Carceri, illegittimo il termine di 24 ore per impugnare il rigetto del permesso premio. Reclamo consentito entro 15 giorni


Un termine di sole 24 ore per presentare reclamo contro il provvedimento sui permessi premio lede il diritto di difesa del detenuto e rappresenta un indebito ostacolo alla funzione rieducativa della pena, alla quale i permessi premio sono funzionali.

Lo ha affermato la Corte Costituzionale con la sentenza n. 113/2020, depositata oggi (Presidente Marta Cartabia, Relatore Francesco Viganò), accogliendo la questione di legittimità costituzionale dell’Art. 30 bis comma 3, in relazione al successivo Art. 30 ter comma 7 dell’Ordinamento Penitenziario, per violazione degli Artt. 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, sollevata dalla Corte di Cassazione, Prima Sezione Penale, con Ordinanza del 13 novembre 2019, nella parte in cui prevedeva che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del Magistrato di Sorveglianza in tema di permesso premio era pari a 24 ore, analogamente a quanto previsto per il reclamo contro i provvedimenti sui permessi di necessità previsti dall’Art. 30 dell’Ordinamento Penitenziario, legati a situazioni di imminente pericolo di vita di familiari o altri gravi eventi eccezionali, sebbene fossero diversi i presupposti e le finalità.

L’eccessiva brevità del termine era già stata portata all’esame della Consulta che, con la sentenza n. 235 del 1996, aveva rilevato l’irragionevolezza dell’identico termine per il reclamo contro due diversi tipi di permesso e tuttavia aveva ritenuto di fermarsi all’inammissibilità delle questioni prospettate, non riuscendo a rintracciare nell’ordinamento una soluzione costituzionalmente obbligata che potesse porre direttamente rimedio alla, pur riscontrata, eccessiva brevità del termine in esame.

In quell’occasione il Giudice delle Leggi aveva però invitato il legislatore a «provvedere, quanto più rapidamente, alla fissazione di un nuovo termine che contemperi la tutela del diritto di difesa con le esigenze di speditezza della procedura». Esaminando nuovamente la questione a distanza di ventiquattro anni da quel monito, rimasto inascoltato, la Corte ha ribadito la contrarietà alla Costituzione di un termine così breve, che rende assai difficile al detenuto far valere efficacemente le proprie ragioni, anche per l’oggettiva difficoltà di ottenere in così poco tempo l’assistenza tecnica di un difensore; e ha individuato nella disciplina generale del reclamo contro le decisioni del Magistrato di Sorveglianza, introdotta dal legislatore nel 2013, un preciso punto di riferimento per eliminare il vulnus riscontrato. Questa disciplina, costituita dall’Art. 35 bis comma 4 dell’Ordinamento Penitenziario, prevede oggi un termine di 15 giorni per il reclamo al Tribunale di Sorveglianza, che la Corte Costituzionale ha pertanto esteso anche al reclamo contro i provvedimenti concernenti i permessi premio proposti da parte del detenuto o del Pubblico Ministero. Resta ferma, ha precisato la Corte, la possibilità per il legislatore di individuare – nel rispetto dei principi costituzionali sopra richiamati – un altro termine, se ritenuto più congruo, per lo specifico reclamo in esame.

La Corte Costituzionale ha quindi dichiarato costituzionalmente illegittimo l’Art. 30 ter comma 7 dell’Ordinamento Penitenziario nella parte in cui prevede, mediante rinvio al precedente Art. 30 bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio, è soggetto a reclamo al Tribunale di Sorveglianza entro 24 ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di 15 giorni.

Corte Costituzionale – Sentenza n. 113 del 2020 (clicca per leggere)

Corte Costituzionale: il Magistrato di Sorveglianza può concedere la semilibertà in via provvisoria per pene fino a 4 anni


Il Magistrato di Sorveglianza può applicare, in via provvisoria, la misura della semilibertà al condannato a una pena detentiva non superiore a quattro anni, senza dover aspettare la decisione definitiva del Tribunale di Sorveglianza. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale presieduta da Marta Cartabia nella sentenza n. 74/2020 (redattore Francesco Viganò), depositata oggi, con la quale è stata ritenuta fondata una questione di legittimità costituzionale dell’Art. 50 comma 6 dell’Ordinamento Penitenziario «nella parte in cui prevede che il Magistrato di sorveglianza può applicare in via provvisoria la semilibertà solo in caso di pena detentiva non superiore a sei mesi» per violazione degli Artt. 3 comma 1 e 27 comma 3 della Costituzione, sollevata dal Magistrato di Sorveglianza di Avellino con Ordinanza del 12 marzo 2019.

La Corte ha osservato che la vigente legge sull’Ordinamento Penitenziario già consente al Magistrato di Sorveglianza di concedere in via provvisoria la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale al condannato che debba espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni. È allora irragionevole non consentirgli anche di anticipare la concessione della meno favorevole misura alternativa della semilibertà, quando il percorso rieducativo compiuto dal condannato non giustifichi ancora la sua completa uscita dal carcere, ma già consenta di ammetterlo a trascorrere parte della giornata fuori dall’Istituto Penitenziario. La necessità di attendere la decisione del Tribunale di Sorveglianza potrebbe infatti arrecare un grave pregiudizio al percorso rieducativo del condannato, soprattutto quando la sua istanza sia motivata da un’offerta di lavoro all’esterno del carcere, che normalmente ha una durata limitata nel tempo.

Per queste ragioni, la Corte Costituzionale, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’Art. 50 comma 6 dell’Ordinamento Penitenziario, nella parte in cui non consente al Magistrato di Sorveglianza di applicare in via provvisoria la semilibertà, ai sensi dell’Art. 47 comma 4 dell’Ordinamento Penitenziario, in quanto compatibile, anche nell’ipotesi prevista dal terzo periodo del comma 2 dello stesso Art. 50 (e dunque quando la pena detentiva da espiare sia superiore a 6 mesi, ma non a 4 anni).

Corte Costituzionale, Sentenza n. 74 del 2020 (clicca per leggere)

Coronavirus, Di Rosa (TdS Milano): Ministro Bonafede bisogna mandare i detenuti ai domiciliari. Lo Stato rispetti le sue Leggi


Giovanna Di Rosa Presidente TdS di MilanoLa Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa: “Non viene garantito il distanziamento sociale. Ci deve essere un meccanismo automatico per mandare a casa i detenuti”.

Quando lo Stato prende in carico una persona per fargli espiare una pena deve fare in modo che ciò avvenga in condizioni di legalità e di tutela delle esigenze di salute. Se non è possibile, cosa l’ha messa a fare in carcere? Che messaggio viene dato quando lo Stato per primo non rispetta le regole?”, tuona Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano.

La Presidente Di Rosa sta fronteggiando l’emergenza Covid-19 da un’aula d’udienza ubicata al piano terra del Palazzo di giustizia del capoluogo lombardo. Gli uffici della Sorveglianza, posti all’ultimo piano, sono andati distrutti la scorsa settimana a seguito di un violento incendio causato da un cortocircuito.

Presidente, com’è la situazione adesso?

Di disagio estremo. Siamo accampati. L’Ufficio di Sorveglianza di Milano aveva diverse stanze, adesso è concentrato in un unico ambiente al cui interno abbiamo allestito, in maniera estremamente precaria, cinque postazioni. Il problema è che non abbiamo i fascicoli: dobbiamo andarli a recuperare di volta in volta nel piano incendiato dove però non c’è più l’illuminazione ed è tutto avvolto dalla cenere.

E nelle carceri milanesi

La difficoltà principale, per mancanza di spazio, è quella di riuscire a garantire il “distanziamento sociale” per scongiurare il contagio. Ma non essendoci lo spazio per quelli in regime normale, che sono di più di quelli che dovrebbero essere.

