Spoleto, Illegittime le restrizioni per i detenuti 41 bis sui prodotti acquistabili al sopravvitto e sugli orari per cucinare


Lo scorso 9 maggio 2017 il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, con Ordinanza n. 772/2017, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’Art. 41 bis c. 2 quater lett. f) O.P. nella parte in cui prevedeva l’assoluto divieto di cuocere i cibi per le persone detenute sottoposte al regime detentivo speciale per contrasto con gli Artt. 3 e 27 della Costituzione. Il 26 settembre 2018 la Corte Costituzionale (Presidente Giorgio Lattanzi, Redattore Nicolò Zanon), con Sentenza n. 186/2018, ha ritenuto fondata la questione sollevata dal Magistrato di Sorveglianza di Spoleto e, per l’effetto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’Art. 41 bis c. 2 quater lett. f) O.P. Il 18 ottobre 2018 il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, a seguito della Sentenza della Corte Costituzionale, emana una Circolare, che modifica quella del 2 ottobre 2017, con la quale consente l’acquisto di un numero limitato di generi alimentari da cuocere, acquistabili al sopravvitto, affidando il compito alle Direzioni degli Istituti Penitenziari, di regolamentare il tempo in cui sarà consentito ai detenuti sottoposti al regime ex Art. 41 bis O.P. di cucinare, secondo due fasce orarie, una per il pranzo ed una per la cena, per preservare la salubrità degli ambienti, la salvaguardia dell’ordinata convivenza, il rispetto del lavoro del personale e non condizionare i tempi previsti per le attività trattamentali. Subito dopo, la Direzione della Casa di Reclusione di Spoleto (come tutti gli altri Istituti Penitenziari dotati di Sezioni 41 bis O.P.), ha adottato apposito ordine di servizio con il quale ha stabilito che le fasce orarie per cucinare siano: 11,00-14,00 per il pranzo e 16,30-19,00 per la cena.

Il 13 aprile 2019, Vincenzo Bonaddio, un detenuto calabrese ristretto nella Casa di Reclusione di Spoleto e sottoposto al regime speciale ex Art. 41 bis O.P., difeso dall’Avvocato Carmine Curatolo del Foro di Paola, ha proposto reclamo giurisdizionale ex Art. 35 bis e 69 c. 6 lett. b) O.P. al Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, lamentandosi delle limitazioni di cuocere i cibi al di fuori delle fasce orarie (11,00-14,00 e 16,30-19,00) e negli acquisti di generi alimentari al sopravvitto, suscettibili di cottura, disposte dall’Amministrazione Penitenziaria.

Il 1 luglio 2019, al termine dell’udienza, il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, Grazia Manganaro, con Ordinanza n. 1577/2019, ha ritenuto fondato il reclamo e, per l’effetto, lo ha accolto ordinando al Direttore della Casa di Reclusione di Spoleto di emettere nuovo ordine di servizio nel quale, disapplicate sul punto le circolari ministeriali contrastanti, sia consentito al detenuto reclamante di acquistare dal sopravvitto gli stessi cibi acquistabili presso le altre Sezioni dell’Istituto Penitenziario, e gli sia consentito di cucinarli senza previsione di fasce orarie particolari ad eccezione del limite già previsto della restituzione degli oggetti alle ore 20,00 e sino alle ore 7,00 di ogni giorno, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento con obbligo di informare il Magistrato di Sorveglianza dell’avvenuta ottemperanza.

Nel provvedimento, veniva precisato che la Corte Costituzionale con la Sentenza n. 186/2018 aveva stabilito che la materia relativa alla limitazione della cottura dei cibi era tout court considerata al di fuori delle finalità proprie del regime differenziato, notoriamente volto ad impedire collegamenti del detenuto con posizioni di vertice in una consorteria criminale con i sodali ristretti o in libertà. Pertanto, occorreva garantire che i detenuti in regime differenziato siano sotto questo profilo particolare, assimilati in tutto ai detenuti delle Sezioni comuni e alta sicurezza. Non trovava alcuna giustificazione l’elenco dei generi alimentari da cuocersi acquistabili al sopravvitto più ristretto rispetto a quello in uso nelle Sezioni ordinarie perché discriminatorio e, allo stesso modo, essendo già prevista una fascia oraria delimitata nell’ambito della quale i ristretti in 41 bis sono dotati di strumenti per cucinare (7,00-20,00), dovendo poi restituirli, ulteriori fasce orarie prestabilite, non contemplate per i detenuti ristretti nelle Sezioni comuni o alta sicurezza dell’Istituto Penitenziario, si appalesavano analogamente discriminatorie (oltre a determinare proprio i pericoli che l’Amministrazione intenderebbe evitare in quanto i medesimi orari si sovrappongono, in tutto o in parte, con le pur limitate attività trattamentali svolte: ore all’aperto, colloquio mensile coi familiari, orari per effettuare la doccia, santa messa, di fatto limitando ulteriormente il tempo per cucinare i cibi). Inoltre, nessun problema vi era per quanto riguarda la salubrità degli ambienti, posto che i detenuti dispongono di stanze singole dotate di finestra e non disturbano, con eventuali odori o rumori, altri compagni, come invece ben può accadere, senza che perciò siano limitati i tempi in cui è possibile cucinare, in una Sezione ordinaria con stanza multipla. Per la stessa ragione, l’assenza di ulteriori fasce orarie, non sembra comportare un particolare aggravio delle attività di controllo sulla sicurezza, che si appuntano peculiarmente nella quotidiana restituzione degli oggetti atti a cucinare alle 20,00 e nella riconsegna alle 7,00 del mattino.

