dovrebbe sopire i timori di coloro che oggi paventano rischi per la tutela delle esigenze di difesa sociale, anche perché si tratta di un sistema che ha dato prova di funzionare da efficace presidio al rischio di recidiva. Tre dati parlano da sé: la quota nient’affatto “allarmante” di condannati ammessi a misure esterne al carcere (inferiore al 50% dei ristretti); l’ancor più ridotto numero di detenuti che, ammessi alle misure extra-murarie, commettono nuovi delitti o, evadendo, si sottraggono all’esecuzione (qui si parla addirittura di percentuali prossime allo “0 virgola”); per contro, l’altissima percentuale di persone che, ammesse ad un percorso di reinserimento sociale nel corso della detenzione, non incorrono successivamente in fenomeni di recidiva nel reato (percentuale che, come è noto, sostanzialmente si azzera in presenza di un’attività di lavoro stabile e conservata anche dopo il “fine pena”).

Il requiem per l’ergastolo ostativo segnerebbe anche il destino di importanti strumenti di lotta alla criminalità organizzata? Anche in questo caso, la risposta è: nient’affatto. Nessun impatto, infatti, si può prospettare sulla disciplina del regime detentivo speciale di cui all’ art. 41bis dell’ordinamento penitenziario, la cui strutturazione non verrebbe scalfita dall’eventuale tramonto dell’ergastolo ostativo.

Non sarebbe neppure messa in discussione, nella sua valenza premiale, l’istituto della collaborazione con la giustizia (art. 58ter ord. penit.). Resterebbe, infatti, vigente l’art. 16-nonies del d.l. 8/1991 che incentiva la collaborazione con la giustizia e l’abbattimento dei limiti di pena per l’accesso ai benefici previsto per chi collabora attivamente con la giustizia dall’art. 58ter ord. penit., lasciando, quindi, intatta la “corsia preferenziale” per i condannati collaboratori di giustizia nell’applicazione di taluni importanti benefici premiali.

Verrebbe meno, invece, la preclusione assoluta alla concessione dei benefici in assenza di una collaborazione effettiva. L’attuale sistema, tuttavia, già possiede sperimentati strumenti per “assorbire” gli effetti della fine dell’ostatività assoluta della pena perpetua, che sarà sostituita dall’esame (ri)affidato alla competenza tecnica e alla responsabilità della magistratura di sorveglianza, posto che quest’ultima sarà comunque tenuta a una rigorosa disamina anche dei profili di pericolosità sociale del condannato sulla cui base articolare un eventuale e graduale accesso a benefici esterni al carcere.

Fabio FiorentinMagistrato di Sorveglianza di Firenze

Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2019

Il Giudice Bortolato: “L’ergastolo ostativo toglie ogni speranza al futuro: se non collabori non potrai uscire, mai”


E’ necessario un punto di equilibrio che non può che riporsi nella dignità dell’uomo. L’ergastolo ostativo nasce nel 1992, dopo le stragi di mafia, quale strumento di lotta alla criminalità organizzata. Serviva per indurre i colpevoli degli omicidi a collaborare con la giustizia in cambio del diritto di accedere, una volta condannati, ai benefici previsti anche in caso di pena perpetua.

L’accesso alle misure non può essere precluso del tutto, poiché ciò renderebbe l’ergastolo incompatibile con la Costituzione risolvendosi in una pena senza speranza, contraria all’art. 27 Cost. che vuole tutte le pene, sempre, finalizzate al reinserimento sociale.

Il diritto di accedere non significa certezza di essere ammessi, un conto è l’ammissibilità, un altro il merito, essendo i requisiti richiesti del tutto diversi: solo il “sicuro ravvedimento” previsto dall’art. 176 c.p. consente la liberazione condizionale, misura amplissima che cancella l’ergastolo dopo 26 anni. Questo non vale però per l’ergastolo ostativo che si configura, come una pena aggiuntiva in cui il passato schiaccia il presente e toglie ogni speranza al futuro: se non collabori non potrai uscire, mai.

