Ferrara, 3 Agenti a giudizio per tortura, lesioni, falso e calunnia ai danni di un detenuto. Imputata anche una Infermiera per falso e favoreggiamento


Tortura, lesioni personali, falso in atto pubblico e calunnia in concorso nonché di falso e favoreggiamento. Sono i reati che la Procura della Repubblica di Ferrara contesta, rispettivamente, a tre Agenti di Polizia Penitenziaria, un Sovrintendente e due Assistenti Capo, e ad una Infermiera in servizio presso la Casa Circondariale di Ferrara per fatti commessi ai danni di un detenuto il 30 settembre 2017.

Il Pubblico Ministero Isabella Cavallari, al termine delle indagini preliminari, ha inteso esercitare l’azione penale chiedendo il rinvio a giudizio per tutti i reati contestati. La vittima degli abusi è Antonio Colopi, 25 anni, di Galatone (Lecce) che all’epoca dei fatti era ristretto in custodia cautelare nell’Istituto Penitenziario di Ferrara (e poi trasferito presso la Casa Circondariale di Reggio Emilia). Gli imputati, invece, sono il Sovrintendente Geremia Casullo, 55 anni, l’Assistente Capo Massimo Vertuani, 49 anni, l’Assistente Capo Pietro Licari, 51 anni e l’Infermiera Eva Tonini, 39 anni. L’udienza preliminare è stata già fissata e si terrà il prossimo 9 luglio 2020 innanzi al Giudice per le Udienze Preliminari del Tribunale di Ferrara Danilo Russo.

Secondo quanto emerge dalla richiesta di rinvio a giudizio a firma del Pm Cavallari, i tre Agenti Penitenziari durante una perquisizione arbitraria eseguita all’interno della cella numero 2 del detenuto Colopi, posta nel reparto di isolamento, lo avrebbero costretto a denudarsi (eccetto le mutande) e poi ad inginocchiarsi ed una volta in quella posizione, dopo averlo ammanettato, lo avrebbero ripetutamente insultato e percosso, anche con un oggetto di metallo, utilizzato dal personale penitenziario per la battitura delle inferriate, lasciandolo in quelle condizioni fino a quando non venne notato dal Medico durante il giro tra le Sezioni, ponendo in essere un «trattamento inumano e degradante per la dignità della persona» agendo «con crudeltà e violenza grave» ed approfittando «della condizione di minorata difesa derivante dall’averlo ammanettato.».

In particolare, il Sovrintendente Casullo, mentre i suoi colleghi Assistenti Capo Vertuani e Licari facevano da palo nel corridoio, sarebbe entrato nella cella e dopo avergli fatto togliere maglia e canottiera, lo avrebbe fatto inginocchiare, colpendolo con calci allo stomaco. Poi gli avrebbe fatto togliere pantaloni, scarpe e calzini, lo avrebbe ammanettato continuando a colpirlo con calci e pugni allo stomaco, alle spalle ed al volto, utilizzando anche il ferro per la battitura per colpirlo alle spalle, alle gambe, alla nuca ed al viso. A quel punto, la vittima, avrebbe reagito con una testata, rompendo gli occhiali al sottufficiale, che lo ha minacciato e lo ha colpito ancora fino a spaccargli un dente. Il detenuto allora avrebbe chiesto aiuto, urlando il nome del Comandante del Reparto, ma Casullo lo avrebbe minacciato dicendogli che “Qui non c’è nessuno, Comandante e Ispettore sono solo io” con un coltello rudimentale puntato alla gola, passatogli dall’Assistente Capo Licari. Quest’ultimo, poi, avrebbe fatto ingresso nella cella dicendo “ora tocca a me” iniziando ad insultare e percuotere il detenuto su tutto il corpo, seguito dal collega Vertuani, che sino a quel momento aveva assolto la funzione di palo. Finito il violento pestaggio, la vittima, che ha avuto una prognosi di 15 giorni, è stata lasciata ammanettata e seminuda, fino a quando, dopo circa un’ora, durante un controllo, non l’ha notata il Medico del Penitenziario.

Il Sovrintendente Casullo e l’Assistente Capo Vertuani, sono anche imputati di falso per aver redatto dei rapporti considerati non veritieri sull’accaduto e, di fatto, contengono il nocciolo della loro versione dei fatti: sarebbe stato Colopi ad opporsi alla perquisizione, accogliendo gli Agenti Penitenziari con fare minaccioso, aggredendoli con calci e pugni, e loro avrebbero solo reagito per contenerlo e riportarlo alla calma. Da uno dei rapporti emergerebbe anche che il detenuto avrebbe usato come arma un oggetto contundente ricavato da una bomboletta del gas, che però secondo il Pubblico Ministero sarebbe stata introdotta proprio dai Poliziotti i quali, peraltro, non avrebbero fatto menzione né delle manette, né delle lesioni del detenuto, né del fatto che lo stesso venne denudato e lasciato in mutande. Inoltre, avrebbero scritto il falso, affermando di aver immediatamente avvisato l’Ispettore di sorveglianza, che invece sarebbe stato attivato solo un’ora dopo e solo al passaggio del Medico. Sempre i due, Casullo e Vertuani, sono imputati anche di calunnia nei confronti del detenuto, per averlo accusato del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, pur sapendolo innocente.

Per quanto riguarda l’Infermiera, Eva Tonini, per lei è stato chiesto il processo con le accuse di falso e favoreggiamento nei confronti dei tre Agenti di Polizia Penitenziaria. La predetta, in servizio al momento dei fatti, avrebbe scritto il falso nelle comunicazioni infermieristiche, dichiarando il falso e tacendo il vero ai Carabinieri del Nucleo Investigativo, delegati dal Pubblico Ministero, nel tentativo di aiutare il Sovrintendente Casullo e gli Assistenti Capo Vertuani e Licari, sviando le indagini nei loro confronti. In particolare, avrebbe scritto (e riferito al Medico, che però non avrebbe confermato la circostanza) di aver trovato il detenuto Colopi che sbatteva violentemente la testa sul blindo mentre passata per il giro della terapia tra le 8 e le 9 di mattina di quel 30 settembre: circostanza che risulterebbe smentita da altro Agente di Polizia Penitenziaria che l’accompagnava. Anche su quest’ultimo avrebbe dichiarato il falso, affermando di essere stata accompagnata da uno dei tre imputati, l’Assistente Capo Licari, mentre invece con lei c’era un altro Agente di Polizia Penitenziaria.

Carcere di Viterbo, le lettere scritte dai detenuti al Garante Regionale dopo essere stati pestati


Un’inchiesta giornalistica realizzata per Popolo Sovrano, il programma in prima serata su Rai2, ha aperto le porte del carcere “Mammagialla” di Viterbo con testimonianze e documenti inediti su casi di suicidi sospetti e su presunte violenze ai detenuti da parte di agenti di polizia penitenziaria.

Uno scenario inquietante, quello descritto dai detenuti. Alcuni hanno rotto il silenzio e hanno messo tutto nero su bianco. Infatti, sono decine le lettere in cui si raccontano tra il terrore e la disperazione, descrivono presunti episodi di violenza vissuta sulla propria pelle tra pestaggi e minacce di morte da parte di uomini in divisa.

Lettere che sono riuscite a oltrepassare le sbarre grazie alle collaboratrici del Garante per i diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia.

È stato lui stesso a raccoglierle e poi a spedire tutto alla Procura di Viterbo, l’8 giugno 2018, informando tra l’altro anche il direttore dell’istituto, Paolo D’Andria. Un esposto di 32 pagine con oggetto: “Asseriti episodi di violenza/urgente/casa circondariale di Viterbo/richiesta incontro”.

Oggi la magistratura ha aperto un fascicolo e indaga, al momento, contro ignoti. “Seppure quei casi non fossero stati tutti fondati – spiega Stefano Anastasia – erano comunque indice di un clima difficile su cui era necessario intervenire”.

LE LETTERE

Sono grida di paura e richiesta di aiuto le frasi scritte su quei fogli.

In esclusiva per TPI alcuni estratti dalle lettere, che vi proponiamo in forma anonima, tutte scritte a mano dai detenuti del carcere di Viterbo.

Sono stato mal menato dalle guardie, picchiato talmente forte da farmi perdere la vista all’occhio destro. Avevo soltanto chiesto di andare a scuola per 3 o 4 volte. Mi hanno portato per le scale centrali e hanno cominciato a picchiarmi: calci, schiaffi e pugni. Poi ne sono arrivati altri con il viso coperto. Vedevo solo i loro occhi. Erano in 8/9 mentre mi menavano dicevano: “Noi lavoriamo per lo stato italiano, negro di merda! Perché non ritorni al Paese tuo?” E io pregavo e continuavo a piangere. Se sei uno straniero sei finito, o muori o esci tutto rotto da qui, a Viterbo. Vi prego, vi scongiuro, aiutatemi. Ho paura di morire. La mia famiglia non sa nulla”.

Usano parole offensive contro me e la mia famiglia, e io sto zitto per forza perché se dico qualcosa mi menano come fanno sempre”.

L’ispettore mi ha minacciato: “Tu qua muori!”. E infatti alle ore 7.40 sono entrati 11 agenti di polizia penitenziaria armati di bastoni per la fare la perquisizione e sono stato picchiato, torturato e minacciato di morte”.

Qui hanno quasi 3 squadrette solo per menare i detenuti. Io ne ho prese tante da loro. Da quando sono venuto qui, sono morte delle persone. Non so il motivo però credetemi, sto dicendo la verità. Aiutatemi, mandatemi via da questo carcere”.

Ho paura che mi fanno morire. Vogliono portarmi in isolamento ma non sono stato punito, “nessuna sanzione” mi hanno risposto. Moralmente e fisicamente sto a pezzi. Per favore mi serve il vostro aiuto, mandatemi via da questo carcere il più presto possibile”.

