La pena dell’ergastolo, le riflessioni di un Giudice della Corte di Assise di Appello di Catanzaro


Grazie al Dott. Fabrizio Cosentino, Consigliere della Corte di Assise di Appello di Catanzaro, per tutto quel che oggi ha scritto nel suo elaborato “Origine e giustificazione della pena dell’ergastolo”, contro la pena dell’ergastolo e di quella accessoria dell’isolamento diurno, nonché sulle recenti riforme del legislatore ed in particolare sul divieto di giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena perpetua, per il quale sono stati già promossi diversi incidenti di costituzionalità, pendenti davanti al Giudice delle Leggi.

«Oggi la pena dell’ergastolo è ancora presente nell’ordinamento italiano, anzi, in qualche modo è stata rivalutata e rafforzata, con le ipotesi di c.d. ergastolo ostativo, nonostante alcuni ordinamenti, pur espressione di società meno evolute della nostra dal punto di vista economico, ne richiedano la disapplicazione (lo ricorda la vicenda del terrorista Battisti, estradato dal Brasile, con il patto che l’ergastolo venga commutato in anni trenta di reclusione). Contro l’ergastolo militano, anzitutto, le stesse ragioni fatte valere contro la pena di morte. Non è sanzione che abbia maggior efficacia deterrente, rispetto ad una condanna a trenta anni di reclusione. È una sanzione priva di umanità, perché preclude al reo ogni speranza di redenzione e lo condanna ad una sorta di damnatio memoriae.

È una sanzione contraria al principio costituzionale dell’emenda, perché non si prevede, a priori, un preciso programma riabilitativo, mentre le pene devono per necessità costituzionale – e già in partenza – tendere alla rieducazione del condannato. È sin troppo palese che non esiste una rieducazione fine a sé stessa, dovendo necessariamente conseguire all’avvenuta risocializzazione un risultato pratico. L’odierna totale chiusura di fronte alla c.d. “grande criminalità” è in linea teorica ingiustificata, nella misura in cui concede al reo di crimini organizzati la sola alternativa della collaborazione, concetto che non combacia necessariamente con quello di pentimento. È una sanzione contraria alla Convenzione sui diritti dell’uomo, perché in contrasto con l’art. 3 del trattato («nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani o degradanti»).

Sebbene sia sempre possibile riparare il danno di eventuali – neanche tanto infrequenti – errori giudiziari, l’ergastolo segregativo rende particolarmente doloroso riparare la ferita, spesso ad una intera vita di reclusione, attraverso il mero risarcimento pecuniario. Vale in buona misura anche per l’ergastolo l’osservazione secondo cui l’esecuzione della pena, «est irrévocable et peut etre infligée à un innocent». Per queste ragioni, si può dire che la sanzione dell’ergastolo condivide con la pena di morte l’accusa di rappresentare una pena crudele, inumana, degradante e che viola il diritto alla vita.»

Tolmezzo, detenuto calabrese muore in cella. Inchiesta della Procura


Detenuto muore nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, in provincia di Udine. Si stratta di Giuseppe Lo Piano, nato a Fuscaldo (Cs) il 19 dicembre 1967. L’uomo condannato all’ergastolo, considerato dai giudici appartenente al clan Serpa ma con posizione giuridica di imputato (appellante e ricorrente), è stato rinvenuto privo di vita nella mattinata di ieri dal suo compagno di cella che ha dato subito l’allarme. I sanitari intervenuti non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso.

Giuseppe Lo Piano, era stato condannato, in primo e in secondo grado, all’ergastolo nel processo “Tela del ragno” in merito a numerosi omicidi avvenuti negli ultimi 20 anni lungo il Tirreno cosentino. Un’operazione condotta contro i presunti capi e gregari del clan Perna-Cicero di Cosenza, Gentile-Africano-Besaldo di Amantea, Scofano-Martello-Rosa-Serpa di Paola, e Carbone di San Lucido.

A novembre si sarebbe dovuta tenere l’udienza per l’accusa di omicidio innanzi alla Corte di Cassazione, mentre per quanto riguarda la sentenza di condanna per associazione mafiosa la Suprema Corte, accogliendo il ricorso degli avvocati dell’imputato Sabrina Mannarino e Giuseppe Bruno aveva deciso per l’annullamento con rinvio alla Corte d’Appello per un nuovo giudizio.

Lo Piano, da qualche tempo, accusava un malessere che lo stesso aveva comunicato sia ai suoi famigliari che ai suoi legali difensori. Un malessere che lo aveva portato a ricorrere alle cure ospedaliere sia di Udine che di Tolmezzo. L’ultimo ricovero presso il nosocomio di Udine risale a circa una quindicina di giorni fa e dal quale era stato dimesso dopo qualche giorno. L’uomo pare soffrisse di una patologia cardiaca pregressa, ma i medici sia dell’ospedale che del carcere, avevano ritenuto che le sua malattia fosse compatibile con il regime carcerario. Nei giorni successivi al rientro in carcere, dopo l’ultimo ricovero, le sue condizioni di salute non erano affatto migliorate. Lo stesso Lo Piano, infatti, aveva allertato sia la famiglia che i suoi avvocati, i quali si erano subito attivati. Ma non hanno fatto in tempo. Ieri mattina, come un fulmine a ciel sereno, è arrivata la notizia dell’improvviso decesso.

