Firenze, Pestò un detenuto con un bastone: condanna definitiva per Ispettore della Penitenziaria


Pestò un detenuto straniero con un bastone, dopo quindici anni arriva la condanna definitiva per un sottufficiale del Corpo di Polizia Penitenziaria all’epoca dei fatti in servizio presso la Casa Circondariale di Firenze “Sollicciano”. Purtroppo, anche questa volta, nonostante gli accertamenti effettuati, non è stato possibile identificare e condannare tutti gli altri Agenti Penitenziari responsabili di abusi e violenze.

Ad essere stato condannato, per quanto accaduto nel lontano primo pomeriggio del 26 ottobre 2005, è stato solo Marcello Santoro, originario di Mondragone (Caserta), Ispettore Capo di Polizia Penitenziaria, Responsabile dell’Unità Operativa “Reparto Giudiziario” della Casa Circondariale di Firenze Sollicciano. I fatti avvennero nel Reparto Giudiziario dell’Istituto all’interno dell’Ufficio del Capoposto e ad esserne vittima fu El Rezgui Walid un giovane detenuto straniero. Le indagini della Procura della Repubblica di Firenze guidata dal Procuratore Capo Ubaldo Nannucci e del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria  guidato dal Provveditore Regionale Massimo De Pascalis partirono a seguito di una denuncia pubblica fatta sulla stampa il 5 dicembre 2005 da dieci Associazioni e da un Sacerdote che operano dentro e fuori dall’Istituto Penitenziario (Dentro e Fuori le mura, Redazione Fuori Binario, Pantagruel, Movimento di lotta per la casa, Casa dei diritti sociali, Associazione Aurora, Comunità dell’Isolotto, Associazione Periferie al Centro, Don Alessandro Santoro, Comunità di base delle Piagge, Associazione per l’Altro). Nessun detenuto, però, per timore di peggiorare la sua permanenza in carcere, denunciò gli abusi all’Autorità Giudiziaria.

L’Ispettore Santoro è stato riconosciuto responsabile del reato di lesioni personali aggravate dall’uso di un’arma e dall’abuso della funzione pubblica per aver cagionato al detenuto El Rezgui lesioni lievi consistite in “aree eritematose al dorso e in regione lombare sinistra”, giudicate guaribili in due giorni, certificate dal Medico di guardia Dott.ssa Maria Arcangela Lombardi. L’altro reato contestato, quello di aver sottoposto a misure di rigore non consentite dalla legge il detenuto, è stato estinto per intervenuta prescrizione. In particolare, secondo quanto emerso dall’istruttoria dibattimentale, detto Ispettore, all’interno del suo Ufficio, colpì ripetutamente il detenuto con un manico di scopa sino a spezzarglielo addosso sulla schiena, mentre altri suoi colleghi lo percuotevano con calci e pugni facendolo accasciare a terra.

Per i Giudici della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione “l’impianto argomentativo della sentenza impugnata è immune da vizi logici, esprime valutazioni adeguatamente motivate come tali insindacabili in questa sede: le lesioni accertate dalla certificazione contenuta nel registro delle visite attesta lesioni assolutamente compatibili con le modalità delle percosse descritte dalla persona offesa e, in particolare con i colpi di bastone ricevuti sulla schiena. Le lesioni costituite dalle aree erimatose sul dorso e in regione lombare sono state obiettivamente rilevate e risultano compatibili con le modalità delle percosse descritte dalla persona offesa e, in particolare, con i colpi datigli con il bastone, e non altrettanto con la versione alternativa fornita dagli imputati nella relazione di servizio, circa l’impiego di una manovra di forza per la sottrazione di una lametta dalle mani di El Rezgui.”

L’Ispettore Capo di Polizia Penitenziaria Marcello Santoro, ora in pensione, oltre alla pena detentiva, condizionalmente sospesa, ed al risarcimento dei danni nei confronti del detenuto El Rezgui Walid e delle altre parti civili costituite, poiché il suo ricorso è stato dichiarato inammissibile, è stato condannato anche al pagamento delle spese processuali e al versamento di 3.000 euro in favore della Cassa delle Ammende.