Senza motivo ritorno in isolamento. La guardia mi dice: “Hai qualche problema?” Io rispondo: “Che vorresti fa?”. “Se ti metto le mani addosso, sei finito, hai il colore della merda, buttati a dormire”, risponde.  Io gli dico che voglio parlare con la sorveglianza. La guardia mi risponde: “Ti faccio fare una brutta fine, merda!”

Le violenze contro i detenuti sono continue, ve lo assicuro. Lo faccio presente anche grazie al mio avvocato di fiducia”.

I dottori e gli infermieri sapevano che avevo contusioni perché gli agenti di polizia penitenziaria mi ha ammazzato di botte tra pizze e schiaffi”.

Mi hanno sottoposto a continue vessazioni, fisiche e mentali, che ho dovuto subire dagli agenti. Mi hanno provocato fino a spingermi in errore per poi aggredirmi con una ferocia inaudita, tanto da riportare traumi al corpo e tumefazioni al viso”.

Sogno ogni sera Hassan Sharaf (il detenuto egiziano di 21 anni che ha tentato il suicidio in una cella di isolamento a 40 giorni dalla libertà, morto all’ospedale Belcolle di Viterbo dopo una settimana di agonia, ndr) e mi sveglio nel panico. Ricordo il mio bambino, ha 13 anni e io trattavo la buon anima di Hassan come mio figlio. Adesso anche un altro detenuto sta in paranoia perché l’assistente ha detto: “Ci pensiamo anche a te”. Adesso ho capito che loro vogliono ammazzarmi”.

LA TELEFONATA

La moglie di un detenuto poi, riferisce al Garante per i detenuti del Lazio, testuali parole: “Se mi succede qualcosa o mi ammazzano, sappi che non è colpa mia. Sappi che mi vogliono far del male”. Così le avrebbe detto il marito durante un colloquio telefonico.

Alcuni degli autori delle lettere “avevano segni evidenti di contusioni e lacerazioni sul loro corpo – scrive nell’esposto il Garante, Anastasia – e tutti hanno riferito modalità analoghe di violenze commesse nei loro confronti: sarebbero stati portati da più agenti di polizia penitenziaria nei locali delle docce o in stanze in uso alla sorveglianza e lì sarebbero stati picchiati”.

Dalle lettere emerge, inoltre, che molti fanno riferimento alla sezione d’isolamento come il luogo in cui accadono le violenze, in modo particolare ad una scala dove non ci sarebbero le telecamere di sorveglianza e che porterebbe alla sezione di isolamento, dove quindi eventuali abusi sarebbero facilmente perpetrati da agenti con il volto coperto da un passamontagna.

“I detenuti”, prosegue il Garante nell’esposto, “hanno raccontato di non essere stati visitati da medici se non dopo diversi giorni, o in altri casi, neanche dopo diversi mesi”. Questo terrore per la sezione d’isolamento, per la possibilità di subire violenze è un racconto che torna frequentemente anche nei colloqui settimanali delle collaboratrici del Garante con i detenuti.

VITERBO, CARCERE “PUNITIVO”

L’istituto penitenziario di Viterbo, di fatto, non è come tutti gli altri del nostro Paese. Un carcere “punitivo”, il più duro d’Italia. Così viene definito dagli addetti ai lavori e, come riferiscono fonti interne, anche dallo stesso direttore della casa circondariale.

“A Viterbo c’è una particolarità”, racconta Stefano Anastasia, garante per i diritti dei detenuti del Lazio. “Molti detenuti arrivano al Mammagialla con provvedimenti disciplinari da altri istituti della regione e si ritiene, a torto a ragione, che quello di Viterbo sia un istituto dove i detenuti più indisciplinati possano essere messi in riga e per questo verrebbero trasferiti lì”.

Su 548 detenuti presenti, un centinaio corrispondono esattamente alla tipologia di detenuto descritta dal Garante: “È una presenza molto significativa”, continua Anastasia, “e del resto, anche lo stesso direttore dell’istituto a me la rappresentava come una anomalia, come un problema che rende difficile la gestione di quell’istituto”.

Laura Bonasera

http://www.tpi.it – 19 marzo 2019

Detenuto suicida nel Carcere di Paola, l’On Bruno Bossio interroga il Ministro Orlando


On. Enza Bruno Bossio - PDNei giorni scorsi, il caso del detenuto Maurilio Pio Morabito, 46 anni, di Reggio Calabria, morto suicida in una cella del Reparto di Isolamento della Casa Circondariale di Paola, in Provincia di Cosenza, lo scorso 29 aprile 2016, intorno all’una di notte, è finito sulla scrivania del Ministro della Giustizia Onorevole Andrea Orlando grazie ad una circostanziata Interrogazione Parlamentare, con richiesta di risposta scritta, presentata dall’Onorevole Enza Bruno Bossio, Deputata del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia.

Il Morabito, che aveva avuto problemi di tossicodipendenza, da circa un mese, dopo essere stato trasferito dalla Casa Circondariale “Arghillà” di Reggio Calabria, si trovava ristretto presso la Casa Circondariale di Paola, dovendo espiare una pena detentiva di 4 mesi di reclusione. Il suo fine pena era previsto per il prossimo 30 giugno.

L’Onorevole Bruno Bossio, grazie anche alle informazioni acquisite dalla visita ispettiva effettuata da una Delegazione dei Radicali Italiani guidata dal radicale Emilio Enzo Quintieri, effettuata nei giorni successivi al decesso del Morabito, ha riferito che quest’ultimo avrebbe posto in essere il gesto autosoppressivo mediante impiccagione, utilizzando una coperta, che è stata annodata a forma di cappio alla grata della finestra della cella, nel reparto di isolamento, del predetto Istituto Penitenziario che, all’epoca dei fatti, ospitava 182 persone detenute a fronte di altrettanti posti detentivi.

Nell’ambito della visita ispettiva, la Delegazione Radicale, aveva potuto verificare che la cella n. 9 in cui si è impiccato il Morabito era “liscia” cioè priva dell’arredo ministeriale, sporca e maleodorante e che il citato detenuto non era stato sottoposto a “sorveglianza a vista” nonostante, già in altre occasioni, avesse manifestato propositi suicidiari e compiuto vari atti autolesionistici, nonché distrutto due celle, una delle quali mediante l’incendio di un materasso posta nel primo reparto detentivo e l’altra nel reparto di isolamento dirimpetto alla cella in cui si è impiccato.

Sul decesso del Morabito, la Procura della Repubblica di Paola, a seguito della denuncia dei familiari, ha aperto un Procedimento Penale, al momento nei confronti di ignoti, per il delitto di istigazione o aiuto al suicidio previsto e punito dall’Art. 580 del Codice Penale al fine di appurare le cause, le circostanze e le modalità del decesso. Infine, la predetta Autorità Giudiziaria, oltre ad aver disposto l’acquisizione dei filmati delle telecamere di sorveglianza presenti nel reparto detentivo, ha anche ordinato l’esame autoptico sulla salma del Morabito, effettuato lo scorso 7 maggio presso l’Ospedale Riuniti di Reggio Calabria dal Dottore Mario Matarazzo che dovrà concludere la relazione peritale nelle prossime settimane.

Nell’Interrogazione (atto n. 4-13360 del 07/06/2016, Seduta n. 633 della Camera dei Deputati) sono stati richiamati, oltre al suicidio di Morabito, gli altri 12 suicidi e le altre 21 morti per malattia, assistenza sanitaria disastrata, overdose o per cause ancora da accertare, avvenuti dall’inizio del 2016, negli Istituti Penitenziari italiani. Dal 2000 ad oggi, i “morti di carcere” sono stati 2.527, 900 dei quali per suicidio. La maggior parte dei suicidi che avvengono negli stabilimenti penitenziari – ha denunciato con forza la Deputata calabrese – si è verificata nei reparti di isolamento e, ancor di più, nelle “celle lisce”, cioè completamente vuote, (come quella in cui il Morabito è stato collocato, per diversi giorni, in condizioni al limite della tollerabilità, nella Casa Circondariale di Paola) nonostante, da tempo, tali pratiche (collocazione dei detenuti in isolamento ed in celle lisce), secondo gli esperti, siano ritenute “assolutamente controproducenti” poiché pur togliendo dalla cella tutto ciò che potrebbe essere usato dai detenuti per suicidarsi, il modo di farlo lo trovano lo stesso.

In tanti Istituti Penitenziari – come proprio la stessa Onorevole Bruno Bossio ha già avuto modo di denunciare al Governo – con altra Interrogazione a risposta in Commissione Giustizia, rimasta inevasa, a seguito della visita ispettiva alla Casa di Reclusione di Rossano e, direttamente, al Dott. Santi Consolo, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria durante la sua audizione presso la Commissione Bicamerale Antimafia – l’utilizzo del reparto e dell’istituto dell’isolamento in modo difforme dalla normativa vigente in materia e cioè all’infuori dei casi stabiliti dall’Art. 33 dell’Ordinamento Penitenziario (motivi giudiziari, sanitari o disciplinari).

Ministro Orlando (2)Ha richiamato anche il fatto che il detenuto Morabito avesse, più volte, chiesto con delle missive, di essere trasferito in un Istituto Penitenziario dotato di una “Sezione Protetta” poiché aveva fondato timore di essere vittima di aggressioni, avendo ricevuto minacce di morte conseguenti a non meglio precisati fatti occorsi quando era ristretto presso la Casa Circondariale Arghillà di Reggio Calabria. Inoltre, stando a quanto riferito dai familiari del detenuto morto suicida, sarebbero state numerose le richieste di colloquio fatte anche al Direttore della Casa Circondariale di Paola e mai tenute in considerazione dallo stesso, in violazione di quanto prescrive l’Art. 75 c. 1 dell’Ordinamento Penitenziario.