Gli avvocati Mannarino e Bruno, nella stessa mattinata di ieri hanno fatto pervenire alla Procura di Udine una denuncia con la quale è stato richiesto il sequestro delle cartelle cliniche del detenuto. La morte di Giuseppe Lo Piano è stata segnalata dall’attivista radicale Emilio Quintieri all’Autorità Garante Nazionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale presso il Ministero della Giustizia. “Quel che è davvero intollerabile è che detto detenuto, nonostante da tempo versava in gravissime condizioni di salute, sia stato tenuto in carcere fino alla sua morte – dichiara l’attivista radicale in favore dei diritti dei detenuti Emilio Quintieri – La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Udine, avente giurisdizione sull’istituto penitenziario, ha già aperto un fascicolo e disposto, oltre al sequestro della salma, anche gli opportuni accertamenti medico legali”.

Maria Fiorella Squillaro

Il Quotidiano del Sud, 05/09/2020

Firenze, Pestò un detenuto con un bastone: condanna definitiva per Ispettore della Penitenziaria


Pestò un detenuto straniero con un bastone, dopo quindici anni arriva la condanna definitiva per un sottufficiale del Corpo di Polizia Penitenziaria all’epoca dei fatti in servizio presso la Casa Circondariale di Firenze “Sollicciano”. Purtroppo, anche questa volta, nonostante gli accertamenti effettuati, non è stato possibile identificare e condannare tutti gli altri Agenti Penitenziari responsabili di abusi e violenze.

Ad essere stato condannato, per quanto accaduto nel lontano primo pomeriggio del 26 ottobre 2005, è stato solo Marcello Santoro, originario di Mondragone (Caserta), Ispettore Capo di Polizia Penitenziaria, Responsabile dell’Unità Operativa “Reparto Giudiziario” della Casa Circondariale di Firenze Sollicciano. I fatti avvennero nel Reparto Giudiziario dell’Istituto all’interno dell’Ufficio del Capoposto e ad esserne vittima fu El Rezgui Walid un giovane detenuto straniero. Le indagini della Procura della Repubblica di Firenze guidata dal Procuratore Capo Ubaldo Nannucci e del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria  guidato dal Provveditore Regionale Massimo De Pascalis partirono a seguito di una denuncia pubblica fatta sulla stampa il 5 dicembre 2005 da dieci Associazioni e da un Sacerdote che operano dentro e fuori dall’Istituto Penitenziario (Dentro e Fuori le mura, Redazione Fuori Binario, Pantagruel, Movimento di lotta per la casa, Casa dei diritti sociali, Associazione Aurora, Comunità dell’Isolotto, Associazione Periferie al Centro, Don Alessandro Santoro, Comunità di base delle Piagge, Associazione per l’Altro). Nessun detenuto, però, per timore di peggiorare la sua permanenza in carcere, denunciò gli abusi all’Autorità Giudiziaria.

L’Ispettore Santoro è stato riconosciuto responsabile del reato di lesioni personali aggravate dall’uso di un’arma e dall’abuso della funzione pubblica per aver cagionato al detenuto El Rezgui lesioni lievi consistite in “aree eritematose al dorso e in regione lombare sinistra”, giudicate guaribili in due giorni, certificate dal Medico di guardia Dott.ssa Maria Arcangela Lombardi. L’altro reato contestato, quello di aver sottoposto a misure di rigore non consentite dalla legge il detenuto, è stato estinto per intervenuta prescrizione. In particolare, secondo quanto emerso dall’istruttoria dibattimentale, detto Ispettore, all’interno del suo Ufficio, colpì ripetutamente il detenuto con un manico di scopa sino a spezzarglielo addosso sulla schiena, mentre altri suoi colleghi lo percuotevano con calci e pugni facendolo accasciare a terra.

Per i Giudici della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione “l’impianto argomentativo della sentenza impugnata è immune da vizi logici, esprime valutazioni adeguatamente motivate come tali insindacabili in questa sede: le lesioni accertate dalla certificazione contenuta nel registro delle visite attesta lesioni assolutamente compatibili con le modalità delle percosse descritte dalla persona offesa e, in particolare con i colpi di bastone ricevuti sulla schiena. Le lesioni costituite dalle aree erimatose sul dorso e in regione lombare sono state obiettivamente rilevate e risultano compatibili con le modalità delle percosse descritte dalla persona offesa e, in particolare, con i colpi datigli con il bastone, e non altrettanto con la versione alternativa fornita dagli imputati nella relazione di servizio, circa l’impiego di una manovra di forza per la sottrazione di una lametta dalle mani di El Rezgui.”

L’Ispettore Capo di Polizia Penitenziaria Marcello Santoro, ora in pensione, oltre alla pena detentiva, condizionalmente sospesa, ed al risarcimento dei danni nei confronti del detenuto El Rezgui Walid e delle altre parti civili costituite, poiché il suo ricorso è stato dichiarato inammissibile, è stato condannato anche al pagamento delle spese processuali e al versamento di 3.000 euro in favore della Cassa delle Ammende.

Ferrara, 3 Agenti a giudizio per tortura, lesioni, falso e calunnia ai danni di un detenuto. Imputata anche una Infermiera per falso e favoreggiamento


Tortura, lesioni personali, falso in atto pubblico e calunnia in concorso nonché di falso e favoreggiamento. Sono i reati che la Procura della Repubblica di Ferrara contesta, rispettivamente, a tre Agenti di Polizia Penitenziaria, un Sovrintendente e due Assistenti Capo, e ad una Infermiera in servizio presso la Casa Circondariale di Ferrara per fatti commessi ai danni di un detenuto il 30 settembre 2017.

