Bortolato (Magistrato): l’opinione pubblica crede che il “fine pena mai” non esista. E’ vero il contrario !


Nell’opinione pubblica, anche qualificata, continua a essere diffusa l’idea che l’ergastolo sia una pena riducibile e che il “fine pena mai” non esista.

È vero il contrario. Mentre è in calo il numero dei reati, le condanne all’ergastolo aumentano e, tra esse, quelle all’ergastolo effettivamente senza right to hope, senza via di uscita. Ostativo, viene comunemente definito. Un Magistrato di Sorveglianza ci spiega bene cosa è e perché non dovrebbe avere cittadinanza nel nostro ordinamento, tanto più dopo la sentenza della Corte di Strasburgo Viola c. Italia. Lo pubblichiamo per sfatare luoghi comuni e false giustificazioni, in attesa che il 22 ottobre si pronunci la Corte costituzionale.

1. L’ergastolo ieri e oggi – La prima volta in cui mi imbattei nell’ergastolo fu quando venni chiamato, allora diciottenne, alle urne per il referendum abrogativo del 1981: non ebbi alcun dubbio, fui tra quei 7.114.719 favorevoli alla sua abolizione (cioè il 22,6% dei votanti), contro quei 24.330.954 (il 77,4%), che si erano espressi in senso contrario all’abolizione. La proposta venne bocciata, eppure nei contestuali referendum sull’abolizione delle norme sulla concessione del porto d’armi e sull’interruzione volontaria della gravidanza la risposta negativa, cioè il no all’abolizione, aveva raggiunto percentuali ben maggiori, che si attestavano tra l’85 e l’89%: ciò significa che circa il 10% di quelle stesse persone che si erano espresse in senso contrario all’abrogazione della legge Cossiga, concepita per affrontare l’emergenza terrorismo in Italia degli anni 70, si era espresso nello stesso giorno in senso favorevole all’abolizione dell’ergastolo.

La seconda volta fu quando – molto più tardi – assunsi le funzioni di Magistrato di Sorveglianza: a quel punto il problema non fu più l’ergastolo ma il suo ulteriore aggravamento, quella sofferenza aggiuntiva, quell’inasprimento sanzionatorio – perché di questo si tratta – che va sotto il nome di “ergastolo ostativo”: la pena senza speranza, un passato che schiaccia il presente e toglie ogni speranza al futuro. L’ergastolano “ostativo” ha la quotidiana sensazione di avere ben poche speranze di accorciare quel fine pena, la sensazione di morire giorno per giorno tanto da voler a volte desiderare che la condanna sia tramutata in pena di morte.

Il primo argomento da sfatare è che l’ergastolo sia una condanna simbolica che, si dice, di fatto non sconta più nessuno. Alcuni dati: 1700 circa oggi gli ergastolani di cui oltre 1200 “ostativi”: dal 2004 al 2014 vi è stato un incremento degli ergastoli del 38%, eppure da un anno all’altro diminuiscono gli omicidi (dal 2017 al 2018 il 16,3% in meno e quelli di criminalità organizzata da 48 a 30 dal 2016 al 2017; gli omicidi volontari in Italia nel 2018 sono stati 319 dei quali 134 in ambito familiare/affettivo e dunque al di fuori di un contesto di criminalità organizzata). L’incidenza percentuale degli ergastolani sul totale dei condannati definitivi tra il 1998 e il 2008 è passata dal 2,5% al 5,29%: una pena dunque tutt’altro che desueta.

2. Ergastolo e compatibilità con la Costituzione repubblicana – Il più grave problema che si pone per l’ergastolo è quello della sua compatibilità con il principio della finalizzazione rieducativa della pena scolpito nell’art. 27 Cost.: se infatti per rieducazione non si può non intendere che reintegrazione, seppur tendenziale, dell’individuo nel contesto sociale, una misura come l’ergastolo, destinata ad escluderlo definitivamente, non può che risultare incompatibile con tale principio.

La Corte Costituzionale, riaffermando invece la costituzionalità di tale sanzione, ha dovuto fare riferimento al fatto che l’ergastolo non è effettivamente tale – e cioè una pena perpetua – in quanto ammette il rientro nella società attraverso la liberazione condizionale (beneficio previsto non dall’ordinamento penitenziario ma dal codice penale all’art. 176 cp), incorrendo così in un evidente paradosso: quello di riaffermare la costituzionalità di un istituto in quanto lo stesso non sia effettivamente tale, quando avrebbe invece dovuto pronunciarsi sulla fondatezza e compatibilità dei principi, non sulla loro occasionale (e del tutto aleatoria) disapplicazione. Del resto si consideri che in termini percentuali gli accoglimenti dell’istanza di liberazione condizionale (per tutte le pene, anche temporanee) si aggirano intorno al 3% circa delle istanze, spiegabile proprio perché la liberazione condizionale è un beneficio che dal 1992 è soggetto alle stesse condizioni di ammissibilità dettate nell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario per le misure alternative, prima fra tutte il requisito della “collaborazione” la cui mancanza di fatto rende ostativa la pena perpetua.

Con la sentenza n. 264 del 22 novembre 1974 l’ergastolo viene dichiarato conforme alla Costituzione con il rilievo che la funzione rieducativa non è l’unica funzione cui la pena deve assolvere, affiancandosi a tale funzione anche quella dissuasiva, preventiva e di difesa sociale (è la teoria “polifunzionale” della pena).

Si è così arrivati in Italia all’ergastolo moderno, pena mantenuta nella sua perpetuità ma temperata dalla concessione di molti benefici penitenziari [1]. Si è assistito ad un’opera di progressiva spoliazione dell’istituto che non si è voluto fin qui eliminare nel tentativo di renderlo compatibile con la finalità rieducativa della pena: ma il limite dell’ergastolo ostativo (che costituisce la stragrande maggioranza degli ergastoli) nondimeno – da 27 anni – è ancora lì.