Pertanto, l’Onorevole Enza Bruno Bossio, ha chiesto al Ministro della Giustizia Onorevole Andrea Orlando, di conoscere : a) se e di quali informazioni disponga in ordine ai fatti rappresentati, anche con riferimento ai casi specifici segnalati e se questi corrispondano al vero; b) se non ritenga, in via cautelativa, di assumere le iniziative, per quanto di competenza, nel rispetto dell’attività della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Paola, volte ad avviare una indagine amministrativa interna al fine di chiarire la causa, le circostanze e le modalità del decesso del detenuto Morabito ed appurare se nei confronti dello stesso siano state messe in atto tutte le misure di sorveglianza custodiale e sanitaria, previste e necessarie, e quindi se non vi siano responsabilità disciplinarmente rilevanti in capo al personale dell’Amministrazione Penitenziaria ; c) quali siano le motivazioni che hanno condotto all’improvviso trasferimento del Morabito dalla Casa Circondariale di Arghillà di Reggio Calabria alla Casa Circondariale di Paola chiarendo, altresì, per quali ragioni, il predetto detenuto non sia stato trasferito, sin da subito o comunque dopo le sue richieste, presso altro Istituto Penitenziario dotato di reparti “protetti” visto che era stato gravemente minacciato ed aveva fondato timore di essere aggredito invece di essere tenuto a giudizio dell’interrogante, impropriamente, nel reparto di isolamento della Casa Circondariale di Paola; d) se e quali problemi di salute presentava il detenuto Morabito all’atto della visita obbligatoria di primo ingresso presso la Casa Circondariale di Arghillà di Reggio Calabria e poi presso quella di Paola, ricavabili dal suo diario clinico e se risulti se lo stesso, durante tutto il periodo detentivo, sia stato adeguatamente assistito dal punto di vista sanitario; se intenda chiarire, infine, se lo stesso fosse sottoposto a particolari trattamenti terapeutici per le sue condizioni personali; e) se risulti veritiero il fatto che il detenuto Morabito abbia chiesto, più volte, di poter avere un colloquio col Direttore della Casa Circondariale di Paola e che le sue istanze siano rimaste tutte inevase; f) se risulti che, il Direttore della Casa Circondariale di Paola offra, con particolare frequenza, ai detenuti la possibilità di poter avere con lo stesso dei periodici colloqui individuali e se e quante volte il predetto si sia recato ad ispezionare i locali ove sono ristretti i medesimi, anche tramite la visione delle annotazioni apposte negli appositi registri previsti dalla normativa ; g) per quali motivi, il signor Morabito, sia stato recluso nell’istituto di cui in premessa visto che la pena da espiare era di soli 4 mesi di reclusione e se, in ogni caso, corrisponde al vero che questi abbia presentato istanza alla competente Magistratura di Sorveglianza per la concessione di una misura alternativa alla detenzione prevista dall’Ordinamento Penitenziario (detenzione domiciliare, affidamento, e altro) ed in caso affermativo, per quali ragioni, gli sia stata negata ed h) se e quali iniziative il Ministro interrogato intenda assumere per assicurare che l’isolamento nei confronti dei detenuti venga disposto solo ed esclusivamente in circostanze eccezionali e, comunque, nei soli casi tassativi stabiliti dal legislatore, proibendo all’Amministrazione Penitenziaria di utilizzare sezioni o reparti di isolamento per altri motivi in applicazione di quanto disposto dall’Articolo 73 del Regolamento di Esecuzione Penitenziaria e se non ritenga, altresì, di dover intervenire con urgenza per emanare delle direttive soprattutto per quanto attiene l’esecuzione dell’isolamento, poiché, ancora oggi, come accertato dalla Delegazione Radicale nella Casa Circondariale di Paola, esistono delle “celle lisce”, prive di ogni suppellettile, in cui vengono collocati i detenuti che, invece, dovrebbero essere posti secondo l’interrogante in “camere ordinarie” che presentino le caratteristiche indicate dall’Articolo 6 dell’Ordinamento Penitenziario.

Interrogazione n. 4-13360 dell’On. Bruno Bossio (clicca per leggere)

Palermo, Apprendi (Antigone) visita il Carcere Pagliarelli. Nell’isolamento condizioni degradanti per i detenuti


carcere-Pagliarelli-di-Palermo.Lunedì scorso Pino Apprendi, rappresentante di Antigone, si è recato al carcere Pagliarelli di Palermo dopo aver raccolto strane voci sulle condizioni di alcuni detenuti che, per motivi precauzionali (tendenze al suicidio) sarebbero stati tenuti nudi, in isolamento e senza coperte.

“Ho visitato il reparto di isolamento – dice Pino Apprendi – dove vi erano 4 celle occupate da 4 persone; due di queste non avevano in dotazione alcuna coperta. Avendo fatto notare ciò alla direttrice, la stessa mi riferiva che la coperta sarebbe stata data dietro richiesta. Visitando il reparto degenza della psichiatria – continua Pino Apprendi – ho notato che un ragazzo tossicodipendente viveva in una cella priva di letto, tavolo e sgabello; a terra vi era un pezzo di gommapiuma che faceva da materasso, una coperta e due piatti di pasta.

Il ragazzo rivolgendosi a me ed alla direttrice chiedeva delle condizioni migliori, di essere trasferito nella stanzetta accanto dove c’era, a suo dire la televisione, ed infine chiedeva il metadone. In seguito ho incontrato il medico che mi ha spiegato che a norma di regolamento ancora non poteva somministrare il metadone. In un’altra cella adiacente un altro giovanissimo mi riferiva che da tre giorni aveva perdite di sangue interno ed aveva ricevuto solo cure da infermieri; quando ho riferito al medico del carcere, lo stesso ha minimizzato l’accaduto. Devo dire – conclude Apprendi – che vedere il giovane tossicodipendente in quelle condizioni non mi ha fatto pensare ad un posto dove il recupero della persona umana debba essere messo al primo posto”.

Carcere di Vibo Valentia, Detenuti in isolamento con gli slip senza neanche un lenzuolo


Casa Circondariale di Vibo ValentiaEsseri umani. Anche se detenuti. Perché espiare una colpa dietro le sbarre non significa non avere più diritti. Non significa non essere più uomini. È un grido di dolore quello che arriva da contrada Castelluccio. Un grido che le famiglie e quanti devono scontare la loro condanna a Vibo Valentia hanno voluto portare fuori da quelle mura.

Perché ci sono storie di sofferenza, storie di dolore. Sanno bene di avere sbagliato e sanno per questo di non potere godere della loro libertà. Ma il carcere deve rieducare, non solo punire. Il carcere deve essere il percorso che accompagna verso una nuova consapevolezza.

Deve o, forse, dovrebbe. Perché quello che è stato denunciato questa mattina è tutta un’altra storia. Di un’umanità dimenticata.

Una situazione ormai al limite, dove «la dignità di ogni recluso viene sistematicamente calpestata». Diverse le storie che sono state raccontate. Attraverso missive scritte da chi è dietro le sbarre e in questi anni ha dovuto constatare che nella provincia non ci sono «associazioni o organizzazioni che si occupano dei problemi e dei disagi dei detenuti». A raccontarlo un detenuto. Che sta espiando la sua pena. Un uomo affetto anche da una grave patologia che non ha avuto accesso alle cure. Un uomo che non è più autosufficiente ma che non può avere neanche un piantone.

Non può averlo. Perché in carcere pagano i detenuti e pagano anche gli agenti della Polizia penitenziaria. Poco personale che deve fare fronte a tutte le difficoltà.

Diritti anche in questo caso, che vengono meno.

Cosi come in quelle celle, dove ci sono tre detenuti, e dove hanno spiegato «c’è l’acqua calda per 30 minuti al giorno». E non hanno tavoli e sedie nelle salette, così come le stesse «sono inagibili quando piove, e roventi in caso di sole». Non pensano, poi, di chiedere la “luna” quando spiegano che nessun tipo di attività può essere svolta, «la giornata – hanno sottolineato – si svolge tra cella, passeggi e cella, così come – hanno aggiunto – malgrado ci sono due biblioteche è praticamente impossibile accedere ai libri e la Santa Messa viene celebrata una volta al mese se non ogni due mesi». Particolari questi che possono sembrare di poco conto. Se non si pensasse a quel ruolo rieducativo per cui il carcere è nato. Affinché si cambi.

Ma non è cambiamento quello che per gli stessi può nascere quando «i detenuti dopo aver preso un rapporto disciplinare vengono condotti in isolamento in celle lisce solo con gli slip senza che nemmeno abbiano l’occorrente per l’igiene personale». Né un «materasso, né un cuscino, né una coperta o un lenzuolo». Situazioni al limite quelle denunciate. Situazioni che conducono dentro un mondo che fa paura. La loro verità, la loro versione. Ma su cui occorre fare chiarezza.

Perché il carcere è altro. «E non è giusto – hanno stigmatizzato – che se un detenuto fa la doccia perde l’ora di socialità, o che le salette nelle sezioni siano sprovviste di tutto». E ancora: «Non è giusto non essere chiamati se si è fatta la domanda per la visita medica o non essere chiamati perché in quel momento il detenuto era fuori per l’ora d’aria».

E così anche sulla spesa personale, a quanti «impongono di mangiare quello che viene cucinato dentro la cucina della struttura penitenziaria». Diritti, su questi alcuni detenuti hanno inteso richiamare l’attenzione. Per loro e per i loro familiari che «per un colloquio visivo, per un’ora perdono 3 ore di colloquio, o che non hanno diritto a lasciare cibo per i propri congiunti». Tante storie, più sfumature. Anche dolorose. Come quanto sarebbe accaduto, in base a quanto denunciato, ad un «detenuto di 22 anni che ha tentato – hanno segnalato – di tagliarsi le vene e non è stato nemmeno avvisato il magistrato di sorveglianza di turno, cosi che è stato nell’immediatezza trasferito e tutto è stato messo a tacere». Storie di carcere. Di detenuti e diritti. Nel 2015.