Ferrara, 3 Agenti a giudizio per tortura, lesioni, falso e calunnia ai danni di un detenuto. Imputata anche una Infermiera per falso e favoreggiamento


Tortura, lesioni personali, falso in atto pubblico e calunnia in concorso nonché di falso e favoreggiamento. Sono i reati che la Procura della Repubblica di Ferrara contesta, rispettivamente, a tre Agenti di Polizia Penitenziaria, un Sovrintendente e due Assistenti Capo, e ad una Infermiera in servizio presso la Casa Circondariale di Ferrara per fatti commessi ai danni di un detenuto il 30 settembre 2017.

Il Pubblico Ministero Isabella Cavallari, al termine delle indagini preliminari, ha inteso esercitare l’azione penale chiedendo il rinvio a giudizio per tutti i reati contestati. La vittima degli abusi è Antonio Colopi, 25 anni, di Galatone (Lecce) che all’epoca dei fatti era ristretto in custodia cautelare nell’Istituto Penitenziario di Ferrara (e poi trasferito presso la Casa Circondariale di Reggio Emilia). Gli imputati, invece, sono il Sovrintendente Geremia Casullo, 55 anni, l’Assistente Capo Massimo Vertuani, 49 anni, l’Assistente Capo Pietro Licari, 51 anni e l’Infermiera Eva Tonini, 39 anni. L’udienza preliminare è stata già fissata e si terrà il prossimo 9 luglio 2020 innanzi al Giudice per le Udienze Preliminari del Tribunale di Ferrara Danilo Russo.

Secondo quanto emerge dalla richiesta di rinvio a giudizio a firma del Pm Cavallari, i tre Agenti Penitenziari durante una perquisizione arbitraria eseguita all’interno della cella numero 2 del detenuto Colopi, posta nel reparto di isolamento, lo avrebbero costretto a denudarsi (eccetto le mutande) e poi ad inginocchiarsi ed una volta in quella posizione, dopo averlo ammanettato, lo avrebbero ripetutamente insultato e percosso, anche con un oggetto di metallo, utilizzato dal personale penitenziario per la battitura delle inferriate, lasciandolo in quelle condizioni fino a quando non venne notato dal Medico durante il giro tra le Sezioni, ponendo in essere un «trattamento inumano e degradante per la dignità della persona» agendo «con crudeltà e violenza grave» ed approfittando «della condizione di minorata difesa derivante dall’averlo ammanettato.».

In particolare, il Sovrintendente Casullo, mentre i suoi colleghi Assistenti Capo Vertuani e Licari facevano da palo nel corridoio, sarebbe entrato nella cella e dopo avergli fatto togliere maglia e canottiera, lo avrebbe fatto inginocchiare, colpendolo con calci allo stomaco. Poi gli avrebbe fatto togliere pantaloni, scarpe e calzini, lo avrebbe ammanettato continuando a colpirlo con calci e pugni allo stomaco, alle spalle ed al volto, utilizzando anche il ferro per la battitura per colpirlo alle spalle, alle gambe, alla nuca ed al viso. A quel punto, la vittima, avrebbe reagito con una testata, rompendo gli occhiali al sottufficiale, che lo ha minacciato e lo ha colpito ancora fino a spaccargli un dente. Il detenuto allora avrebbe chiesto aiuto, urlando il nome del Comandante del Reparto, ma Casullo lo avrebbe minacciato dicendogli che “Qui non c’è nessuno, Comandante e Ispettore sono solo io” con un coltello rudimentale puntato alla gola, passatogli dall’Assistente Capo Licari. Quest’ultimo, poi, avrebbe fatto ingresso nella cella dicendo “ora tocca a me” iniziando ad insultare e percuotere il detenuto su tutto il corpo, seguito dal collega Vertuani, che sino a quel momento aveva assolto la funzione di palo. Finito il violento pestaggio, la vittima, che ha avuto una prognosi di 15 giorni, è stata lasciata ammanettata e seminuda, fino a quando, dopo circa un’ora, durante un controllo, non l’ha notata il Medico del Penitenziario.