Come avviene sempre in questi casi, trattandosi di Ordinanza favorevole al detenuto, il Dipartimento l’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, ha provveduto immediatamente ad impugnarla senza darvi esecuzione (nonostante il reclamo non produca alcun effetto sospensivo ex Artt. 35 bis O.P. e 666 c.p.p.), proponendo reclamo innanzi al Tribunale di Sorveglianza di Perugia. L’11 giugno 2020, al termine dell’udienza, il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, Presidente ed Estensore Nicla Flavia Restivo, con Ordinanza n. 712/2020, pronunciandosi sul reclamo proposto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, sulle conformi conclusioni della Procura Generale della Repubblica di Perugia, lo ha ritenuto infondato ed immeritevole di accoglimento e, per l’effetto, rigettato, confermando integralmente l’Ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Spoleto.

Probabilmente, anzi sicuramente, anche il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza di Perugia non verrà eseguito e sarà impugnato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, tramite l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Perugia, con ricorso presso la Corte di Cassazione.

Emilio Enzo Quintieri

Firenze, Pestò un detenuto con un bastone: condanna definitiva per Ispettore della Penitenziaria


Pestò un detenuto straniero con un bastone, dopo quindici anni arriva la condanna definitiva per un sottufficiale del Corpo di Polizia Penitenziaria all’epoca dei fatti in servizio presso la Casa Circondariale di Firenze “Sollicciano”. Purtroppo, anche questa volta, nonostante gli accertamenti effettuati, non è stato possibile identificare e condannare tutti gli altri Agenti Penitenziari responsabili di abusi e violenze.

Ad essere stato condannato, per quanto accaduto nel lontano primo pomeriggio del 26 ottobre 2005, è stato solo Marcello Santoro, originario di Mondragone (Caserta), Ispettore Capo di Polizia Penitenziaria, Responsabile dell’Unità Operativa “Reparto Giudiziario” della Casa Circondariale di Firenze Sollicciano. I fatti avvennero nel Reparto Giudiziario dell’Istituto all’interno dell’Ufficio del Capoposto e ad esserne vittima fu El Rezgui Walid un giovane detenuto straniero. Le indagini della Procura della Repubblica di Firenze guidata dal Procuratore Capo Ubaldo Nannucci e del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria  guidato dal Provveditore Regionale Massimo De Pascalis partirono a seguito di una denuncia pubblica fatta sulla stampa il 5 dicembre 2005 da dieci Associazioni e da un Sacerdote che operano dentro e fuori dall’Istituto Penitenziario (Dentro e Fuori le mura, Redazione Fuori Binario, Pantagruel, Movimento di lotta per la casa, Casa dei diritti sociali, Associazione Aurora, Comunità dell’Isolotto, Associazione Periferie al Centro, Don Alessandro Santoro, Comunità di base delle Piagge, Associazione per l’Altro). Nessun detenuto, però, per timore di peggiorare la sua permanenza in carcere, denunciò gli abusi all’Autorità Giudiziaria.

L’Ispettore Santoro è stato riconosciuto responsabile del reato di lesioni personali aggravate dall’uso di un’arma e dall’abuso della funzione pubblica per aver cagionato al detenuto El Rezgui lesioni lievi consistite in “aree eritematose al dorso e in regione lombare sinistra”, giudicate guaribili in due giorni, certificate dal Medico di guardia Dott.ssa Maria Arcangela Lombardi. L’altro reato contestato, quello di aver sottoposto a misure di rigore non consentite dalla legge il detenuto, è stato estinto per intervenuta prescrizione. In particolare, secondo quanto emerso dall’istruttoria dibattimentale, detto Ispettore, all’interno del suo Ufficio, colpì ripetutamente il detenuto con un manico di scopa sino a spezzarglielo addosso sulla schiena, mentre altri suoi colleghi lo percuotevano con calci e pugni facendolo accasciare a terra.

Per i Giudici della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione “l’impianto argomentativo della sentenza impugnata è immune da vizi logici, esprime valutazioni adeguatamente motivate come tali insindacabili in questa sede: le lesioni accertate dalla certificazione contenuta nel registro delle visite attesta lesioni assolutamente compatibili con le modalità delle percosse descritte dalla persona offesa e, in particolare con i colpi di bastone ricevuti sulla schiena. Le lesioni costituite dalle aree erimatose sul dorso e in regione lombare sono state obiettivamente rilevate e risultano compatibili con le modalità delle percosse descritte dalla persona offesa e, in particolare, con i colpi datigli con il bastone, e non altrettanto con la versione alternativa fornita dagli imputati nella relazione di servizio, circa l’impiego di una manovra di forza per la sottrazione di una lametta dalle mani di El Rezgui.”

L’Ispettore Capo di Polizia Penitenziaria Marcello Santoro, ora in pensione, oltre alla pena detentiva, condizionalmente sospesa, ed al risarcimento dei danni nei confronti del detenuto El Rezgui Walid e delle altre parti civili costituite, poiché il suo ricorso è stato dichiarato inammissibile, è stato condannato anche al pagamento delle spese processuali e al versamento di 3.000 euro in favore della Cassa delle Ammende.

