Agente Penitenziario : “Le botte ? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi”


Polizia_Penitenziaria_2Le parole degli agenti penitenziari: “Tanto da qui tu e gli altri uscirete più delinquenti di prima”. “Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?”. “Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c’è bisogno che ti picchio anch’io”.

Botte. E ancora botte. Sevizie. Perché con i detenuti, parole di agente penitenziario, “ci vogliono il bastone e la carota”. Un giorno di pugni e l’altro no, “così si ottengono risultati ottimi”. E la paura tiene buoni. Lividi, percosse, le ossa rotte, inutile nascondersi sotto la branda. Tanto “il detenuto esce dal carcere più delinquente di prima”, e, dice ancora il brigadiere, “non perché piglia gli schiaffi, ma perché è proprio il carcere che non funziona”.

La registrazione è così nitida da far sentire il freddo sulla pelle. Chi parla è Rachid Assarag, detenuto marocchino quarantenne, che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi nelle carceri italiane. E chi risponde sono gli agenti, ora di un penitenziario ora di un altro. La conversazione è una testimonianza agghiacciante di quanto succede nei nostri istituti penitenziari. Dove il detenuto Rachid (condannato per violenze sessuali) viene ripetutamente picchiato e umiliato dagli agenti addetti alla sua custodia.

La prima volta nel carcere di Parma, racconta Rachid, dove in quattro (guardie) lo seviziano con la stampella a cui si appoggiava per camminare. Lui denuncia, ma chi crede alle parole di un detenuto? Così Rachid, assistito dall’avvocato Fabio Anselmo, mentre viene trasferito in undici carceri diverse dal 2009 (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella), inizia a registrare tutto.

Conversazioni con la polizia penitenziaria, medici, operatori e magistrati. Voci dall’inferno. Come quando le guardie entrano nella sua cella per “scassarlo” di botte, o il sovrintendente ammette: “questo carcere è fuorilegge, dovrebbe essere chiuso da 20 anni, se fosse applicata la Costituzione”.

Agente con accento napoletano: “Mi hai fatto esaurire, ti sei anche nascosto sotto il letto”. Rachid: “Perché mi volevate picchiare”. “Se ti volevamo picchiare era più facile che ti prendevamo e ti portavamo giù”. Giù. Dove forse nessuno sente e nessuno vede. Sono le botte la rieducazione, come dice chiaramente qualcuno che Rachid chiama “brigadiere”. Probabilmente un sovrintendente della polizia penitenziaria.

Rachid registra e registra. Incalza anche: “Voi qui non applicate la Costituzione”. La risposta del brigadiere (lo stesso che teorizzava una seconda razione di botte per Rachid che chiedeva “fermati” all’agente che lo stava picchiando) è incredibile: “Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni. In questo carcere la Costituzione non c’entra niente”.

Le registrazioni di Rachid escono dal carcere, e l’associazione “A buon diritto” di cui è presidente Luigi Manconi, decide di renderle pubbliche. Conversazioni acquisite dai magistrati, e che testimoniano quanto gli abusi sui detenuti siano una (atroce) prassi abituale nei nostri penitenziari. Dai quali, come ammettono gli stessi agenti “si esce più delinquenti di prima, ma non per gli schiaffi che prendono, o quantomeno non solo, ma perché è l’istituzione carcere che non funziona”. Commenta Luigi Manconi, presidente, anche, della Commissione per i diritti umani: “Il carcere per sua natura e per sua struttura produce aggressività e violenza, e come dice il poliziotto penitenziario si trova in uno stato di permanente illegalità. Riformarlo è ormai un’impresa disperata. Si devono trovare soluzioni alternative”.

Rachid: “Devo uscire dal carcere più cattivo di prima? Dopo tutta questa violenza ricevuta, chi esce da qui poi torna”. E il “superiore” invece di smentirlo difende l’uso della violenza come metodo rieducativo. “Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi”. Tanto da dietro le sbarre nessuno parla, come dimostra il caso di Stefano Cucchi.

Da anni Rachid Assarag registra e fa esposti. Ma quasi nulla accade. Anzi mentre le denunce degli agenti nei suoi confronti avanzano, quelle di Rachid si arenano. Assarag da un mese è in sciopero della fame, ha perso 18 chili. Di recente è stato di nuovo denunciato per aver bloccato le ruote della carrozzina in cui ormai viene trasportato, per aver insultato le guardie e rovesciato la branda in cella, “disturbando il riposo e le normali occupazioni degli altri detenuti”.

Rachid, qualunque sia il reato di cui un detenuto si è macchiato, testimonia con le sue registrazioni che nei penitenziari italiani la violenza è prassi. Scrive l’associazione “A buon diritto”: “Se Assarag dovesse morire in carcere, nessuno potrebbe dire che non si è trattato di una morte annunciata”.

Maria Novella De Luca

La Repubblica, 4 dicembre 2015

Parma: Maltrattarono e pestarono un detenuto. Indagati due Agenti di Polizia Penitenziaria


Casa Circondariale 2Botte, umiliazioni e maltrattamenti a un detenuto: individuati dalla Procura i due presunti responsabili. Misura cautelare per uno di loro, che ha fatto parziali ammissioni.

Per tre giorni avrebbero sottoposto un detenuto a botte e pesanti umiliazioni, fino a fargli subire un duro pestaggio. Sono stati identificati dalla Procura i due agenti della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di via Burla che si sarebbero macchiati dei reati di lesioni e maltrattamenti ai danni di un ingegnere italiano accusato di violenza sessuale su minore.