Su cui fare chiarezza, certamente. Ma che meritano attenzione.

http://www.21righe.it – 01 Ottobre 2015 

Carceri/Giustizia, Intervista di Radio Radicale all’On. Bruno Bossio sulla situazione di Cosenza e Regina Coeli


Radio Radicale logoCarceri/Giustizia, Intervista di Lanfranco Palazzolo, giornalista di Radio Radicale, all’Onorevole Enza Bruno Bossio (Deputato PD-Radicale) sulla situazione nelle Carceri di Cosenza (visita ispettiva effettuata in data 20/07/2015) e di Regina Coeli e la vicenda di Mafia Capitale.

Intervista di Radio Radicale all’On. Bruno Bossio, Deputato Pd – Radicale (clicca per ascoltare)

Piacenza: 20enne nigeriano si impicca, era in cella di isolamento perché “molto agitato”


Casa Circondariale di PiacenzaDa quattro mesi era in carcere con la pesante accusa di aver violentato e rapinato, in un appartamento della zona-stazione, due donne colombiane: si è impiccato in cella usando come cappio un pezzo della sua maglietta, morendo mercoledì in ospedale dopo quattro giorni d’agonia. È accaduto nel carcere di Piacenza dove il nigeriano 20enne Osas Ake era stato trasferito dopo un periodo trascorso alla Pulce.

Stiamo parlando di un clandestino completamente solo in Italia, giunto nel nostro Paese in modo rocambolesco su un barcone, approdando a Lampedusa. Poi il coinvolgimento – il 9 ottobre scorso – a Reggio Emilia, con un ghanese, in un episodio che i dirigenti della polizia non avevano esitato a definire “di devastante e sconcertante violenza”.

La notizia del suicidio è rimbalzata solo ieri in città, ma la conferma è arrivata ripercorrendo i “passaggi” giudiziari legati a questo giovane nigeriano che, dopo la convalida dell’arresto in ottobre, si era ripresentato in tribunale a Reggio il 10 febbraio scorso per assistere ad un incidente probatorio, affiancato dagli avvocati d’ufficio Noris Bucchi ed Elisabetta Strumia.

Quel martedì era stata sentita la terza donna colombiana presente nell’appartamento. Quattro giorni dopo il gesto estremo del ventenne. E nello studio degli avvocati d’ufficio sono in effetti al corrente di quanto accaduto, perché Ase aveva disposto fin dall’inizio che ogni comunicazione che lo riguardava fosse comunicata ai suoi legali, unico suo punto d’appoggio in Italia.

Una disposizione che ora è un cupo testamento. “Siamo stati avvertiti da Piacenza telefonicamente della tragedia – conferma l’avvocato Bucchi – e con la collega abbiamo subito pensato a quando l’abbiamo visto l’ultima volta, cioè all’incidente probatorio. Osas non parlava l’italiano e, quindi, aveva seguito l’interrogatorio tramite l’interprete. Al termine gli avevo comunicato che l’incidente probatorio non era andato male. Durante l’udienza aveva avuto un atteggiamento passivo e mi era sembrato un po’ scosso, ma nessuno poteva pensare – conclude il difensore – che questa sua passività fosse premonitrice della tragedia”.

Ma cos’è accaduto in carcere? Il giovane nigeriano era andato in escandescenze in un corridoio della struttura piacentina, denudandosi. Era stato messo in isolamento, più tardi la macabra scoperta in quella cella da parte di un agente carcerario che, per motivi di sicurezza, chiama alcuni colleghi per poi soccorrere il ventenne impiccatosi alla finestra. Quattro giorni dopo la morte. È stata aperta un’inchiesta e disposta l’autopsia.

Terribile la vicenda che aveva portato all’arresto del nigeriano e di un complice ghanese. Secondo la ricostruzione fatta dalla polizia, i due stranieri la sera del 9 ottobre scorso bussano alla porta di un appartamento situato nel quadrilatero della stazione. E viene loro aperto. All’interno si trovano tre donne colombiane, in regola con il permesso di soggiorno e con il contratto d’affitto, due quarantenni e una trentenne.

Le intenzioni dei due uomini appaiono subito chiare. Il primo, armato di coltello che si rivelerà poi essere una scacciacani, obbliga una delle donne a spogliarsi. Lo stesso fa il secondo con un’altra delle donne presenti nell’appartamento e, di fronte ad un tentativo di sottrarsi alla violenza, va in cucina e prende un coltello con cui inizia a minacciarla. Inizia così l’ora più lunga per le due donne che vengono violentate davanti alla terza obbligata ad assistere inerme.

Carceri disumane, questo suicidio è l’ennesima prova, di Elisa Pederzoli

La riflessione del presidente della Camera penale Bucchi Disposta l’autopsia sul 20enne che si è ucciso a Piacenza. Sulla morte in carcere di Osas Ake, il 20enne nigeriano che era accusato della rapina e della stupro di due donne avvenuto in un appartamento in zona stazione lo scorso mese di ottobre, a Piacenza è stata aperta un’inchiesta. La procura, infatti, ha disposto l’autopsia. Vuole chiarire quanto avvenuto per quel suicidio in cella il 14 febbraio scorso, in una giornata in cui già un altro detenuto aveva tentato, senza riuscirci, di togliersi la vita.

Il tragico gesto del nigeriano è il settimo, dall’inizio dell’anno, nelle carceri italiane. Fatti che, una volta in più, fanno riflettere. Ventenne, era accusato di aver violentato in ottobre due donne con un complice. Il gesto estremo nel carcere di Piacenza: era in isolamento perché “molto agitato”.

“Come uomo – spiega l’avvocato Domenico Noris Bucchi – il suicidio di Osas mi ha turbato non poco. Come suo difensore e come presidente della Camera penale reggiana, questo episodio mi induce ad una riflessione più complessa”. “Osas Ake aveva vent’anni, non era ancora stato condannato e in attesa del processo si è tolto la vita impiccandosi in una cella di isolamento – racconta – Questo è il settimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno. Nel 2014 i suicidi nelle carceri italiane sono stati quasi 50. Un fenomeno che deve fare riflettere tutti noi”.

“Da anni le Camere Penali denunciano le condizioni disumane nelle quali sono costretti a vivere i detenuti in Italia – prosegue.

Lo stesso presidente Giorgio Napolitano ha recentemente denunciato pubblicamente questa insostenibile situazione. Tuttavia nessuno fa nulla per, non dico risolvere, ma neppure affrontare, denunciare, questa situazione”. “Ebbene – rilancia – io vorrei approfittare di questa triste vicenda per ricordare a tutti e ribadire ad alta voce che la situazione dei detenuti in Italia è drammaticamente al collasso. Che nessuno ha il diritto di privare un altro uomo della sua dignità. Che anche i detenuti sono uomini e come tali devono essere trattati. Che occorre stimolare le istituzioni ad affrontare questo delicatissimo tema”. “Se qualcosa, anche poco, si muoverà allora anche il sacrificio umano di Osas Ake non sarà stato vano” conclude.

Bucchi aveva visto Osas Ake appena quattro giorni prima del suo suicidio: durante l’incidente probatorio, che si è tenuto in tribunale a Reggio. La notizia della sua morte è arrivata nello studio di Bucchi, che era il suo unico riferimento in Italia. Quello che è stato ricostruito fino ad ora, è che il giorno del suicidio aveva dato in escandescenza in corridoio. Si era denudato. Quindi, era stato messo in isolamento. Ma più tardi, gli agenti della penitenziaria lo avevano trovato ormai senza vita: si era impiccato con la maglietta che indossava. Quattro mesi prima, c’era stata l’irruzione a casa di tre donne in zona stazione: armati di una scacciacani, secondo quanto ricostruito dalla polizia, in due le avevano rapinate e violentate. Accusati sono lui e un amico ghanese.

Tiziano Soresina

Gazzetta di Reggio, 25 febbraio 2015

Carcere e abusi, registrazione shock inchioda Agenti di Polizia Penitenziaria


carcere-620x264La moglie del detenuto che ha registrato di nascosto le guardie che parlano di pestaggi nel carcere di Parma, decide di rivelarsi al Garantista (ASCOLTA LA REGISTRAZIONE).

LA REGISTRAZIONE

Nella registrazione la guardia carceraria si lascia andare: “Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu“. Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: “Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero. Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok?

Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no… Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte.

NE PICCHIAMO TANTI, QUI COMANDIAMO NOI

Da questa registrazione, resa pubblica attraverso i mass media, è partita un’ispezione interna da parte dell’Amministrazione penitenziaria e l’apertura di un’inchiesta da parte della Procura. Sono intervenuti, in merito alla vicenda, Desi Bruno e Roberto Cavalieri, rispettivamente Garante regionale e Garante del Comune di Parma dei detenuti, esprimendo “preoccupazione circa il contenuto delle registrazioni diffuse dalla stampa e realizzate, per come viene riferito, all’interno del penitenziario di Parma da parte di un detenuto”.

Proseguono ancora i garanti: “Tali contenuti qualora confermati nella loro veridicità e completezza, farebbero emergere che all’epoca dei fatti, e cioè negli anni 2010-2011, si sarebbe verificata una situazione di subordinazione delle questioni di salute e incolumità dei detenuti alle pratiche della custodia anche quando queste si sono manifestate, secondo le accuse, in modo illegittimo attraverso l’uso della violenza”Il detenuto che ha registrato la conversazione si chiama Rachid e attualmente è rinchiuso nel carcere di Sollicciano.

La moglie ha inviato una lettera al direttore del carcere affinché gli garantisca protezione da eventuali ritorsioni. Emanuela D’Arcangeli -questo è il suo nome- tramite il suo blog “Carcere e Verità” sta intraprendendo una battaglia per combattere la situazione infernale del sistema penitenziario. La sua lettera indirizzata al Garantista è un invito ad intraprendere una battaglia che non sia una lotta tra detenuti e guardie “cattive”, ma una lotta creando un fronte comune composto da familiari, detenuti, operatori e le stesse guardie penitenziarie che credono nel loro lavoro. In altre registrazioni, sempre messe a disposizione sul canale Youtube “Carcere e Verità“, ci sono colloqui con altre guardie carcerarie le quali ammettono che non testimonieranno mai contro i loro colleghi. Quello che avviene in carcere resta chiuso tra quattro mura; una sola parola vige tra gli operatori penitenziari: omertà. L’invito di Emanuela è quello di combatterla.