Non si può mettere in dubbio che la collaborazione sia ancora uno strumento strategico nella lotta alla criminalità organizzata, dove è “effettiva” e “utile” premia i condannati consentendo loro di accedere anticipatamente alle misure alternative, ma le ragioni di una mancata collaborazione non possono oggi essere sindacate dalla magistratura di sorveglianza che, pur apprezzando il processo rieducativo del reo, deve limitarsi a prenderne atto.

Eppure queste ragioni potrebbero essere anche “nobili” o ben comprensibili (la scelta morale di non voler barattare la propria libertà con quella degli altri, la paura di esporre i propri familiari a ritorsioni e vendette), non necessariamente esse sono indice della volontà di rimanere “intraneo”. Si dirà che lo Stato protegge il collaboratore ed anche i suoi familiari, ma oltre ad essere un argomento “de facto” (i requisiti del programma di protezione sono assai restrittivi) si scontra con la realtà di uno Stato che spesso non è nemmeno in grado di proteggere i semplici testimoni, comunque a pagare sarebbero sempre degli innocenti (i familiari costretti a cambiare identità).

Ma il nodo centrale dell’ostatività sta nell’esproprio della funzione del giudizio sulla persona, che la legge affida in via esclusiva al magistrato di sorveglianza, perché difronte a quella appaiono del tutto irrilevanti i traguardi rieducativi nel frattempo raggiunti: il giudice è impotente, nonostante la legge gli affidi ampio spazio al riconoscimento della concretezza e della specificità delle situazioni in cui un reato avviene, delle motivazioni dell’autore e soprattutto della sua evoluzione personale. Del resto i progressi del detenuto possono non avere nulla a che vedere con la sua volontà di collaborare con la giustizia, che può essere strumentale o addirittura ‘falsa’, mentre la dimostrazione della sua cessata pericolosità può desumersi da altro.

L’assenza di collaborazione non è di per sé sintomo di mancata dissociazione: è una presunzione che nella sua assolutezza ha ormai scarse ragioni d’essere, tanto più a molti anni di distanza dai fatti. Esistono indici ben più sicuri di rescissione dei legami: si pensi che il ‘ravvedimento’ (pieno riconoscimento della propria responsabilità ed assunzione di impegni riparatori) è sufficiente per ottenere la liberazione condizionale (unico beneficio che può cancellare l’ergastolo) ma non basta per accedere ai benefici anche minori a chi, pur non collaborando, abbia ammesso le proprie responsabilità.

L’ergastolano ostativo, pur ravveduto, non può andare in permesso se non fa il nome dei correi, eppure con il ravvedimento (traduzione laica del concetto di “emenda”) egli dimostra di aver raggiunto un grado di rieducazione tale da meritarlo. L’equiparazione ‘collaborazione = ravvedimento’ è irragionevole se non addirittura smentita da molti fatti di cronaca.

A chi obietta che la risocializzazione del detenuto, dimostrata in modi differenti dalla collaborazione, possa essere il frutto di un’abile strategia di dissimulazione e non il sincero punto di arrivo di un ripensamento critico delle proprie scelte di vita, si può rispondere che anche la collaborazione, come molte vicende processuali dimostrano, analogamente può essere il prodotto di un’abile strategia dissimulatoria volta a coinvolgere degli innocenti per salvare se stessi. Non si comprende perché solo il disvelamento della seconda strategia debba essere affidato a dei giudici e non anche quello della prima: forse perché i magistrati di sorveglianza sono meno giudici degli altri?

Perché il tema dell’ergastolo ostativo divide così profondamente? Perché da un lato non si è mai spenta in Italia l’inquietudine, circa la compatibilità dell’ergastolo con le acquisizioni di civiltà maturate e, in particolare, sul nesso problematico che intercorre fra pena perpetua (irrimediabilmente intrecciata ad un retaggio millenario di vendetta sociale, del cui classico emblema, la pena di morte, essa ha preso ambiguamente il posto) e diritti fondamentali (proiettati invece verso il futuro) e, dall’altro, perché non si possono negare gli indubbi meriti della collaborazione che ha consentito nel tempo di raggiungere risultati investigativi di enorme portata ma che, anche in caso di accoglimento delle questioni, è bene ribadirlo, non verrà affatto cancellata (rimarrà sia per i condannati al fine di accedere ai benefici prima degli altri, che per i collaboratori di giustizia tout court la cui legislazione speciale non verrà minimamente intaccata).