Come ci si organizza?

A San Vittore, ad esempio, per creare le zone d’isolamento stanno pensando di chiudere il centro clinico. E i malati, allora, dove si mettono?

Alcuni giorni fa ha inviato, con la collega della Sorveglianza di Brescia Monica Lazzaroni, una nota al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con alcune proposte per fronteggiare l’emergenza Covid. Può illustrarcene qualcuna?

Premesso che il sistema è responsabile del sovraffollamento, in questo momento di grandissima emergenza ci deve essere un meccanismo automatico per la concessione dei domiciliari.

Senza passare dal Magistrato di sorveglianza?

Esatto: l’applicazione della detenzione domiciliare, se vogliamo alleggerire le strutture, deve essere automatica. Ad esempio, per chi ha un residuo di pena sotto ai due anni e la disponibilità di un domicilio. Ovviamente non deve aver partecipato alle ultime rivolte. Le attuali procedure per la concessione delle misure alternative al carcere sono fatte per tempi ordinari e non sono compatibili con quelli della pandemia. Bisogna fare l’istruttoria, attendere il visto del pm, tutta una seria di passaggi che rendono lungo l’iter. Il diretto vivente deve adattare le sue norme alla situazione sanitaria.

Il ministro ha risposto?

A oggi (ieri per chi legge, ndr), no.

Anche il personale delle Sorveglianza è stato colpito dal virus?

I Tribunali di sorveglianza sono stati decimati, ci sono stati contagi, il personale è a casa autodecimato. Già per carenze di personale erano disorganizzati, ora hanno ricevuto il colpo di grazia.

La strada maestra è un provvedimento legislativo “chiaro”?

Sì. Penso anche a quello per non mandare in esecuzione ordini di carcerazione per sentenze che hanno avuto un lunghissimo iter processuale e arrivano a tanti anni dalla data di commissione del fatto. Non mi pare il caso adesso di procedere con nuovi accessi.

E per chi è in custodia cautelare?

Ci siamo già coordinati con il Gip e con la Corte d’appello affinché sia incentivata il più possibile la detenzione domiciliare.

Oltre alla mancanza di spazi, nelle carceri mancano pure le mascherine e i prodotti igienizzanti…

Ultimamente a Milano c’è stata una loro fornitura da parte di alcuni privati. Ma affidare allo spontaneismo la gestione delle carceri non può diventare un sistema: la solidarietà è un valore costituzionale che lo Stato deve rispettare.

Pensa che non ci sia piena consapevolezza dei rischi di un contagio di massa nelle carceri?

C’è esitazione ed incertezza. Non compete a me fare valutazioni politiche, penso però che qualsiasi decisione debba essere accompagnata dalla preventiva verifica dei luoghi. Io conosco benissimo le carceri e so come si vive al loro interno. Invito tutti a fare altrettanto, andando a vedere con i propri occhi e non da dietro un pc. Vuole aggiungere qualcosa? Voglio solo dire che, nonostante l’incendio, non ci siamo fermati neanche un giorno. L’impegno è massimo e saremo all’altezza della responsabilità che abbiamo.

Paolo Comi

Il Riformista, 7 aprile 2020

Detenuto 32enne con fine pena a novembre si impicca nel Carcere di Aversa. E’ il sedicesimo del 2020


agente penitenziario cancelloAncora un suicidio negli Istituti Penitenziari d’Italia. Un detenuto romeno, Emil V., 32 anni, si è tolto la vita impiccandosi con delle lenzuola all’alba nella sua cella che condivideva con altri quattro compagni. L’uomo era ristretto presso la Casa di Reclusione di Aversa “Filippo Saporito”, in Provincia di Caserta, per espiare una condanna definitiva per rapina che avrebbe terminato a novembre, tra pochi mesi. Purtroppo, nonostante i soccorsi immediati da parte del personale di Polizia Penitenziaria addetto alla sorveglianza, per il 32enne non c’è stato niente da fare.

In questo tempo così disperato e così intenso si continua a morire di carcere e in carcere. Emil era detenuto per rapina e sarebbe uscito a novembre. Non faceva colloqui, non aveva mai avuto sanzioni disciplinari. Gli altri suoi quattro compagni di cella non si sono accorti del suo gesto disperato. Sebbene il fenomeno dei suicidi in carcere sia in diminuzione, e aumentano i casi di autolesionismo, il suicidio di una persona privata della libertà, in particolare, costituisce, da un lato, il fallimento più evidente del ruolo punitivo dello Stato. E la politica e l’opinione pubblica vivono l’indifferenza. Lo dice Samuele Ciambriello, Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Campania.

La questione penale è seria e per essere concretamente valutata necessita di verità, trasparenza e di una riconsiderazione complessiva, e l’autolesionismo e in casi estremi il suicidio, rappresentano l’ultima residuale forma di reclamo, di richiesta di attenzioni da parte di un universo di disperati che, nella gran parte dei casi, non possiede molte altre alternative per far sentire la propria presenza.

Il carcere di Aversa – aggiunge il Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti – in questi giorni aveva attirato la mia attenzione, positivamente, per i provvedimenti fatti dal Magistrato di Sorveglianza per la detenzione domiciliare in seguito al Decreto 123, erano usciti 8 detenuti, altri 12 aspettano i fantomatici braccialetti e nove relazioni sanitarie sono in attesa delle decisioni del Magistrato. Il carcere è una lente particolare attraverso cui guardare la nostra società e, per tale ragione, chiedersi anche che fare dopo le restrizioni dei contatti con l’esterno causa corona virus non riguarda soltanto la vita dei detenuti, ma quella degli Agenti di Polizia Penitenziaria, dell’area educativa, delle direzioni delle carceri e degli operatori socio sanitari, conclude Ciambriello.

Con il decesso di Emil V. salgono a 48 i detenuti morti negli Istituti Penitenziari d’Italia dall’inizio dell’anno di cui 16 per suicidio.

Bortolato (Magistrato): l’opinione pubblica crede che il “fine pena mai” non esista. E’ vero il contrario !


Nell’opinione pubblica, anche qualificata, continua a essere diffusa l’idea che l’ergastolo sia una pena riducibile e che il “fine pena mai” non esista.

È vero il contrario. Mentre è in calo il numero dei reati, le condanne all’ergastolo aumentano e, tra esse, quelle all’ergastolo effettivamente senza right to hope, senza via di uscita. Ostativo, viene comunemente definito. Un Magistrato di Sorveglianza ci spiega bene cosa è e perché non dovrebbe avere cittadinanza nel nostro ordinamento, tanto più dopo la sentenza della Corte di Strasburgo Viola c. Italia. Lo pubblichiamo per sfatare luoghi comuni e false giustificazioni, in attesa che il 22 ottobre si pronunci la Corte costituzionale.

1. L’ergastolo ieri e oggi – La prima volta in cui mi imbattei nell’ergastolo fu quando venni chiamato, allora diciottenne, alle urne per il referendum abrogativo del 1981: non ebbi alcun dubbio, fui tra quei 7.114.719 favorevoli alla sua abolizione (cioè il 22,6% dei votanti), contro quei 24.330.954 (il 77,4%), che si erano espressi in senso contrario all’abolizione. La proposta venne bocciata, eppure nei contestuali referendum sull’abolizione delle norme sulla concessione del porto d’armi e sull’interruzione volontaria della gravidanza la risposta negativa, cioè il no all’abolizione, aveva raggiunto percentuali ben maggiori, che si attestavano tra l’85 e l’89%: ciò significa che circa il 10% di quelle stesse persone che si erano espresse in senso contrario all’abrogazione della legge Cossiga, concepita per affrontare l’emergenza terrorismo in Italia degli anni 70, si era espresso nello stesso giorno in senso favorevole all’abolizione dell’ergastolo.