Il Pubblico Ministero Isabella Cavallari, al termine delle indagini preliminari, ha inteso esercitare l’azione penale chiedendo il rinvio a giudizio per tutti i reati contestati. La vittima degli abusi è Antonio Colopi, 25 anni, di Galatone (Lecce) che all’epoca dei fatti era ristretto in custodia cautelare nell’Istituto Penitenziario di Ferrara (e poi trasferito presso la Casa Circondariale di Reggio Emilia). Gli imputati, invece, sono il Sovrintendente Geremia Casullo, 55 anni, l’Assistente Capo Massimo Vertuani, 49 anni, l’Assistente Capo Pietro Licari, 51 anni e l’Infermiera Eva Tonini, 39 anni. L’udienza preliminare è stata già fissata e si terrà il prossimo 9 luglio 2020 innanzi al Giudice per le Udienze Preliminari del Tribunale di Ferrara Danilo Russo.

Secondo quanto emerge dalla richiesta di rinvio a giudizio a firma del Pm Cavallari, i tre Agenti Penitenziari durante una perquisizione arbitraria eseguita all’interno della cella numero 2 del detenuto Colopi, posta nel reparto di isolamento, lo avrebbero costretto a denudarsi (eccetto le mutande) e poi ad inginocchiarsi ed una volta in quella posizione, dopo averlo ammanettato, lo avrebbero ripetutamente insultato e percosso, anche con un oggetto di metallo, utilizzato dal personale penitenziario per la battitura delle inferriate, lasciandolo in quelle condizioni fino a quando non venne notato dal Medico durante il giro tra le Sezioni, ponendo in essere un «trattamento inumano e degradante per la dignità della persona» agendo «con crudeltà e violenza grave» ed approfittando «della condizione di minorata difesa derivante dall’averlo ammanettato.».

In particolare, il Sovrintendente Casullo, mentre i suoi colleghi Assistenti Capo Vertuani e Licari facevano da palo nel corridoio, sarebbe entrato nella cella e dopo avergli fatto togliere maglia e canottiera, lo avrebbe fatto inginocchiare, colpendolo con calci allo stomaco. Poi gli avrebbe fatto togliere pantaloni, scarpe e calzini, lo avrebbe ammanettato continuando a colpirlo con calci e pugni allo stomaco, alle spalle ed al volto, utilizzando anche il ferro per la battitura per colpirlo alle spalle, alle gambe, alla nuca ed al viso. A quel punto, la vittima, avrebbe reagito con una testata, rompendo gli occhiali al sottufficiale, che lo ha minacciato e lo ha colpito ancora fino a spaccargli un dente. Il detenuto allora avrebbe chiesto aiuto, urlando il nome del Comandante del Reparto, ma Casullo lo avrebbe minacciato dicendogli che “Qui non c’è nessuno, Comandante e Ispettore sono solo io” con un coltello rudimentale puntato alla gola, passatogli dall’Assistente Capo Licari. Quest’ultimo, poi, avrebbe fatto ingresso nella cella dicendo “ora tocca a me” iniziando ad insultare e percuotere il detenuto su tutto il corpo, seguito dal collega Vertuani, che sino a quel momento aveva assolto la funzione di palo. Finito il violento pestaggio, la vittima, che ha avuto una prognosi di 15 giorni, è stata lasciata ammanettata e seminuda, fino a quando, dopo circa un’ora, durante un controllo, non l’ha notata il Medico del Penitenziario.

Il Sovrintendente Casullo e l’Assistente Capo Vertuani, sono anche imputati di falso per aver redatto dei rapporti considerati non veritieri sull’accaduto e, di fatto, contengono il nocciolo della loro versione dei fatti: sarebbe stato Colopi ad opporsi alla perquisizione, accogliendo gli Agenti Penitenziari con fare minaccioso, aggredendoli con calci e pugni, e loro avrebbero solo reagito per contenerlo e riportarlo alla calma. Da uno dei rapporti emergerebbe anche che il detenuto avrebbe usato come arma un oggetto contundente ricavato da una bomboletta del gas, che però secondo il Pubblico Ministero sarebbe stata introdotta proprio dai Poliziotti i quali, peraltro, non avrebbero fatto menzione né delle manette, né delle lesioni del detenuto, né del fatto che lo stesso venne denudato e lasciato in mutande. Inoltre, avrebbero scritto il falso, affermando di aver immediatamente avvisato l’Ispettore di sorveglianza, che invece sarebbe stato attivato solo un’ora dopo e solo al passaggio del Medico. Sempre i due, Casullo e Vertuani, sono imputati anche di calunnia nei confronti del detenuto, per averlo accusato del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, pur sapendolo innocente.