E tuttavia va individuato un punto di equilibrio che non può che riporsi nella dignità dell’uomo, in quel nucleo incomprimibile di diritti che nemmeno la pena più grave può cancellare del tutto: questo ci insegna la Corte di Strasburgo, a cui pur appartengono Giudici provenienti da Paesi che hanno conosciuto tristi stagioni terroristiche e di sangue per le strade.

La decisione della Corte Costituzionale è ormai imminente e su di essa può avere qualche influenza la sentenza Viola della Cedu, non fosse altro perché l’art. 117 della Costituzione obbliga il nostro Paese al rispetto della Convenzioni internazionali e dunque anche alle decisioni della Corte europea.

Ma le conseguenze sul piano pratico dell’una e dell’altra pronuncia saranno principalmente due: riaffidare alla magistratura di sorveglianza, che nulla può temere dall’abbattimento delle preclusioni se non di riacquistare la dignità del decidere, il potere di valutare i progressi – se ci sono – dell’ergastolano (in una parola: la sua “persona” e non il suo “reato”) e, infine, restituire ogni caso umano alla sua complessità, alle sue caratteristiche reali e, soprattutto, alla sua effettiva possibilità di evoluzione.

È una strada difficile, da praticare anche se meno appagante della punizione esemplare. È sempre necessario avere il coraggio, senza il comodo paravento delle preclusioni e delle presunzioni assolute, di guardare a fondo nella realtà dei fatti e delle persone coinvolte anche nei crimini più efferati e devastanti, evitando di rimuovere l’orrore con la durezza della sanzione che allontana e definitivamente seppellisce.

Marcello Bortolato Magistrato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze

Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2019

Zagrebelsky: Ergastolo ostativo non superabile, impedisce al Giudice di valutare la posizione del detenuto nel suo complesso


La questione sull’ergastolo ostativo riguarda il diritto a che il giudice possa prendere in esame la posizione del detenuto nel suo complesso, in tutti gli aspetti che in concreto presenta nel corso dell’esecuzione della pena. Le polemiche che hanno accompagnato la sentenza della Corte europea dei diritti umani sull'”ergastolo ostativo” possono ora essere accantonate in attesa della prossima decisione della Corte costituzionale, che deciderà se il regime di quel tipo di pena contrasti con l’art. 27 della Costituzione.

La sentenza della Corte costituzionale sarà certo accolta da critiche di un segno o dell’altro a seconda del suo tenore. Ma almeno non si potrà dire – come con leggerezza è stato fatto per la Corte europea – che la sua sentenza dimostra che quei giudici non conoscono la realtà italiana e giudicano su cose che ignorano.

Il quesito cui risponderà la Corte Costituzionale, infatti, è stato sollevato da giudici italiani, specificamente competenti nella materia. Si tratta della Corte Cassazione e del Tribunale di Sorveglianza di Perugia, per casi di diniego dei permessi premio che l’art. 30-ter dell’Ordinamento penitenziario ammette come “parte integrante del programma di trattamento”, ma che sono esclusi per i condannati per una serie di reati (di mafia e terrorismo, ma anche contro la pubblica amministrazione e altri ancora, che nulla hanno a che vedere con mafia e terrorismo), a meno che il condannato non collabori con l’autorità, ricostruendo pienamente i fatti e indicando i suoi complici.

La possibilità di ammissione a permessi premio del detenuto che se li merita, è funzionale del programma di rieducazione. Nello stesso senso si sono da tempo pronunciate sia la Corte costituzionale, che la Corte europea. L’art. 27 della Costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Il caso deciso dalla Corte europea dei diritti umani riguardava invece l’impossibilità per il condannato all’ergastolo di vedere esaminata dal giudice la sua domanda di liberazione condizionale (dopo 26 anni di detenzione) per la sola ragione, assolutamente impeditiva, che non ha collaborato con l’autorità. Assolutamente impeditiva significa che qualunque altra considerazione, relativa al caso concreto, è irrilevante.