La seconda volta fu quando – molto più tardi – assunsi le funzioni di Magistrato di Sorveglianza: a quel punto il problema non fu più l’ergastolo ma il suo ulteriore aggravamento, quella sofferenza aggiuntiva, quell’inasprimento sanzionatorio – perché di questo si tratta – che va sotto il nome di “ergastolo ostativo”: la pena senza speranza, un passato che schiaccia il presente e toglie ogni speranza al futuro. L’ergastolano “ostativo” ha la quotidiana sensazione di avere ben poche speranze di accorciare quel fine pena, la sensazione di morire giorno per giorno tanto da voler a volte desiderare che la condanna sia tramutata in pena di morte.

Il primo argomento da sfatare è che l’ergastolo sia una condanna simbolica che, si dice, di fatto non sconta più nessuno. Alcuni dati: 1700 circa oggi gli ergastolani di cui oltre 1200 “ostativi”: dal 2004 al 2014 vi è stato un incremento degli ergastoli del 38%, eppure da un anno all’altro diminuiscono gli omicidi (dal 2017 al 2018 il 16,3% in meno e quelli di criminalità organizzata da 48 a 30 dal 2016 al 2017; gli omicidi volontari in Italia nel 2018 sono stati 319 dei quali 134 in ambito familiare/affettivo e dunque al di fuori di un contesto di criminalità organizzata). L’incidenza percentuale degli ergastolani sul totale dei condannati definitivi tra il 1998 e il 2008 è passata dal 2,5% al 5,29%: una pena dunque tutt’altro che desueta.

2. Ergastolo e compatibilità con la Costituzione repubblicana – Il più grave problema che si pone per l’ergastolo è quello della sua compatibilità con il principio della finalizzazione rieducativa della pena scolpito nell’art. 27 Cost.: se infatti per rieducazione non si può non intendere che reintegrazione, seppur tendenziale, dell’individuo nel contesto sociale, una misura come l’ergastolo, destinata ad escluderlo definitivamente, non può che risultare incompatibile con tale principio.

La Corte Costituzionale, riaffermando invece la costituzionalità di tale sanzione, ha dovuto fare riferimento al fatto che l’ergastolo non è effettivamente tale – e cioè una pena perpetua – in quanto ammette il rientro nella società attraverso la liberazione condizionale (beneficio previsto non dall’ordinamento penitenziario ma dal codice penale all’art. 176 cp), incorrendo così in un evidente paradosso: quello di riaffermare la costituzionalità di un istituto in quanto lo stesso non sia effettivamente tale, quando avrebbe invece dovuto pronunciarsi sulla fondatezza e compatibilità dei principi, non sulla loro occasionale (e del tutto aleatoria) disapplicazione. Del resto si consideri che in termini percentuali gli accoglimenti dell’istanza di liberazione condizionale (per tutte le pene, anche temporanee) si aggirano intorno al 3% circa delle istanze, spiegabile proprio perché la liberazione condizionale è un beneficio che dal 1992 è soggetto alle stesse condizioni di ammissibilità dettate nell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario per le misure alternative, prima fra tutte il requisito della “collaborazione” la cui mancanza di fatto rende ostativa la pena perpetua.

Con la sentenza n. 264 del 22 novembre 1974 l’ergastolo viene dichiarato conforme alla Costituzione con il rilievo che la funzione rieducativa non è l’unica funzione cui la pena deve assolvere, affiancandosi a tale funzione anche quella dissuasiva, preventiva e di difesa sociale (è la teoria “polifunzionale” della pena).

Si è così arrivati in Italia all’ergastolo moderno, pena mantenuta nella sua perpetuità ma temperata dalla concessione di molti benefici penitenziari [1]. Si è assistito ad un’opera di progressiva spoliazione dell’istituto che non si è voluto fin qui eliminare nel tentativo di renderlo compatibile con la finalità rieducativa della pena: ma il limite dell’ergastolo ostativo (che costituisce la stragrande maggioranza degli ergastoli) nondimeno – da 27 anni – è ancora lì.

Oggi la questione, dopo la condanna in sede europea (CEDU: sentenza Viola c. Italia del 13 giugno 2019), è tornata nuovamente all’esame della Corte Costituzionale (sulle due questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis sollevate dalla prima Sezione della Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia nei casi, rispettivamente, Cannizzaro e Pavone, la discussione è fissata il prossimo 22 ottobre) proprio perché il requisito della collaborazione rende di fatto inapplicabili tutti i benefici penitenziari. Non si è mai dunque spenta in Italia l’inquietudine, nonostante le passate stagioni terroristiche, la ferocia della criminalità organizzata e l’efferatezza di alcuni delitti, circa la compatibilità dell’ergastolo con le acquisizioni di civiltà maturate e, in particolare, sul nesso problematico che intercorre fra pena perpetua e diritti fondamentali, la prima irrimediabilmente intrecciata ad un retaggio millenario di vendetta sociale, del cui classico emblema (la pena di morte) essa ha preso ambiguamente il posto nei nostri tempi, i secondi proiettati invece verso il futuro e di fronte al quale l’alternativa ormai è tra la coscienza lacerata (i casi italiano e tedesco in cui l’istituto è mantenuto ma progressivamente sgretolato) [2] ovvero l’abolizione, secondo la strada imboccata da Spagna e Portogallo che, usciti da sanguinose dittature, hanno radicalmente rinnovato i propri ordinamenti cancellando nel sistema delle pene ogni residuo dei lasciti ancestrali. Il caso italiano, in particolare, tradisce ancora una volta il disagio a contemperare la pena massima con l’impianto della Carta: l’ergastolo si giustifica tanto quanto risulti abolito nei fatti, circostanza quest’ultima che, almeno per i 1255 ergastolani “ostativi”, non si verifica. Questa situazione non può durare a lungo risolvendosi in un’ipocrisia prolungata e per di più annidata in un istituto fortemente simbolico: non dimentichiamo che l’ergastolo infatti nasce (da Beccaria) come alternativa alla pena capitale, confermata dal fatto che esso è tuttora sconosciuto negli Stati in cui per i delitti più gravi è ancora in vigore la pena di morte.

3. L’ergastolo “ostativo” – L’ergastolo ostativo, l’ergastolo degli “uomini ombra”, dei “senza speranza”, crea disagio, prima di tutto nel Magistrato di Sorveglianza. Perché?

Perché di fronte all’ostatività (che discende dalla mancata collaborazione) appare del tutto irrilevante il percorso rieducativo del condannato: il giudice è impotente, nonostante l’approccio delle teorie della cd “nuova prevenzione” tenda a riproporre ampio spazio al riconoscimento della concretezza e della specificità delle situazioni in cui un reato avviene, delle caratteristiche e delle motivazioni dell’autore, della sua evoluzione personale; è sempre necessario avere il coraggio di guardare a fondo nella realtà dei fatti e delle persone coinvolte anche nei crimini più efferati e devastanti, evitando di rimuovere l’orrore con la durezza della sanzione che allontana e definitivamente seppellisce. Il giudice difronte all’ergastolo ostativo è espropriato del potere di decidere se accordare un qualche riconoscimento ai progressi del reo, progressi che possono non avere nulla a che vedere con la sua volontà di collaborare con la giustizia.

Vanno ricordate poi le enormi difficoltà dell’accertamento della collaborazione cd “impossibile” o “inesigibile” (alternativa alla collaborazione effettiva, essa consiste nell’impossibilità, riconosciuta dalla legge, di offrire una reale collaborazione poiché su quella vicenda penale ormai è stata fatta piena luce): si tratta di un accertamento rimesso a fattori esterni su cui il condannato non ha alcun dominio e che dipende perlopiù dai pareri delle Procure che hanno svolto le indagini.