– Damiano Aliprandi

LA LETTERA

Io ero una persona cattiva. Chiedo scusa se gioco con le parole che usai nella mia precedente lettera, due mesi fa, sempre su questo giornale. A Luglio ero un’anonima testimonianza, che se da un lato aveva tanto da dire, dall’altro doveva frenarsi, perché la verità più scomoda, era anche quella che doveva tacere. Ma ora è diverso.

La sera del 18 Settembre, nell’edizione delle 20 del TG1, è andato in onda un servizio su un detenuto di Parma, che servendosi di alcuni registratori vocali, era riuscito a documentare una lunga serie di colloqui con le guardie del carcere. Quello che ne è venuto fuori si può sintetizzare

in due parole: violenza e omertà. Quel detenuto incosciente e coraggioso è l’uomo che ho avuto la fortuna di sposare. E’ la persona che ha preso i miei limiti e negli anni li ha spinti sempre un po’ più avanti, fino a farli arrivare vicino ai suoi.

Ma come spesso accade, il coraggio viene dalla disperazione e noi non siamo diversi. Nella memoria, l’anno passato a Parma rimane il peggiore di tutta la detenzione di Rachid. Mi bastano solo poche parole, per far capire il mio stato d’animo, dall’Ottobre del 2010, all’Ottobre dell’ anno seguente: Rachid lo stavano consumando piano e ad ogni colloquio mi mostrava i segni di questa o quella violenza. Tanto che arrivai a domandarmi se alla fine sarebbe rimasto ancora qualcosa da picchiare.

Il pestaggio di cui parla la traccia andata in onda al TG, documenta uno degli eventi, ma non l’unico.

Appena entrato ha subito violenza. Dopo due mesi, avvenne l’aggressione di cui parla la traccia del telegiornale. Poi il braccio chiuso inavvertitamente nel blindato; il dito incastrato inavvertitamente nella ruota della carrozzina, che usava per deambulare. Due scioperi della fame, che lo fecero arrivare a pesare 36 kili. Le manciate di psicofarmaci che gli davano e che lui faceva uscire a colloquio.

Senza parlare delle cose più piccole (ma in carcere niente è “piccolo”): l’acqua corrente, sospesa per tre giorni; i generi alimentari acquistati con i suoi soldi, requisiti e restituiti dopo alcune settimane, marci; il suo Corano buttato a terra senza rispetto, durante una perquisizione; le foto della sua famiglia richieste per mesi e per mesi negate, perché ritenute di un formato non consentito, salvo poi scoprire che invece erano consentite. Le voci false di pedofilia, diffuse per screditarlo agli occhi degli altri detenuti.

Se queste cose non avessero trovato riscontro, non saremmo mai riusciti a dimostrarle, perché tutte insieme sembrano troppo assurde, per essere vere. Ma lo sono.

Due mesi fa, dovevo essere cattiva, perché avevo un ideale da portare avanti, contro poteri più forti di me.

Oggi posso dire che non ho solo un ideale, ma ho anche le prove. In questi giorni il DAP e la Procura, si sono limitati a commentare l’accaduto, gettando dei dubbi

sull’autenticità di queste registrazioni. Me lo aspettavo, ma la prevedibilità della reazione, non mi consola, anzi.

Al DAP, alla Procura, ma anche alle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria e ad ogni singolo agente, impegnato nelle carceri italiane, voglio dire che ripetere che non è possibile fare entrare dei registratori in carcere, significa perdere tempo inutilmente.Le registrazioni sono autentiche, parlano di luoghi, date, eventi e la voce è quella di Rachid, che dal Giugno del 2008 è detenuto dallo Stato. Non ci sono stati permessi, domiciliari, lavoro all’esterno.

Non sono accuse generiche. Non ha senso mantenere una posizione. Non ha senso dubitare o addirittura negare.

Piuttosto occorre fare fronte comune: i detenuti, i familiari, insieme agli agenti che credono nel loro lavoro e lo vorrebbero fare al meglio; contro quelle che una volta erano le mele marce, ma che oggi hanno infettato il sistema. Ho detto che la realtà delineata da quelle tracce si compone di violenza, ma anche di omertà.

Le carceri sono piene di lavoratori onesti, che non alzerebbero mai le mani, che non sono naturalmente portati alla violenza, ma tacciono. Il silenzio non lascia traccia sulla pelle, ma è complice della violenza.

Parole come “Io non denuncero’mai un collega” fanno male, quanto un cazzotto sullo stomaco o un calcio alla schiena.

Solo parlando, solo denunciando, le violenze possono venire fuori. La lotta per farle uscire, non è la guerra dei detenuti, contro la polizia. Piuttosto e’ la lotta di tutti

quelli che in carcere vivono, o lavorano, al fine di ottenere condizioni più umane e anche più stimolanti, che liberino il carcere dalla certezza di essere un luogo inutile.

Voglio terminare con una domanda agli agenti. Il ruolo che il sistema carcere vi attribuisce, al momento, resta sospeso tra due compiti: quello del portinaio e quello del maggiordomo.

Ma se vi preparasse, affinché possiate diventare soggetti veramente attivi nel recupero del detenuto, formandovi e incrementando le vostre competenze, non ricavereste un piacere maggiore dal vostro lavoro?

– Emanuela D’Arcangeli, Carcere Verità

Carcere di Rossano. Manconi, Bruno Bossio e Bargero (Pd) interrogano il Governo Renzi


MontecitorioNei giorni scorsi, il Senatore Luigi Manconi (Pd), già Sottosegretario di Stato alla Giustizia ed attuale Presidente della Commissione Straordinaria per la Tutela e la Promozione dei Diritti Umani, aveva rivolto una Interpellanza al Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando in riferimento a quanto riscontrato dal Deputato Enza Bruno Bossio (Pd) durante una visita ispettiva “a sorpresa” presso la Casa di Reclusione di Rossano in Calabria ove erano state rilevate gravi condizioni di detenzione, contrarie a quanto previsto dalla normativa vigente. Nella giornata di ieri, l’Onorevole Enza Bruno Bossio, membro della Commissione Bicamerale Antimafia (unitamente alla collega On. Cristina Bargero) ha depositato una Interrogazione a risposta in Commissione indirizzata ai Ministri della Giustizia On. Andrea Orlando, della Salute On. Beatrice Lorenzin e del Lavoro e delle Politiche Sociali On. Giuliano Poletti alla quale è stato delegato a rispondere il titolare di Via Arenula.
Il Guardasigilli, già nell’immediatezza dei fatti, aveva disposto una ispezione mirata proprio alla Casa di Reclusione di Rossano in seguito alla denuncia effettuata dalla Parlamentare Democratica. Gli accertamenti vennero effettuati dal Consigliere Francesco Cascini, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Responsabile dell’Ufficio Ispettivo e del Controllo.
Nel frattempo, si è appreso informalmente, che sia stato rimosso e trasferito in altra sede il Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria di Rossano, il Vice Commissario Elisabetta Ciambriello e che, relativamente ai pestaggi ed agli abusi a cui sarebbero stati sottoposti alcuni detenuti da parte del personale dell’Amministrazione Penitenziaria, sia stata interessata e stia procedendo, per quanto di competenza, la Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Castrovillari.
Si allegano, per completezza di informazione, gli atti di Sindacato Ispettivo Parlamentare del Sen. Manconi e degli On.li Bruno Bossio e Bargero.
SENATO DELLA REPUBBLICA
XVII LEGISLATURA
Seduta n. 307 del 09/09/2014
INTERPELLANZA n. 2-00192

Al Ministro della Giustizia – Premesso che:

sabato 9 agosto 2014 l’on. Enza Bruno Bossio si è recata in visita ispettiva presso la casa di reclusione di Rossano (Cosenza);

al suo arrivo al carcere di Rossano gli agenti di Polizia penitenziaria si rifiutavano di farla entrare, cosa avvenuta solo a seguito di molte insistenze della parlamentare e della rinuncia ai propri accompagnatori;

la vice commissario Elisabetta Ciambriello, comandante della Polizia penitenziaria dell’istituto, in un colloquio telefonico avrebbe addirittura detto alla deputata: “Onorevole lei non si doveva permettere di venire al Carcere senza preavviso. Quando si va a casa degli altri si chiede il permesso”;

considerato che, per quanto risulta all’interpellante:

l’on. Bruno Bossio intrattiene da tempo una comunicazione epistolare con un detenuto che lamenta di essere ristretto in un regime di isolamento inumano, nel quale gli sarebbero negate anche lettere e telegrammi (particolare confermato dai familiari dell’interessato). Inizialmente gli agenti si erano offerti di portare il detenuto in parlatorio, ma dopo lunghe insistenze la deputata è riuscita a farsi condurre nel reparto di isolamento del carcere;

al suo ingresso nella sezione, gli agenti stavano provvedendo a chiudere le porte blindate delle celle di tutti i detenuti allocati in isolamento, lasciando aperta solo quella del detenuto che la deputata intendeva visitare. Ad un certo momento gli altri ristretti si sono messi ad urlare chiedendo che vedesse in quali condizioni erano costretti a vivere. Quando l’on. Bruno Bossio ha chiesto di aprire le celle gli agenti le hanno detto che non avevano più le chiavi appena usate per chiuderle;

pur non essendo riuscita a entrare nelle camere da cui provenivano le urla, la deputata ha potuto vedere dalle finestrelle di controllo delle porte blindate detenuti sostanzialmente nudi, soltanto con gli slip; in alcune delle celle non c’era neanche il letto, e quindi i detenuti erano seduti per terra, in un caso in mezzo ai propri escrementi, al vomito ed ai piatti sporchi. Uno di loro era stato messo in isolamento per aver tentato il suicidio, gli altri due per aver tentato una evasione. Questi ultimi hanno sostenuto di essere stati picchiati da agenti della Polizia penitenziaria e mostravano sui loro corpi segni di percosse. A uno di loro avrebbero rotto anche un orecchio e, a suo dire, egli non avrebbe ricevuto alcuna assistenza sanitaria;

secondo l’on. Bruno Bossio, nel reparto di isolamento della casa di reclusione di Rossano l’ora d’aria verrebbe trascorsa in uno spazio più piccolo della cella, circondato da una rete metallica;

il 13 agosto il Ministro in indirizzo ha comunicato di aver disposto un’ispezione nel carcere di Rossano, anticipando che nei giorni successivi avrebbe avuto “comunicazione degli esiti dell’attività ispettiva”;

giovedì 4 settembre il quotidiano “Cronache del garantista” ha reso pubblica la testimonianza di un uomo di 38 anni reduce da un periodo di detenzione nel carcere calabrese, come si riporta brevemente;