La questione che la Corte Costituzionale deciderà è in sostanza la stessa affrontata dalla Corte europea, anche se le norme di riferimento (della Costituzione e della Convezione europea dei diritti umani) sono diverse. Per la Corte costituzionale si tratta del contrasto con la finalità rieducativa della pena e per la Corte europea del carattere inumano di un ergastolo che esclude il condannato dalla possibilità di accesso a quell’aspetto del trattamento rieducativo che è rappresentato dai benefici penitenziari e rende irrilevante ogni progresso che il detenuto compia, a meno che non collabori con l’autorità. È l’irrilevanza di ogni risultato del processo rieducativo, organizzato dall’amministrazione penitenziaria e cui il detenuto deve partecipare, che rende quel tipo di ergastolo “senza speranza” e quindi, secondo la giurisprudenza della Corte europea, inumano.

Nel giudizio avanti la Corte Costituzionale, come in quello della Corte europea non si tratta naturalmente di decidere se i condannati abbiano diritto ai permessi premio o alla libertà condizionale. La questione riguarda il diritto a che il giudice possa prendere in esame la posizione del detenuto nel suo complesso, in tutti gli aspetti che in concreto presenta nel corso dell’esecuzione della pena. Secondo la Corte europea la mancata collaborazione è certo un elemento rilevante, ma può essere equivoca in concreto, per esempio perché motivata dal timore di ritorsioni da parte dell’ambiente criminale cui il detenuto ha appartenuto o perché solo opportunistica.

L’inidoneità della mancata collaborazione a offrire una prova non equivoca di pericolosità e di persistente appartenenza al gruppo criminoso, in ogni caso e a prescindere dalla possibile esistenza di prove di segno diverso, è la ragione per cui la Corte europea ha ritenuta eccessiva, rispetto allo scopo legittimo di prevenzione del crimine, la condizione non superabile in alcun modo di collaborazione con l’autorità. È cioè l’esclusione della valutazione del giudice competente nella materia, che produce una non giustificata esclusione dei detenuti da momenti importanti del trattamento rieducativo e rende irrilevante ogni sviluppo della personalità, nel corso dei lunghi anni di carcere.

Dirà la Corte costituzionale se l’esclusione senza eccezione e senza valutazione giudiziaria dai benefici che sono funzionali alla rieducazione contrasta con la finalità propria di ogni pena. Per la Corte europea nei casi di ergastolo ostativo quando non vi sia stata collaborazione con l’autorità, l’inumanità di quel tipo di pena deriva dalla troppo rigida e automatica esclusione dei benefici che fanno parte del trattamento del detenuto e di ogni rilevanza di qualunque progresso rieducativo eventualmente dimostrato da fatti diversi dalla collaborazione con l’autorità.

Vladimiro Zagrebelsky

Magistrato, già Giudice presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2019

Prof. Pagliano (Unicampania), Ergastolo ostativo ? Sulla sentenza Cedu Viola c. Italia “allarmismo ingiustificato”


La Cedu ha stabilito che l’ergastolo ostativo viola la Convenzione europea sui diritti umani. Il senso vero di una sentenza, fuori dagli allarmismi. La Corte europea dei diritti dell’uomo torna alla ribalta dell’opinione pubblica e della politica dai proclami allarmistici alimentati, con un po’ troppa disinvoltura, dalla consueta giostra della disinformazione.

Occorre fare un po’ di chiarezza e ragionare così su quanto accaduto con pacata serenità. Nei giorni scorsi, la Grande camera della Cedu ha respinto il ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza del 13 giugno 2019 con la quale i giudici di Strasburgo hanno stabilito che il così detto ergastolo ostativo viola l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. La decisione, innescata da un ricorso presentato da un affiliato alla ‘ndrangheta, tal Marcello Viola, ha prodotto un’enorme attenzione mediatica sul presupposto che la sentenza aprirà le porte del carcere di 957 persone che in Italia stanno scontando condanne all’ergastolo per reati di mafia e terrorismo.