Il Magistrato di Sorveglianza difronte all’ergastolo ostativo è inoltre consapevole dell”anima nera’ della preclusione dell’art. 4-bis: quel surplus di pena, quell’inasprimento sanzionatorio che rende la pena perpetua una pena senza speranza ed ha le mani legate perché non può nemmeno valutare le ragioni del silenzio di chi non vuole collaborare con la giustizia. Sia chiaro, la collaborazione è strumento strategico della lotta alla criminalità organizzata, insostituibile mezzo di repressione e prevenzione dei reati, e dove è “effettiva” consente ai condannati l’accesso anticipato alle misure alternative (a differenza di quella cd “impossibile”) ma le ragioni di una mancata collaborazione possono essere anche nobili o comunque comprensibili (la scelta morale di non voler barattare la propria libertà con quella degli altri, la paura di esporre i propri familiari a ritorsioni e vendette) eppure non sono valutabili dalla Magistratura di Sorveglianza che deve limitarsi a prenderne atto anche difronte alla dimostrazione, del tutto disgiunta dall’assenza di collaborazione, di una cessata pericolosità, magari dopo moltissimi anni dal reato.

Il problema è allora anche quello della libertà di autodeterminazione, che ha a che fare con la “dignità”, divenuto parametro costituzionale tout court: la preclusione derivante dalla mancata collaborazione non è solo irrazionale, è “violenta” perché coarta la libertà morale e rende l’uomo da fine a mezzo, il che significa usare gli strumenti della rieducazione per scopi che sono altri (assicurare alla giustizia ulteriori colpevoli) cioè negare in radice la funzione del Magistrato di Sorveglianza.

Dobbiamo inoltre chiederci se la mancata collaborazione sia effettivamente sempre e comunque sintomo di dissociazione dalle organizzazioni criminali di appartenenza. Non sono sconosciute da un lato collaborazioni del tutto strumentali ed anche “false” e, dall’altro, l’esistenza di più sicuri indici di rescissione dei legami. Si pensi che il “ravvedimento” (pieno riconoscimento della propria responsabilità ed assunzione di impegni riparatori, traduzione laica del concetto di “emenda”) è sufficiente per ottenere la liberazione condizionale (l’unico beneficio che può cancellare l’ergastolo) ma non basta per poter accedere ai benefici anche minori a chi non abbia collaborato pur ammettendo le proprie responsabilità. Con il ravvedimento il reo dimostra di aver raggiunto un grado di rieducazione tale da meritare il massimo beneficio ma se non fa i nomi dei correi non può accedervi: c’è qualcosa di fortemente irrazionale prima che ingiusto in questo meccanismo.

4. La quaestio di costituzionalità – Ci sono degli evidenti limiti nel petitum delle due questioni di costituzionalità sollevate e che verranno discusse il prossimo 22 ottobre: esse colpiscono infatti l’ostatività del solo permesso-premio, il primo beneficio che l’ergastolano può ottenere. Se esso costituisce lo “snodo” cruciale del trattamento, tuttavia la progressione trattamentale è l'”in sé” della rieducazione. Tutti i benefici – nell’ottica della preclusione – sono uguali, non si possono distinguere: se cadrà la preclusione tutti i benefici e le misure alternative saranno, senza distinzioni, ammissibili. È dunque necessario colpire la preclusione in sé, la sua irrazionalità intrinseca.

Spesso facendo il Giudice mi chiedo: ma cattivi si diventa? anch’io ne sarei capace? Vi sono studi criminologici che hanno passato in rassegna il genocidio in Ruanda, i suicidi e gli assassini di massa dei membri di diverse sette religiose, gli orrori dei campi di concentramento nazisti, la tortura praticata dalla polizia militare e civile e la violenza sessuale perpetrata su parrocchiani da sacerdoti cattolici. Si ricorda spesso il cd. “esperimento carcerario di Stanford”: nel 1971 sono stati reclutati con un annuncio su un giornale alcuni studenti “sani, intelligenti, di classe media, psicologicamente normali e senza alcun precedente violento”. L’esperimento doveva durare due settimane e coinvolgere i soggetti, suddivisi casualmente tra un gruppo di guardie ed uno di detenuti, in una simulazione di vita carceraria, allo scopo di mettere a fuoco le reazioni dei detenuti. Dopo soli cinque giorni, i lavori furono però interrotti: gli studenti che rivestivano il ruolo delle guardie si erano inaspettatamente trasformati in spietati aguzzini. È l'”effetto Lucifero”: la possibilità, cioè, che alcune particolari situazioni siano in grado di indurre persone ordinarie a compiere i peggiori crimini.

Il ricordo di quell’esperimento deve farci riflettere che certamente emergono situazioni difficili e per molti aspetti inquietanti, che esistono delitti assai efferati rispetto ai quali non sembra esservi alcuna pena idonea a compensare il male che hanno provocato, ma che, nel contempo, ogni situazione va sempre restituita alla sua complessità, alle sue caratteristiche reali e, soprattutto, alla sua effettiva possibilità di evoluzione. Ogni uomo va trattato come uomo: si tratta di una strada difficile, da praticare e svelare di caso in caso anche se questo è meno appagante della punizione esemplare.

Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze

http://www.questionegiustizia.it, 20 ottobre 2019

(Testo dell’intervento al Convegno “Eppur si muove. Carcere, costituzione, speranza”, Reggio Calabria – 4 ottobre 2019).

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[1] La legge Gozzini del 1986 ha abbassato il tetto di ammissione alla liberazione condizionale da 28 a 26 anni: dopo cinque anni di libertà vigilata, la pena si estingue e l’ergastolano diviene persona del tutto libera; la stessa legge stabilisce che la pena dell’ergastolo debba essere espiata negli stessi istituti in cui si espiano le pene detentive a tempo e prevede la possibilità per l’ergastolano di essere ammesso all’esperienza dei permessi-premio e al lavoro all’esterno dopo 10 anni; prevede la concedibilità della misura alternativa della semilibertà dopo l’espiazione di almeno vent’anni di pena ed infine la concedibilità della liberazione anticipata, intesa come sconto di pena di giorni 45 per ogni semestre, anche all’ergastolano, stabilendo che detto beneficio sia computabile nella misura della pena che occorre avere espiato perché questi sia ammesso ai benefici dei permessi-premio, della semilibertà e della liberazione condizionale.

[2] Nel caso italiano, nell’ipotesi di integrale concessione della riduzione di pena per liberazione anticipata, l’ergastolano (purché non ostativo) può aspirare alla concessione del suo primo permesso-premio dopo 8 anni di pena, della semilibertà dopo 16 anni di pena e della liberazione condizionale dopo 21 anni di pena.

Milano, Il Sindaco Sala nomina l’ex Magistrato di Sorveglianza Maisto, Garante dei Diritti dei Detenuti


Francesco Maisto è il nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano. Lo ha nominato il Sindaco Giuseppe Sala al termine di un percorso di selezione pubblica dedicato a profili di indiscusso prestigio e di chiara fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani ovvero nelle attività sociali. Laureato in Giurisprudenza, già in servizio con il grado di Magistrato di Cassazione con funzioni di presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, abilitato all’insegnamento di Diritto ed Economia Politica e specializzato in Criminologia clinica, Francesco Maisto ricoprirà l’incarico di Garante dei detenuti per tre anni.