D.M. ha subito una condanna a 5 anni per furto, falso e lesioni e ora è ai domiciliari;

nell’agosto 2012 D.M. entra nella casa di reclusione di Rossano e, secondo il suo racconto, subisce le prime violenze: per i controlli di rito gli viene chiesto di denudarsi e di procedere all’esecuzione di flessioni; in quel momento uno degli agenti gli avrebbe sferrato improvvisamente e ingiustificatamente un pugno che ne avrebbe colpito la parte destra del cranio: il mento dell’uomo sbatte contro un muro e perde un dente, l’incisivo destro; D.M. avrebbe quindi chiesto invano di vedere un medico;

dalla sua cella, la numero 24, D.M. dichiara che poteva sentire le urla e i lamenti dei detenuti che venivano picchiati nel reparto di isolamento: non solo detenuti assegnati a quel reparto, ma anche detenuti che vi venivano portati appositamente, vittime prescelte sarebbero stati prevalentemente detenuti di media sicurezza, tra cui gli stranieri, presi particolarmente di mira,

si chiede di sapere:

quale sia stato l’esito dell’ispezione disposta nel carcere di Rossano;

se siano stati presi provvedimenti disciplinari nei confronti della comandante del corpo della Polizia penitenziaria, a parere dell’interpellante palesemente ignorante delle prerogative parlamentari in ordine alle visite negli istituti di prevenzione e pena;

se siano stati presi provvedimenti disciplinari nei confronti di ogni altro dipendente dell’amministrazione penitenziaria che abbia tentato in qualsiasi modo di impedire o di limitare lo svolgimento della visita ispettiva dell’on. Bruno Bossio (anche accampando l’argomentazione a giudizio dell’interrogante surreale di non avere a disposizione le chiavi di alcune celle dell’istituto);

se siano stati presi provvedimenti disciplinari nei confronti del dirigente dell’istituto, responsabile della sua conduzione;

se sia stato disposto un supplemento ispettivo in relazione alla denuncia del signor D.M., già detenuto nel carcere di Rossano, ovvero se dagli atti dell’ispezione già compiuta sia risultato il carattere sistematico dell’uso illegittimo dell’isolamento e della violenza nei confronti dei detenuti;

se il Ministro in indirizzo abbia notizia di altri istituti in cui vi sia un ricorso illegittimo all’isolamento e alla violenza nei confronti dei detenuti;

quali provvedimenti intenda adottare per impedire che ciò avvenga.