Strasburgo condanna l’Italia per la morte di un detenuto. Vicenda analoga a quella avvenuta nel 2016 nel Carcere di Paola


Strasburgo condanna ancora l’Italia. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Prima Sezione, riunita in un Comitato composto da Armen Harutyunyan, Presidente, Pere Pastor Vilanova e Pauliine Koskelo, Giudici, nella causa promossa da Santo Citraro e Santa Molino contro Italia (Ricorso n. 50988/13), dopo aver deliberato in Camera di Consiglio il 28 aprile 2020, con Sentenza del 4 giugno 2020, ha dichiarato, all’unanimità, la Repubblica Italiana responsabile della violazione dell’elemento materiale dell’Articolo 2 della Convenzione condannandola anche al risarcimento dei danni (32 mila euro per danno morale e 900 euro per le spese, oltre alla maggioranza dovuta per eventuali imposte ed interessi) da versare, entro tre mesi, in favore dei ricorrenti.

I ricorrenti, signori Citraro e Molino, il 24 luglio 2013, introdussero un ricorso alla Corte di Strasburgo contro l’Italia, ai sensi dell’Art. 34 della Convenzione Europea, lamentando la violazione degli Articoli 2 e 3 della Convenzione, ritenendola responsabile del suicidio per impiccagione del loro figlio Antonio Citraro, 31 anni, di Terme Vigliatore, avvenuto nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 2001, mentre era detenuto nella cella n. 2 del reparto “sosta”, presso la Casa Circondariale di Messina.

All’epoca dei fatti, la morte di Citraro, in un primo momento venne etichettata come un suicidio e subito dopo, grazie alle denunce della famiglia, come omicidio colposo: il Gup del Tribunale di Messina dispose il rinvio a giudizio del Direttore dell’Istituto, di sei Agenti della Polizia Penitenziaria e del Medico Psichiatra per i reati di favoreggiamento, falso per soppressione, omicidio colposo, abuso dei mezzi di correzione e lesioni personali. Ma gli imputati, in tutti i gradi di giudizio, vennero assolti da ogni accusa.

I genitori del giovane detenuto però non si arresero e, dopo aver esaurito i rimedi giurisdizionali interni, assistititi dall’Avvocato Giovambattista Freni del Foro di Messina, proposero ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, nei giorni scorsi, dopo 19 anni, ha finalmente condannato l’Italia per le sue responsabilità. In particolare, i ricorrenti, lamentavano la violazione dell’Articolo 2 della Convenzione sostenendo, tra l’altro, che l’Amministrazione Penitenziaria, per mancanza di precauzioni e per negligenza, non avesse adottato le misure necessarie e adeguate idonee a impedire il suicidio del loro figlio, affetto da disturbi psichici, tant’è vero che in precedenza aveva più volte posto in essere atti di autolesionismo compresi tentativi di suicidio, che avevano portato il Magistrato di Sorveglianza di Messina a disporre il suo ricovero nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, provvedimento rimasto inevaso (solo pochi minuti prima del decesso di Citraro dal Ministero della Giustizia arrivò l’ordine di traduzione presso l’Opg).

Ebbene, la Corte di Strasburgo, ha deciso di condannare la Repubblica Italiana ritenendola responsabile in quanto l’Art. 2 della Convenzione obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. Tale obbligo sussiste, ancora di più, dal momento in cui le Autorità Penitenziarie siano a conoscenza di un rischio reale e immediato che la persona detenuta possa attentare alla propria vita.

Nel caso in questione, l’Amministrazione Penitenziaria, era perfettamente a conoscenza dei disturbi psichici e della gravità della malattia di cui era affetto il giovane detenuto, degli atti di autolesionismo e dei tentativi di suicidio che aveva posto in essere, dei suoi gesti e pensieri suicidi e dei segnali di malessere fisico o psichico (aveva completamente distrutto la cella, impedendo l’ingresso al personale, e faceva discorsi deliranti e paranoici).

Per tali motivi, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha ritenuto che le Autorità Penitenziarie non abbiano adottato le misure ragionevoli che erano necessarie per assicurare l’integrità del detenuto Antonio Citraro. Infatti, nella sentenza, i Giudici Europei scrivono chiaramente che “… le Autorità si sono sottratte al loro obbligo positivo di proteggere il diritto alla vita di Antonio Citraro. Pertanto, vi è stata violazione dell’elemento materiale dell’Articolo 2 della Convenzione.”

La vicenda della morte di Antonio Citraro è analoga a quella di tanti altri detenuti, parimenti affetti da disturbi psichici, verificatasi negli Istituti Penitenziari d’Italia. Tra le tante morti similari, ricordo particolarmente quella di Maurilio Pio Morabito, 46 anni, avvenuta il 29 aprile 2016, a poche settimane dal suo fine pena (30 giugno 2016), mentre era detenuto presso la Casa Circondariale di Paola. Morabito, come Citraro, si è impiccato nella cella n. 9 del reparto di isolamento, dopo aver posto in essere diversi atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, rifiutato di assumere i farmaci per timore di essere avvelenato ed anche di recarsi a colloquio con i propri familiari. Aveva finanche incendiato e distrutto, ripetutamente, le altre celle in cui era precedentemente allocato e per tale ragione era stato posto per diversi giorni in una cella liscia (cioè priva di ogni suppellettile), sporca e maleodorante, senza nemmeno essere sorvegliato a vista, lasciandogli addosso solo le mutande ed una coperta. Proprio utilizzando quest’ultima, che è stata annodata a forma di cappio alla grata della finestra della cella, di notte, è riuscito a togliersi la vita.