Il Garante, secondo quanto previsto dal Regolamento istituito con deliberazione del Consiglio Comunale n. 40/2012 del 5 ottobre 2012, si occuperà di promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà personale, promuoverà altresì iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà personale e dell’umanizzazione della pena detentiva e iniziative congiunte con altri soggetti pubblici e in particolare con l’Assessorato alle Politiche sociali e la Sottocommissione Carcere; rispetto a possibili segnalazioni che giungano, anche in via informale, alla sua attenzione e riguardino violazioni di diritti, garanzie e prerogative delle persone private della libertà personale, il Garante si rivolge alle autorità competenti per avere eventuali ulteriori informazioni, segnala il mancato o inadeguato rispetto di tali diritti e conduce un’opera di assidua informazione e di costante comunicazione alle autorità stesse relativamente alle condizioni dei luoghi di reclusione. Promuove inoltre con gli Istituti di Pena, gli Organi e gli Uffici milanesi del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Dipartimento per la Giustizia Minorile e con tutte le altre pubbliche amministrazioni interessate dei protocolli d’intesa utili a poter espletare le sue funzioni anche attraverso visite ai luoghi di detenzione; promuove, infine, forme di collaborazione con le Università nonché con il mondo del volontariato, dell’associazionismo e del privato sociale milanese che opera in campo penale e penitenziario o che a vario titolo si occupa di persone private della libertà personale.

Domani, mercoledì 5 giugno, dalle ore 9 alle 13.30, in Sala Alessi a Palazzo Marino si terrà il convegno “Vagli a spiegare che è primavera”, per presentare le attività svolte dalla Garante uscente Alessandra Naldi e per richiamare l’Amministrazione e la città ad un rinnovato impegno sulle tematiche connesse all’esecuzione penale. L’evento è organizzato dalla Presidenza della Sottocommissione Carceri Pene e Restrizioni.

Quintieri (Radicali) : Il Carcere di Locri è un modello per tutta la Calabria. Quasi tutti i detenuti impegnati in attività lavorative


Questa mattina, accompagnato dalla collega giurista Valentina Anna Moretti, ho effettuato una visita alla Casa Circondariale di Locri ed all’esito della stessa non posso far altro che ribadire il giudizio positivo già espresso negli anni passati. Locri è un modello per tutta la Calabria! Lo dice Emilio Enzo Quintieri, già Consigliere Nazionale di Radicali Italiani e candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Calabria.

La Delegazione visitante, autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, è stata ricevuta ed accompagnata negli spazi detentivi e nelle lavorazioni dal Direttore dell’Istituto Dott.ssa Patrizia Delfino e dal Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria Commissario Capo Dott.ssa Giuseppina Crea.

Attualmente, nell’Istituto Penitenziario di Locri, che risale al 1862, a fronte di una capienza regolamentare di 89 posti, sono ristretti 101 detenuti, 23 dei quali stranieri, aventi le seguenti posizioni giuridiche: 11 imputati, 16 appellanti, 8 ricorrenti e 66 definitivi, tutti appartenenti al Circuito della Media Sicurezza. Tra i definitivi 5 sono in semilibertà ex Art. 50 O.P., alle dipendenze di datori di lavoro esterni. A 16 detenuti il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Calabria Dott.ssa Daniela Tortorella, in occasione delle festività pasquali, ha concesso un permesso premio ex Art. 30 ter O.P. e agli altri 5 detenuti semiliberi, ha concesso la licenza premio ex Art. 52 O.P. Quasi la totalità dei detenuti ristretti a Locri è impegnata in attività lavorative, alle dirette dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria (54 su 61 definitivi). Una percentuale altissima rispetto agli altri Istituti Penitenziari della Calabria.

Altri 10 detenuti svolgono lavori di pubblica utilità ex Art. 20 ter O.P. di cui 7 all’interno dell’Istituto e 3 all’esterno, presso il Comune di Locri, la Diocesi di Locri ed il Tribunale di Locri. A breve, verrà sottoscritta dalla Direzione dell’Istituto altra convenzione con il Comune di Siderno, per l’impiego dei detenuti in progetti di pubblica utilità. Vi sono solo due detenuti con problematiche sanitarie: un tossicodipendente in terapia metadonica ed un sieropositivo; non sono presenti altri soggetti con patologie psichiatriche, con disabilità motorie o altre malattie come l’epatite b e c, la scabbia, la tubercolosi, etc. Non vi sono stati eventi critici negli ultimi tempi: nessun suicidio, nessun decesso, nessun atto di autolesionismo e nessuna aggressione nei confronti del personale che opera nell’Istituto. Per tale ragione anche le sanzioni disciplinari sono pressoché inesistenti.

L’Istituto, situato nel pieno centro cittadino, è composto da un unico padiglione, diviso in quattro sezioni oltre al reparto di transito destinato al Circuito Alta Sicurezza, ormai inutilizzato poiché i detenuti partecipano al processo in videoconferenza, ed al Reparto di Semilibertà. Le due sezioni, poste a piano terra, sono a custodia aperta con la sorveglianza dinamica; i 49 detenuti che sono presenti in tali sezioni, permangono per 10 ore fuori dalla camera di pernottamento usufruendo delle numerose attività trattamentali organizzate nell’Istituto. Nelle restanti sezioni, poste al primo piano, in cui sono presenti 47 detenuti, è ancora operativa la tradizionale e più rigorosa custodia chiusa, ma anche questi ultimi trascorrono 10 ore fuori dalle loro camere. Prossimamente, queste due Sezioni, potrebbero diventare a custodia aperta, qualora la Sezione di transito Alta Sicurezza, come detto inutilizzata, venga ristrutturata e diventi sezione destinata all’accoglienza dei “nuovi giunti” dalla libertà. Tale progettualità verrà presentata alla Cassa delle Ammende del Ministero della Giustizia che valuterà di finanziare i lavori di ristrutturazione.

Il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria, guidato dal Dirigente Generale Dott. Massimo Parisi, ha individuato la Casa Circondariale di Locri come Istituto destinato alla lavorazione del ferro e della ceramica. E’ presente altresì una falegnameria ma solo per soddisfare le esigenze interne. Sarà la Casa di Reclusione a Custodia Attenuata di Laureana di Borrello a provvedere alle lavorazioni del legno, per tutti gli altri stabilimenti penitenziari.  Attualmente è in costruzione, in economia e tramite manodopera detenuta, un laboratorio per la lavorazione del ferro che, oltre alle attrezzature già nella disponibilità dell’Istituto, riceverà tutti gli strumenti e le apparecchiature presenti ed inutilizzate nella Casa Circondariale di Crotone.

Grazie a dei progetti finanziati dalla Cassa delle Ammende “Colore dentro le mura” tutto l’Istituto, dai locali per lo svolgimento delle attività in comune alle camere di pernottamento, è stato completamente ritinteggiato ed allo stato si presenta in ottime condizioni. Inoltre, tutti gli ambienti che sono stati visitati, sono stati trovati in perfetto stato di igiene e pulizia, garantendo senza alcun dubbio elevati standard di vivibilità alla popolazione detenuta.  Sono presenti, altresì, due impianti sportivi, uno di calcio a cinque e l’altro di pallavolo, quotidianamente utilizzati, realizzati grazie ai finanziamenti concessi dalla Cassa delle Ammende. E’ presente ed attiva una palestra, dotata di ogni attrezzatura, a cui possono accedere tutti i detenuti. Nelle condizioni appena descritte, il Carcere di Locri, si pone come una struttura innovativa, dotata anche delle più moderne tecnologie necessarie a garantire la sicurezza, che corrisponde all’idea evoluta di esecuzione della pena, in linea con i lavori degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e della recente Riforma Penitenziaria. Per quanto concerne l’assistenza sanitaria non sono stati riscontrati problemi degni di nota, fatta eccezione per l’assenza del Medico Cardiologo, che verrà rappresentata ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, centrale e periferica, ed alle altre Autorità competenti.