Entrambi sono indagati e per uno dei due il gip ha disposto la misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio per un anno. Il pm Giuseppe Amara, titolare del fascicolo d’inchiesta, aveva chiesto la custodia cautelare agli arresti domiciliari. I fatti erano stati resi noti da un servizio in esclusiva dell’Espresso uscito il mese scorso. Quanto denunciato del Garante dei detenuti del Comune di Parma ha trovato precisi riscontri nell’attività d’indagine affidata dal sostituto procuratore alla Squadra mobile e alla polizia giudiziaria del corpo di polizia penitenziaria. Tra il 4 e il 6 aprile di quest’anno il detenuto è stato picchiato duramente, costretto a rimanere in ginocchio in cella per ore e lasciato senza cena per tre giorni.

Una “punizione” ulteriore per un reato considerato infamante, gli abusi sessuali su minori. Dopo il pestaggio, costatogli grossi lividi alla schiena e al volto, l’uomo è stato trasferito nel carcere di Piacenza. Il Garante ha fatto partire un esposto e la Procura di Parma ha avviato un’indagine.

I due agenti individuati come i responsabili delle violenze sono stati interrogati nei giorni scorsi dal pm Amara. Uno dei due ha fatto parziali ammissioni in particolare sulle lesioni, cercando di ridimensionare l’accaduto. La posizione dell’altro è ancora sottoposta ad accertamenti. Entrambi rimangono iscritti nel registro degli indagati per i reati di lesioni e maltrattamenti. Come detto il pm aveva chiesto i domiciliari per l’agente che ha ammesso i fatti, un 40enne italiano. Il gip ha ritenuto sufficiente la sospensione dal servizio.

La Repubblica, 21 novembre 2015

Parma: la denuncia di un ex detenuto “pugni, calci e costretto in cella in ginocchio”


CC Parma DAPIl racconto shock di un ex detenuto nel super carcere di Parma è finito in un esposto del garante dei detenuti e consegnato alla magistratura. Non sarebbe l’unico caso. Nell’ultimo anno presentate altre tre denunce. “Hanno indossato un paio di guanti neri e hanno iniziato a picchiarmi violentemente sferrandomi pugni alla testa, al volto e calci alla schiena. Io ero terrorizzato… Cadevo a terra ma uno dei due mi rialzava mentre l’altro continuava a colpirmi con pugni in testa e nella schiena… e ancora calci”. È il racconto shock di un ex detenuto che “l’Espresso” rivela in esclusiva.

Picchiato, costretto a stare nella cella in ginocchio e senza cena. Un incubo durato tre giorni. Una punizione extra per il recluso “infame” del carcere di Parma. Fatti che sono contenuti in un esposto ufficiale consegnato dal garante dei detenuti della città ducale, Roberto Cavalieri, ai magistrati della procura.

L’uomo che ha subito il pestaggio è un ingegnere di nazionalità italiana. Era stato arrestato per una presunta violenza sessuale, poi scarcerato e, attualmente, è in attesa di giudizio. Accusato di un crimine che in carcere ritengono infame, e per questo, secondo le regole non scritte del codice della galera, da sanzionare ulteriormente con il castigo corporale. Abusi che demoliscono il principio costituzionale della pena come rieducazione del condannato.

Il racconto dei soprusi, firmato e inviato agli inquirenti, è denso di particolari: “Durante il pestaggio entrambi continuavano a chiamarmi “bastardo, pezzo di merda”. Finito il pestaggio barcollante mi ordinavano di tornare in cella e dopo avermi aperto la porta dell’anticamera, riuscivo zoppicando ad arrivare fino alla mia cella, sedendomi sul letto. Chiusa la cella si avvicinava allo sportello della porta l’agente più alto che mi ordinava di mettermi subito in ginocchio sul pavimento e a testa bassa, dicendomi che sarei dovuto restare in quella posizione fino alle 18.00, ora in cui lo stesso avrebbe terminato il proprio turno”.

Non c’è pace, dunque, per il super carcere emiliano dove, tra l’altro, sono reclusi alcuni dei più importanti mafiosi italiani. Per un’altra storia di pestaggi e violenze sono già indagati 8 agenti incastrati dalle registrazioni pubblicate l’anno scorso da “l’Espresso” e poi acquisite dalla procura. È di questi giorni, poi, la notizia di un’altra indagine che riguarda un poliziotto che avrebbe passato un cellulare a un detenuto comune. Ma a quanto pare non è finita.

Perché altri esposti gettano ombre pesanti sull’operato di un gruppo uomini in divisa. L’esposto dettagliato del Garante dei detenuti si aggiunge, infatti, ad altri tre casi di presunte violenze a danno di altrettanti reclusi, due italiani e uno straniero, tutti segnalati, nell’ultimo anno, alla magistratura da Cavalieri.

Queste denunce però non hanno ancora portato a niente. Tutto fermo. Incluso il rapporto su quest’ultimo caso. Il documento è stato depositato in procura il 2 luglio 2015. In allegato c’è anche il racconto sintetico di quanto avvenuto tra il 4 e 6 aprile di quest’anno: “Sono stato vittima di un pestaggio ad opera di due agenti penitenziari e allo stesso tempo di una tortura durate tre giorni” scrive la vittima.