Oggi la questione, dopo la condanna in sede europea (CEDU: sentenza Viola c. Italia del 13 giugno 2019), è tornata nuovamente all’esame della Corte Costituzionale (sulle due questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis sollevate dalla prima Sezione della Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia nei casi, rispettivamente, Cannizzaro e Pavone, la discussione è fissata il prossimo 22 ottobre) proprio perché il requisito della collaborazione rende di fatto inapplicabili tutti i benefici penitenziari. Non si è mai dunque spenta in Italia l’inquietudine, nonostante le passate stagioni terroristiche, la ferocia della criminalità organizzata e l’efferatezza di alcuni delitti, circa la compatibilità dell’ergastolo con le acquisizioni di civiltà maturate e, in particolare, sul nesso problematico che intercorre fra pena perpetua e diritti fondamentali, la prima irrimediabilmente intrecciata ad un retaggio millenario di vendetta sociale, del cui classico emblema (la pena di morte) essa ha preso ambiguamente il posto nei nostri tempi, i secondi proiettati invece verso il futuro e di fronte al quale l’alternativa ormai è tra la coscienza lacerata (i casi italiano e tedesco in cui l’istituto è mantenuto ma progressivamente sgretolato) [2] ovvero l’abolizione, secondo la strada imboccata da Spagna e Portogallo che, usciti da sanguinose dittature, hanno radicalmente rinnovato i propri ordinamenti cancellando nel sistema delle pene ogni residuo dei lasciti ancestrali. Il caso italiano, in particolare, tradisce ancora una volta il disagio a contemperare la pena massima con l’impianto della Carta: l’ergastolo si giustifica tanto quanto risulti abolito nei fatti, circostanza quest’ultima che, almeno per i 1255 ergastolani “ostativi”, non si verifica. Questa situazione non può durare a lungo risolvendosi in un’ipocrisia prolungata e per di più annidata in un istituto fortemente simbolico: non dimentichiamo che l’ergastolo infatti nasce (da Beccaria) come alternativa alla pena capitale, confermata dal fatto che esso è tuttora sconosciuto negli Stati in cui per i delitti più gravi è ancora in vigore la pena di morte.

3. L’ergastolo “ostativo” – L’ergastolo ostativo, l’ergastolo degli “uomini ombra”, dei “senza speranza”, crea disagio, prima di tutto nel Magistrato di Sorveglianza. Perché?

Perché di fronte all’ostatività (che discende dalla mancata collaborazione) appare del tutto irrilevante il percorso rieducativo del condannato: il giudice è impotente, nonostante l’approccio delle teorie della cd “nuova prevenzione” tenda a riproporre ampio spazio al riconoscimento della concretezza e della specificità delle situazioni in cui un reato avviene, delle caratteristiche e delle motivazioni dell’autore, della sua evoluzione personale; è sempre necessario avere il coraggio di guardare a fondo nella realtà dei fatti e delle persone coinvolte anche nei crimini più efferati e devastanti, evitando di rimuovere l’orrore con la durezza della sanzione che allontana e definitivamente seppellisce. Il giudice difronte all’ergastolo ostativo è espropriato del potere di decidere se accordare un qualche riconoscimento ai progressi del reo, progressi che possono non avere nulla a che vedere con la sua volontà di collaborare con la giustizia.

Vanno ricordate poi le enormi difficoltà dell’accertamento della collaborazione cd “impossibile” o “inesigibile” (alternativa alla collaborazione effettiva, essa consiste nell’impossibilità, riconosciuta dalla legge, di offrire una reale collaborazione poiché su quella vicenda penale ormai è stata fatta piena luce): si tratta di un accertamento rimesso a fattori esterni su cui il condannato non ha alcun dominio e che dipende perlopiù dai pareri delle Procure che hanno svolto le indagini.

Il Magistrato di Sorveglianza difronte all’ergastolo ostativo è inoltre consapevole dell”anima nera’ della preclusione dell’art. 4-bis: quel surplus di pena, quell’inasprimento sanzionatorio che rende la pena perpetua una pena senza speranza ed ha le mani legate perché non può nemmeno valutare le ragioni del silenzio di chi non vuole collaborare con la giustizia. Sia chiaro, la collaborazione è strumento strategico della lotta alla criminalità organizzata, insostituibile mezzo di repressione e prevenzione dei reati, e dove è “effettiva” consente ai condannati l’accesso anticipato alle misure alternative (a differenza di quella cd “impossibile”) ma le ragioni di una mancata collaborazione possono essere anche nobili o comunque comprensibili (la scelta morale di non voler barattare la propria libertà con quella degli altri, la paura di esporre i propri familiari a ritorsioni e vendette) eppure non sono valutabili dalla Magistratura di Sorveglianza che deve limitarsi a prenderne atto anche difronte alla dimostrazione, del tutto disgiunta dall’assenza di collaborazione, di una cessata pericolosità, magari dopo moltissimi anni dal reato.

Il problema è allora anche quello della libertà di autodeterminazione, che ha a che fare con la “dignità”, divenuto parametro costituzionale tout court: la preclusione derivante dalla mancata collaborazione non è solo irrazionale, è “violenta” perché coarta la libertà morale e rende l’uomo da fine a mezzo, il che significa usare gli strumenti della rieducazione per scopi che sono altri (assicurare alla giustizia ulteriori colpevoli) cioè negare in radice la funzione del Magistrato di Sorveglianza.