Per la vicenda di Morabito, i familiari, non hanno ottenuto giustizia in sede penale, in quanto il procedimento è stato archiviato dal Gip del Tribunale di Paola su conforme richiesta avanzata dalla Procura della Repubblica. Recentemente però, assistiti dagli Avvocati Corrado Politi e Valentino Mazzeo del Foro di Reggio Calabria, hanno citato in giudizio il Ministero della Giustizia per sentirlo condannare al risarcimento dei danni. La causa attualmente è in corso presso il Giudice Civile del Tribunale di Reggio Calabria (ed io sono tra le persone che verranno sentite in merito dall’Autorità Giudiziaria).

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – Causa Citraro e Molino contro l’Italia (clicca per leggere)

Ferrara, 3 Agenti a giudizio per tortura, lesioni, falso e calunnia ai danni di un detenuto. Imputata anche una Infermiera per falso e favoreggiamento


Tortura, lesioni personali, falso in atto pubblico e calunnia in concorso nonché di falso e favoreggiamento. Sono i reati che la Procura della Repubblica di Ferrara contesta, rispettivamente, a tre Agenti di Polizia Penitenziaria, un Sovrintendente e due Assistenti Capo, e ad una Infermiera in servizio presso la Casa Circondariale di Ferrara per fatti commessi ai danni di un detenuto il 30 settembre 2017.

Il Pubblico Ministero Isabella Cavallari, al termine delle indagini preliminari, ha inteso esercitare l’azione penale chiedendo il rinvio a giudizio per tutti i reati contestati. La vittima degli abusi è Antonio Colopi, 25 anni, di Galatone (Lecce) che all’epoca dei fatti era ristretto in custodia cautelare nell’Istituto Penitenziario di Ferrara (e poi trasferito presso la Casa Circondariale di Reggio Emilia). Gli imputati, invece, sono il Sovrintendente Geremia Casullo, 55 anni, l’Assistente Capo Massimo Vertuani, 49 anni, l’Assistente Capo Pietro Licari, 51 anni e l’Infermiera Eva Tonini, 39 anni. L’udienza preliminare è stata già fissata e si terrà il prossimo 9 luglio 2020 innanzi al Giudice per le Udienze Preliminari del Tribunale di Ferrara Danilo Russo.

Secondo quanto emerge dalla richiesta di rinvio a giudizio a firma del Pm Cavallari, i tre Agenti Penitenziari durante una perquisizione arbitraria eseguita all’interno della cella numero 2 del detenuto Colopi, posta nel reparto di isolamento, lo avrebbero costretto a denudarsi (eccetto le mutande) e poi ad inginocchiarsi ed una volta in quella posizione, dopo averlo ammanettato, lo avrebbero ripetutamente insultato e percosso, anche con un oggetto di metallo, utilizzato dal personale penitenziario per la battitura delle inferriate, lasciandolo in quelle condizioni fino a quando non venne notato dal Medico durante il giro tra le Sezioni, ponendo in essere un «trattamento inumano e degradante per la dignità della persona» agendo «con crudeltà e violenza grave» ed approfittando «della condizione di minorata difesa derivante dall’averlo ammanettato.».

In particolare, il Sovrintendente Casullo, mentre i suoi colleghi Assistenti Capo Vertuani e Licari facevano da palo nel corridoio, sarebbe entrato nella cella e dopo avergli fatto togliere maglia e canottiera, lo avrebbe fatto inginocchiare, colpendolo con calci allo stomaco. Poi gli avrebbe fatto togliere pantaloni, scarpe e calzini, lo avrebbe ammanettato continuando a colpirlo con calci e pugni allo stomaco, alle spalle ed al volto, utilizzando anche il ferro per la battitura per colpirlo alle spalle, alle gambe, alla nuca ed al viso. A quel punto, la vittima, avrebbe reagito con una testata, rompendo gli occhiali al sottufficiale, che lo ha minacciato e lo ha colpito ancora fino a spaccargli un dente. Il detenuto allora avrebbe chiesto aiuto, urlando il nome del Comandante del Reparto, ma Casullo lo avrebbe minacciato dicendogli che “Qui non c’è nessuno, Comandante e Ispettore sono solo io” con un coltello rudimentale puntato alla gola, passatogli dall’Assistente Capo Licari. Quest’ultimo, poi, avrebbe fatto ingresso nella cella dicendo “ora tocca a me” iniziando ad insultare e percuotere il detenuto su tutto il corpo, seguito dal collega Vertuani, che sino a quel momento aveva assolto la funzione di palo. Finito il violento pestaggio, la vittima, che ha avuto una prognosi di 15 giorni, è stata lasciata ammanettata e seminuda, fino a quando, dopo circa un’ora, durante un controllo, non l’ha notata il Medico del Penitenziario.

Il Sovrintendente Casullo e l’Assistente Capo Vertuani, sono anche imputati di falso per aver redatto dei rapporti considerati non veritieri sull’accaduto e, di fatto, contengono il nocciolo della loro versione dei fatti: sarebbe stato Colopi ad opporsi alla perquisizione, accogliendo gli Agenti Penitenziari con fare minaccioso, aggredendoli con calci e pugni, e loro avrebbero solo reagito per contenerlo e riportarlo alla calma. Da uno dei rapporti emergerebbe anche che il detenuto avrebbe usato come arma un oggetto contundente ricavato da una bomboletta del gas, che però secondo il Pubblico Ministero sarebbe stata introdotta proprio dai Poliziotti i quali, peraltro, non avrebbero fatto menzione né delle manette, né delle lesioni del detenuto, né del fatto che lo stesso venne denudato e lasciato in mutande. Inoltre, avrebbero scritto il falso, affermando di aver immediatamente avvisato l’Ispettore di sorveglianza, che invece sarebbe stato attivato solo un’ora dopo e solo al passaggio del Medico. Sempre i due, Casullo e Vertuani, sono imputati anche di calunnia nei confronti del detenuto, per averlo accusato del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, pur sapendolo innocente.