Per quanto riguarda l’Infermiera, Eva Tonini, per lei è stato chiesto il processo con le accuse di falso e favoreggiamento nei confronti dei tre Agenti di Polizia Penitenziaria. La predetta, in servizio al momento dei fatti, avrebbe scritto il falso nelle comunicazioni infermieristiche, dichiarando il falso e tacendo il vero ai Carabinieri del Nucleo Investigativo, delegati dal Pubblico Ministero, nel tentativo di aiutare il Sovrintendente Casullo e gli Assistenti Capo Vertuani e Licari, sviando le indagini nei loro confronti. In particolare, avrebbe scritto (e riferito al Medico, che però non avrebbe confermato la circostanza) di aver trovato il detenuto Colopi che sbatteva violentemente la testa sul blindo mentre passata per il giro della terapia tra le 8 e le 9 di mattina di quel 30 settembre: circostanza che risulterebbe smentita da altro Agente di Polizia Penitenziaria che l’accompagnava. Anche su quest’ultimo avrebbe dichiarato il falso, affermando di essere stata accompagnata da uno dei tre imputati, l’Assistente Capo Licari, mentre invece con lei c’era un altro Agente di Polizia Penitenziaria.

E’ illegittimo il divieto di scambio di oggetti di modico valore tra detenuti dello stesso gruppo di socialità al 41 bis


Cade il divieto assoluto di scambio di oggetti di modico valore, come generi alimentari o per l’igiene personale e della cella, per i detenuti sottoposti al regime del 41 bis appartenenti allo stesso “gruppo di socialità”. Il divieto legislativo, comprensibile tra detenuti assegnati a gruppi di socialità diversi, risulta invece irragionevole se esteso in modo indiscriminato anche ai componenti del medesimo gruppo. Resta fermo che l’Amministrazione Penitenziaria potrà disciplinare le modalità degli scambi nonché predeterminare eventuali limitazioni in determinati e peculiari casi, che saranno eventualmente vagliate dal magistrato di sorveglianza.

Lo ha stabilito la Corte Costituzionale (Cartabia, Presidente, Zanon, Relatore) con la Sentenza n. 97 depositata oggi 22 maggio 2020, con la quale – in accoglimento delle questioni sollevate dalla Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione con due Ordinanze di analogo tenore – ha dichiarato costituzionalmente illegittimo per contrasto con gli Artt. 3 e 27 comma 3 della Costituzione della Repubblica il divieto legislativo di scambiare oggetti tra detenuti sottoposti al regime dell’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario appartenenti al medesimo “gruppo di socialità”.

Formati al massimo da quattro detenuti, in applicazione di una complessa serie di criteri, i gruppi di socialità servono a conciliare due esigenze potenzialmente contrapposte: da una parte, evitare che i detenuti più pericolosi possano mantenere vivi i propri collegamenti con i membri delle organizzazioni criminali di riferimento, sia reclusi in carcere che liberi (finalità essenziale del regime detentivo speciale), e, dall’altra, garantire anche a questi detenuti occasioni minimali di socialità.

La sentenza ricorda che gli appartenenti al medesimo gruppo di socialità trascorrono insieme alcune ore della giornata dentro il carcere e tra loro possono ovviamente comunicare, verbalmente e con gesti. Hanno così svariate occasioni di scambiare messaggi, non necessariamente ascoltati o conosciuti dalle autorità penitenziarie. Pertanto, la Corte ha rilevato che, se è ben comprensibile prevedere il divieto di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti assegnati a gruppi di socialità diversi, risulta invece irragionevole l’estensione indiscriminata del divieto anche ai componenti del medesimo gruppo. I quali, potendo già agevolmente comunicare in varie occasioni, non hanno di regola la necessità di ricorrere a forme nascoste o criptiche di comunicazione, come lo scambio di oggetti cui sia assegnato convenzionalmente un certo significato, da trasmettere successivamente all’esterno attraverso i colloqui con i familiari.

Così, da una parte, il divieto non serve ad accrescere le esigenze di sicurezza pubblica, dall’altra, impedisce una sia pur minima modalità di socializzazione: finisce anzi per presentarsi come regola irragionevole, in contrasto con l’Art. 3 della Costituzione, e inutilmente afflittiva, in contrasto con l’Art. 27 comma 3 della Costituzione.

Tra l’altro, forme unidirezionali di scambio di oggetti, sempre in favore di singoli detenuti, idonee a segnalare simbolicamente la loro posizione di supremazia all’interno del gruppo, ben possono essere impedite con l’applicazione delle ordinarie regole carcerarie e condurre alla tempestiva modifica della composizione del gruppo di socialità. La Corte ha precisato, infine, che a risultare costituzionalmente illegittimo, per le ragioni illustrate, è l’applicazione necessaria ex lege del divieto. Anche dopo la presente sentenza, dunque, l’Amministrazione Penitenziaria potrà disciplinare le modalità degli scambi tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo nonché predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni in determinati e peculiari casi. L’applicazione di queste limitazioni dovrà così risultare giustificata da precise esigenze, espressamente motivate, e sotto questi profili potrà essere eventualmente controllata, in relazione al caso concreto, dal magistrato di sorveglianza.

Corte Costituzionale – Sentenza n. 97 del 2020 (clicca per scaricare)

Divieto di scambio di oggetti tra detenuti al regime 41 bis, domani deciderà la Corte Costituzionale


Domani la Corte Costituzionale (Marta Cartabia Presidente – Nicolò Zanon, Relatore)  esaminerà le questioni di legittimità costituzionale dell’Articolo 41 bis comma 2 quater lett. f) dell’Ordinamento Penitenziario per contrasto con gli Articoli 3 e 27 della Costituzione della Repubblica sollevate dalla Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione (Adriano Iasillo Presidente – Carlo Renoldi Relatore) con le Ordinanze n. 222 e 223 del 23 ottobre 2019. Le questioni sollevate passeranno direttamente in decisione in Camera di Consiglio, senza alcuna discussione orale, sulla base degli atti depositati, ai sensi della lettera c), punto 1, del Decreto del Presidente della Corte Costituzionale del 20 aprile 2020. La Corte di Cassazione, con due Ordinanze di analogo tenore, ha sollevato, in riferimento agli Articoli 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità dell’Articolo 41 bis comma 2 quater, lett. f) dell’Ordinamento Penitenziario, nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime detentivo speciale appartenenti al medesimo gruppo di socialità.