Il Sovrintendente Casullo e l’Assistente Capo Vertuani, sono anche imputati di falso per aver redatto dei rapporti considerati non veritieri sull’accaduto e, di fatto, contengono il nocciolo della loro versione dei fatti: sarebbe stato Colopi ad opporsi alla perquisizione, accogliendo gli Agenti Penitenziari con fare minaccioso, aggredendoli con calci e pugni, e loro avrebbero solo reagito per contenerlo e riportarlo alla calma. Da uno dei rapporti emergerebbe anche che il detenuto avrebbe usato come arma un oggetto contundente ricavato da una bomboletta del gas, che però secondo il Pubblico Ministero sarebbe stata introdotta proprio dai Poliziotti i quali, peraltro, non avrebbero fatto menzione né delle manette, né delle lesioni del detenuto, né del fatto che lo stesso venne denudato e lasciato in mutande. Inoltre, avrebbero scritto il falso, affermando di aver immediatamente avvisato l’Ispettore di sorveglianza, che invece sarebbe stato attivato solo un’ora dopo e solo al passaggio del Medico. Sempre i due, Casullo e Vertuani, sono imputati anche di calunnia nei confronti del detenuto, per averlo accusato del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, pur sapendolo innocente.

Per quanto riguarda l’Infermiera, Eva Tonini, per lei è stato chiesto il processo con le accuse di falso e favoreggiamento nei confronti dei tre Agenti di Polizia Penitenziaria. La predetta, in servizio al momento dei fatti, avrebbe scritto il falso nelle comunicazioni infermieristiche, dichiarando il falso e tacendo il vero ai Carabinieri del Nucleo Investigativo, delegati dal Pubblico Ministero, nel tentativo di aiutare il Sovrintendente Casullo e gli Assistenti Capo Vertuani e Licari, sviando le indagini nei loro confronti. In particolare, avrebbe scritto (e riferito al Medico, che però non avrebbe confermato la circostanza) di aver trovato il detenuto Colopi che sbatteva violentemente la testa sul blindo mentre passata per il giro della terapia tra le 8 e le 9 di mattina di quel 30 settembre: circostanza che risulterebbe smentita da altro Agente di Polizia Penitenziaria che l’accompagnava. Anche su quest’ultimo avrebbe dichiarato il falso, affermando di essere stata accompagnata da uno dei tre imputati, l’Assistente Capo Licari, mentre invece con lei c’era un altro Agente di Polizia Penitenziaria.

Caso Cucchi : “Diranno che è stata morte naturale”, ma cosa sapevano gli Agenti ?


CucchiNelle intercettazioni gli indagati parlavano come se avessero già la certezza del risultato. La famiglia denuncia i periti della Procura.

“Domani è un giorno importante, perché ci sarà l’autopsia e così diranno che è morto di morte naturale”, disse la moglie di uno degli agenti penitenziari inquisiti il 15 novembre 2009, parlando al telefono con un’amica. L’indomani i consulenti del pubblico ministero ricevettero l’incarico di riesumare il cadavere di Stefano Cucchi – a un mese dall’arresto e tre settimane dal decesso – ma gli indagati parlavano come se avessero già la certezza del risultato.

Oppure era il semplice auspicio che venisse confermato ciò che appariva già chiaro, sosterranno gli interessati, ma intanto questa intercettazione è finita nell’atto d’accusa presentato dai familiari di Cucchi contro i periti nominati della Procura di Roma. Come un’altra, in cui la stessa signora annuncia alla madre: “Da lunedì, quando usciranno i risultati dell’autopsia, loro saranno scagionati”.

E un’altra ancora, in cui una delle guardie coinvolte parla con un co-indagato e gli comunica: “L’avvocato ha detto che ha parlato con il perito e questo gli ha detto che è tutto a loro favore”, cioè dei consulenti nominati dalle difese. Una settimana dopo, lo stesso agente confida a un collega che “il suo perito conosce i periti del tribunale e questi gli hanno detto che le cause della morte non dipendono dalle percosse”.