Dobbiamo inoltre chiederci se la mancata collaborazione sia effettivamente sempre e comunque sintomo di dissociazione dalle organizzazioni criminali di appartenenza. Non sono sconosciute da un lato collaborazioni del tutto strumentali ed anche “false” e, dall’altro, l’esistenza di più sicuri indici di rescissione dei legami. Si pensi che il “ravvedimento” (pieno riconoscimento della propria responsabilità ed assunzione di impegni riparatori, traduzione laica del concetto di “emenda”) è sufficiente per ottenere la liberazione condizionale (l’unico beneficio che può cancellare l’ergastolo) ma non basta per poter accedere ai benefici anche minori a chi non abbia collaborato pur ammettendo le proprie responsabilità. Con il ravvedimento il reo dimostra di aver raggiunto un grado di rieducazione tale da meritare il massimo beneficio ma se non fa i nomi dei correi non può accedervi: c’è qualcosa di fortemente irrazionale prima che ingiusto in questo meccanismo.

4. La quaestio di costituzionalità – Ci sono degli evidenti limiti nel petitum delle due questioni di costituzionalità sollevate e che verranno discusse il prossimo 22 ottobre: esse colpiscono infatti l’ostatività del solo permesso-premio, il primo beneficio che l’ergastolano può ottenere. Se esso costituisce lo “snodo” cruciale del trattamento, tuttavia la progressione trattamentale è l'”in sé” della rieducazione. Tutti i benefici – nell’ottica della preclusione – sono uguali, non si possono distinguere: se cadrà la preclusione tutti i benefici e le misure alternative saranno, senza distinzioni, ammissibili. È dunque necessario colpire la preclusione in sé, la sua irrazionalità intrinseca.

Spesso facendo il Giudice mi chiedo: ma cattivi si diventa? anch’io ne sarei capace? Vi sono studi criminologici che hanno passato in rassegna il genocidio in Ruanda, i suicidi e gli assassini di massa dei membri di diverse sette religiose, gli orrori dei campi di concentramento nazisti, la tortura praticata dalla polizia militare e civile e la violenza sessuale perpetrata su parrocchiani da sacerdoti cattolici. Si ricorda spesso il cd. “esperimento carcerario di Stanford”: nel 1971 sono stati reclutati con un annuncio su un giornale alcuni studenti “sani, intelligenti, di classe media, psicologicamente normali e senza alcun precedente violento”. L’esperimento doveva durare due settimane e coinvolgere i soggetti, suddivisi casualmente tra un gruppo di guardie ed uno di detenuti, in una simulazione di vita carceraria, allo scopo di mettere a fuoco le reazioni dei detenuti. Dopo soli cinque giorni, i lavori furono però interrotti: gli studenti che rivestivano il ruolo delle guardie si erano inaspettatamente trasformati in spietati aguzzini. È l'”effetto Lucifero”: la possibilità, cioè, che alcune particolari situazioni siano in grado di indurre persone ordinarie a compiere i peggiori crimini.

Il ricordo di quell’esperimento deve farci riflettere che certamente emergono situazioni difficili e per molti aspetti inquietanti, che esistono delitti assai efferati rispetto ai quali non sembra esservi alcuna pena idonea a compensare il male che hanno provocato, ma che, nel contempo, ogni situazione va sempre restituita alla sua complessità, alle sue caratteristiche reali e, soprattutto, alla sua effettiva possibilità di evoluzione. Ogni uomo va trattato come uomo: si tratta di una strada difficile, da praticare e svelare di caso in caso anche se questo è meno appagante della punizione esemplare.

Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze

http://www.questionegiustizia.it, 20 ottobre 2019

(Testo dell’intervento al Convegno “Eppur si muove. Carcere, costituzione, speranza”, Reggio Calabria – 4 ottobre 2019).

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[1] La legge Gozzini del 1986 ha abbassato il tetto di ammissione alla liberazione condizionale da 28 a 26 anni: dopo cinque anni di libertà vigilata, la pena si estingue e l’ergastolano diviene persona del tutto libera; la stessa legge stabilisce che la pena dell’ergastolo debba essere espiata negli stessi istituti in cui si espiano le pene detentive a tempo e prevede la possibilità per l’ergastolano di essere ammesso all’esperienza dei permessi-premio e al lavoro all’esterno dopo 10 anni; prevede la concedibilità della misura alternativa della semilibertà dopo l’espiazione di almeno vent’anni di pena ed infine la concedibilità della liberazione anticipata, intesa come sconto di pena di giorni 45 per ogni semestre, anche all’ergastolano, stabilendo che detto beneficio sia computabile nella misura della pena che occorre avere espiato perché questi sia ammesso ai benefici dei permessi-premio, della semilibertà e della liberazione condizionale.

[2] Nel caso italiano, nell’ipotesi di integrale concessione della riduzione di pena per liberazione anticipata, l’ergastolano (purché non ostativo) può aspirare alla concessione del suo primo permesso-premio dopo 8 anni di pena, della semilibertà dopo 16 anni di pena e della liberazione condizionale dopo 21 anni di pena.

Il Giudice Bortolato: “L’ergastolo ostativo toglie ogni speranza al futuro: se non collabori non potrai uscire, mai”


E’ necessario un punto di equilibrio che non può che riporsi nella dignità dell’uomo. L’ergastolo ostativo nasce nel 1992, dopo le stragi di mafia, quale strumento di lotta alla criminalità organizzata. Serviva per indurre i colpevoli degli omicidi a collaborare con la giustizia in cambio del diritto di accedere, una volta condannati, ai benefici previsti anche in caso di pena perpetua.

L’accesso alle misure non può essere precluso del tutto, poiché ciò renderebbe l’ergastolo incompatibile con la Costituzione risolvendosi in una pena senza speranza, contraria all’art. 27 Cost. che vuole tutte le pene, sempre, finalizzate al reinserimento sociale.