La Corte rimettente, anzitutto, ricorda che la disposizione censurata prevede, testualmente, l’adozione di «tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata l’assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi». Il Giudice rimettente ricorda, poi, l’interpretazione di tale disposizione offerta dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui deve ritenersi, soprattutto in considerazione dell’inserimento del segno di interpunzione della virgola fra le parole “socialità” e “scambiare”, che le varie proposizioni riferite a comportamenti dei detenuti, in ordine ai quali va perseguita la “assoluta impossibilità” di realizzazione, siano costituiti, per un verso, dalla comunicazione fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e, per altro verso, dallo scambio di oggetti e dalla cottura di cibi.

Ciò posto, il rimettente, affermando di condividere tale interpretazione, ritiene che il divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità determinerebbe, in violazione dell’Articolo 3 della Costituzione, una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai detenuti in regime ordinario. Tale divieto, soggiunge il rimettente a supporto della sua tesi, avrebbe esclusivamente portata afflittiva, non potendo ritenersi funzionale a rescindere i collegamenti ancora attuali sia tra i detenuti che appartengano a determinate organizzazioni criminali, sia tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà. Proprio la comune appartenenza al medesimo gruppo di socialità, infatti, secondo il Giudice, consentirebbe a monte lo scambio di qualunque contenuto informativo. Ad avviso del rimettente il divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità sarebbe in contrasto anche con il principio della finalità rieducativa della pena, enunciato dall’Articolo 27, comma 3, della Costituzione, in quanto impedirebbe anche quelle forme “minime” di socialità che si estrinsecano nello scambio di oggetti di scarso valore e di immediata utilità o di generi alimentari tra persone che si frequentano “senza filtri” ogni giorno e in una prospettiva di normalità di rapporti interpersonali.

Negli anni passati, il Giudice delle Leggi, con sentenza n. 186 del 2018 (Giorgio Lattanzi, Presidente – Nicolò Zanon, Relatore) ha ritenuto fondata analoga questione di legittimità costituzionale dell’Articolo 41 bis comma 2 quater, lettera f) dell’Ordinamento Penitenziario sollevata dal Magistrato di Sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi, dichiarandone la illegittimità costituzionale nella parte in cui prevedeva, in via generale ed astratta, il divieto di cottura dei cibi, in quanto privo di ragionevole giustificazione alla luce degli obiettivi cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla normativa in questione. Per tale ragione, molto probabilmente, la Corte Costituzionale, dichiarerà fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione, poiché il divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, appare assolutamente ingiustificato ed inutile oltre ad essere meramente ed ulteriormente afflittivo e quindi non funzionale alle finalità proprie del regime detentivo speciale, notoriamente volto ad impedire collegamenti dei detenuti con posizione di vertice in una consorteria criminale con i sodali ristretti o in libertà.

Flick: Per la Consulta la pena non è vendetta. Si deve perseguire il reato non il nemico, mafioso o corrotto che sia


Intervista a Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale. “La decisione che ha reso non assoluto il vincolo della collaborazione perché il detenuto ostativo possa ottenere permessi ricorda che si deve perseguire il reato, non il nemico: mafioso o corrotto che sia”.

“Avevo un timore. Devo ammetterlo. Nel leggere il primo comunicato della Corte costituzionale, diffuso subito dopo la camera di consiglio sui permessi ai detenuti ostativi, ho temuto che i giudici volessero un po’ mettere le mani avanti, di fronte all’uragano delle critiche, per non dire dei tentativi di pressione.

In particolare nel passaggio in cui si precisava come il perimetro della decisione fosse limitato ai soli permessi e non agli altri benefici. E invece, l’ampio comunicato della Consulta arrivato poche ore fa è esemplare nella forza con cui afferma che “è giusto premiare chi collabora, ma non si può punire chi non collabora”. Ricorda che non si può perché altrimenti si aggiunge ulteriore afflizione alla pena, si punisce lo pesudo-reato della non collaborazione, e si irroga dunque una pena disumana”.

Giovanni Maria Flick rilegge le motivazioni della sentenza costituzionale che ha dichiarato illegittima la presunzione assoluta secondo cui il detenuto ostativo che non collabora resta legato all’organizzazione criminale e quindi non può ottenere permessi. Il presidente emerito della Consulta se ne compiace non solo per passione civile ma anche per aver partecipato, da giudice delle leggi, a precedenti decisioni che non sempre avevano avuto la stessa coraggiosa determinazione in materia di esecuzione penale.

Adesso, Presidente Flick, il fronte allarmista paventa rischi eccessivi per i giudici di sorveglianza. Si ipotizza un collegio unico nazionale che sollevi i singoli magistrati. Che ne pensa?

“Come fa un collegio unico a valutare con accuratezza, magari da Roma, se un detenuto ostativo di Canicattì conserva o meno legami con il contesto criminale? Posso usare un’espressione antipatica, per dire cosa penso di simili argomentazioni?”.