I risultati della perizia furono consegnati ad aprile 2010, ed effettivamente stabilirono che “il quadro traumatico d’insieme (cioè gli effetti delle percosse subite da Cucchi, ndr) non ha avuto alcuna valenza causale nel determinismo della morte”.

Conseguenza: l’accusa nei confronti delle guardie carcerarie fu declassificata da omicidio preterintenzionale a lesioni e abuso di autorità. Tuttavia gli inquisiti sapevano già tutto fin da novembre e dicembre; del resto il capo del gruppo nominato dai pubblici ministeri, il professor Paolo Arbarello, prima ancora di iniziare il suo lavoro spiegò davanti a una telecamera: “Il magistrato ci chiederà: sono state lesioni mortali quelle che hanno determinato la morte? Quindi i medici non potevano fare altro? Oggi le dico probabilmente di no. Sono portato più a ritenere che ci sia una responsabilità dei medici, però… lo devo dimostrare”.

Un’anticipazione bella e buona delle conclusioni raggiunte sei mesi dopo, secondo i genitori e la sorella di Stefano Cucchi, che ieri hanno presentato una denuncia penale contro Arbarello, sostenendo che “l’impostazione accusatoria è stata gravemente compromessa dalla pervicace negazione che la morte di Stefano abbia avuto un qualsiasi collegamento causale rispetto alle lesioni fisiche, che invece erano apparse fin da subito talmente gravi da imporre immediate visite al pronto soccorso e poi quel ricovero in ospedale in cui Stefano è deceduto”.

Tuttavia dopo l’indagine c’è stato un processo, nel quale la corte d’assise ha incaricato altri periti di svolgere nuovi esami sulle cause della morte di Cucchi, e il risultato non è cambiato. Per questo la denuncia di Ilaria Cucchi e dei suoi genitori contiene un’istanza, apparentemente incomprensibile, dietro la quale si cela un sospetto: “Gli esponenti chiedono a codesta Procura della Repubblica, con la riserva di precisare e segnalare altri aspetti utili, di compiere ogni opportuna indagine, ivi compreso l’accertamento della corrispondenza elettronica intercorsa fra il professor Arbarello e i periti nominati dalla corte di assise di primo grado”.

In sostanza si ipotizzano contatti anomali tra i periti dei pubblici ministeri e quelli nominati dai giudici, e si chiede si verificare “se il consulente medico legale prof. Paolo Arbarello, le cui valutazioni hanno significativamente orientato l’indagine, in un procedimento così delicato come quello della morte di Stefano che ha visto coinvolte varie amministrazioni dello Stato, abbia svolto il proprio compito, non solo nel rispetto della doverosa lealtà, ma altresì nell’ambito della liceità delle condotte”.

Nei retro pensieri dei familiari di Cucchi e del loro avvocato, Fabio Anselmo, s’intravede una sorta di complotto: la perizia che escludeva il nesso tra le botte e la morte (secondo loro con ragionamenti medico scientifici sbagliati, contraddetti dai periti di parte) doveva servire a ridimensionare il capo d’accusa nei confronti degli agenti penitenziari, in modo da tranquillizzarli e farli attestare sulla linea del silenzio, anche rispetto ad eventuali responsabilità altrui.

L’avvocato Anselmo, di fronte alla contestazione di reati meno gravi, quasi intimò ai pm che sarebbero andati incontro a una sconfitta; così è stato, al termine di due processi, e se pure non c’è certezza che le cose sarebbero andate in altro modo mantenendo l’accusa di omicidio preterintenzionale, ora la famiglia Cucchi torna alla carica giocando la carta della denuncia personale contro i periti che furono alla base di quella scelta. Con quali risultati si vedrà.

Giovanni Bianconi

Corriere della Sera, 6 novembre 2014

Reggio Emilia: Massacrarono un giovane detenuto. 9 Agenti di Polizia Penitenziaria a giudizio


polizia penitenziaria chiave cellaPer il pm Maria Rita Pantani uno dei ladri georgiani (il 21enne Guram Shatirishvilli) rimasto coinvolto – nel luglio 2012 – nel tentato omicidio di un poliziotto, fu al centro di un vero e proprio pestaggio all’interno del carcere della Pulce nei momenti subito successivi all’arresto.