Il diritto di accedere non significa certezza di essere ammessi, un conto è l’ammissibilità, un altro il merito, essendo i requisiti richiesti del tutto diversi: solo il “sicuro ravvedimento” previsto dall’art. 176 c.p. consente la liberazione condizionale, misura amplissima che cancella l’ergastolo dopo 26 anni. Questo non vale però per l’ergastolo ostativo che si configura, come una pena aggiuntiva in cui il passato schiaccia il presente e toglie ogni speranza al futuro: se non collabori non potrai uscire, mai.

Non si può mettere in dubbio che la collaborazione sia ancora uno strumento strategico nella lotta alla criminalità organizzata, dove è “effettiva” e “utile” premia i condannati consentendo loro di accedere anticipatamente alle misure alternative, ma le ragioni di una mancata collaborazione non possono oggi essere sindacate dalla magistratura di sorveglianza che, pur apprezzando il processo rieducativo del reo, deve limitarsi a prenderne atto.

Eppure queste ragioni potrebbero essere anche “nobili” o ben comprensibili (la scelta morale di non voler barattare la propria libertà con quella degli altri, la paura di esporre i propri familiari a ritorsioni e vendette), non necessariamente esse sono indice della volontà di rimanere “intraneo”. Si dirà che lo Stato protegge il collaboratore ed anche i suoi familiari, ma oltre ad essere un argomento “de facto” (i requisiti del programma di protezione sono assai restrittivi) si scontra con la realtà di uno Stato che spesso non è nemmeno in grado di proteggere i semplici testimoni, comunque a pagare sarebbero sempre degli innocenti (i familiari costretti a cambiare identità).

Ma il nodo centrale dell’ostatività sta nell’esproprio della funzione del giudizio sulla persona, che la legge affida in via esclusiva al magistrato di sorveglianza, perché difronte a quella appaiono del tutto irrilevanti i traguardi rieducativi nel frattempo raggiunti: il giudice è impotente, nonostante la legge gli affidi ampio spazio al riconoscimento della concretezza e della specificità delle situazioni in cui un reato avviene, delle motivazioni dell’autore e soprattutto della sua evoluzione personale. Del resto i progressi del detenuto possono non avere nulla a che vedere con la sua volontà di collaborare con la giustizia, che può essere strumentale o addirittura ‘falsa’, mentre la dimostrazione della sua cessata pericolosità può desumersi da altro.

L’assenza di collaborazione non è di per sé sintomo di mancata dissociazione: è una presunzione che nella sua assolutezza ha ormai scarse ragioni d’essere, tanto più a molti anni di distanza dai fatti. Esistono indici ben più sicuri di rescissione dei legami: si pensi che il ‘ravvedimento’ (pieno riconoscimento della propria responsabilità ed assunzione di impegni riparatori) è sufficiente per ottenere la liberazione condizionale (unico beneficio che può cancellare l’ergastolo) ma non basta per accedere ai benefici anche minori a chi, pur non collaborando, abbia ammesso le proprie responsabilità.

L’ergastolano ostativo, pur ravveduto, non può andare in permesso se non fa il nome dei correi, eppure con il ravvedimento (traduzione laica del concetto di “emenda”) egli dimostra di aver raggiunto un grado di rieducazione tale da meritarlo. L’equiparazione ‘collaborazione = ravvedimento’ è irragionevole se non addirittura smentita da molti fatti di cronaca.

A chi obietta che la risocializzazione del detenuto, dimostrata in modi differenti dalla collaborazione, possa essere il frutto di un’abile strategia di dissimulazione e non il sincero punto di arrivo di un ripensamento critico delle proprie scelte di vita, si può rispondere che anche la collaborazione, come molte vicende processuali dimostrano, analogamente può essere il prodotto di un’abile strategia dissimulatoria volta a coinvolgere degli innocenti per salvare se stessi. Non si comprende perché solo il disvelamento della seconda strategia debba essere affidato a dei giudici e non anche quello della prima: forse perché i magistrati di sorveglianza sono meno giudici degli altri?

Perché il tema dell’ergastolo ostativo divide così profondamente? Perché da un lato non si è mai spenta in Italia l’inquietudine, circa la compatibilità dell’ergastolo con le acquisizioni di civiltà maturate e, in particolare, sul nesso problematico che intercorre fra pena perpetua (irrimediabilmente intrecciata ad un retaggio millenario di vendetta sociale, del cui classico emblema, la pena di morte, essa ha preso ambiguamente il posto) e diritti fondamentali (proiettati invece verso il futuro) e, dall’altro, perché non si possono negare gli indubbi meriti della collaborazione che ha consentito nel tempo di raggiungere risultati investigativi di enorme portata ma che, anche in caso di accoglimento delle questioni, è bene ribadirlo, non verrà affatto cancellata (rimarrà sia per i condannati al fine di accedere ai benefici prima degli altri, che per i collaboratori di giustizia tout court la cui legislazione speciale non verrà minimamente intaccata).

E tuttavia va individuato un punto di equilibrio che non può che riporsi nella dignità dell’uomo, in quel nucleo incomprimibile di diritti che nemmeno la pena più grave può cancellare del tutto: questo ci insegna la Corte di Strasburgo, a cui pur appartengono Giudici provenienti da Paesi che hanno conosciuto tristi stagioni terroristiche e di sangue per le strade.

La decisione della Corte Costituzionale è ormai imminente e su di essa può avere qualche influenza la sentenza Viola della Cedu, non fosse altro perché l’art. 117 della Costituzione obbliga il nostro Paese al rispetto della Convenzioni internazionali e dunque anche alle decisioni della Corte europea.

Ma le conseguenze sul piano pratico dell’una e dell’altra pronuncia saranno principalmente due: riaffidare alla magistratura di sorveglianza, che nulla può temere dall’abbattimento delle preclusioni se non di riacquistare la dignità del decidere, il potere di valutare i progressi – se ci sono – dell’ergastolano (in una parola: la sua “persona” e non il suo “reato”) e, infine, restituire ogni caso umano alla sua complessità, alle sue caratteristiche reali e, soprattutto, alla sua effettiva possibilità di evoluzione.