Una versione arricchita di particolari da una volontaria del carcere, che secondo fonti de “l’Espresso” sarebbe già stata sentita dai pm: “Il detenuto mi ha raccontato di essere stato violentemente picchiato da due agenti sabato 4 verso le 13, poi costretto a restare in ginocchio in cella senza cena per molte ore. Mi ha mostrato i grandi lividi nella schiena e sull’occhio sinistro. Io l’ho incontrato verso le 11 e sapeva che alle 13 sarebbe stato trasferito a Piacenza non essendoci a Parma la sezione protetti. La denuncia intendeva presentarla una volta giunto a Piacenza per evitare controdenunce. Il mio stato d’animo era appena “rientrato” per l’altra questione”.

La denuncia ricostruisce nei minimi particolari quei giorni: “Improvvisamente alla porta della cella si presentavano due agenti di Polizia penitenziaria, i quali iniziavano subito ad offendermi con frasi del tipo “brutto grassone di merda, vestiti, fai schifo”. I due agenti di Polizia Penitenziaria erano uno di statura alta, circa l,85 cm, con pochi capelli (o rasato o calvo), l’altro di statura medio bassa, circa 1,65 cm., con capelli scuri e barba, e con fede al dito. Senza fare questioni mi preparavo ed uscivo dalla cella.

Entrambi gli agenti sin dall’inizio della vicenda hanno tenuto nei miei confronti un atteggiamento minaccioso e mi hanno reiteratamente ingiuriato, proferendo al mio indirizzo, e ad alta voce, frasi quali “sei un pezzo di merda, bastardo, cosa hai fatto, brutto pezzo di merda, scendi giù”… “non guardare su, testa bassa e cammina rasente il muro, pezzo di merda”.

Ecco poi la descrizione del pestaggio: “I due agenti continuavano ad insultarmi pesantemente, in particolare quello più alto con frasi del tipo “pezzo di merda, cosa hai fatto allora eh? Bastardo, io ho una figlia se lo facevi a lei tu qui non ci saresti nemmeno arrivato, ti avrei ammazzato di botte”, mentre quello basso diceva “bastardo, ora vedi”.

Si infilavano poi un paio di guanti neri ciascuno, e dopo avermi spinto nell’angolo dell’anticamera, a destra rispetto alla porta di accesso al corridoio delle celle, avvicinandosi alla mia persona cominciavano a picchiarmi violentemente entrambi, sferrandomi pugni alla testa, al volto ed alla schiena, e calci alla schiena. Io ero terrorizzato e schiacciato nell’angolo dell’anticamera porgevo loro il lato sinistro del corpo. Cadevo anche a terra ma uno dei due mi rialzava mentre l’altro continuava a sferrarmi pugni in testa e nella schiena ed ancora calci, mentre io cercavo invano di coprirmi dai colpi. Durante il pestaggio entrambi continuavano a chiamarmi “bastardo, pezzo di merda”.

Ma l’umiliazione, stando al racconto, prevedeva un ultimo terribile passaggio: “Finito il pestaggio barcollante mi ordinavano di tornare in cella e dopo avermi aperto la porta dell’anticamera, riuscivo zoppicando ad arrivare fino alla mia cella, sedendomi sul letto. Chiusa la cella si avvicinava allo sportello della porta l’agente più alto che mi ordinava di mettermi subito in ginocchio sul pavimento e a testa bassa, dicendomi che sarei dovuto restare in quella posizione fino alle 18.00, ora in cui lo stesso avrebbe terminato il proprio turno”.

Anche nei due giorni successivi l’ex detenuto è stato costretto a mettersi in ginocchio. Con il corpo pieno di lividi e terrorizzato, il 7 aprile lascia il carcere di Parma. Per lui è previsto il trasferimento a Piacenza. E qui che medici e agenti penitenziari durante la registrazione di ingresso si rendono conto delle sue condizioni. Partono così una serie di accertamenti fatti dallo stesso corpo di polizia del penitenziario piacentino. Verifiche avviate anche dal direttore del carcere di Parma sollecitato con una lettera dal garante dei detenuti.

“Visti gli elementi emersi nella Sua missiva si è provveduto a notiziare le autorità competenti e svolgere opportuni accertamenti”, si legge nella risposta del dirigente del penitenziario. Sono trascorsi sette mesi dalla risposta del direttore e quattro dalla denuncia del garante. Ma la nebbia su questi presunti pestaggi nel carcere più sicuro d’Italia non si è ancora diradata.

Giovanni Tizian

L’Espresso, 21 ottobre 2015

Carcere di Parma, è cambiata la modalità dei colloqui con i famigliari: la gioia dei detenuti As1


carcere_latina-2Nel carcere di Parma da qualche giorno la vita è meno dura. La direzione del penitenziario ha accettato di dare più spazio ai famigliari dei detenuti, concedendo 4 ore in famiglia all’interno delle mura di via Burla. Una novità frutto del dialogo intrapreso fra differenti attori presenti a Parma, avviato per migliorare le condizioni di vita dei coscritti.

La Direzione del carcere ha recentemente autorizzato una differente modalità di svolgimento dei colloqui tra i detenuti appartenenti al circuito AS1, dedicando una giornata alla affettività ed incontro con le famiglie. Il colloquio, della durata di 4 ore, si è svolto in una grande sala nella quale ciascun detenuto ha avuto modo di avere vicino i propri familiari e consumare con loro il pranzo, grazie all’impegno dell’associazione di volontariato “Per ricominciare”

“Tra i molteplici benefici che un approccio di questo genere ha nella cura degli affetti familiari – racconta Roberto Cavalieri, garante dei detenuti a Parma – riporto la testimonianza della figlia di un detenuto, di 23 anni e studentessa universitaria di farmacia, la quale, attraverso il garante dei detenuti, ha voluto ringraziare la direzione e gli operatori del carcere in quanto la “Giornata in famiglia” gli ha permesso di pranzare per la prima volta nella sua vita con suo padre condannato all’ergastolo”.