Siamo qui per questo…

“E allora le dico che mi pare davvero una carità pelosa. Nel momento in cui non si trovano altri argomenti ci si aggrappa alla necessità di proteggere il giudice dal rischio della decisione. Si dimentica o si finge di dimenticare che il rischio della decisione è la sostanza ultima del “mestiere di giudice”. E poi mi chiedo: perché ci si preoccupa di sostituire il singolo magistrato con un collegio in fase di esecuzione e non si ha la stessa premura per il giudice che ordina le misure cautelari?”.

Perché nell’esecuzione il principio di umanità si impone in modo per qualcuno insopportabile?

“Ecco, ci arriviamo tra un attimo. Vorrei prima segnalare che tante preoccupazioni sono sorprendentemente, diciamo così, rivolte verso quello stesso giudice sul quale si scarica magari una funzione sussidiaria nelle tematiche relative al rapporto tra diritto penale ed economia. Non aggiungo altro se non il fatto che simili responsabilità finiscono per esondare dal carico istituzionale e costituzionale che in realtà spetta al giudice”.

Ma insomma, un giudice di sorveglianza è affidabile o no?

“Lei ironizza, evidentemente. Mi pare chiaro che dietro la preoccupazione per i presunti nuovi rischi a cui la sentenza sul 4bis esporrebbe i magistrati di sorveglianza vi sia tutto quello sfondo di sostanziale sfiducia nei confronti dei giudici che assumono decisioni ritenute troppo clementi, troppo buone. Vi è cioè quella ricerca di automatismo legislativo che sottrae al giudice il suo preciso compito di valutazione del caso concreto: si pensi alla riforma alla legittima difesa”.

Come quella sulla Rigopiano?

“Ecco, è l’altra faccia della stessa medaglia. È il motivo che mi spinge a parlare di carità pelosa. È doveroso che i giudici, tutti, siano adeguatamente protetti; non è accettabile diffidare di loro per il semplice fatto che si distaccano dalle aspettative dell’opinione pubblica”.

La sentenza sul 4bis ha riaffermato il principio di umanità della pena?

“Lo ha fatto nella misura in cui ha ricordato che la pena non può mai essere priva di speranza, altrimenti è appunto disumana e contraria alla dignità. Ma la Corte si è soprattutto allontanata da un’idea di esecuzione penale incentrata esclusivamente sull’inasprimento della sanzione, sulla vendetta. Inasprimento che troppo spesso non è tanto proporzionato alla gravità del fatto quanto ad altre finalità come quella di evitare la prescrizione. Ha implicitamente disvelato come una simile visione rischi di celarsi dietro alcune delle argomentazioni finora richiamate per difendere il nesso assoluto fra permessi e collaborazione: mi riferisco alla cosiddetta immodificabilità del dna mafioso. Ora, nel comunicato che riporta le motivazioni della Consulta, si ricorda che la pronuncia sui permessi riguarda tutti i reati assoggettati all’ostatività dell’articolo 4bis. E noi sappiamo che la categoria ormai comprende anche fattispecie del tutto estranee alla mafia, come la corruzione. La legge che ha esteso il regime ostativo alla corruzione segnala proprio quell’idea tutta basata sull’inasprimento delle pene di cui le dicevo”.

“Non si può punire chi non collabora”: esemplare. Ma perché la Corte ci arriva solo ora?

“La disumanità di una pena senza speranza era venuta da tempo all’attenzione della Corte, anche a proposito dell’ergastolo. In quel caso la si è superata in virtù di una contraddizione: nel senso che a un “fine pena mai” illegittimo nella sua dichiarazione si è contrapposta la legittimità della sua esecuzione, offerta dalla prospettiva della liberazione condizionale, quando sia meritata. Rispetto al 4bis, nel 2003 ricordo bene, da giudice costituzionale, le perplessità all’interno della Corte, che impedirono di accogliere la questione di legittimità costituzionale posta dalla Cassazione. Però nello stesso tempo si è passati poi progressivamente per le pronunce sui casi di collaborazione inesigibile e di ammissibilità alle misure alternative in casi come quello della madre che deve accudire figli piccoli. Certo, solo con la conclusione di questo percorso, la Corte costituzionale ha avuto ora il coraggio di quell’affermazione così netta: non puoi punire qualcuno solo perché non collabora”.

Quali sono gli altri pilastri della decisione?

“Il primo: la presunzione secondo cui chi non collabora conserva legami con l’organizzazione criminale non è irragionevole ma non può essere assoluta. Secondo: una simile presunzione impedisce al giudice di valutare in concreto il percorso del singolo condannato. Terzo: sempre quella presunzione assoluta si fondava su una presunzione statistica che non ammetteva controprova. Si escludeva che un detenuto ostativo potesse rifiutare la collaborazione per motivi diversi dal suo legame con la organizzazione criminale. Naturalmente la Corte ha indicato criteri rigorosissimi per la valutazione dell’effettiva rescissione di quel legame. Serve una prova che abbia la stessa forza di quel legame, basata anche su quel sistema di controlli da parte degli organi di polizia e di valutazioni dalla Procura nazionale antimafia che possono avere un rilievo ostativo molto rilevante, e che tengono conto anche del contesto esterno, non solo di quello personale in carcere”.

Ma la sentenza sui permessi è il primo passo verso il superamento dell’ergastolo ostativo?