Cerchiamo allora di capirne di più, provando a fare un po’ di chiarezza per diradare timori ingiustificati. Inevitabile partire col chiarire cosa sia l’ergastolo ostativo. Esso altro non è che la condanna al carcere a vita caratterizzato però dall’impossibilità, a differenza del regime ordinario dell’ergastolo, di poter accedere a permessi e benefici previsti invece dalla legge per i detenuti comuni, pur se appunto ergastolani semplici.

L’ergastolo ostativo preclude soprattutto l’accesso al beneficio della liberazione condizionale che il giudice può accordare dopo 26 anni considerando positivamente il percorso riabilitativo del detenuto. Nel nostro sistema, quindi, colui il quale viene condannato all’ergastolo, ovvero quella condanna che comporta il “fine pena mai”, sa che in realtà quel mai può sfumare, trasformandosi in un fine pena a termine. Mantenendo infatti una buona condotta detentiva e partecipando ai percorsi di reinserimento sociale, l’ergastolano ordinario può contare su una sorta di attenuazione di quel mai. Per una precisa scelta del legislatore, l’ergastolo ordinario può trasformarsi, evolversi, facendo lentamente dischiudere le porte del carcere.

Questi benefici, tuttavia, non si applicano a coloro i quali sono condannati per reati non comuni, ovvero quelli legati alla criminalità organizzata o al terrorismo, a meno che l’ergastolano, oltre a comportarsi bene durante la detenzione, non decida di collaborare con la giustizia ovvero dimostri che, pur volendolo fare, non può più svelare altri fatti e scenari non noti all’autorità giudiziaria.

Per dirla allora in breve, se io uccido un paio di vicini di casa e mi becco l’ergastolo, cosa di per sé già difficile (e non per la mia personalità bonaria ma per il sistema processuale in sé), posso serenamente coltivare il progetto di recuperare comunque la mia libertà. Se invece ho ucciso nella qualità di affiliato a un clan di criminalità organizzata, quella speranza sarà assai più flebile in quanto subordinata, esclusivamente, al fatto di dover collaborare a far arrestare i miei sodali e se essi sono già tutti detenuti, dovrò io dimostrare che la mia collaborazione con la giustizia non potrebbe portare alcun beneficio per queste ragioni.

Così individuato quale sia l’oggetto della sentenza e del relativo dibattito mediatico, cerchiamo ora di capire cosa ha stabilito la Corte europea, provando per quanto possibile a non indugiare in eccessivi tecnicismi.

Condannato a quattro ergastoli per omicidi plurimi, occultamento di cadavere, sequestro di persona e detenzione di armi, in base all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, tal Viola, affiliato alla criminalità organizzata calabrese, non aveva ottenuto accesso nel corso della sua detenzione all’assegnazione ai benefici come il lavoro all’esterno e i permessi premio e alle misure alternative alla detenzione, visto che non ha offerto alcuna collaborazione, anche quella che risulta oggettivamente irrilevante alle indagini. Ritenendo che la normativa italiana fosse violativa della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in quanto integrante un “trattamento inumano e degradante”, il condannato ergastolano si è rivolto ai giudici di Strasburgo e questi, non proprio a sorpresa, gli hanno dato ragione. Contro questa decisione, il nostro governo ha prontamente proposto ricorso alla Grande camera, la quale, a sua volta, pochi giorni fa ha confermato quella decisione respingendo il ricorso dell’Italia.

La Grande camera della corte europea dei diritti umani, respingendo il ricorso presentato dall’Italia, ha così definitivamente confermato che l’ergastolo ostativo previsto dalle nostre leggi viola l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. Se questo è vero, il punto è comprendere quale sia il reale effetto di questa decisione soprattutto rispetto a quanto troppo superficialmente si è da troppe voci affermato.