È una strada difficile, da praticare anche se meno appagante della punizione esemplare. È sempre necessario avere il coraggio, senza il comodo paravento delle preclusioni e delle presunzioni assolute, di guardare a fondo nella realtà dei fatti e delle persone coinvolte anche nei crimini più efferati e devastanti, evitando di rimuovere l’orrore con la durezza della sanzione che allontana e definitivamente seppellisce.

Marcello Bortolato Magistrato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze

Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2019

Rossano, Quintieri (Radicali): Gli ergastolani non hanno diritto alla cella singola


CARCERE ROSSANOAlla luce di quanto accaduto nei giorni scorsi presso la Casa di Reclusione di Rossano ove un detenuto, C.D., napoletano, condannato alla pena dell’ergastolo, ha aggredito il Medico Psichiatra ed un sottufficiale del Corpo di Polizia Penitenziaria, poiché voleva essere collocato in cella singola, ritenendo di averne diritto per il suo status di ergastolano, nell’esprimere la mia convinta solidarietà alle vittime, intendo precisare quanto peraltro già sostenuto durante numerose visite circa l’insussistenza di tale diritto in capo agli ergastolani. Infatti, numerosi detenuti in espiazione della pena dell’ergastolo, in virtù di quanto disposto dall’Art. 22 comma 1 del Codice Penale che prevede l’isolamento notturno, sono convinti che spetti loro il diritto di essere collocati in una camera singola mentre in realtà l’isolamento notturno, a differenza di quello diurno, non costituisce una vera e propria sanzione penale, ma soltanto una modalità esecutiva della pena, peraltro, affidata alla discrezionalità dell’Amministrazione Penitenziaria.

Invero, la Corte Suprema di Cassazione, chiamata ripetutamente a pronunciarsi in merito ad ordinanze emesse dalla Magistratura di Sorveglianza, con le quali venivano rigettati i reclami proposti dai detenuti per la omessa attuazione dell’isolamento notturno, ha affermato il seguente principio di diritto : «l’isolamento notturno del condannato all’ergastolo, che rappresenta un inasprimento sanzionatorio e non una sanzione vera e propria come quello diurno, non può considerarsi oggetto di un diritto soggettivo giuridicamente azionabile dall’interessato. Ne consegue, che è legittimo il rigetto di istanza presentata da condannato alla pena dell’ergastolo e mirante ad ottenere, in costanza della sua esecuzione, l’isolamento notturno.».

Inoltre, allo stato, tuttavia, l’isolamento notturno, quale istituto generalizzato collegato alla pena dell’ergastolo con finalità segregante, non può considerarsi più previsto dall’ordinamento giuridico positivo, giacche gli Artt. 22, 23 e 25 del Codice Penale che lo menzionavano, devono ritenersi implicitamente modificati in parte qua in seguito all’entrata in vigore dell’Art. 6 comma 2 dell’Ordinamento Penitenziario approvato con Legge nr. 354/1975. Dispone, infatti, tale norma che i locali destinati al pernottamento dei detenuti consistono “in camere dotate di uno o più posti”, senza distinguere la pena da eseguire. Ed il Regolamento di Esecuzione Penitenziaria approvato con Decreto del Presidente della Repubblica nr. 230/2000, nel dare attuazione al disposto legislativo, ribadisce all’Art. 110 comma 5 che l’esecuzione della ergastolo debba essere effettuata nelle Case di Reclusione. Peraltro, l’Ordinamento Penitenziario, contempla l’Art. 89, norma di coordinamento, in forza del quale deve ritenersi abrogata “ogni altra norma incompatibile con la presente legge”. E’ del tutto evidente, quindi, che i provvedimenti assunti dall’Amministrazione Penitenziaria – che non ammettano il detenuto ergastolano (che lo richieda) ad essere “isolato” durante la notte con collocazione in cella singola, specie in presenza di ragioni ostative come il sovraffollamento – siano conformi alla Legge, non essendo un diritto soggettivo del condannato, giuridicamente azionabile.

Per completezza di informazione evidenzio che, durante gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale voluti dal Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando e, più precisamente, durante i lavori del Tavolo 2 “Vita detentiva, responsabilizzazione, circuiti e sicurezza” coordinato dal Dott. Marcello Bortolato, Magistrato di Sorveglianza di Padova, è stata proposta la cella singola per gli ergastolani mediante la modifica dell’Art. 6 dell’Ordinamento Penitenziario, inserendo dopo il comma 3 il seguente : “3.bis. Al condannato alla pena dell’ergastolo è garantita nell’istituto di assegnazione la camera ad un posto a meno che egli richieda di coabitare con altri detenuti.”

Con l’occasione, intendo dissociarmi dalle critiche mosse alla Casa di Reclusione di Rossano, all’esito di una visita effettuata da una delegazione del Partito Radicale Transnazionale guidata da Giuseppe Candido il 15/08/2016 perché diverse criticità che sono state raccontate sulla stampa non rispondono al vero (ad esempio, assenza di un Mediatore Culturale per i detenuti stranieri, assenza di attività trattamentali, etc.).

Emilio Enzo Quintieri, Esponente di Radicali Italiani

Carceri: Cassazione “detenuti in condizioni disumane, lo sconto di pena è retroattivo”


Alban Koleci ha ottenuto un giorno di riduzione ogni 10 trascorsi nei 5 anni in celle sovraffollate. Camere penali: “Verdetto coerente”. Associazione nazionale magistrati: “Applicare retroattività o l’Italia è fuorilegge e paga penali”. Sarà retroattivo lo sconto di pena per i detenuti che vivono o hanno vissuto in condizioni disumane: 24 ore di cella in meno ogni dieci giorni trascorsi dietro le sbarre o, in alternativa per chi è già libero, 8 euro al giorno a titolo di “rimedio risarcitorio”.