I detenuti della Sezione AS1 hanno scritto una lettera per ringraziare pubblicamente l’Amministrazione Penitenziaria di Parma e l’impegno di chi ha reso possibile l’iniziativa:

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Carcere_lettera_detenuti_con_firmeQualche tempo fa alcuni di noi, discutendo con le Educatrici di questo carcere avanzarono richiesta per trascorrere una “Giornata in famiglia”; una giornata al di fuori dei consueti canoni del colloquio.

Nel corso dei mesi ci siamo resi conto che la Direzione stava davvero operando affinché l’evento si realizzasse.

Il progetto di una giornata dedicata all’incontro tra papà, nonni, zii con i loro figli e nipoti è l’evento che abbiamo coltivato con grande entusiasmo e nel quale ci siamo proiettati con sguardo curioso ed emozionato, osservandone lo sviluppo attraverso le parole, le attività e l’impegno di queste meravigliose Educatrici, le quali sostenute dal Direttore, dr. Carlo Berdini, dalla Vice Direttrice, dr.ssa Lucia Monastero, dal Comandate e dalla Polizia Penitenziaria stessa, dall’Associazione “Per ricominciare”, hanno portato a compimento un progetto a noi particolarmente caro.

Forse basterebbe la parola entusiasmo per dirvi ciò che proviamo, poiché è proprio quello il sentimento con il quale noi, detenuti condannati a lunghe pene e in prigione da più di vent’anni, ci siamo avvicinati a questo appuntamento e l’incoraggiamento che abbiamo ricevuto dal Direttore nel sapere possibile questo tipo di incontro è divenuto atto di allegra passione, trasmesso e poi vissuto con i nostri familiari, anche per coloro tra noi le cui figlie o figli hanno ormai superato l’età dell’infanzia (in ogni caso parliamo di chi per noi rappresenta il futuro e porta con sé il futuro, poiché ogni incontro è stupore, è diritto alla affettività, è forte sentire del senso di appartenenza).

Abbiamo gioito, giocato, dato corpo alla fantasia e osservato che la sensazione palpabile di oppressione che il carcere innegabilmente porta con sè, per qualche ora era sparita e quei frenetici e semplici gesti infantili hanno riconquistato il diritto al rumore, hanno lasciato il segno, hanno parlato con il nostro tenace desiderio di costruire il ritorno.

Siamo consapevoli che la nostra vita, per quanto realizzato, non è cambiata, tuttavia grazie alla solidarietà offerta dall’Associazione “Per ricominciare”, dalla sua Presidente, dr.ssa Emilia Zaccomer, e da tutte quelle splendide persone li presenti si è arieggiata una sala, si è dato valore alla solidarietà e all’ospitalità. Vorremmo dirvi, cordiali e affettuosi amici de l’Associazione “Per ricominciare” che il vostro impegno in favore della serenità dei bimbi molto centra con quanto avvenuto nella giornata del 24 agosto non solo perché avete sempre lavorato in favore dei minori, non solo perché avete fatto giocare i nostri rampolli. Voi ci avete parlato di solidarietà, ci avete offerto il vostro cibo, ci avete permesso di realizzare un incontro tra culture diverse, tra religioni diverse, il tutto all’interno di uno spazio che ha parlato di vite, di famiglie, di incontri, di rispetto reciproco. Voi ci avete donato il sorriso dei nostri cari e noi speriamo abbiate vissuto un’esperienza altrettanto rilevante, delicata e sincera, umile e generosa e siamo sicuri che i vostri familiari e le persone con le quali vi relazionate vi leggeranno con orgoglio ed emozione, questo è certo, perché con a vostra solidarietà avete reso felici tanti cuori; cuori imprigionati e segnati dalla lontananza e dal dolore.

Noi confidiamo vivamente che un simile momento non resti episodico e possa ripetersi, possa migliorarsi, perché esperienze del genere possono rappresentare per la società civile fonte di riflessione propositiva, giacché la speranza e la voglia di partecipazione sono risorse che non vanno smarrite o derise dall’indifferenza.

Il nostro messaggio vuole trasmettere un grazie a tutti coloro che hanno permesso si realizzasse l’evento e tra loro inseriamo il Garante comunale dei detenuti, dr. Roberto Cavalieri, per il contributo che sappiamo generoso e costante. Come costante è stata per noi la sua presenza in questi anni.

Esprimiamo con sincera lealtà la nostra gioia e il nostro ringraziamento verso un atto che è si previsto dalla legge, ma è pur sempre un atto coraggioso che valorizza un percorso lineare di chi è disponibile al confronto, allo sviluppo del trattamento e alla tutela di un insieme di soggettività tra loro unite: “i nostri familiari”.

Un grande abbraccio.