Sen. Luigi MANCONI

CAMERA DEI DEPUTATI
XVII LEGISLATURA
Seduta n. 291 del 16/09/2014
INTERROGAZIONE A RISPOSTA IN COMMISSIONE N. 5-03559
Al Ministro della giustizia, al Ministro della salute, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
il 9 agosto 2014 l’interrogante si è recata in visita ispettiva (ex articolo 67, comma 1, lettera b), dell’Ordinamento Penitenziario, legge n. 354 del 26 luglio 1975) presso la casa di reclusione di Rossano, in provincia di Cosenza, accompagnata da un collaboratore e dall’esponente radicale calabrese Emilio Quintieri;
secondo i dati più recenti diramati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, a fronte di una capienza regolamentare di 215 posti, la CR di Rossano ospita 258 detenuti (43 in esubero), molti dei quali appartenenti al circuito differenziato dell’Alta Sicurezza (As3 e As2) e condannati ad espiare pene medio-lunghe;
dell’ispezione, effettuata a seguito delle gravi condizioni di detenzione portate a conoscenza dell’interrogante da alcuni detenuti ristretti nel citato stabilimento penitenziario, non era stato dato alcun preavviso alla direzione dell’istituto penitenziario;
in particolare, erano state segnalate all’interrogante le condizioni in cui erano costretti a vivere alcuni detenuti nel reparto di isolamento posto al piano terra della struttura;
non appena giunta all’istituto gli agenti di polizia penitenziaria hanno tentato in tutti i modi di impedire l’accesso all’interrogante adducendo che, in quel momento, non vi era in servizio né il direttore dell’istituto, dottor G. Carrà né il comandante di reparto dottoressa E. Ciambriello;
solo a seguito di numerose insistenze, gli agenti, consentivano l’accesso alla sola interrogante, ciò in palese violazione a quanto disposto dall’articolo 67, comma 2, dell’Ordinamento penitenziario e limitando, in tale modo, la funzione ispettiva riconosciuta ai membri del Parlamento;
una volta condotta presso il citato reparto di isolamento, l’interrogante ha potuto personalmente constatare i trattamenti inumani e degradanti a cui erano sottoposti i detenuti allocati in tale reparto;
pur non essendo potuta entrare nelle celle (note nel gergo carcerario come «celle lisce»), poiché gli agenti riferivano di non aver le chiavi per aprirle, l’interrogante ha avuto modo di constatare che le stesse erano completamente vuote e cioè prive di tutto l’arredo ministeriale (branda, materasso, sgabello, televisione, etc.), in condizioni igienico-sanitarie vergognose (i pavimenti erano ricoperti di vomito ed escrementi) e i detenuti vi erano tenuti nudi con addosso soltanto gli slip;
chieste spiegazioni in merito agli agenti, questi riferivano che, tali detenuti, erano tenuti in quelle condizioni in quanto, alcuni, avevano tentato il suicidio e avevano problemi psichiatrici (L.G.), e altri, perché ritenuti responsabili di una tentata evasione;
questi ultimi (F.P. e A.D.), sentiti dall’interrogante, hanno dichiarato di essere stati percossi da alcuni agenti di polizia penitenziaria e, poi, di non essere stati nemmeno curati dal personale sanitario in servizio nell’Istituto;
durante la visita gli agenti di polizia penitenziaria chiedevano all’interrogante di recarsi presso una postazione telefonica poiché era desiderata dal comandante di reparto, la quale, nel colloquio telefonico, contestava all’interrogante la possibilità di poter effettuare ispezioni nell’istituto senza preavviso;
in data 11 agosto 2014, su disposizione del Ministro della giustizia, la C.R. di Rossano è stata interessata da una ispezione da parte del dottor Francesco Cascini, vice capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e responsabile dell’ufficio ispettivo e del controllo;
il 22 agosto 2014 l’interrogante, unitamente all’onorevole Carlo Guccione, consigliere regionale della Calabria ed ai propri collaboratori Gaspare Galli e Gabriele Petrone, si è recata nuovamente in visita ispettiva presso la casa di reclusione di Rossano dandone preavviso alla direzione;
in tale circostanza, la delegazione, è stata accompagnata dal direttore dell’istituto, dal comandante di reparto e da altri agenti di polizia penitenziaria;
nel corso della visita è stato accertato un leggero miglioramento delle condizioni di detenzione poiché le celle, prima completamente sporche e vuote, erano state adeguatamente ripulite e dotate degli arredi previsti (brande, tavoli, sgabelli, televisioni, e altro);
nel corso dell’ispezione è stato visitato anche uno dei reparti dell’alta sicurezza ove la situazione, sulla base delle dichiarazioni rese dalla popolazione detenuta, presenta numerose criticità;
in particolare i detenuti hanno riferito all’interrogante sulle difficoltà di ricevere la corrispondenza, di poter intrattenere colloqui telefonici con i propri familiari detenuti in altri istituti, di poter ottenere un trasferimento in istituti vicini alla residenza della propria famiglia;
i detenuti, inoltre, hanno messo in evidenza all’interrogante la non possibilità di poter svolgere attività lavorativa in carcere, condizione che rende la detenzione particolarmente insopportabile;
in particolare non si sono potute accogliere le richieste di poter lavorare in cucina di alcuni detenuti perché, secondo le dichiarazioni del direttore Carrà, sarebbe necessario attivare all’interno dell’istituto un corso di formazione che rilasci un attestato;
appare certamente insufficiente l’assistenza educativa e psicologica e manca un’attività continuativa di assistenza sociale e culturale per la carenza di educatori in forza all’istituto tale da precludere a molti detenuti la possibilità di ottenere ciò che gli spetta di diritto ossia un tempestivo accesso ai benefici premiali ed alle altre misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario;
la magistratura di sorveglianza competente, spesso in assenza di relazione sulla osservazione scientifica della personalità da parte degli educatori, ha rigettato le legittime istanze avanzate dai reclusi;
in merito all’assistenza sanitaria in carcere, l’interrogante ha verificato come un detenuto non autosufficiente sia affidato alla sola assistenza dei suoi compagni di cella;
diversi detenuti, inoltre, hanno lamentato che non è possibile vedere la televisione, sia perché manca materialmente l’apparecchio, sia per la non funzionalità del digitale terrestre, e che non viene loro consentito di poter acquistare, ricevere e detenere in cella lettori CD per ascoltare musica, o personal computer per scrivere o giocare, a differenza di quanto avviene in altri istituti penitenziari della Calabria in evidente violazione dell’articolo 3 dell’Ordinamento penitenziario il quale stabilisce che «negli Istituti Penitenziari è assicurata ai detenuti ed agli internati parità di condizioni di vita»;
i detenuti hanno poi rappresentato all’interrogante l’assenza della doccia nelle loro celle che, ancora oggi, avviene in locali comuni ubicati all’interno del reparto in violazione di quanto disposto dall’articolo 134 del Regolamento di esecuzione penitenziaria;
i detenuti hanno infine messo in evidenza la scarsa presenza e vigilanza del magistrato di sorveglianza nell’istituto, per cui molte delle istanze prodotte da loro e dai loro legali rimangono per lungo tempo senza una risposta;
fatto ancora più grave e meritevole di essere evidenziato è quello che riguarda il detenuto R.V., ergastolano, il quale in data 2 agosto 2014, improvvisamente, su disposizione della competente direzione generale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del 31 luglio 2014, è stato trasferito dalla casa circondariale di Catanzaro, nella quale si trovava ristretto da qualche anno, alla casa di reclusione di Rossano e posto in isolamento;
la raccomandazione a «ridurre al minimo l’isolamento dei detenuti» è contenuta anche nel Rapporto annuale del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT), pubblicato il 10 novembre 2011, limitandolo solo a circostanze eccezionali e, sempre per il minor tempo possibile, rispettando i presupposti di legge e per un massimo di 14 giorni;
negli anni scorsi, a tal proposito, è più volte intervenuto il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con delle circolari rivolte ai direttori degli istituti penitenziari per invitarli a riportare l’utilizzazione del reparto e dell’istituto dell’isolamento ai soli casi prefissati dal legislatore, disapprovando, peraltro, la prassi di far transitare dal reparto d’isolamento: i condannati al rientro dal permesso (per uno o più giorni), i cosiddetti «nuovi giunti» (sino all’assegnazione) e i detenuti che, per ragioni personali o processuali, hanno un divieto d’incontro con la popolazione detenuta;
negli stessi documenti, peraltro, si sottolinea come l’isolamento continuo determina situazioni di grave disagio fisico e psichico, con esposizione del detenuto a rischio suicida serio ed attuale;
nei casi poi che la richiesta del detenuto di essere «isolato» sia giustificata da ragioni oggettive, che consigliano di adottare cautele per la protezione della sua incolumità personale, la direzione dell’istituto, dovrà disporre l’assegnazione ad una cosiddetta «sezione protetta»;
a quanto risulta R.V. non è affetto da malattia contagiosa, non è stato oggetto di sanzione disciplinare di esclusione dalle attività in comune, non è stato raggiunto da provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne disponeva l’allocazione in isolamento per ragioni di cautela processuale per cui non si comprende per quale motivo lo stesso non sia stato allocato in vita comune con gli altri detenuti all’interno del reparto AS3;
inoltre, la pregressa situazione personale di R.V., emergente inconfutabilmente dalla sua cartella personale, avrebbe dovuto escludere categoricamente la sua allocazione in isolamento, per il concreto ed attuale rischio di gesti autolesionistici o suicidari, dal momento che presso la casa circondariale di Catanzaro era stato sottoposto al più rigoroso regime custodiale della «sorveglianza a vista»;
R.V., sulla base delle informazioni in possesso dell’interrogante, alla data odierna, continua a permanere in isolamento e, pare, che lo stesso abbia denunciato tale situazione all’autorità giudiziaria competente chiedendo, altresì, di essere sentito dal procuratore della Repubblica di Castrovillari per denunciare le misure di rigore non consentite dalla legge a cui sarebbe sottoposto unitamente agli altri detenuti da parte del personale dell’amministrazione penitenziaria;
il 4 settembre 2014 sul quotidiano Il Garantista a pagina 5, veniva pubblicato un articolo dal titolo «Una parola di troppo e quelli ti pestavano» in cui parla decreto ministeriale, 38 anni, già detenuto presso la casa di reclusione di Rossano ed in atto sottoposto alla misura alternativa della detenzione domiciliare;
nell’articolo citato decreto ministeriale denunciava fatti e circostanze gravissime avvenute in detto istituto penitenziario negli anni scorsi ad opera di alcuni agenti della polizia penitenziaria, come ispezioni corporali, perquisizioni con denudamento ed esecuzione di flessioni, di percosse, di mancate cure sanitarie ed altro ancora;
nello stesso articolo decreto ministeriale riferisce che «i pestaggi avvengono in isolamento», «dalla cella 24 si sentiva tutto», «bastava niente, uno sguardo, una parola di troppo» riferendo di non aver denunciato prima questa barbarie perché «avevo paura di ritorsioni»;
precedentemente, sempre sugli organi di informazione, erano stati pubblicati ulteriori articoli riguardanti gravi abusi accaduti all’interno della suddetta casa di reclusione commessi dagli agenti di polizia penitenziaria in danno di detenuti stranieri di matrice islamica appartenenti al circuito differenziato dell’AS2 (luglio 2010);
altri racconti di maltrattamenti con abusi da parte del personale dell’amministrazione penitenziaria sono stati raccontati da ex detenuti del circuito media sicurezza negli anni successivi (febbraio 2013);
nell’istituto penitenziario di Rossano, come in tanti altri della Calabria, si registra, da tempo, una cronica carenza di personale di polizia penitenziaria e alcuni agenti riferiscono che spesso una sola unità sarebbe impiegata a sorvegliare circa 100 detenuti;
non v’è dubbio che tale deficit di organico incide sull’organizzazione del lavoro e si ripercuote negativamente sia sulla vita dei detenuti che degli agenti di polizia penitenziaria costretti ad operare in condizioni di estremo disagio –:
se e di quali informazioni dispongano i Ministri interrogati, ognuno per la parte di propria competenza, in merito ai fatti rappresentati, anche con riferimento ai casi specifici ivi segnalati;
quali siano gli esiti dell’ispezione mirata disposta dal Ministro della giustizia ed effettuata dal dottor Francesco Cascini, vice capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e responsabile dell’ufficio ispettivo presso la citata casa di reclusione subito dopo la prima visita effettuata dall’interrogante;
se il comandante di reparto della polizia penitenziaria di Rossano sia stato trasferito e, in caso affermativo, quali siano i motivi che abbiano determinato l’adozione di tale provvedimento;
se e quali provvedimenti siano stati eventualmente intrapresi nei confronti del direttore dell’istituto o di altri dipendenti dell’amministrazione penitenziaria in servizio presso la casa di reclusione di Rossano;
se siano stati avviati procedimenti legali presso la competente procura della Repubblica di Castrovillari che riguardino condizioni di detenzione illegali, maltrattamenti ed abusi avvenuti presso la casa di reclusione di Rossano, a seguito di denunce da parte dei detenuti, dei difensori di questi ultimi o di terzi, e se sia noto per quali ipotesi di reato;
se la casa di reclusione di Rossano sia stata ispezionata dalla competente azienda sanitaria ed in caso affermativo a quando risalgano le visite e quali le loro risultanti in merito allo stato igienicosanitario dei suoi locali, all’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive disposte dal servizio sanitario penitenziario ed alle condizioni igieniche e sanitarie nonché di assistenza socio-sanitaria dei detenuti ai sensi dell’articolo 11, comma 12 e 13, dell’Ordinamento penitenziario;
quale sia il carico di lavoro dell’ufficio di sorveglianza di Cosenza, se e con quale frequenza il magistrato di sorveglianza competente abbia visitato, negli ultimi anni, i locali dove si trovano ristretti i detenuti, se svolga periodici colloqui con i medesimi e se abbia mai prospettato al Ministro della giustizia eventuali problemi, disservizi o violazioni dei diritti dei detenuti nell’ambito della sua attività di vigilanza, con particolare riguardo all’attuazione del trattamento rieducativo, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 69, comma 1, del citato Ordinamento penitenziario e degli articoli 5 e 75, comma 1, del Regolamento di esecuzione penitenziaria;
quanti siano i condannati ristretti presso la casa di reclusione di Rossano con una pena residua di 18 mesi che potrebbero ottenere, sin da subito, la concessione della esecuzione della pena presso il domicilio;
quante siano, allo stato, le istanze per la concessione della detenzione domiciliare depositate presso l’ufficio di sorveglianza di Cosenza, quante di queste siano state evase e quante siano ancora quelle pendenti e, in quest’ultimo caso, entro quali tempi tali istanze saranno definite;
quanti siano gli agenti di polizia penitenziaria previsti dalla pianta organica, quelli realmente assegnati e quelli effettivamente in servizio presso la casa di reclusione di Rossano specificando se tra questi vi siano unità distaccate presso altri uffici (provveditorato regionale, ufficio esecuzione penale esterna, e altro) o altri enti pubblici (comuni, province, regioni, e altro);
se ed in quali tempi il Governo intenda adoperarsi per incrementare l’organico della polizia penitenziaria e degli educatori in modo da migliorare le condizioni lavorative del personale e rendere lo stesso adeguato alle esigenze della popolazione detenuta;
se, non si ritenga altresì opportuno, per quanto di competenza, al fine di aumentare l’organico degli esperti psicologi ex articolo 80, comma 4, dell’Ordinamento penitenziario o, comunque, assicurare l’incremento delle ore di lavoro di quelli attualmente assegnati per migliorare l’efficacia degli interventi trattamentali nei confronti dei detenuti;
cosa si intenda fare per implementare l’attività trattamentale dei detenuti, sia essa di studio e/o di formazione e lavoro, anche per quelli appartenenti al circuito differenziato dell’alta sicurezza, atta a preparare il futuro reinserimento sociale previsto dall’articolo 27 della Costituzione e, in particolare, se non si ritenga opportuno di avviare immediatamente un corso di formazione per rilasciare quella certificazione per il lavoro in cucina qualora, come sottolineato dal direttore stesso, tale certificazione si rendesse necessaria;
se, in particolare, non si ritenga opportuno intervenire con urgenza per riavviare il laboratorio di falegnameria denominato «Dedalo» di cui è dotato l’istituto in modo da ampliare i posti di lavoro intramurario dal momento che proprio il lavoro è uno degli elementi fondamentali del trattamento carcerario così come previsto dagli articoli 15 e 20 dell’ordinamento penitenziario;
cosa intenda fare il Governo per applicare finalmente quanto previsto dall’articolo 42 dell’ordinamento penitenziario per consentire ai detenuti di essere assegnati in istituti penitenziari posti in prossimità del luogo di residenza delle famiglie anche per agevolare i rapporti e favorire i colloqui con i familiari come prevedono gli articoli 15 e 18 del citato ordinamento;
se non ritenga doveroso disporre con sollecitudine un intervento straordinario di ristrutturazione delle camere dei detenuti e, nello specifico, per adeguare le stesse al disposto di cui all’articolo 134 del Regolamento di esecuzione penitenziaria il quale prescrive che le docce debbano essere collocate in un vano annesso alla camera detentiva e non in locali esterni posti nel reparto;
quali siano le motivazioni che hanno condotto all’improvviso trasferimento del detenuto R.V. dalla casa circondariale di Catanzaro alla casa di reclusione di Rossano e se tali motivazioni risultino fondate;
se e quali provvedimenti il Governo intenda assumere per assicurare che l’isolamento nei confronti dei detenuti venga disposto solo ed esclusivamente in «circostanze eccezionali» e, comunque, nei soli casi tassativi previsti dal legislatore, proibendo all’amministrazione penitenziaria di utilizzare sezioni o reparti di isolamento per altri motivi in applicazione di quanto sancito dall’articolo 73 del Regolamento di esecuzione penitenziaria;
se il Governo intenda emanare delle direttive soprattutto per quanto attiene l’esecuzione dell’isolamento poiché, ancora oggi, in spregio a quanto prevede la normativa vigente e nonostante le condanne già emesse dall’autorità giudiziaria competente, in diversi istituti della Repubblica, come quello di Rossano, i detenuti vengono collocati nelle cosiddette «celle lisce» prive di ogni suppellettile mentre, invece, dovrebbero essere posti in «camere ordinarie» che presentino le caratteristiche indicate dall’articolo 6 dell’ordinamento penitenziario.
On. Enza BRUNO BOSSIO
On. Cristina BARGERO