“Non faccio pronostici da allibratore, mi perdoni. Penso, questo sì, che la tendenza debba essere quella di un superamento di una concezione che sta affermandosi e che non mi sembra condivisibile. Mi riferisco al paradosso per cui nell’accertamento processuale si dovrebbe giudicare il fatto e la pena e invece ora si giudica l’uomo, vale a dire il “mafioso” o il “corrotto”. Tanto è vero che le pene previste, ad esempio, per la corruzione impropria sono diventate ad esempio quasi più aspre di quelle previste per la corruzione propria, come se si guardasse appunto alla natura insuperabile di corruttore e non al fatto specifico. Allo stesso modo nella fase di esecuzione si è andati verso il rovesciamento del principio per cui occorre giudicare l’uomo e il suo percorso rieducativo: adesso si pretende di veder giudicata, nell’esecuzione, anche, se non soprattutto, la gravità del fatto in sé. Mi auguro questo sì, che la smettiamo di ragionare per apriorismi e per affermazioni di tipo dogmatico e torneremo a difenderci da chi viola un unico codice penale, e a farlo nei limiti delle regole del codice di rito e secondo la Costituzione. Senza distinguere tra codice penale e processuale per il nemico e codice per tutti gli altri”.

Errico Novi

Il Dubbio, 6 dicembre 2019

Corte Costituzionale Sentenza n. 253 del 2019 (clicca per scaricare)

Paola, Quintieri (Radicali): Non risponde al vero la notizia che in carcere ci siano detenuti isolati


In riferimento alle notizie diffuse nella giornata di ieri dal difensore di un detenuto ristretto nella Casa Circondariale di Paola circa il suo isolamento totale, diurno e notturno, da oltre 40 giorni, mo corre l’obbligo di precisare che le stesse sono prive di fondamento.

Infatti, effettuati gli accertamenti del caso, non risulta che vi sia alcun detenuto isolato nella Casa Circondariale di Paola, anche perché sia la Sezione di Isolamento che il “Repartino” alla Prima Sezione sono chiuse (quest’ultimo è inagibile in quanto le quattro camere detentive sono state distrutte da alcuni detenuti).

In realtà il detenuto P.G., al momento del suo ingresso in Istituto nell’Istituto di Paola, ha chiesto espressamente al personale di Polizia Penitenziaria di essere allocato in una camera individuale, temendo per la propria incolumità, poiché sottoposto ad indagini per reati di riprovazione sociale (maltrattamenti in famiglia).

Inoltre, il P.G., ha chiesto al personale di Polizia Penitenziaria di poter rimanere a Paola, almeno fino al 10 dicembre, giorno in cui si discuterà la sua posizione innanzi al Tribunale del Riesame di Catanzaro, anche per potergli consentire di svolgere i colloqui con alcuni familiari.

Il P.G. sin dal suo ingresso in Istituto non è mai stato in isolamento, ma si trova allocato nella Quarta Sezione insieme agli altri detenuti, in una camera individuale, su sua esplicita richiesta, peraltro ribadita anche questa mattina al personale di Polizia Penitenziaria. Qualora il detenuto voglia essere allocato in vita comune, l’Amministrazione Penitenziaria si attiverà subito per la immediata traduzione in altro Istituto Penitenziario attrezzato di Sezione Protetta (Castrovillari o Vibo Valentia).

Tra l’altro, nelle scorse settimane, in occasione della visita che ho effettuato al Carcere di Paola insieme alla collega giurista Valentina Anna Moretti, non ho accertato la presenza di alcun detenuto sottoposto ad isolamento.

Al momento della visita (30/10/2019) nell’Istituto Penitenziario di Paola, a fronte di una capienza regolamentare di 182 posti, sono ristretti 210 detenuti, 78 dei quali stranieri (prevalentemente albanesi, marocchini, nigeriani, rumeni ed ucraini), con le seguenti posizioni giuridiche: 14 giudicabili, 19 appellanti, 15 ricorrenti, 162 definitivi di cui 5 ergastolani.

Emilio Enzo Quintieri
già Consigliere Nazionale Radicali Italiani

Milano, botte ad un detenuto ristretto nel Carcere di San Vittore, rinviati a giudizio 11 Agenti di Polizia Penitenziaria


Per presunte intimidazioni e pestaggi, tra il 2016 e il 2017, ai danni di un tunisino di 50 anni, Ismail Ltaief, detenuto per tentato omicidio, undici persone, tra Ispettori e Agenti di Polizia Penitenziaria del carcere milanese di San Vittore, sono stati rinviati a giudizio dal Gup di Milano Alessandra Cecchelli.

Il processo comincerà per tutti il prossimo 12 febbraio davanti alla quinta sezione penale. Le accuse sono, a vario titolo, intralcio alla giustizia, lesioni, falso e sequestro di persona.

Stando all’indagine del Pm di Milano Leonardo Lesti, le botte e le minacce, che risalirebbero ad un periodo tra il 2016 e il 2017, avrebbero avuto lo scopo di punire Ltaief poiché nel 2011, quando era in cella a Velletri (Roma), aveva denunciato altri agenti per furti in mensa e percosse. I pestaggi sarebbero stati messi in atto pure per impedirgli, questa è l’ipotesi, di testimoniare nel processo “bis” davanti al Tribunale della cittadina laziale sulla vicenda delle presunte ruberie.