Nel Carcere di Locri in questi giorni è stata allestita una postazione per i colloqui familiari tramite videochiamata Skype, il cui servizio sarà ufficialmente operativo dal prossimo 1 maggio, per facilitare le relazioni familiari dei detenuti e garantire le loro esigenze affettive, nella massima sicurezza. Dal punto di vista giuridico, la videochiamata viene equiparata ai colloqui, anche per quanto riguarda autorizzazioni, durata e controllo. I detenuti, in linea generale, potranno fare fino a sei video-colloqui al mese per la durata massima di un’ora. Per quelli in attesa di giudizio sarà necessaria l’autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria. Prima di svolgere le videochiamate ai familiari, i detenuti dovranno presentare richiesta indicando l’indirizzo mail da contattare e allegando copia del certificato che attesta la relazione di convivenza o il grado di parentela. Il familiare o il convivente destinatario della chiamata dovrà, invece, assicurare (tramite autocertificazione) che parteciperanno al collegamento esclusivamente i soggetti indicati nella richiesta e autorizzati. Per il collegamento i detenuti saranno accompagnati in appositi locali degli istituti dove avranno a disposizione postazioni informatiche abilitate. Per assicurare, accanto alla riservatezza, anche condizioni di completa sicurezza, i colloqui si svolgeranno sempre sotto il controllo visivo del personale della Polizia Penitenziaria che da postazione remota potrà visualizzare le immagini che appaiono sul monitor del computer che sta utilizzando il detenuto. Nel caso di comportamenti non corretti del detenuto o dei familiari, il video collegamento verrà immediatamente interrotto con conseguente preclusione del servizio.

Voghera, Permesso negato a detenuto per visitare il figlio ammalato: sbagliata l’istanza


Qualche giorno fa su “Il Dubbio” ho letto un articolo dell’amico Damiano Aliprandi, dal titolo “Milano: il figlio di 4 anni lo voleva vicino durante un esame al cuore, permesso negato” (poi ripreso da altri organi di stampa ed oggetto di numerosi commenti), in cui è stata raccontato che la Quinta Sezione della Corte di Appello di Milano, su conforme parere della Procura Generale della Repubblica, abbia negato ad un detenuto calabrese, ristretto nella Casa Circondariale di Voghera, padre di un bambino di 4 anni gravemente malato, che non vedeva da tempo a causa della malattia, di recarsi a fargli visita per due ore, presso l’Ospedale Niguarda di Milano, mentre gli venivano effettuati alcuni accertamenti diagnostici tra cui una biopsia e coronografia cardiaca, perché “non è in pericolo di vita”.

Stando a quanto riferito nell’articolo, l’Autorità Giudiziaria procedente, “visto il parere contrario del Pg, ritenuto che non sussistono i presupposti di cui all’Art. 30 Legge Penitenziaria per le ragioni esposte nello stesso parere, rigetta l’istanza”.

Preliminarmente, ebbene precisare che, il provvedimento emesso dalla Corte di Appello di Milano, è senz’altro corretto e fondato sulla esatta interpretazione di quanto statuito dall’Art. 30 dell’Ordinamento Penitenziario (Legge n. 354/1975 e ss.mm.ii.). Infatti, la norma richiamata, prevede che “Nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati può essere concesso dal Magistrato di Sorveglianza il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l’infermo. Agli imputati il permesso è concesso dall’Autorità Giudiziaria competente a disporre il trasferimento in luoghi esterni di cura ai sensi dell’Art. 11. Analoghi permessi possono essere concessi eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità”.

Pur essendo a conoscenza di pochi elementi, a me pare che l’istanza indirizzata alla Corte di Appello di Milano, non abbia le caratteristiche richieste dalla normativa sopra descritta per poter essere delibata favorevolmente. Invero, né si è in presenza di un “imminente pericolo di vita” ex Art. 30 c. 1 o.p. né si è in presenza di un “evento eccezionale” ex Art. 30 c. 2 o.p., in considerazione del fatto che il bambino è affetto da tempo da questa patologia (infatti non si reca a colloquio dal padre proprio a causa della malattia) per cui, indubbiamente, non costituisce un “evento eccezionale”.

Detto questo però c’è da dire che lo strumento giuridico intramoenia per poter ottenere l’autorizzazione invocata, esiste ed è contemplato all’Art. 21 ter o.p., introdotto dalla Legge n. 62/2011 e recentemente ulteriormente precisato dalla Legge n. 47/2015, che prevede “visite al minore infermo o al figlio, al coniuge o convivente affetto da handicap in situazione di gravità”; io stesso, più volte, ho fatto ottenere permessi di questo genere a diversi detenuti, anche imputati o condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso ex Art. 416 bis c.p. Per cui, come ipotizzato nell’articolo, il fatto di essere calabrese, avere un determinato cognome od essere imputato di determinati reati, non costituisce alcun valido motivo ostativo, all’accoglimento di tali richieste.

Tale norma, infatti, a differenza dell’istituto del “permesso di necessità” ex Art. 30 o.p., contempla il campo della cura ed assistenza dei figli minori o affetti da gravi handicap da parte dei detenuti, non solo in casi di “eventi eccezionali”, ma anche in caso di “gravi condizioni di salute” o in conseguenza della stessa esistenza di “handicap grave”.

L’Art. 21 ter o.p., al c. 1, prevede che In caso di imminente pericolo di vita o di gravi condizioni di salute del figlio minore, anche non convivente, ovvero nel caso in cui il figlio sia affetto da handicap in situazione di gravità, ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, accertata ai sensi dell’articolo 4 della medesima legge, la madre condannata, imputata o internata, ovvero il padre che versi nelle stesse condizioni della madre, sono autorizzati, con provvedimento del magistrato di sorveglianza o, in caso di assoluta urgenza, del direttore dell’istituto, a recarsi, con le cautele previste dal regolamento, a visitare l’infermo o il figlio affetto da handicap grave. In caso di ricovero ospedaliero, le modalità della visita sono disposte tenendo conto della durata del ricovero e del decorso della patologia.” ed al successivo c. 2 prosegue con La condannata, l’imputata o l’internata madre di un bambino di età inferiore a dieci anni, anche se con lei non convivente, o di figlio affetto da handicap in situazione di gravità, ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, accertata ai sensi dell’articolo 4 della medesima legge, ovvero il padre condannato, imputato o internato, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, sono autorizzati, con provvedimento da rilasciarsi da parte del giudice competente non oltre le ventiquattro ore precedenti alla data della visita e con le modalità operative dallo stesso stabilite, ad assistere il figlio durante le visite specialistiche, relative a gravi condizioni di salute.”.

Pertanto, in virtù di tale strumento giuridico, nel caso previsto dal primo comma, il genitore detenuto o internato, indipendentemente dalla posizione giuridica rivestita (imputato, appellante, ricorrente o definitivo), è autorizzato dal Magistrato di Sorveglianza che ha giurisdizione sull’Istituto o, in caso di estrema urgenza, dal Direttore dell’Istituto Penitenziario in cui trovasi ristretto, a visitare il figlio minore che versi in imminente pericolo di vita o in gravi condizioni di salute. La medesima autorizzazione è data al genitore, detenuto o internato, per visitare il figlio, anche maggiorenne, qualora questi sia stato riconosciuto portatore di handicap grave.

Si tratta di una speciale attenzione accordata dal legislatore per assicurare il mantenimento del rapporto affettivo tra un soggetto debole (minore gravemente infermo; portatore di handicap grave) e il proprio genitore (o il soggetto ex lege equiparato) in stato detentivo. Lo dimostra il fatto che la competenza ad autorizzare tali visite viene attribuita, esclusivamente, nel Magistrato di Sorveglianza nonché, eccezionalmente, nel Direttore dell’Istituto Penitenziario, autorità deputata alla gestione amministrativa della detenzione.