Carcere di Parma, Sezione AS1, 24 Agosto 2015

ANTONIO DI GIRGENTI – GIOVANNI MAFRICA – DOMENICO MORELLI – CORRADO FAVARA – ROBERTO REITANO – GIUSEPPE PISCOPO – CIRO PUCCINELLI – GIOVANNI AVARELLO – GIANFRANCO RUA’ – DOMENICO FERRAIOLI – GIUSEPPE BARRANCA – VITO MAZZARA – ENZO DI BONA – DOMENICO TESTA – GIOACCHINO NUNNARI – FIORE BEVILAQUA – VINCENZO NICASTRO – CIRO STOLDER – PIETRO VERNENGO – GAETANO BOCCHETTI – ANDREA GANCITANO – ANTONIO SORRENTO – LUIGI CAPOZZA – ANTONIO ROMEO – SALVATORE BENIGNO – GIOVANNI DONATIELLO – AURELIO CAVALLO

Comunicato Garante Comunale Detenuti di Parma e lettera Detenuti AS1

 

Parma, un giorno “in famiglia” per i detenuti della Sezione di Alta Sicurezza (As1)


CC Parma DAP“Un giorno per ricominciare”, colloquio collettivo e pranzo con i familiari in una grande sala. “Forse basterebbe la parola entusiasmo per dirvi ciò che proviamo, poiché è proprio quello il sentimento con il quale noi, detenuti condannati a lunghe pene e in prigione da più di vent’anni, ci siamo avvicinati a questo appuntamento”: i 31 detenuti della sezione AS1 (appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso) del carcere di Parma riassumono così, in un passaggio di una lettera aperta, l’esperienza della prima “Giornata in famiglia”.

Si è trattato – spiega Dires – Redattore Sociale – di un colloquio collettivo di quattro ore, in una grande sala nella quale ciascuno di essi ha avuto modo di avere vicino i familiari e con loro dividere il pranzo: tavoli da giardino, uno per nucleo. Un evento eccezionale, già messo in pratica per i detenuti comuni ma all’esordio assoluto nel caso di detenuti AS1, in carcere da 25, 30 anni, molti dei quali condannati all’ergastolo ostativo (e con colloqui molto più ridotti: quattro ore al mese).

“Una ragazza di 23 anni, studentessa in farmacia, mi ha chiesto di ringraziare la direzione e gli operatori del carcere perché è stata l’occasione di pranzare, per la prima volta nella sua vita, con suo padre condannato all’ergastolo. La sua testimonianza, le sue parole, mi hanno molto colpito”, racconta alla Dires Roberto Cavalieri, Garante per i detenuti di Parma. Prossimo obiettivo, passare dalla straordinarietà all’ordinarietà: “Ho detto al direttore che momenti come questo possono dimostrarsi più utili di tanti corsi di formazione. Eravamo preoccupati per la sicurezza, ma tutto si è svolto nella più totale tranquillità. Mi piacerebbe riproporlo, magari sotto Natale”.

“Giornata in famiglia”, resa possibile anche grazie alla collaborazione con l’associazione di volontari penitenziari “Per ricominciare”, si inserisce in un più ampio percorso verso un progressivo miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti del carcere di Parma della sezione AS1: “Sono stati loro a consegnarmi una lettera firmata per ringraziare pubblicamente l’amministrazione penitenziaria e il lavoro di tutti coloro che hanno reso possibile l’iniziativa”, continua Cavalieri. “Il progetto di una giornata dedicata all’incontro tra papà, nonni, zii con i loro figli e nipoti è l’evento che abbiamo coltivato con grande entusiasmo e nel quale ci siamo proiettati con sguardo curioso ed emozionato”, si legge nella lettera, che continua: “L’incontro è divenuto atto di allegra passione, trasmesso e poi vissuto con i nostri familiari, anche per coloro tra noi le cui figlie o figli hanno ormai superato l’età dell’infanzia. In ogni caso parliamo di chi per noi rappresenta il futuro e porta con sé il futuro, poiché ogni incontro è stupore, è diritto alla affettività, è forte sentire del senso di appartenenza”.

I detenuti ringraziano i volontari di “Per ricominciare” che hanno offerto il cibo: “Abbiamo gioito, giocato, dato corpo alla fantasia e osservato che la sensazione palpabile di oppressione che il carcere innegabilmente porta con sé, per qualche ora, era sparita e quei frenetici e semplici gesti infantili hanno riconquistato il diritto al rumore, hanno lasciato il segno, hanno parlato con il nostro tenace desiderio di costruire il ritorno”.

Tra i firmatari, anche due detenuti recentemente trasferiti a Parma da Padova (per la chiusura dei reparti di massima sicurezza), una decisione che numerose polemiche – da entrambe le parti – aveva suscitato: “Il fatto che anche loro, che nel carcere emiliano erano arrivati decisamente malvolentieri, abbiano gradito l’iniziativa ci dà grande soddisfazione: speriamo di continuare su questa strada”, conclude Cavalieri.

La Repubblica, 8 settembre 2015

 

Carceri, i Detenuti AS di Parma “Siamo chiusi come maiali in piccole celle che puzzano di water”


Cella Carcere ItaliaSiamo i detenuti del Reparto di Alta Sicurezza del carcere di Parma. Siamo già tanti, ma vogliono trasferire altri dal carcere di Padova”.

Lettera inviata al Capo dello Stato, al Ministro della Giustizia, al Capo dell’amministrazione Penitenziaria, ai Magistrati di Sorveglianza di Reggio Emilia, al Direttore della Casa di reclusione di Parma, al Garante dei diritti dei detenuti Emilia-Romagna. Per conoscenza al senatore Luigi Manconi e altri.