È destinata a fare giurisprudenza la sentenza con la quale la Cassazione ha accolto il ricorso di Alban Koleci, albanese rinchiuso a Foggia, che aveva chiesto la riduzione della pena pochi giorni dopo essere stato spostato in una cella a norma. “Un verdetto coerente, è giusto risarcire un detenuto che ha vissuto in condizioni incivili, rispetto alle quali 8 euro sono anche una miseria” commenta a ilfattoquotidiano.it Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere Penali italiane. E i costi per lo Stato con migliaia di ricorsi pendenti davanti a magistrati di sorveglianza e giudici civili? “Sono 4mila i ricorsi presentati – spiega Marcello Bortolato, componente della giunta dell’Associazione nazionale magistrati – ma credo che all’Italia convenga attenersi a quanto stabilito dalla Corte di Strasburgo, per non dover poi pagare milioni e milioni di euro per le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo”.

Il caso di Foggia – Alban Koleci aveva chiesto al magistrato di sorveglianza la riduzione della pena da espiare, tenendo conto della permanenza per cinque anni (dal 14 agosto 2009 al 29 ottobre 2014) in una cella piccola “senza lo spazio di movimento necessario e in condizioni inumane”. Nel novembre 2014 il magistrato di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile la richiesta. La ragione? L’istanza non era “attuale” al momento della richiesta, perché pochi giorni prima di presentare ricorso Koleci era stato spostato in una cella a norma. Il detenuto è ricorso in Cassazione che, con la sentenza 46966, ha esteso gli effetti della sentenza Torreggiani.

La Cassazione estende gli effetti della sentenza Cedu – Si tratta della storica sentenza con la quale l’8 gennaio 2013 la Cedu ha condannato l’Italia a risarcire sette ricorrenti per il trattamento disumano e degradante subito in istituti penitenziari italiani. Si parla di somme comprese tra i 10.600 e i 23.500 euro (quest’ultima cifra per un periodo di detenzione di tre anni e tre mesi). I rimedi dello sconto di pena e del risarcimento di 8 euro sono stati introdotti con norme del 2013 e 2014 proprio dopo la sentenza della Cedu. Secondo la Suprema Corte, nulla autorizza a ritenere che le caratteristiche di “gravità e attualità” del pregiudizio “costituiscano presupposto essenziale per accedere al rimedio risarcitorio compensativo”. Così è stato accolto il ricorso di Koleci ed è stato annullato senza rinvio il decreto che gli negava lo sconto. Ora tutti gli atti tornano al magistrato di sorveglianza di Foggia perché faccia i calcoli dei giorni di carcere da sottrarre alla condanna.

La posizione dell’Anm – Ma quante sono le persone in carcere o gli ex detenuti che ora vedranno accolti i propri ricorsi? “In Italia oggi ci sono 52mila e 400 persone detenuti, le condizioni di sovraffollamento stanno migliorando, ma i casi pendenti sono circa 4mila” spiega Bortolato. Subito dopo le sentenze della Cedu in Italia la magistratura di sorveglianza si era spaccata proprio sull’interpretazione del termine “attualità”.

“Molti colleghi – continua – respingevano i ricorsi. La posizione dell’Anm è chiara: il rimedio risarcitorio deve essere applicato anche retroattivamente, anche perché altrimenti si rischia di incorrere nelle condanne della Corte Europea”. Un cambio di rotta dovuto evidentemente anche alle diverse condizioni delle carceri sotto il profilo del sovraffollamento: nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, il risarcimento è rappresentato dallo sconto di pena e non dagli 8 euro destinati a chi è già libero. “Che però – ribadisce Bortolato – sono sempre meno dei risarcimenti imposti dall’Europa”.

I numeri – Eppure solo poche settimane fa la Corte dei Conti ha diffuso la relazione che certifica un vero flop della politica carceraria degli ultimi governi. Basti pensare che i commissari straordinari che dal 2010 al 2014 hanno gestito il piano carceri hanno speso poco più di 52 milioni a fronte di una dotazione di 462 milioni e 769mila euro. E che gli interventi immobiliari finanziati dallo Stato, hanno realizzato solo 4.415 posti detentivi invece degli 11.934 previsti. Oltre 52mila persone oggi sono rinchiuse in 202 istituti di pena. Anche se i problemi non sono del tutto risolti il periodo buio dell’Italia per quanto riguarda il sovraffollamento delle carceri è stato quello del triennio 2010-2013.

“Solo in quegli anni 3mila detenuti si sono rivolti alla Corte europea – spiega Simona Filippi, difensore civico dell’associazione Antigone – che, a sua volta, dopo l’introduzione delle norme italiane, rimandava i casi ai nostri magistrati. E molti di loro hanno rigettato le istanze”. Dunque migliaia di casi partono da lontano. “Dal settembre 2009 e fino al gennaio 2013 (quando fu emessa la sentenza Torreggiani, nda) come associazione Antigone – dice Simona Filippi – abbiamo raccolto circa 2mila e 400 richieste di detenuti”. Chi è già libero, per avere il risarcimento, dovrà rivolgersi al tribunale civile. Solo a Roma, nella seconda sezione, attualmente ci sono circa 300 richieste.

Le reazioni – Secondo Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione Camere Penali italiane, questa sentenza ha applicato un principio corretto “sottolineando ancora una volta la necessità di seguire in primis l’articolo 27 della Costituzione, che parla della funzione educativa del carcere”. La corsa alle richieste risarcitorie potrebbe costare molto allo Stato. “Un calcolo impossibile da fare – spiega Migliucci – perché bisogna tenere conto dei giorni di pena per ciascun detenuto, ma anche del fatto che in molti non conoscono i propri diritti e non arrivano al ricorso”. È prudente Felice Casson, ex magistrato e vicepresidente della Commissione Giustizia di Palazzo Madama. “Condivido in casi come questo la riduzione della pena, perché garantisce un diritto fondamentale della persona – dice a ilfattoquotidiano.it – mentre valuterei caso per caso la questione del risarcimento economico per chi non è più in condizioni di disagio”.