Le accuse per le undici guardie carcerarie (non più in servizio nel carcere del capoluogo lombardo, ma in altri istituti) sono, a vario titolo, intralcio alla giustizia, lesioni, falso e sequestro di persona. Reato quest’ultimo contestato solo ad alcuni imputati, in quanto in uno dei due pestaggi, datati 27 marzo e 12 aprile 2017, come si legge nel capo di imputazione, il 50enne, privato “della libertà” sarebbe stato ammanettato e trasferito in una stanza in uso ad uno degli agenti sotto inchiesta per poi essere picchiato. Oltre a Ltaief, parte offesa nel procedimento è anche un suo compagno di cella, un sudamericano di 30 anni, il quale chiamato a rendere testimonianza ai magistrati milanesi sarebbe stato intimidito da uno degli imputati che per questo venne anche arrestato.

http://www.repubblica.it – 13 novembre 2019

Asti, Pestarono un detenuto per futili motivi: condanne definitive per due Poliziotti Penitenziari


Definitiva la condanna per lesioni personali aggravate nei confronti di due Poliziotti Penitenziari in servizio presso la Casa di Reclusione di Asti riconosciuti responsabili, in tutti i gradi di giudizio, di aver pestato il 27 maggio 2010, all’interno dell’Infermeria dell’Istituto e per futili motivi, un detenuto affidato alla loro custodia, colpendolo ripetutamente con calci alle gambe, alla schiena ed alla gola, pugni al petto ed altro ancora.

Nei giorni scorsi, la Corte Suprema di Cassazione, su conforme richiesta della Procura Generale della Repubblica, ha dichiarato inammissibili i ricorsi proposti da Carmelo Rositano e Nicola Sgarra, Sovrintendente ed Assistente del Corpo di Polizia Penitenziaria, rispettivamente difesi dagli Avvocati Gaetano Antonio Scalise e Maurizio La Matina, confermando la sentenza pronunciata dalla Corte di Appello di Torino il 25 ottobre 2016. In primo grado, il 5 dicembre 2014, all’esito del giudizio abbreviato, il Giudice Monocratico del Tribunale di Asti Giulio Corato, aveva condannato – senza nemmeno concedergli le attenuanti generiche e la sospensione condizionale della pena – il Sovrintendente Rositano, calabrese, alla pena di 2 anni e 8 mesi e l’Assistente Sgarra, pugliese, alla pena di 2 anni e 2 mesi ed al pagamento di 10 mila euro come risarcimento danni, nei confronti della persona offesa costituita parte civile Carlos Eduardo Mohamed Gola, 28 anni, all’epoca dei fatti detenuto presso la Casa di Reclusione di Asti, difeso dall’Avvocato Guido Cardello, per il “pestaggio assolutamente gratuito” (così è stato definito in sentenza), riconoscendoli responsabili di lesioni personali aggravate, ingiuria, violenza privata e vilipendio alla religione.

La Corte di Appello di Torino, il 25 ottobre 2016, assolvendoli dalle imputazioni di ingiuria perché abrogata nel 2016, dalla violenza privata e dal vilipendio alla religione, ha confermato la condanna per lesioni personali aggravate, riducendo la pena ad 1 anno di reclusione, concedendo il beneficio della sospensione condizionale, ed il risarcimento danni a 5 mila euro, somma già corrisposta all’ex detenuto italiano di origini brasiliane, convertitosi all’Islam. Altri due Agenti di Polizia Penitenziaria, invece, sono riusciti a farla franca non essendo stato possibile identificarli; uno dei due, al momento dei fatti, era persino in abiti civili ed aveva il volto coperto da mefisto.

I fatti, come detto, si sono svolti il 27 maggio 2010 alle ore 10,40 del mattino, nel Reparto Infermeria dell’Istituto Penitenziario ove il detenuto Gola era stato accompagnato per una visita. Approfittando dell’assenza del personale sanitario, gli Agenti Penitenziari, lo hanno insultato con frasi del tipo “bastardo”, “stronzo” e “musulmano di merda” tagliandogli con delle forbici pure una ciocca della sua barba puzzolente, e poi dopo avergli tappato la bocca con del nastro da pacchi, coperto il volto con un sacchetto di plastica e denudato, con una corda lo hanno appeso alla grata della finestra legandogli i polsi, aggredendolo fisicamente, provocandogli delle lesioni corporali, guarite in 1 mese, riscontrate da quattro Medici in servizio all’Ospedale di Quarto e da un Medico Legale nominato dal difensore del detenuto.

In tutti i gradi di giudizio, gli Agenti Penitenziari, tramite dei loro difensori, hanno provato a difendersi sostenendo che il detenuto era inattendibile e non credibile, che la sua versione fosse inverosimile e che si trattava di un sacco di frottole, ma tutti i Magistrati, requirenti e giudicanti, che si sono occupati del caso hanno ritenuto le dichiarazioni della persona offesa fossero complessivamente attendibili anche perché suffragate da ulteriori riscontri.

Gli agenti condannati sono stati subito allontanati dal Carcere astigiano: mentre il Sovrintendente Rositano è stato posto in quiescenza, l’Assistente Sgarra continua a svolgere servizio presso la Casa Circondariale di Alessandria. Stante la gravità dei fatti, per i quali ormai vi è condanna irrevocabile, sarebbe opportuno che, nei confronti dello Sgarra, ancora in servizio, venga avviato il procedimento disciplinare per la sua destituzione dal Corpo della Polizia Penitenziaria.

Emilio Enzo Quintieri