Per quanto riguarda l’Infermiera, Eva Tonini, per lei è stato chiesto il processo con le accuse di falso e favoreggiamento nei confronti dei tre Agenti di Polizia Penitenziaria. La predetta, in servizio al momento dei fatti, avrebbe scritto il falso nelle comunicazioni infermieristiche, dichiarando il falso e tacendo il vero ai Carabinieri del Nucleo Investigativo, delegati dal Pubblico Ministero, nel tentativo di aiutare il Sovrintendente Casullo e gli Assistenti Capo Vertuani e Licari, sviando le indagini nei loro confronti. In particolare, avrebbe scritto (e riferito al Medico, che però non avrebbe confermato la circostanza) di aver trovato il detenuto Colopi che sbatteva violentemente la testa sul blindo mentre passata per il giro della terapia tra le 8 e le 9 di mattina di quel 30 settembre: circostanza che risulterebbe smentita da altro Agente di Polizia Penitenziaria che l’accompagnava. Anche su quest’ultimo avrebbe dichiarato il falso, affermando di essere stata accompagnata da uno dei tre imputati, l’Assistente Capo Licari, mentre invece con lei c’era un altro Agente di Polizia Penitenziaria.

Carceri, Pubblicato il bando di concorso pubblico per 45 posti di Dirigente Penitenziario


E’ stato pubblicato, dopo 27 anni, un bando di concorso pubblico per esami per l’accesso alla carriera dirigenziale penitenziaria per complessivi 45 posti, a tempo indeterminato, di Dirigenti di Istituto Penitenziario di livello dirigenziale non generale.

Il quindici per cento dei posti, pari a sette, sono riservati ai dipendenti dell’Amministrazione inquadrati nella III area funzionale del ruolo comparto funzioni centrali ovvero nei ruoli direttivi del Corpo di Polizia Penitenziaria, in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 3 del bando e con almeno tre anni di effettivo servizio in queste posizioni.

La domanda di partecipazione al concorso deve essere redatta ed inviata esclusivamente con modalità telematiche, compilando l’apposito modulo.

Il concorso consisterà in tre prove scritte e una prova orale.

Le domande possono essere inoltrate dal 20 maggio 2020 al 18 giugno 2020.

TUTTI I DETTAGLI DEL CONCORSO PUBBLICO

IL BANDO DI CONCORSO 

Riattivata la sartoria nel Carcere di Castrovillari. Le detenute producono mascherine anti Covid


Mentre l’Italia era in lockdown e l’epidemia Covid manifestava tutta la sua virulenza, in molte realtà penitenziarie del Paese si è scelto di dare il proprio contributo nella lotta al virus, facendosi carico del confezionamento di mascherine.

Così in diverse strutture di pena ci si è ingegnati per capire come avviare la produzione. La Casa Circondariale di Castrovillari “Rosetta Sisca”, su input del suo Direttore Giuseppe Carrà, ha scelto di rimettere in attività la sartoria nella sezione femminile: “Certamente la difficoltà nel reperimento dei dispositivi di protezione individuale che in marzo risultavano introvabili, ha giocato un ruolo importante nella decisione di riattivare la sartoria, ma – ha raccontato Carrà – la valenza trattamentale del progetto ha dato la spinta propulsiva. Il carcere deve e può essere lo strumento per restituire alla società dei cittadini migliori”.

L’istituto calabrese non è nuovo a esperienze di inclusione sociale e di giustizia ripartiva e, nel solco già tracciato dalle precedenti esperienze, in tempi brevissimi, ha avviato il progetto-mascherine: tre detenute, abili nei lavori sartoriali, hanno immediatamente manifestato l’entusiasmo e la voglia di dare il loro contributo nei difficili giorni di emergenza per l’epidemia da Covid 19, “prestando il loro lavoro punto dopo punto, taglio dopo taglio, per ricucire, non solo il tessuto, ma anche lo strappo con la società”.

Come spiegato dal Direttore dell’Istituto Carrà “il lavoro è uno degli elementi fondamentali che la nostra legislazione prevede per la rieducazione, ancor di più quando si tratta di volontariato: l’auspicio è di distribuire gratuitamente questi fondamentali strumenti di tutela sanitari anche sul territorio”.

Il risultato ottenuto nella realizzazione della mascherine, di assoluto rilievo, è frutto della sinergia e del lavoro di squadra tra le diverse componenti che animano l’istituto calabrese, dall’area sicurezza con il Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria Carmine Di Giacomo, all’area trattamentale con il Funzionario Giuridico Pedagogico Luigi Bloise. I presidi sanitari, soggetti a specifica autorizzazione dell’Università degli Studi di Catania, contribuiscono così alla sicurezza dei cittadini e danno sostanza allo sforzo rieducativo di chi sta scontando la pena.

Complimenti all’Amministrazione Penitenziaria, centrale e periferica, per questa ennesima lodevole iniziativa ed alle tre sarte detenute per il loro prezioso contributo nella produzione e confezionamento dei dispositivi individuali di protezione per fronteggiare questa emergenza sanitaria.