E il magistrato inquirente ha chiesto il rinvio a giudizio per 9 agenti di Polizia penitenziaria, mentre è stata archiviata la posizione di altri due colleghi finiti inizialmente nella delicata inchiesta.

Fra poco più di un mese l’udienza preliminare davanti al gip Giovanni Ghini che s’annuncia a dir poco battagliata, perché “gli agenti di polizia penitenziaria – hanno sempre sostenuto gli avvocati difensori Liborio Cataliotti, Federico De Belvis e Donata Cappelluto – negano totalmente e fermamente la fondatezza delle accuse, totale estraneità ai fatti”.

Il pm Pantani – che ha coordinato le indagini della questura – ritiene, invece, che almeno in tre occasioni il giovane arrestato (ai tempi 19enne) venne fatto uscire dalla cella per poi colpirlo con calci e pugni in più parti del corpo, causandogli fratture costali giudicate guaribili in 40 giorni. Un pestaggio che gli inquirenti interpretano come una ritorsione nei confronti di chi tentò di uccidere un agente.

Un “quadro” che ha portato il magistrato ad accusare i 9 agenti di polizia penitenziaria di lesioni pluriaggravate in concorso, con l’aggiunta di tutta una serie di aggravanti: l’aver agito per futili motivi, l’aver commesso il reato con abuso di autorità, ma anche approfittando dello stato di inferiorità della vittima che è incarcerata.

Le indagini erano partite quando, in carcere, venne intercettato un colloquio fra il giovane georgiano e la madre: la Mobile cercava di “captare” i nomi dei complici sfuggiti alla cattura nel condominio residenziale di via Montagna preso di mira dalla banda di ladri georgiani, invece sentirono la donna chiedere al figlio: “Ma ti picchiano ancora?”.

Nel giugno dell’anno scorso vennero effettuati i riconoscimenti tramite il passaggio tecnico dell’incidente probatorio (per “cristallizzare” le prove in vista del processo). Indagati e persone che non c’entrano erano sfilati davanti al georgiano e alla madre (a cui il figlio aveva indicato due dei suoi picchiatori). Riconoscimenti che hanno portato all’archiviazione di due posizioni. Shatirishvili, in Appello, è stato condannato a 4 anni e 8 mesi di reclusione per quel raid nel palazzo.

Tiziano Soresina

La Gazzetta di Reggio, 13 settembre 2014

Carcere di Rossano Calabro… oltre il limite di ogni possibile pessimismo


CARCERE ROSSANOL’irruzione dell’on. Enza Bruno Bossio nel carcere di Rossano ci ha svelato all’improvviso una realtà che forse nemmeno potevamo sospettare. Una cosa è indignarsi per le celle minuscole, per il sovraffollamento, per l’assenza di strutture, per la mancata rieducazione, per la repressione, eccetera eccetera. Tutte cose che sappiamo, da tanto tempo.

Una cosa diversa è scoprire che dentro le celle ci sono persone trattate peggio delle bestie, che c’è violenza estrema, sadismo, sopraffazione, violazione di ogni legge. Le immagini che l’articolo qui accanto descrive sono quelle dei lager, come Guantánamo, come Abu Ghraib. Siamo scesi in piazza tante volte per chiedere che fossero chiuse Guantánamo e Abu Ghraib. Se è vero che nel carcere di Rossano c’era un detenuto lasciato a terra, sul pavimento, malato, circondato dal suo vomito, se è vero che diversi detenuti presentavano ematomi e dicevano di essere stati picchiati (…)

Se è vero che qualcuno trascorreva l’ora d’aria in quattro o cinque metri quadrati, peggio di un maiale all’ingrasso, di una gallina in batteria, se tutto questo è vero bisogna chiudere il carcere di Rossano. Chiudere. E forse – per una volta lasciatelo dire a noi – sarebbe anche il caso che la magistratura aprisse un’indagine. Dopodiché, fatte queste due cose essenziali e urgentissime, bisognerà anche porsi delle domande. Se l’on Bruno Bossio, che ha fatto irruzione senza preavviso nel carcere, in agosto, quando nessuno se l’aspettava, ha trovato questa situazione, è legittimo sospettare che la medesima situazione possa esserci in molte altre carceri, dove magari non sono avvenute visite improvvise dei deputati?