Inoltre, vi è una enorme differenza sostanziale dall’istituto ex Art. 30 o.p. a quello ex Art. 21 ter o.p.: infatti, qualora ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi legittimanti, nel primo caso, ai detenuti ed agli internati “può essere consesso” il permesso mentre nel secondo caso, i detenuti e gli internati “sono autorizzati”; si passa, dunque, dalla discrezionalità all’obbligo per l’Autorità Giudiziaria (o in via di residuale, nei casi di assoluta urgenza, per l’Autorità Penitenziaria); nel secondo caso, i genitori detenuti del figlio minore infra decennale ovvero il figlio, anche maggiorenne, riconosciuto portatore di handicap grave, quando essi debbano sottoporsi a visite specialistiche in relazione alle gravi condizioni di salute in cui versano. In quest’ultimo caso, la decisione autorizzativa, è affidata al “Giudice competente” il quale, nel silenzio della norma, dovrà essere individuato rinviando a quanto previsto dall’Art. 11 c. 4 o.p. Detto Giudice, allorché sia accertata la sussistenza delle condizioni previste, è chiamato a rilasciare l’autorizzazione a tale forma di assistenza, “non oltre le 24 ore dalla data della visita”, determinando le modalità esecutive idonee a garantire la sicurezza.

Il Magistrato di Sorveglianza deve provvedere in merito con “Decreto motivato”, in analogia a quanto previsto per i “permessi” ex Art. 69 c. 7 o.p.; stesso discorso dicasi per il “Giudice competente” ex Art. 125 c. 3 c.p.p. mentre il Direttore dell’Istituto, nel caso in cui sia competente, provvederà con motivato atto amministrativo.

L’eventuale provvedimento di rigetto, nel caso del Magistrato di Sorveglianza, potrà essere impugnato nelle forme e nei modi previsti dall’Art. 30 bis o.p. che disciplina il gravame in materia di “permessi”, proponibile dal detenuto istante, dal suo difensore o dal Pubblico Ministero. Mentre, per quanto concerne l’impugnazione dell’eventuale diniego opposto dal Direttore dell’Istituto Penitenziario, si dovrà proporre reclamo giurisdizionale ex Art. 35 bis e 69 c. 6 lett. b) o.p.

Nel caso in specie, dunque, la persona detenuta (imputato appellante) od il suo difensore, avrebbe dovuto chiedere di potersi recare a far visita al figlio minore gravamene ammalato in Ospedale a Milano ai sensi dell’Art. 21 ter o.p. al Magistrato di Sorveglianza di Pavia avente giurisdizione sulla Casa Circondariale di Voghera o, nel caso di assoluta urgenza, al Direttore dell’Istituto Penitenziario predetto, e non come erroneamente effettuato al Giudice che procedeva, cioè alla Corte di Appello di Milano, peraltro secondo il diverso strumento giuridico di cui all’Art. 30 o.p.

Emilio Enzo Quintieri

già Consigliere Nazionale di Radicali Italiani

Esperto in Diritto Penitenziario

Mazzamuto (Conams): La penso come Gherardo Colombo, in Italia c’è troppo carcere


nicola-mazzamuto-presidente-tds-di-messinaIntervista a Nicola Mazzamuto, coordinatore nazionale dei Magistrati di sorveglianza. Il Coordinamento nazionale dei Magistrati di sorveglianza chiude oggi a Roma la sua assemblea generale. Dopo aver ricordato le figure di Alessandro Margara e di Luigi Daga, veri cultori di un diritto penitenziario umano e costituzionalmente orientato, l’assemblea è stata anche l’occasione per un bilancio della Legge Gozzini a trenta anni della sua approvazione. Legge spesso vituperata, a cui si attribuisce la colpa di tutti i “buonismi” ed i “lassismi”, quando invece ha avuto il merito di aver reso umana la pena contribuendo alla realizzazione delle sue finalità costituzionali. In occasione dell’assemblea abbiamo intervistato Nicola Mazzamuto, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Messina e Coordinatore Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza.

Presidente, a che punto siamo sui rimedi risarcitori per detenzione inumana e degradante?

La sentenza Torreggiani ingiungeva all’Italia la messa a punto di un efficace sistema di tutela preventiva e compensativa dei diritti dei detenuti. E accordava priorità al rimedio che impedisce o interrompe la lesione in corso. Occorre quindi dire che il rimedio risarcitorio, al di là del suo valore simbolico e del suo modesto effetto lenitivo in termini di riduzione di pena detentiva e/o di ristoro pecuniario, interviene comunque a lesione consumata. Nella pratica giurisprudenziale non ha trovato ampia e diffusa applicazione, sia in ragione delle difficoltà interpretative della nuova normativa, che solo di recente sembrano superate, sia in ragione della oggettiva complessità degli accertamenti istruttori, sia soprattutto in ragione delle condizioni di operatività degli Uffici di sorveglianza che soffrono ataviche carenze d’organico.

Che cosa si deve fare?

Se sotto il profilo della riforma legislativa sempre perfettibile e delle misure penitenziarie volte alla riduzione del sovraffollamento ed al miglioramento del regime penitenziario l’Italia ha superato l’esame di Strasburgo, anche se di recente il trend penitenziario è tornato a salire, l’obiettivo di un sistema giudiziario di tutele efficienti ed effettive è ancora tutto da realizzare. Non possono non salutarsi con favore i recenti indirizzi legislativi e ministeriali finalizzati al potenziamento ed alla stabilizzazione del personale magistraturale e amministrativo della Magistratura di sorveglianza.

Non è riduttivo concentrarsi solo sulla questione dei 3mq per detenuto, quando poi nelle celle si hanno i bagni alla turca?

In realtà il criterio “catastale” della metratura della cella, che pure ha il pregio di essere un parametro oggettivo e misurabile, non costituisce nella giurisprudenza nazionale ed europea un indice esclusivo ed esaustivo. Il giudizio sulle condizioni (dis) umane e (non) degradanti dovrebbe integrarsi con le valutazioni inerenti la salubrità e dignità degli ambienti e, più in generale, il complessivo regime trattamentale con particolare riguardo alla tutela della salute, e alle concrete opportunità rieducative e risocializzanti. È possibile che, pur in presenza di una cella con metri quadri superiori al limite minimo, si ravvisi la violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu a causa della deficienza degli altri parametri.

Si segnalano spesso “tensioni” fra il magistrato di sorveglianza e il garante dei detenuti. Quale è la sua esperienza?

Credo che tali rapporti andrebbero impostati fin dall’inizio in termini di mutua e leale collaborazione e di chiara distinzione dei rispettivi ambiti di competenza, visto che in mancanza di ciò è elevato il rischio di confusioni, sovrapposizioni di ruoli e funzioni, dispersioni di energie e prevedibili conflitti. Mi pare in tale ottica un buon criterio è quello che riconosce alla Magistratura di sorveglianza la garanzia giurisdizionale dei diritti e la cura dei casi concreti. Mentre al Garante riconosce la tutela “politica” di tali diritti e l’azione politico-culturale volta ad affrontare i nodi strutturali del sistema sanzionatorio e penitenziario ed al suo complessivo miglioramento, coinvolgendo istituzioni ed opinione pubblica.

Dagli Opg alle Rems. A che punto siamo?

L’esodo verso le Rems è stato lento, faticoso e progressivo e soltanto nei prossimi mesi si può sperare che si completi l’opera di dimissione. Nelle more si verificano situazioni di conflitto, a fronte dell’insufficienza delle Rems disponibili e del numero chiuso di quelle esistenti. Si è allora costretti a scegliere tra lasciare i ricoverati in Opg illegittimamente o in libertà in caso di misure di sicurezza provvisorie ineseguite, oppure derogare al numero chiuso e metterli nei Rems.