Siamo i detenuti del Reparto di Alta Sicurezza della Casa di reclusione di Parma. Abbiamo deciso di rivolgerci a voi dopo essere venuti a conoscenza del fatto che la sezione dì alta sicurezza di Padova sarà dimessa e che i detenuti di quel reparto – secondo notizie giornalistiche – verranno trasferiti presso il reparto di alta sicurezza del carcere di Parma. Vogliamo, innanzitutto rivolgerci a voi in termini civili, quei termini che ci consentono di affrontare una comunicazione responsabile e cosciente atta a fare conoscere e comprendere quali sono le difficoltà che segnano la nostra quotidianità. Gli argomenti che tratteremo, per quanto complessi, sono indissolubilmente legati alla vivibilità all’interno delle celle e alla qualità della vita al di fuori di esse. La sezione di alta sicurezza del carcere di Parma, attualmente ospita 27 detenuti, per una capienza max di 25 posti.

Tra gli ospiti qui reclusi, 19 sono ergastolani, i rimanenti 8 scontano condanne ventennali o trentennali. Nel computo dei 27 ci sono persone affette da malattie debilitanti, altri soffrono di problemi psi-co-fisici-claustrofobici, altri ancora sono studenti universitari, infine ci sono individui con discrete condizioni fisiche. Per tutti, nessuno escluso, vale il principio del rispetto della dignità umana. Dignità citata nelle premesse delle regole penitenziarie europee del 2006, ma anche all’art. 18 (I locali di detenzione e, in particolare, quelli destinati ad accogliere i detenuti durante la notte devono soddisfare le esigenze di rispetto della dignità umana e, per quanto possibile, della vita privata e rispondere alle condizioni minime richieste in materia di sanità e di igiene, tenuto conto delle condizioni climatiche, segnatamente per quanto riguarda la superficie e la cubatura).

Noi stiamo chiusi in cella 20 ore su 24. Le 4 ore sono assegnate ai passeggi. Locali questi non idonei ad ospitare 27 persone, se si considerala superficie minima disponibile per ogni maiale che, secondo la direttiva Cee 91/630 (recepita dall’Italia) è di 6 metri quadri. Le celle detentive, per capienza, possono ospitare solo un detenuto. Se all’interno venissero collocate 2 persone lo spazio disponibile calpestabile pro-capite scenderebbe sotto i 3 metri quadri, spazio calcolato al netto dell’ingombro del mobilio. La cella è provvista di un piccolo wc privo di finestra. Il ricambio d’aria dovrebbe avvenire attraverso un aeratore, ma questo non avviene e giornalmente chi vive stipato in due all’interno della stessa cella è costretto a respirare gli odori maleodoranti causati dai bisogni fisiologici del compagno di cella. Per le operazioni di pulizia corporale la porta del wc rimane aperta. Abbiamo costatato l’impossibilità di lavarsi nel lavabo con la porta chiusa. Questa situazione non è sufficientemente adeguata ad assicurare un minimo di privacy.

Ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intra-murario, la giurisprudenza nazionale ha precisato che, dalla superficie lorda della cella debba essere detratta la superficie occupata dagli arredi, individuando nel suolo calpestabile il parametro di calcolo. Una misura questa calcolata sulla base del criterio di 9 mq per singolo detenuto, più 5 mq per gli altri. Lo stesso spazio per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni, condizione più favorevole rispetto ai 7 mq per singolo detenuto più 4 mq – stabiliti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura – per gli altri. (Fonte Dap, Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo statistica e automazione di supporto dipartimentale).

Sulla questione spazio individuale esiste una elaborazione giurisprudenziale da parte della: Corte di Cassazione, magistratura di Sorveglianza di Padova, magistratura di Sorveglianza di Verona. Tra gli aspetti della qualità della vita di noi detenuti del reparto di alta sicurezza da segnalare la mancanza di una biblioteca, di una scuola, di lavoro, l’esclusione alle nomine a Commissioni esterne, a corsi professionali finalizzati.

Ma la questione dell’inumanità della pena non si esaurisce nello spazio messo a disposizione a una persona in carcere, ma vanno contemplati altri parametri, tra i quali spicca quella evidenziata nello standard del Comitato per la prevenzione della tortura, che, nello specifico, afferma: “Tra i 3 ed i 7 mq a disposizione la disumanità è inversamente proporzionale al grado di implementazione di una serie di fattori compensativi, il primo fra tutti è assicurare che i detenuti possano trascorrere una ragionevole parte della giornata – 8 ore o più – fuori dalla cella occupati in attività motivanti di vario tipo.

Per i condannati i regimi dovrebbero essere di livello ancora più elevato”. In considerazione di quanto descritto pare opportuno rivelare che l’eventuale – quanto probabile – arrivo di altri detenuti restringerebbero i già esigui spazi vitali in cella e se lo spazio recluso diventa incapace di garantire lo spazio vitale, viola la dignità umana. Ci appelliamo alla vostra sensibilità e vi chiediamo una pena coerente con la dignità umana, spazi di vita umani, trattamento umano, riconoscimento pieno di diritti, salvaguardando l’integrità psico-fisica della persona qui detenuta, nel rispetto dell’articolo 27 della Costituzione.

I detenuti: Avarello Giovanni – Cavallo Aurelio – Mafrica Giovanni – Stolder Ciro – Piscopo Giuseppe – Di Girgenti Antonino – Farraioli Domenico – Barranca Giuseppe – Testa Domenico – Donatiello Giovanni – Pulcinelli Ciro – Rua Gianfranco – Reitano Roberto – Favara Corrado – Gangitano Andrea -Romeo Antonio – Benigno Salvatore – fiocchetti Gaetano – Bevilacqua Fioravantio – Donatello Giovanni – Capozza Luigi – Sorrento Antonio – Morelli Domenico – Di Bona Enzo – Mazzara Vito.