È chiaro che è possibile. L’iniziativa dell’on Bruno Bossio ci fa capire a quel grado di gravità e di inciviltà sia giunta la situazione delle carceri in Italia. E quanto ipocrita e insufficiente sia stato il varo di una leggina che dispone qualche giorno di sconto di pena o una mancia di 240 euro al mese per chi subisce le torture del sovraffollamento.

Il problema delle carceri è gigantesco, e lo standard delle nostre prigioni spinge l’Italia, in una virtuale classifica della civiltà, tra i più arretrati paesi del terzo mondo. Non si può restare fermi di fronte a questa situazione. Il problema carceri è il più urgente nell’agenda. Se vogliamo che l’Italia resti nel novero dei paesi civili bisogna che le forze politiche, almeno per una volta, si tappino le orecchie, non ascoltino gli urlacci e gli insulti della vasta platea giustizialista, mettano in conto la perdita di un po’ di voti e pongano mano a una riforma seria delle carceri.

In quattro passi. Primo passo: subito amnistia e indulto, per allentare la pressione nelle celle e nei tribunali. Va fatto a settembre, come hanno chiesto il papa e Napolitano, e come da anni, senza sosta, con le proteste e gli scioperi della fame, è sostenuto dai radicali e da Pannella. Secondo depenalizzazione di tutti i reati minori.

Terzo, riforma radicale della carcerazione preventiva che riduca a poche decine di casi le custodie cautelari. Quarto, norme sulla responsabilità civile dei giudici, che abbattano il numero dei procedimenti penali pretestuosi. In questo modo si può arrivare in tempi rapidissimi alla riduzione del 60 o 70 per cento della popolazione carceraria. E a quel punto sarà necessario trovare il modo per avere la certezza di controlli su come si vive nelle prigioni, e probabilmente anche una forte riforma, in senso garantista, di tutti i regolamenti carcerari (a partire dall’abolizione dello sciaguratissimo articolo 41 bis).

Non costa niente una riforma di questo genere. Anzi, produce risparmi. Costa dei voti, questo sì, costa le grida di Travaglio e dell’Anm. E se per una volta, solo per una volta, cari politici di sinistra e di destra, ve ne fregaste di Travaglio e dell’Anm?

P.S. Certo che se ci fossero in giro più deputate e deputati come Enza Bruno Bossio, sarebbe una buona cosa.

Piero Sansonetti

Il Garantista, 12 agosto 2014

Carceri, Roma : tre Agenti Penitenziari a processo per il pestaggio di un detenuto romeno


regina-coeli-carcereSecondo l’accusa, l’uomo fu immobilizzato in cella e colpito con una sbarra di ferro, calci e pugni. Bastonato alla testa con una spranga in ferro, colpito a calci, schiaffi e pugni fino a fratturargli mascella e zigomo. Sarebbe questo il benvenuto dato a un detenuto romeno, Romica Ceausu, nel carcere di Regina Coeli da parte di tre Agenti della Penitenziaria la notte del 28 settembre 2007.

Lo ritiene il Procuratore Aggiunto, Francesco Caporale, che ha ottenuto l’imputazione per concorso in lesioni personali per i tre agenti difesi di fiducia dagli avvocati Domenico Naccari e Stefano Fusco. Il giovane romeno era stato arrestato con l’accusa di sequestro di persona e violenza sessuale. E poi condannato a 23 anni di carcere, considerato il capo della banda ritenuta responsabile delle aggressioni alle coppiette nel quartiere di Tor Vergata.

Quel che accadde la notte del 28 settembre 2007, secondo la procura, fu un vero pestaggio. Con uno dei tre agenti, scrive il procuratore aggiunto Francesco Caporale nel capo d’imputazione, che “percosse il detenuto alla testa con un tubo in ferro” mentre gli altri due poliziotti lo colpivano “con calci, schiaffi e pugni”.

di Giuseppe Scarpa

La Repubblica, 19 maggio 2014