 

 

Divieto di scambio di oggetti tra detenuti al regime 41 bis, domani deciderà la Corte Costituzionale


Domani la Corte Costituzionale (Marta Cartabia Presidente – Nicolò Zanon, Relatore)  esaminerà le questioni di legittimità costituzionale dell’Articolo 41 bis comma 2 quater lett. f) dell’Ordinamento Penitenziario per contrasto con gli Articoli 3 e 27 della Costituzione della Repubblica sollevate dalla Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione (Adriano Iasillo Presidente – Carlo Renoldi Relatore) con le Ordinanze n. 222 e 223 del 23 ottobre 2019. Le questioni sollevate passeranno direttamente in decisione in Camera di Consiglio, senza alcuna discussione orale, sulla base degli atti depositati, ai sensi della lettera c), punto 1, del Decreto del Presidente della Corte Costituzionale del 20 aprile 2020. La Corte di Cassazione, con due Ordinanze di analogo tenore, ha sollevato, in riferimento agli Articoli 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità dell’Articolo 41 bis comma 2 quater, lett. f) dell’Ordinamento Penitenziario, nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime detentivo speciale appartenenti al medesimo gruppo di socialità.

La Corte rimettente, anzitutto, ricorda che la disposizione censurata prevede, testualmente, l’adozione di «tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata l’assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi». Il Giudice rimettente ricorda, poi, l’interpretazione di tale disposizione offerta dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui deve ritenersi, soprattutto in considerazione dell’inserimento del segno di interpunzione della virgola fra le parole “socialità” e “scambiare”, che le varie proposizioni riferite a comportamenti dei detenuti, in ordine ai quali va perseguita la “assoluta impossibilità” di realizzazione, siano costituiti, per un verso, dalla comunicazione fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e, per altro verso, dallo scambio di oggetti e dalla cottura di cibi.

Ciò posto, il rimettente, affermando di condividere tale interpretazione, ritiene che il divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità determinerebbe, in violazione dell’Articolo 3 della Costituzione, una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai detenuti in regime ordinario. Tale divieto, soggiunge il rimettente a supporto della sua tesi, avrebbe esclusivamente portata afflittiva, non potendo ritenersi funzionale a rescindere i collegamenti ancora attuali sia tra i detenuti che appartengano a determinate organizzazioni criminali, sia tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà. Proprio la comune appartenenza al medesimo gruppo di socialità, infatti, secondo il Giudice, consentirebbe a monte lo scambio di qualunque contenuto informativo. Ad avviso del rimettente il divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità sarebbe in contrasto anche con il principio della finalità rieducativa della pena, enunciato dall’Articolo 27, comma 3, della Costituzione, in quanto impedirebbe anche quelle forme “minime” di socialità che si estrinsecano nello scambio di oggetti di scarso valore e di immediata utilità o di generi alimentari tra persone che si frequentano “senza filtri” ogni giorno e in una prospettiva di normalità di rapporti interpersonali.

Negli anni passati, il Giudice delle Leggi, con sentenza n. 186 del 2018 (Giorgio Lattanzi, Presidente – Nicolò Zanon, Relatore) ha ritenuto fondata analoga questione di legittimità costituzionale dell’Articolo 41 bis comma 2 quater, lettera f) dell’Ordinamento Penitenziario sollevata dal Magistrato di Sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi, dichiarandone la illegittimità costituzionale nella parte in cui prevedeva, in via generale ed astratta, il divieto di cottura dei cibi, in quanto privo di ragionevole giustificazione alla luce degli obiettivi cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla normativa in questione. Per tale ragione, molto probabilmente, la Corte Costituzionale, dichiarerà fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione, poiché il divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, appare assolutamente ingiustificato ed inutile oltre ad essere meramente ed ulteriormente afflittivo e quindi non funzionale alle finalità proprie del regime detentivo speciale, notoriamente volto ad impedire collegamenti dei detenuti con posizione di vertice in una consorteria criminale con i sodali ristretti o in libertà.

Coronavirus, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo chiama a rapporto l’Italia per le condizioni delle Carceri


images_cedu.jpgBonafede dovrà rispondere entro martedì. Le domande sono le stesse poste quasi un mese fa dalle Camere Penali. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiesto spiegazioni urgentissime all’Italia sulla condizione dei detenuti. Vuole una risposta chiara e dettagliata entro martedì prossimo. Ha rivolto al governo un bel numero di domande sulle condizioni delle nostre prigioni, sul sovraffollamento, sulle misure che l’Italia ha preso per fronteggiare il virus e sul perché non vengono utilizzati massicciamente i domiciliari.

La Cedu si è riunita per rispondere al ricorso urgente di un prigioniero al quale è stata negata la scarcerazione. L’avvocato Caiazza, che è il Presidente della Camere Penali, ha fatto notare che le domande della Cedu sono praticamente identiche alle dieci domande che le Camere Penali hanno rivolto quasi un mese fa al ministro e al governo, ottenendo il silenzio, o al massimo il solito mezzo sorriso abituale del ministro Bonafede davanti alle telecamere. Per l’Italia e per il suo governo è uno schiaffo in pieno viso. Non è bello essere indicati da un organismo serio e solenne quale è la Cedu come violatori di diritti essenziali dell’uomo.