Il Garantista, 25 giugno 2015

Lettera Detenuti AS1 Parma (clicca per leggere)

 

Donatiello (Ergastolano) : Da Padova a Parma, il rispetto dei diritti in carcere è “discrezionale” ?


CC Parma DAPMi chiamo Giovanni Donatiello, sono detenuto nella sezione A.S1 della Casa di Reclusione di Parma dal 4 giugno di quest’anno proveniente dalla Casa di Reclusione di Padova.

Porto la mia testimonianza a conforto del documento “Lettera aperta dei detenuti AS1 di Parma” per portare a conoscenza la sperequazione esistente tra i due Istituti penitenziari già citati, sia sotto l’aspetto trattamentale sia sotto l’aspetto della garanzia dei diritti del detenuto, ma soprattutto della persona. Sono stato il primo, dei due detenuti già giunti da Padova cui il Garante comunale fa riferimento nel comunicato stampa del 17.06.2015.

Mi trovo in carcere ininterrottamente dal luglio del 1986 (29 anni) e dal 2000 nelle sezioni EIV-AS1. Nella sede di provenienza svolgevo una serie di attività che mi permettevano di impegnare il tempo utilmente e vivere una detenzione decente. Sono iscritto al secondo anno della Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Padova. Per motivi di studio ero autorizzato a detenere il proprio PC nella camera di pernottamento. L’Università di Padova, attraverso una fondazione, garantiva sia l’iscrizione gratuita sia tutte le spese occorrenti per un eventuale cambio di sede, come nel mio caso. Infatti, prima di arrivare a Padova ero iscritto presso l’Università di Pisa. Era previsto un servizio di tutoraggio eccellente, veniva assegnato ogni studente un tutor, che potevi incontrare puntualmente anche tutte le settimane.

L’accesso dei tutor era consentito tutti i giorni fino alle ore 17:00. I testi per gli esami venivano forniti con puntualità. Un metodo che mi metteva nelle condizioni di studiare con più serenità. Facevo e faccio parte a pieno titolo della redazione della rivista “Ristretti Orizzonti”. Partecipavo al progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”. Gli incontri con gli studenti, nella media di 70-80 ragazzi a ogni incontro, si svolgevano in un auditorium tre volte alla settimana per tutta la durata dell’anno scolastico. Frequentavo un corso di lingua Inglese. Ho frequentato un corso universitario di Diritto Privato, un corso di yoga e meditazione. Ero iscritto per seguire un corso universitario di Diritto del Lavoro. Ho partecipato a diverse partite di calcetto con scolaresche. Sono intervenuto in svariati incontri con professori universitari, i quali nella veste di relatori affrontavano tematiche di vario genere. Per ultimo, non per ordine di importanza, il 22 maggio sono intervenuto al convegno che si è tenuto presso la Casa di Reclusione di Padova intitolato “La rabbia e la pazienza” alla presenza di 600 persone giunte da tutta Italia.

Tutte le attività svolte a Padova coprono un arco temporale di appena 17 mesi, il tempo di durata della mia permanenza in quel carcere. Il comunicato stampa del Garante elenca le attività presenti in questo istituto: veramente esigue e “possibili” più che reali. Se provassimo a fare una semplice comparazione tra le attività da me svolte a Padova e le attività svolte da tutti i detenuti presenti in questa sezione in tutto l’arco della loro permanenza in questo Istituto, credo che il confronto dovrebbe mettere in crisi chi amministra questo Istituto rispetto all’art.27 della Costituzione.

Ma se le amministrazioni hanno come finalità il raggiungimento degli obiettivi prefissati, mi chiedo quali siano in questo Istituto, e se alla fine non rischino di essere solo quelli dell’annientamento delle persone, spesso lasciate marcire in cella per tutta la giornata, prova ne è che mi ritrovo rinchiuso per almeno venti ore al giorno in cella e per giunta in compagnia di un’altra persona, condizione degradante in particolare per chi è da anni in carcere e ritengo anche illegale in quanto lo spazio calpestabile è di gran lunga inferiore ai tre metri quadrati previsti dalla sentenza Cedu (Torreggiani V.S. Italia), nella quale viene ribadito il diritto di vivere una detenzione che sia rispettosa della dignità della persona.

A me pare di palmare evidenza che in questo Istituto vengono violati i più elementari diritti garantiti all’art.3 e 27 della Costituzione; vengono ignorate le garanzie stabilite dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (V.S. Torreggiani); non si rispetta la prescrizione dell’articolo 27 comma 4 D.P.R. n°230/2000 della continuità trattamentale, che di fatto viene azzerata. In sintesi, ciò che voglio dire è che essere quotidianamente a contatto con un pensiero attivo, profondo e creativo, come viene praticato nel carcere di Padova, dovrebbe essere una condizione della detenzione fondamentale e continuamente alimentata, mentre in questa sede viene annientata! Ecco come il potere discrezionale con cui viene gestito ogni carcere, spesso non rispettando i principi di legalità, spesso si traduce in una violazione sistematica dei Diritti del detenuto, dimenticando che dietro ad una posizione giuridica vi è sempre una persona.