Procediamo con ordine. Non vi è dubbio che si tratti di una sentenza di rilievo anche perché nelle condizioni del ricorrente ci sono alcune centinaia di mafiosi, boss e gregari, condannati fra l’altro per le stragi, per terrorismo, senza evidentemente che essi abbiano mai inteso collaborare in alcun modo con la giustizia.

Tuttavia, occorre fare attenzione, e qui veniamo al punto. Per comprendere bene gli effetti di questa decisione e capire bene cosa ha scritto la Corte europea, è necessario andare oltre i facili proclami e andare a leggere nel dettaglio la motivazione della sentenza.

Ebbene, nel dettaglio, i giudici di Strasburgo hanno affermato che “lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena”. Quanto appena riportato risulta essere cosa assai diversa dall’affermazione che si imputa alla decisione di Strasburgo ovvero di aver cancellato l’ergastolo ostativo. La Corte europea non ha quindi prescritto la cancellazione dal nostro sistema dell’ergastolo ostativo. Al contrario, la Corte chiede al nostro paese una “riforma” della normativa che introduca una possibilità da parte del giudice della sorveglianza di procedere a un “riesame” dell’ostatività dell’ergastolo, permettendogli di determinare se, durante l’esecuzione della pena stessa, il detenuto si sia evoluto e abbia fatto progressi tali da non giustificare più il suo mantenimento in detenzione, non necessariamente essendo costretto a collaborare con la giustizia. La Corte europea, inoltre, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della dissociazione dall’ambiente mafioso, ha evidenziato che tale rottura può esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e senza l’automatismo legislativo attualmente vigente.

Pare quindi evidente che la campagna mediatica cui abbiamo assistito in questi giorni risulta fuorviante e non corrispondente alle statuizioni contenute nella sentenza di cui ci stiamo occupando. Riformare la legge sull’ergastolo ostativo, cioè, ripetiamo, quel regime che non prevede benefici né sconti di pena per i condannati al carcere a vita, nei sensi appena chiariti, non vuol dire affatto cancellare l’istituto in questione, ma solo dare al giudice un maggiore margine di valutazione ovvero ciò che l’ordine giudiziario sempre reclama di fronte alle occasioni in cui esso viene ristretto dal legislatore.

Conseguentemente, non corrisponde affatto al vero che la decisione dei giudici di Strasburgo abbia riflessi diretti e immediati sulla situazione di 957 persone che in Italia stanno scontando condanne all’ergastolo ostativo per reati di mafia e terrorismo.

Occorre piuttosto che il nostro legislatore, cioè la politica, quella dei facili proclami, intervenga presto a recepire il principio affermato dalla Corte europea, evitando quindi che i predetti ergastolani possano chiedere di accedere ai benefici previsti e avanzare poi ricorso nel caso i giudici di sorveglianza dovessero negarglieli. Niente affatto scontato inoltre, come pure detto da molti con un po’ troppa leggerezza, che i boss di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, i terroristi neri e rossi, i pluriomicidi e gli stragisti potrebbero vedersi riconoscere un indennizzo da parte dello Stato.

Diverse, e senza dubbio legittime, quelle osservazioni formulate da persone altamente qualificate come il procuratore Scarpinato, che per esempio ha sostenuto che la sentenza della Corte europea contiene la pericolosa affermazione che i condannati all’ergastolo ostativo non sono liberi di collaborare con la giustizia perché ciò comporta riconoscere implicitamente che lo Stato non sarebbe in grado di tutelare chi decida di collaborare con esso. Non è questa la sede per sviscerare il tema della dissociazione e quello della collaborazione con lo Stato, ma il punto focale resta il fatto che la Corte europea non ci ha imposto di abolire un istituto importante nella lotta alla criminalità, ci ha solo segnalato la necessità di superare l’attuale automatismo fra revoca della ostatività e collaborazione.