Siamo l’Italia, non siamo un Paese disperso del terzo mondo e non siamo un Paese guidato da qualche spietata dittatura. Eppure, sul tema carceri siamo il fanalino di coda della civiltà occidentale. Insieme al Belgio. Come è possibile? È presto detto: nel nostro Paese la ventata populista, che sta accarezzando tutta l’Europa e l’Occidente, ha preso un sapore giustizialista che negli altri Paesi è meno forte.

Il populismo nel resto d’Europa, e anche in America, è più un fenomeno simile a tutti i fenomeni classici di radicalizzazione della destra. Ha un aspetto più tradizionale, anti-establishment, anti-sinistra, xenofobo. Ma non trova, in genere, motivazioni particolarmente radicate nel giustizialismo. Il giustizialismo non manca mai, certo, ma è una componente aggiuntiva.

Da noi è diverso. Il populismo parte da molto lontano, gode di un sostegno generalizzato dei mass-media, è costruito quasi interamente – in tutte le sue sfaccettature – sull’idea del giustizialismo come ideologia di salvazione della società e di contrasto alla modernità e ai suoi peccati.

Nasce addirittura 25 anni fa, non oggi, coi movimenti – solo in parte spontanei – a favore dei magistrati milanesi che stavano smantellando la Prima Repubblica e lo spirito della Costituzione; e poi cresce con la Tv di Santoro, con i Girotondi di Flores, con le campagne del Corriere della Sera contro la Casta, col popolo viola, e infine con i 5 Stelle e con la crescita velocissima della Lega di Salvini.

Questo giustizialismo – anche così variegato, che va da un pezzo del vecchio Pci fino alla Lega – ha bisogno di simboli. Non gli basta più il ricordo di Mani Pulite. E il simbolo allora diventa il carcere. È il carcere lo strumento principale del giustizialismo, è il carcere il cuore della sua idea, e il carcere deve essere difeso con le unghie e coi denti. Da tutti.

Persino dagli amici magistrati, se dissentono. L’Europa, il Papa, il Presidente della Repubblica, l’Onu, e poi gli avvocati, gli operatori del carcere, persino un bel pezzo di magistratura chiedono un intervento di riduzione del numero dei detenuti. Ma c’è il nucleo duro del giustizialismo che regge impavido, e si trascina dietro un bel pezzo di opinione pubblica e del sistema dei mass media. È guidato ormai da due o tre leader riconosciuti: Travaglio, Gratteri, Di Matteo.

E non molla neppure un centimetro. Costringendo gli stessi 5 Stelle – che sono al governo e quindi in una posizione delicata – a non cedere, a mantenere il punto. Il Pd gli va dietro. Il fronte giustizialista, anche sul piano della comunicazione, usa tutti i mezzi. Chi vuole decongestionare le carceri, chi considera il sovraffollamento un problema, è evidentemente amico della ‘ndrangheta, di Cosa nostra, della camorra.

Gli avvocati, soprattutto, i radicali, e quei pochissimi e isolatissimi giornalisti che si occupano di questo problema. Chissà se ora useranno lo stesso schema col Papa e con la Cedu. Vaticano uguale mafia, Europa uguale mafia. Non ci sarebbe niente di cui stupirsi.

Piero Sansonetti

Il Riformista, 11 aprile 2020

Coronavirus, Di Rosa (TdS Milano): Ministro Bonafede bisogna mandare i detenuti ai domiciliari. Lo Stato rispetti le sue Leggi


Giovanna Di Rosa Presidente TdS di MilanoLa Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa: “Non viene garantito il distanziamento sociale. Ci deve essere un meccanismo automatico per mandare a casa i detenuti”.

Quando lo Stato prende in carico una persona per fargli espiare una pena deve fare in modo che ciò avvenga in condizioni di legalità e di tutela delle esigenze di salute. Se non è possibile, cosa l’ha messa a fare in carcere? Che messaggio viene dato quando lo Stato per primo non rispetta le regole?”, tuona Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano.

La Presidente Di Rosa sta fronteggiando l’emergenza Covid-19 da un’aula d’udienza ubicata al piano terra del Palazzo di giustizia del capoluogo lombardo. Gli uffici della Sorveglianza, posti all’ultimo piano, sono andati distrutti la scorsa settimana a seguito di un violento incendio causato da un cortocircuito.

Presidente, com’è la situazione adesso?

Di disagio estremo. Siamo accampati. L’Ufficio di Sorveglianza di Milano aveva diverse stanze, adesso è concentrato in un unico ambiente al cui interno abbiamo allestito, in maniera estremamente precaria, cinque postazioni. Il problema è che non abbiamo i fascicoli: dobbiamo andarli a recuperare di volta in volta nel piano incendiato dove però non c’è più l’illuminazione ed è tutto avvolto dalla cenere.

E nelle carceri milanesi

La difficoltà principale, per mancanza di spazio, è quella di riuscire a garantire il “distanziamento sociale” per scongiurare il contagio. Ma non essendoci lo spazio per quelli in regime normale, che sono di più di quelli che dovrebbero essere.

Come ci si organizza?

A San Vittore, ad esempio, per creare le zone d’isolamento stanno pensando di chiudere il centro clinico. E i malati, allora, dove si mettono?

Alcuni giorni fa ha inviato, con la collega della Sorveglianza di Brescia Monica Lazzaroni, una nota al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con alcune proposte per fronteggiare l’emergenza Covid. Può illustrarcene qualcuna?