Lucera, la denuncia di Giuseppe “picchiato dagli agenti… così ho combattuto per vivere”


Carcere - detenuto corridoioI fatti risalgono al 12 gennaio del 2011, nel carcere di Lucera. Dopo un alterco con un agente, fu pestato senza pietà. Delle foto testimoniano i colpi subiti.

Denudato in cella di isolamento, in gergo “cella liscia”. Torturato fino allo svenimento da una squadra di agenti penitenziari per punirlo a causa di un’offesa verbale nei confronti dell’agente preposto. E poi trascinato per i piedi, nudo e ancora sporco di sangue, in un’altra cella di isolamento con dentro soltanto un materasso sudicio.

Accadeva il 12 gennaio del 2011, in pieno inverno. E la tragica storia di Giuseppe Rotundo, all’epoca dei fatti detenuto nel carcere di Lucera, nel foggiano. Il processo per ristabilire verità e giustizia, è ancora in corso. Il suo caso è unico nel suo genere perché, di solito, i corpi dei detenuti pieni di lividi ed ematomi vengono fotografati solo da morti. Giuseppe Rotundo invece è sopravvissuto alla tortura e ha potuto denunciare l’accaduto.

Giuseppe, nella Casa circondariale di Lucera era in attesa di giudizio o aveva una condanna definitiva?

Avevo una condanna definitiva. Un anno e dieci mesi per detenzione di dieci grammi di cocaina.

Qual era il clima in carcere?

Fin dall’inizio mi resi subito conto in quale clima autoritario mi trovassi. Già dal primo colloquio con la mia famiglia capii che la convivenza con gli agenti penitenziari non sarebbe stata facile. La mia famiglia, soprattutto mia figlia, andò via dal carcere sconvolta dall’arroganza e dalla prepotenza degli agenti.

Perché? Cosa accadde?

Durante il colloquio mia figlia fu rimproverata dall’agente perché voleva abbracciarmi. Io a quel punto ebbi un alterco con lui e il colloquio mi fu sospeso. Ero in regime normale, mica al 41bis dove è vietato qualsiasi contatto fisico con i famigliari. Non mi capivo perché me lo vietassero. Ma l’episodio che fece scattare il massacro fu un altro.

Quale?

Era il giorno in cui noi detenuti potevamo fare la telefonata ai nostri famigliari. Ero in sosta con altri detenuti sulla rampa di scale che conduce al corridoio dove si trovava la cabina telefonica. Considerando l’alto numero dei detenuti, l’attesa si prolungava e allora decisi di salire in sezione perché un mio compagno di cella aveva pronto il caffè. Il regolamento lo vieta, ma lo facevano tutti e a nessuno era mai stato contestato. Invece a me quel pomeriggio mi fu contestata l’infrazione del regolamento con toni violenti. L’agente mi intimò di posare il caffè, a quel punto preso dalla rabbia e lo insultai verbalmente. Ovviamente sapevo che avrei ricevuto una sanzione disciplinare, ma non mi sarei mai immaginato quello che mi è accaduto.

Cosa?

Appena conclusa la telefonata, stavo per raggiungere la mia sezione. Ma un agente mi bloccò e mi disse di seguirlo in ufficio per la contestazione del rapporto disciplinare. Entrai nell’ufficio e fui subito aggredito verbalmente dall’agente che avevo insultato. Chiesi scusa e gli dissi che aveva ragione e che quanto detto da me, non era un mio abituale comportamento. Non accettò le scuse e mi minacciò dì farmela pagare. Non capivo, io ero responsabile delle mie azioni e pronto ad accettare la sanzione disciplinare che ne scaturiva. Fui invitato a raggiungere l’ufficio di comando, ma prima dovetti passare in cella di isolamento per l’ispezione. Una volta entrato lì, compresi la loro intenzione.

Ovvero?

All’interno della cella era presente un gruppo consistente di agenti penitenziari con i guanti di lattice. Io li invitai alla calma, mi denudai spontaneamente per farmi perquisire. Ma una volta nudo fui colpito violentemente con un pugno alla nuca. A quel punto reagii di istinto e detti un pugno in viso all’agente che commise quel gesto, A quel punto fu il buio totale; ricevetti dagli agenti calci e pugni in tutto il corpo con una. violenza inaudita. Tanto da perdere quasi la coscienza e accovacciarmi per terra. Solo a quel punto smisero di picchiarmi.

Ha subito ricevuto un soccorso medico?

Assolutamente no. Mi presero per i piedi e mi trascinarono fin dentro la cella affianco e chiusero il blindato. Era una cella di isolamento, vuota e con un materasso lurido. Ero nudo e sporco di sangue. Rimasi la dentro in quelle condizioni per tutta la notte. Pensai alla mia famiglia, a mia figlia. Lottavo contro la morte perché non desideravo che venissero a trovarmi quando orami ero dentro una bara. La mattina seguente aprirono la cella perché in programma avevo un colloquio con la psicologa. Mi dettero degli indumenti, mi vestii da solo con fatica e poi, sorreggendomi in due, mi portarono fino all’ufficio della dottoressa.

C’erano le dottoresse Natali e Vinciguerra, due psicologhe esterne del Ser.T.. La dottoressa Natali, alla vista delle mie condizioni, scoppiò a piangere: il giorno prima del massacro mi aveva visto in condizioni normali perché avevamo fatto un colloquio costruttivo di mezzora. Immediatamente gli agenti, vedendo che la Natali stava piangendo, sospesero il colloquio e mi condussero nuovamente in cella di isolamento.

Fino a quanto tempo ci rimase?

Se non fosse stato per l’interessamento della dottoressa Natali, forse sarei rimasto lì dentro per tantissimo tempo. La dottoressa, seppi dopo, subito si attivò chiamando la mia avvocata Elvia Beimonte. Ma non solo. Chiamò subito il comandante e lo minacciò di denunciarla per istigazione al suicidio se non avesse dato l’ordine di farmi uscire dall’isolamento e predisporre cure mediche, compresa la tac.

Il comandante accolse la richiesta?

Sì. Mi fece visitare e mi spostò in una sezione dove c’era una cella più confortevole con materasso. Soprattutto con il termosifone, considerando che stavamo in pieno inverno. Ebbi finalmente modo di riposare e avere contezza di quello che mi era accaduto. Gonfio come un pallone, completamente irriconoscibile. Un agente mi disse che il loro collega, da me colpito con il pugno, era finito in ospedale. Io, completamente all’oscuro della coraggiosa iniziativa della Natali, decisi di scrivere una lettera alla mia avvocata. Scrissi tutta la mia storia, soprattutto per il timore di passare per un aggressore, anziché per l’aggredito. Inoltre ebbi la lucidità di spedire la lettera tramite un compagno di sezione, poiché avevo il timore che, a mio nome, non sarebbe partita mai. Nel frattempo gli agenti mi denunciarono all’autorità giudiziaria.

Quindi inizialmente il processo era esclusivamente a suo carico?

Inizialmente sì. Poi il Pm De Luca, dopo la mia denuncia, ha ritenuto che ci fossero gli elementi necessari per un altro procedimento penale nei confronti degli agenti. Quindi i due procedimenti sono stati unificati. Il processo quindi è in corso e la prossima udienza ci sarà il due dicembre prossimo. Ma per concludere l’intervista mi faccia fare dei doverosi ringraziamenti.

Prego…

Innanzitutto ringrazio la dottoressa Natali per il suo coraggio. Senza di lei non so che fine avrei fatto. Ringrazio anche l’aiuto immenso di Antigone tramite Patrizio Gonnella e gli avvocati Simona Filippi e Alessandro De Federicis per essersi costituiti parte civile nel processo. Per concludere volevo dire che non provo odio nei confronti degli agenti. Ma tanta pena, rabbia e dolore.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 12 settembre 2014