Il pallino, dopo le scelte che farà il legislatore, resterà nelle mani del giudice, al quale esprimerei la piena fiducia nella sua capacità di valutazione caso per caso delle eventuali condizioni in presenza delle quali poter o meno revocare il regime ostativo dell’ergastolano. La severità del giudizio non viene in alcun modo messa in discussione dalla Corte europea. La guardia resta alta e il fronte della lotta alla criminalità non può essere messo in crisi da queste decisioni che invece devono essere lette nell’ottica di attribuire maggior responsabilità decisionale a chi ricopre quel ruolo di giudice e tutore della legge e che ha sempre giustamente criticato il ricorso della politica a meccanismi di presunzione in grado di restringere la piena autonomia di valutazione.

Piuttosto, il 22 ottobre sullo stesso tema si esprimerà la Corte costituzionale. Dopo aver già dichiarato costituzionale l’ergastolo ostativo in passato, la Consulta dovrà ora decidere su un altro ricorso di un condannato per associazione mafiosa. Sarà interessante verificare che posizione prenderanno i nostri giudici delle leggi e se si creerà o meno un conflitto fra le Corti, ma questo è tutto un altro scenario di cui ci dovremo occupare in altre sedi.

Ciò che tuttavia occorre qui ribadire è che la decisione della Corte europea non induce alcun automatismo nella valutazione sulla permanenza del regime ostativo che di per sé non viene minimamente messo in discussione. Si tratterà di verificare come il nostro legislatore, quindi il Parlamento, riterrà di operare. Resta in ogni caso fatta salva la discrezionalità dei giudici e nessun automatismo abolitivo si profila all’orizzonte. Ogni allarmismo sulla decisione della Corte europea appare, lo ripetiamo, del tutto ingiustificato.

Come affermato dal portavoce di Amnesty International, i sentimenti dei familiari delle vittime di crimini orribili restano al primo posto tra le nostre preoccupazioni, condividendo le legittime esigenza di sicurezza espresse da più parti. Nondimeno, i diritti umani si devono applicare a tutti, tutti, non potendo che biasimare l’idea che a determinate persone non debba trovare applicazione il criterio della rieducazione della pena. L’auspicio è che le questioni delicate come queste conoscano adeguati approfondimenti da parte dei protagonisti della nostra vita pubblica e politica prima di formulare sentenze. Contro le quali non si può, ahi noi, ricorrere neanche alla Corte europea.

Antonio Pagliano (Professore in Diritto Processuale Penale, Università della Campania)

http://www.ilsussidiario.net – 14 ottobre 2019

“Così ho vinto la battaglia contro il fine pena mai”. Parla l’Avv. Antonella Mascia difensore di Marcello Viola


A 58 anni, la veronese Antonella Mascia è l’avvocato che ha seguito il caso del mafioso Marcello Viola di fronte alla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Già nel giugno scorso, Strasburgo le aveva dato ragione: gli articoli 4bis e 58ter dell’ordinamento penitenziario (che vietano permessi e semilibertà a chi non collabora con la Giustizia) violano i diritti umani. Ora la Grande Chambre ha respinto l’opposizione dell’Italia, che chiedeva un nuovo giudizio. Capitolo chiuso, e il nostro Paese dovrà tenerne conto.

Piaccia o meno la decisione dei giudici, resta che a discutere di diritti dei detenuti con questa donna – una pasionaria alla Erin Brockovich – si finisce con l’affrontare temi molto più ampi, compresa la difficoltà che incontrano tantissime donne a coniugare figli e carriera. Ma prima della vita privata, ci sono gli echi delle polemiche scatenate dalla decisione della Grande Chambre. E l’avvocato Mascia sembra voler subito ribattere a chi l’accusa di aver fatto un favore ai boss della criminalità organizzata.

“La mafia è una cosa orribile. Ma uno Stato civile non può fare delle leggi che calpestano la dignità delle persone, decidendo a priori che “se un criminale non collabora allora è pericoloso”. E se non lo facesse perché è innocente? Oppure per il timore di ritorsioni? Senza contare che c’è chi entra nel programma di collaborazione solo per ottenere sconti di pena. Insomma, pentiti e redenti non sempre coincidono”.