Luisiana Gaita

Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2015

Bortolato (Giudice di Sorveglianza) : “Si alla modifica dell’Art. 4 bis ed all’abolizione dell’ergastolo ostativo”


Marcello Bortolato, MagistratoMentre il Senatore del Movimento Cinque Stelle Mario Michele Giarrusso, critica pesantemente l’On. Enza Bruno Bossio, Deputato Pd e membro della Commissione Bicamerale Antimafia, per la proposta di legge AC 3091 presentata lo scorso 4 maggio 2015 alla Camera dei Deputati, sottoscritta da altri Parlamentari del Partito Socialista Italiano, di Sinistra Ecologia e Libertà, Scelta Civica per l’Italia e Alleanza Popolare per l’Italia, accusandola di “voler togliere per legge l’ergastolo ai mafiosi stragisti dando il colpo mortale e definitivo alla lotta alla mafia”, il Magistrato di Sorveglianza di Padova Marcello Bortolato, membro della Giunta Esecutiva Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) e del Comitato Esecutivo del Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza (Conams), sostiene la necessità che l’attuazione della delega di cui al Disegno di Legge C. 2798 del Governo, attualmente all’esame della Commissione Giustizia di Montecitorio, “dovrebbe rispondere all’esigenza di una completa revisione del sistema del “doppio binario” introdotto con il Decreto Legge n. 306/1992, con riferimento all’Art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, nell’ottica di una riaffermazione del principio di individualizzazione del trattamento la cui piena applicazione deve rimanere affidata, nel merito, alla Magistratura di Sorveglianza.”

Il Giudice di Sorveglianza padovano ha le idee molto chiare (pur se espresse a titolo personale), idee che convergono, esattamente, con la coraggiosa iniziativa legislativa assunta dalla Deputata democratica calabrese. Bortolato, infatti, afferma che “Pur senza l’abolizione del tutto dell’Art. 4 bis o.p. (nodo centrale di tutto il sistema delle preclusioni) la delega dovrebbe comportarne una rivisitazione secondo linee razionali che ne recuperino la coerenza e la compatibilità con il diritto penitenziario della rieducazione, ispirate a criteri di ragionevolezza ed uguaglianza (che ad esempio escluda dal catalogo dei reati alcune ipotesi, via via introdotte nel corso degli anni, che non hanno più alcuna ragione d’esservi).”

Inoltre, contrariamente alle “cazzate” del parlamentare pentastellato siciliano, secondo il Magistrato Bortolato, che conosce molto bene la questione, “L’eliminazione di automatismi e preclusioni impone altresì una sostanziale abrogazione dell’Art. 58 quater o.p. (divieto di concessione in caso di revoca di benefici precedentemente concessi o di commissione di alcuni reati), così come la definitiva abolizione della preclusione alla detenzione domiciliare per i condannati per i reati di cui all’Art. 4 bis o.p. (Art. 47 ter c. 1 bis o.p.), che già possono usufruire del ben più ampio beneficio dell’affidamento in prova.”

Quanto, invece, allo specifico caso della pena dell’ergastolo, il componente della Giunta Esecutiva Centrale dell’Anm e del Comitato Esecutivo del Conams, aggiunge che “In materia di ergastolo la delega dovrebbe essere esercitata con l’eliminazione delle ipotesi di c.d. ergastolo “ostativo”, anche attraverso l’affrancamento della liberazione condizionale dalle preclusioni penitenziarie nonché l’espunzione (anche per i condannati a pene temporanee) dall’Ordinamento Penitenziario della “collaborazione” quale requisito per l’accesso ai benefici (Art. 58 ter o.p.) imponendo viceversa quale unica condizione di ammissibilità, oltre al fattore temporale, la prova positiva della dissociazione.”

Mario Giarrusso M5SLa posizione del Sen. Giarrusso, naturalmente, è diametralmente opposta poiché sostiene che “consentire l’accesso ai benefici degli sconti di pena era sino ad ora riservato ai mafiosi che collaboravano manifestando così il proprio ravvedimento. Con questa proposta di legge invece anche ai mafiosi irriducibili potranno accedere ai benefici degli sconti di pena e salvarsi dall’ergastolo. Sarebbe la fine della lotta alla mafia e la libertà per migliaia di pericolosi criminali. Noi non lo possiamo permettere”.

Quanto dichiarato dal Senatore Giarrusso che, tra l’altro è anche Avvocato, non corrisponde al vero dice Emilio Quintieri, esponente dei Radicali Italiani il quale collabora con l’On. Enza Bruno Bossio proprio per le questioni penitenziarie. Nessuno ha proposto “sconti di pena” per i “mafiosi irriducibili” che non si ravvedono così come nessuno ha proposto di liberare “migliaia di pericolosi criminali”.