Non è anomalo il rapporto fra detenuti in custodia cautelare e detenuti definitivi?

La custodia cautelare in carcere, in un numero non infrequente di casi, non è ultima ma prima ratio. Viene utilizzata, al di là delle appropriate finalità endoprocessuali, come anticipazione di pena, anche quando sarebbe prevedibile, in fase esecutiva, la concessione di una misura alternativa. Indubbiamente tale rapporto si può configurare come una anomalia.

Non si ricorre troppo spesso al carcere in Italia?

Credo che un sistema sanzionatorio e penitenziario moderno, in linea con i principi costituzionali e con le direttive europee, debba realizzare l’idea della pena e della pena detentiva come extrema ratio. Concordo con i recenti scritti di Gherardo Colombo e del professor Giovanni Fiandaca: in Italia come in altri Paesi c’è troppo carcere e soprattutto troppo cattivo carcere, nonostante i recenti sforzi del legislatore e dell’amministrazione penitenziaria per migliorare la situazione detentiva.
Penso, inoltre, non solo in una prospettiva utopica ma riflettendo su concrete esperienze giurisprudenziali, che un tale sistema dovrebbe prevedere le pene non detentive e le misure alternative in una percentuale del 70/80% – purché ricche di contenuti rieducativi, riparativi e risocializzativi e soprattutto ben gestite con regimi prescrittivi individualizzati. Bisognerebbe riservare la costosa (in termini non solo economici) e segregante pena detentiva ai casi gravi che la meritano, puntando attraverso strategie sanzionatorie differenziate, a una lotta davvero efficace al crimine anche organizzato, alla recidiva ed alla diffusa impunità.

Giovanni M. Jacobazzi

Il Dubbio, 8 ottobre 2016

Iannucci (Medico Penitenziario) : Addio Margara, il carcere non ti dimenticherà mai


Casa Circondariale 2Il Presidente Alessandro Margara ha lasciato questa vita terrena. Poche ore prima della sua morte dicevo l’altro ieri a un amico che ad Alessandro Margara, nonostante il legame di amicizia che c’era fra di noi, non ero mai riuscito a dare del tu. Ci davamo del tu con Nora Beretta, la moglie di Margara che se ne è andata pochi anni or sono: per la malattia e la morte di Nora il Presidente Margara aveva enormemente sofferto e forse quella perdita, nella mente e nel corpo, non l’aveva sopportata.

Non riuscivo a dare del tu ad Alessandro Margara, nonostante i suoi inviti, non solo perché per me egli è sempre rimasto, in modo forte e precipuo, “Il Presidente”. L’ho conosciuto, fino dal 1981, come Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze. Poi, per i suoi indubbi meriti, fu chiamato a rivestire il ruolo prestigioso di Direttore Generale delle carceri italiane. Allorché qualcuno, con suo e nostro grande stupore e disappunto, decise di rimuoverlo da quel posto, con il profondo spirito di servizio che lo contraddistingueva Alessandro Margara decise di tornare al “suo” Tribunale di Sorveglianza, a quei compiti nei quali era e, almeno per lungo tempo rimarrà, insuperabile.

Mi chiesi subito, anni addietro, perché non riuscissi a dare del tu all’amico Margara. La risposta è sempre stata la stessa: non era il suo ruolo di Presidente ad impedirmelo, non quello di Direttore Generale, ma era piuttosto la sua funzione di Maîtrise. Già: Alessandro Margara, per me come per molti altri, è stato un Maestro. Lo ha fatto sottovoce, con quel pudore naturale e cristiano che gli impediva di comparire da protagonista sulla scena, con quella competenza smisurata che nasceva dalla diuturna e appassionata pratica “clinica”.

Non amava mostrarsi Alessandro Margara. Eppure è stato uno dei principali artefici di quelle illuminate riforme che, nell’arco di un trentennio, hanno radicalmente mutato in meglio il panorama della detenzione in Italia. A partire dalla Legge Gozzini, che ha restituito alle persone detenute una parte fondamentale della responsabilità del trattamento “rieducativo”. Ma ad Alessandro Margara non piaceva che le riforme avessero il suo eponimo. Così non volle che si chiamasse “Progetto Margara” quel progetto di legge (che poi, presentato in Parlamento nel 1997, si è detto “delle Regioni”) per la riforma delle norme relative ai folli autori di reato. Un Progetto che, travasato ampiamente nelle recenti norme per il “superamento degli OPG”, ne ha costituito la traccia. Non ha nemmeno voluto mettere il suo eponimo sul DL 230/1999, quell’insieme fondamentale di norme attraverso il quale le funzioni sanitarie, all’interno di queste carceri stracolme di malattie, sono state assunte dai Sistemi Sanitari Regionali, allo stesso modo di ciò che accade all’esterno. Tantomeno ha voluto usare il suo nome per il DPR 230/2000, quel Regolamento di Esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario che diede un ulteriore respiro alle operazioni riabilitative nelle carceri. Potremmo citare mille altre iniziative di Alessandro Margara in favore della civilizzazione del trattamento penitenziario. A partire dalla collaborazione strettissima con Giovanni Michelucci per la promozione di una architettura penitenziaria a misura d’uomo. Continuando con l’impegno indefesso per garantire ai detenuti adeguate relazioni affettive. Non tutte le possiamo citare le iniziative di Margara.

Ma oggi mi preme rammentare il Maestro e l’uomo Margara per altre caratteristiche. La prima era la sua capacità di ascolto. Alessandro Margara aveva ferme idee (pochi anni addietro, quando lo rimproverammo benevolmente per i suoi “pregiudizi”, con l’abituale ironia ribatté: “Non credo di avere grandi vizi, ma almeno qualche pregiudizio lasciatemelo!”), ma non mi è mai capitato di non vederlo ascoltare con attenzione qualcuno che esprimeva idee diverse. Estremamente competente nel suo settore, rispettava le altrui competenze, specie quando, da buon Magistrato, se ne valeva per confortare i suoi giudizi. Uomo di grande ironia, da buon cristiano non l’ho mai sentito esprimere malignità su alcuna persona, nemmeno sui nemici. Piccole note a margine, relative all’operato di qualcuno, stigmatizzavano l’inopportunità di quell’operato assai meglio di una critica aperta e feroce. L’uso delle parole, per lui che era un vero toscano, è sempre rimasto fondamentale. Poco tempo dopo la perdita dell’amata Nora, quando gli chiesi come considerasse la badante dell’est Europa che mi era parsa trattarlo con una confidenza eccessiva, Margara, sorridente e come al solito tollerante per queste cose, a bassa voce mi disse: “In effetti è un po’ disinvolta”.

Ma c’è un’ultima cosa per la quale tutti coloro che abitano il carcere sono grati ad Alessandro Margara. Questa cosa è il grandissimo rispetto che ha sempre avuto per tutti gli uomini detenuti. Il “Presidente” non si è mai negato a qualche detenuto che gli chiedeva di parlare e nemmeno ai familiari dei detenuti. Ecco perché poteva giudicare con rettitudine e giustizia: conosceva bene coloro che giudicava e lo faceva sempre spinto da una vera partecipazione umana. Amava il suo mestiere ed è a partire da questo amore che tutto il carcere piange la sua scomparsa. Perché per tutti è scomparso un Presidente e un Maestro, ma anche un Fratello.

Mario Iannucci

Psichiatra Psicoanalista, Specialista della CC di Firenze Sollicciano

già Presidente della Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria

Ristretti Orizzonti, 2 agosto 2016