Dicono che se un giorno alcuni criminali come il boss Leoluca Bagarella o la brigatista Nadia Lioce otterranno dei permessi premio, la colpa sarà soltanto sua…

“Già. Mi ha sorpreso la superficialità di alcuni commenti politici, ma anche il livore dimostrato da alcuni giuristi che sembrano voler soffiare sulla paura, invece di fare chiarezza”.

Doveva metterlo in conto: in fondo ora l’Italia dovrà modificare l’ergastolo ostativo, che è il cardine della lotta alla mafia…

“Il timore è che senza lo spauracchio del “fine pena mai”, i mafiosi non collaboreranno più. In realtà non esiste alcun automatismo: semplicemente all’ergastolano andrà riconosciuto il diritto di chiedere permessi premio o altri benefici. Se accogliere o meno questa domanda, però, lo deciderà il giudice: nel caso rappresenti ancora un pericolo per la società, il detenuto rimarrà in carcere. Insomma, è stata una battaglia per garantire dei diritti, non per conquistare dei privilegi”.

Ne è valsa la pena?

“Certo. E vedrà che prima o poi lo capiranno”

Capiranno che cosa?

“Che ho reso un grande servizio al mio Paese”.

Come c’è finita un’avvocatessa veronese a combattere al fianco di un condannato per mafia?

“Mi interessava la sua battaglia. Ormai da tempo mi sento libera di occuparmi esclusivamente di cause legali che riguardano i diritti civili, la salvaguardia dell’ambiente, la salute…”.

Un’idealista…

“Sì, mi batto per degli ideali. Quando lavoravo a Verona mi occupavo di tutelare i diritti dei migranti per conto della Cgil ed ero l’avvocato di Legambiente. Oggi che ho uno studio a Strasburgo faccio causa allo Stato per non aver impedito l’avvelenamento della Terra dei Fuochi, mi occupo di maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine e di come portare di fronte alla Corte europea l’inquinamento da Pfas che ha colpito il Veneto”.

Perché proprio Strasburgo?

“Perché sento di poter fare la differenza. Le sentenze della Corte europea incidono sulla vita di milioni di persone. E poi perché qui riesco a coniugare lavoro e vita privata”.

A Verona non ci riusciva?

“L’Italia ha ancora tanta strada da fare sul fronte del diritto di vivere appieno l’essere genitore. Nel 2000 mi sono ritrovata di fronte a un’evidenza: realizzarmi professionalmente significava dover trascurare il mio bambino, non potergli stare accanto e guidarlo nella crescita come avrei voluto. Insomma, non riuscivo a fare bene sia la mamma che l’avvocato. Così, quando mio marito ha ricevuto la proposta di lavorare in Francia, ho accettato di seguirlo”.

Ha ricominciato da zero…

“Per un anno e mezzo mi sono concentrata sulla famiglia. Poi è arrivata l’opportunità di uno stage di tre mesi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Avevo 42 anni e gli altri stagisti erano tutti giovanissimi. Me la sono cavata bene e sono arrivati dei contratti a tempo determinato. Lì ho capito quanto sia importante l’Europa e il suo apparato giudiziario”.

Quando è tornata a indossare la toga?

“Mentre lavoravo ho cominciato ad approfondire gli argomenti di cui mi occupavo tutti giorni. Così ho conseguito un master in Diritto internazionale e Diritti dell’Uomo, presso l’Università Shuman di Strasburgo. Giorno dopo giorno, sentivo il bisogno di mettere a frutto ciò che stavo imparando. Tradotto: ho capito di voler tornare a fare l’avvocato. Ci sono riuscita nel 2010, quando ormai ero sulla soglia della cinquantina: ho aperto il mio ufficio legale a Strasburgo, iniziando a collaborare con alcuni studi in Italia”.

Oggi riesce a conciliare l’essere una mamma e un avvocato?

“Ora mio figlio è un adulto e io riesco a dedicare molto più tempo al lavoro. Ma intanto ho imparato a bilanciare le esigenze personali e quelle professionali. Spero che altre colleghe ci riescano. Anche in Italia”.

Andrea Priante

Corriere di Verona, 10 ottobre 2019