Premesso che il sistema è responsabile del sovraffollamento, in questo momento di grandissima emergenza ci deve essere un meccanismo automatico per la concessione dei domiciliari.

Senza passare dal Magistrato di sorveglianza?

Esatto: l’applicazione della detenzione domiciliare, se vogliamo alleggerire le strutture, deve essere automatica. Ad esempio, per chi ha un residuo di pena sotto ai due anni e la disponibilità di un domicilio. Ovviamente non deve aver partecipato alle ultime rivolte. Le attuali procedure per la concessione delle misure alternative al carcere sono fatte per tempi ordinari e non sono compatibili con quelli della pandemia. Bisogna fare l’istruttoria, attendere il visto del pm, tutta una seria di passaggi che rendono lungo l’iter. Il diretto vivente deve adattare le sue norme alla situazione sanitaria.

Il ministro ha risposto?

A oggi (ieri per chi legge, ndr), no.

Anche il personale delle Sorveglianza è stato colpito dal virus?

I Tribunali di sorveglianza sono stati decimati, ci sono stati contagi, il personale è a casa autodecimato. Già per carenze di personale erano disorganizzati, ora hanno ricevuto il colpo di grazia.

La strada maestra è un provvedimento legislativo “chiaro”?

Sì. Penso anche a quello per non mandare in esecuzione ordini di carcerazione per sentenze che hanno avuto un lunghissimo iter processuale e arrivano a tanti anni dalla data di commissione del fatto. Non mi pare il caso adesso di procedere con nuovi accessi.

E per chi è in custodia cautelare?

Ci siamo già coordinati con il Gip e con la Corte d’appello affinché sia incentivata il più possibile la detenzione domiciliare.

Oltre alla mancanza di spazi, nelle carceri mancano pure le mascherine e i prodotti igienizzanti…

Ultimamente a Milano c’è stata una loro fornitura da parte di alcuni privati. Ma affidare allo spontaneismo la gestione delle carceri non può diventare un sistema: la solidarietà è un valore costituzionale che lo Stato deve rispettare.

Pensa che non ci sia piena consapevolezza dei rischi di un contagio di massa nelle carceri?

C’è esitazione ed incertezza. Non compete a me fare valutazioni politiche, penso però che qualsiasi decisione debba essere accompagnata dalla preventiva verifica dei luoghi. Io conosco benissimo le carceri e so come si vive al loro interno. Invito tutti a fare altrettanto, andando a vedere con i propri occhi e non da dietro un pc. Vuole aggiungere qualcosa? Voglio solo dire che, nonostante l’incendio, non ci siamo fermati neanche un giorno. L’impegno è massimo e saremo all’altezza della responsabilità che abbiamo.

Paolo Comi

Il Riformista, 7 aprile 2020

Detenuto 32enne con fine pena a novembre si impicca nel Carcere di Aversa. E’ il sedicesimo del 2020


agente penitenziario cancelloAncora un suicidio negli Istituti Penitenziari d’Italia. Un detenuto romeno, Emil V., 32 anni, si è tolto la vita impiccandosi con delle lenzuola all’alba nella sua cella che condivideva con altri quattro compagni. L’uomo era ristretto presso la Casa di Reclusione di Aversa “Filippo Saporito”, in Provincia di Caserta, per espiare una condanna definitiva per rapina che avrebbe terminato a novembre, tra pochi mesi. Purtroppo, nonostante i soccorsi immediati da parte del personale di Polizia Penitenziaria addetto alla sorveglianza, per il 32enne non c’è stato niente da fare.

In questo tempo così disperato e così intenso si continua a morire di carcere e in carcere. Emil era detenuto per rapina e sarebbe uscito a novembre. Non faceva colloqui, non aveva mai avuto sanzioni disciplinari. Gli altri suoi quattro compagni di cella non si sono accorti del suo gesto disperato. Sebbene il fenomeno dei suicidi in carcere sia in diminuzione, e aumentano i casi di autolesionismo, il suicidio di una persona privata della libertà, in particolare, costituisce, da un lato, il fallimento più evidente del ruolo punitivo dello Stato. E la politica e l’opinione pubblica vivono l’indifferenza. Lo dice Samuele Ciambriello, Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Campania.

La questione penale è seria e per essere concretamente valutata necessita di verità, trasparenza e di una riconsiderazione complessiva, e l’autolesionismo e in casi estremi il suicidio, rappresentano l’ultima residuale forma di reclamo, di richiesta di attenzioni da parte di un universo di disperati che, nella gran parte dei casi, non possiede molte altre alternative per far sentire la propria presenza.

Il carcere di Aversa – aggiunge il Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti – in questi giorni aveva attirato la mia attenzione, positivamente, per i provvedimenti fatti dal Magistrato di Sorveglianza per la detenzione domiciliare in seguito al Decreto 123, erano usciti 8 detenuti, altri 12 aspettano i fantomatici braccialetti e nove relazioni sanitarie sono in attesa delle decisioni del Magistrato. Il carcere è una lente particolare attraverso cui guardare la nostra società e, per tale ragione, chiedersi anche che fare dopo le restrizioni dei contatti con l’esterno causa corona virus non riguarda soltanto la vita dei detenuti, ma quella degli Agenti di Polizia Penitenziaria, dell’area educativa, delle direzioni delle carceri e degli operatori socio sanitari, conclude Ciambriello.

Con il decesso di Emil V. salgono a 48 i detenuti morti negli Istituti Penitenziari d’Italia dall’inizio dell’anno di cui 16 per suicidio.