Si tratta, invece, di una riforma “costituzionalmente orientata” dei presupposti per l’accesso ai benefici penitenziari ed alle altre misure alternative alla detenzione che prescinda in toto dal titolo di reato per il quale è intervenuta la condanna e dalla pretesa di comportamenti di collaborazione, ritenendo sufficientemente idonea la verifica – da parte del Gruppo di Osservazione e Trattamento dell’Istituto in cui il condannato si trova detenuto e della Magistratura di Sorveglianza competente – del percorso risocializzante compiuto dal condannato e la mancanza di elementi che facciano ritenere comprovati contatti con la criminalità organizzata. Il divieto di non concedere l’ammissione ai benefici ed alle misure extramurarie per i condannati per i reati di cui all’Art. 4 bis, solo per il fatto della loro mancata collaborazione con la Giustizia, appare di dubbia compatibilità con una concezione rieducativa della esecuzione penale, specie alla luce della copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che afferma che è in contrasto con la finalità rieducativa della pena ogni preclusione di natura assoluta all’accesso ai benefici penitenziari, che non lasci al Giudice di Sorveglianza la possibilità di verificare se le caratteristiche della condotta e la personalità del condannato giustifichino la progressione del trattamento rieducativo finalizzato al reinserimento sociale e, quindi, al suo ritorno in libertà al pari degli altri detenuti che hanno “collaborato” o la cui “collaborazione” sia stata ritenuta inesigibile o, comunque, irrilevante per essere stati integralmente accertati i fatti in giudizio.

On. Bruno Bossio PdQuesta discriminazione, fondata sul titolo di reato e sulla pretesa di atteggiamenti collaborativi – prosegue l’esponente del Partito Radicale – appare fortemente in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione perché, se i soggetti richiedenti l’ammissione ai benefici ed alle misure alternative, sono ritenuti “meritevoli” perché non vi sono elementi che dimostrano in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e perché comunque hanno fatto un certo percorso trattamentale durante l’espiazione della pena, non debbono trovare alcun altro “sbarramento preclusivo” all’ordinario regime di trattamento carcerario. L’On. Enza Bruno Bossio, proprio per tale motivo – conclude Emilio Quintieri – oltre alla nota proposta di legge, in questi giorni, depositerà in Commissione Giustizia alla Camera, delle proposte emendative al Disegno di Legge del Governo che ripropongono oltre alla revisione delle norme per l’accesso ai benefici ed alle misure alternative alla detenzione anche per i detenuti non collaboranti anche altre riforme della Legge Penitenziaria.

Decreto detenuti; Governo pronto a interventi correttivi sulla custodia cautelare


Carceri1Escludere dalla inapplicabilità della custodia cautelare in carcere tutti quei reati per i quali non è prevista la sospensione dell’esecuzione della pena. Vanno in questa direzione i correttivi che il governo intende apportare alla norma, prevista dal decreto legge sulle misure compensative per i detenuti, che esclude la custodia cautelare in carcere se la pena prevista è inferiore a 3 anni.

Lo ha spiegato il viceministro alla Giustizia, Enrico Costa, presente in commissione alla Camera alle audizioni dei rappresentanti dell’Associazione nazionale magistrati e dell’Unione camere penali. La correzione escluderebbe dalla norma reati di mafia, stalking, estorsione e rapina aggravata, furti in abitazione, violenza sessuale, furti in appartamento.

Perché ci sia “coerenza sistematica”, ha spiegato Costa, la norma “deve agganciarsi al meccanismo della sospensione dell’esecuzione della pena”. Dunque “la misura cautelare in carcere, quale che sia la prognosi del giudice sulla pena, può essere applicata in tutti i procedimenti per reati che già prevedono l’esclusione della sospensione della pena”. E deve anche essere previsto il “coordinamento con le norme sugli arresti domiciliari”. Dunque il governo è disponibile a intervenire sul punto, non è chiaro ancora se questo avverrà con un emendamento specifico o con il parere favorevole a un eventuale emendamento presentato in Parlamento.

Anm: criticità in norma custodia cautelare ma bene correttivi governo

La norma, contenuta nel decreto sulle misure compensative ai detenuti, che prevede che non si possa applicare la custodia cautelare in carcere nei casi in cui il giudice preveda una pena fino a tre anni, presentano “molti aspetti critici”.

È la posizione dell’Associazione nazionale magistrati, ribadita dal presidente Rodolfo Sabelli, ascoltato in commissione Giustizia alla Camera insieme con il componente della Giunta, Marcello Bortolato. Ma l’Anm accoglie con favore i correttivi annunciati dal governo, che escludono la mancata applicabilità della custodia cautelare ai reati per i quali non è prevista la sospensione dell’esecuzione della pena.

Il decreto, così com’è formulato, ha spiegato Sabelli, “non prevede l’esclusione dall’applicazione della norma per i reati per i quali è esclusa la sospensione della pena”. E non va bene “l’automatismo sulla base delle previsioni della pena e non sulla pena edittale”. Un altro aspetto contestato dall’Anm riguarda “il mancato coordinamento con la disciplina degli arresti domiciliari”.

Senza correttivi, dunque, il mancato ricorso alla custodia cautelare, ha ricordato Sabelli, potrebbe riguardare anche “reati di media gravità” e “casi di elevata pericolosità”, come ad esempio lo stalking “per il quale la pena è quasi sempre contenuta entro 3 anni”. Ma con gli interventi annunciati dal governo “alcuni di questi problemi sarebbero eliminati”.

Ucpi: non abbandonare filosofia norma, il carcere inutile va eliminato

La norma sulla custodia cautelare contenuta nel decreto sulle misure compensative ai detenuti, che prevede la non applicabilità nei casi in cui è prevista una pena fino a 3 anni, “non deve essere abbandonata quanto alla filosofia che la ispira, e cioè che il carcere inutile va eliminato”.

Lo ha sottolineato il presidente dell’Unione Camere penali, Valerio Spigarelli, ascoltato in Commissione Giustizia alla Camera. La custodia cautelare “è un incidente del processo – ha denunciato Spigarelli – e arrivare liberi a processo non deve essere considerata una bestemmia”, mentre “si vuole la custodia cautelare come pena anticipata, anche se inutile”. Il Parlamento, è l’invito del leader dei penalisti, “dovrebbe andare avanti con la ricostituzionalizzazione delle misure cautelari”.

Adnkronos, 9 luglio 2014