Giovanni Donatiello (Casa di Reclusione di Parma, Sezione AS1)

Ristretti Orizzonti, 23 giugno 2015

Parma, Detenuto perde l’uso delle gambe per non essere stato curato. Condannato il Ministero della Giustizia a 500 mila euro di risarcimento danni


CC Parma DAPLi ha saldati tutti, i suoi debiti con la giustizia: anno dopo anno. “Quelli dovuti per colpa mia, e quelli che mi sono stati appioppati ingiustamente”. Ora dalla parte del creditore c’è lui, un 56enne pugliese che nel 1981, durante un tentativo di rapina, fu centrato alla schiena da un colpo di pistola. Quel proiettile gli procurò una paraparesi agli arti inferiori. Cure adeguate avrebbero potuto permettergli di continuare a camminare.

“Cure che mai ricevette durante il periodo in cui fu tenuto in carcere” sottolinea l’avvocato Claudio De Filippi, che in questa causa ha trascinato alla sbarra lo Stato. I giudici hanno dato ragione al legale (“Una sentenza eclatante, che ribadisce il diritto alla salute di tutti i cittadini: speriamo possa migliorare le condizioni di tanti”) e all’ex detenuto, condannando il ministero della Giustizia a pagare 473.394,07 euro, oltre a saldare le spese processuali e 22.500 euro per onorari.

“Nessuno mi ridarà le mie gambe, ma almeno giustizia è fatta” commenta Antonio (il nome è di fantasia), che ora cammina con le stampelle, dopo aver condotto per anni una vita quasi normale, prima che tra lui e la sua riabilitazione (fisioterapica) si mettessero di mezzo le sbarre di via Burla. “Avevo ripreso a guidare il mio camion carico di prodotti ortofrutticoli pugliesi tra il sud e il nord-ricorda lui. Riuscivo a fare palestra e rieducazione: zoppicavo, d’accordo, ma camminavo”.

Antonio, le sue colpe le ammette. Aveva 23 anni, nel 1981, quando con alcuni complici assaltò una gioielleria a Taranto. Non sparò un colpo: quel giorno fu lui, mentre stava fuggendo, a essere ferito dal proiettile esploso da un vigile urbano. La pallottola lo centrò alla schiena, procurandogli una lesione midollare. “Caddi a terra e capii subito di aver perso le gambe. Dopo un mese e mezzo di ospedale, in sedia a rotelle fui portato in tribunale, dove venni giudicato per rito abbreviato. Fui condannato a due anni e mezzo”.

Alle spalle il giovane aveva un’altra tentata rapina. Non ci mise molto a capire di non essere tagliato per quella vita. “Mio unico scopo divenne quello di guarire: di rimettermi in piedi, in tutti i sensi”. Trenta mesi di fisiokinesiterapia, in particolare dì idrokinesiterapia, gli restituirono più della speranza. “Nel 1983 cominciai a recuperare l’uso delle gambe. Poi, ripresi il lavoro di camionista, pur continuando a eseguire cicli di idromassaggi”. Continuò così fino al 1990. Vita massacrante, chilometri su chilometri, salite e discese dalla cabina del camion, rientri a casa. “Mi muovevo da solo, senza problemi”. Ma la sua vita stava dì nuovo deragliando. “Questa volta senza che fosse colpa mia – sottolinea.

Nel febbraio del 1990 venni arrestato, con l’accusa di essere un trafficante dì droga. Un’accusa ingiusta che mi offende, perché io non ho mai avuto niente a che vedere con quella porcheria”. Se le cose stanno come dice Antonio, si trattò di una doppia ingiustizia. perché gli portò ria non solo vent’anni di vita (la condanna a 26 anni fu abbreviata dai tre anni di indulto e da altrettanti di scarcerazione anticipata), ma anche la possibilità di camminare. “Entrai in carcere sulle mie gambe, pur se claudicante, ma ben presto le mie condizioni precipitarono a causa dell’interruzione dei cicli di idrokinesiterapia”.

E infatti nel 1991 gli venne concesso l’uso della sedia a rotelle, dopo che il centro clinico del carcere di Bari lo aveva dichiarato minorato fisico. “Difficile spiegare quanto mi amareggi pensare che tutto questo potesse essere evitato. Ho provato in tutti i modi ad attirare l’attenzione sul mio caso: scrivendo lettere su lettere, facendo anche uno sciopero della fame che mi ridusse pelle e ossa”. Fu nel 1993 che Antonio venne trasferito per la prima volta nel carcere di via Burla, dove in teoria avrebbe potuto usufruire dell’idrokinesiterapia.

“In teoria, già: la piscina per le cure esiste davvero, ma io non l’ho mai vista in funzione. Dallo stesso carcere venivano spediti fax su fax nei quali si sottolineava come fosse necessario che venissi trasferito in una struttura sanitaria vera e propria. Accadeva che mi mandassero i periti, che mi dessero i domiciliari. Ma ben presto quello che recuperavo tornavo a perderlo in carcere, tra Taranto e Parma”. Fu nell’agosto del 2000 che i medici dissero che non si poteva fare più niente per il recupero dell’uso delle gambe del detenuto.

“In piedi ero un pezzo di legno, tremavo: le gambe mi bruciavano e la sinistra mi si era accorciata di due centimetri e mezzo rispetto all’altra”. Terminato di scontare la pena nel 2010, Antonio, quattro volte padre e cinque nonno, vive con 740 euro al mese dì pensione di invalidità. Ora questo risarcimento. “Soldi che hanno comunque un fondo amaro. Spero di riuscire a vivere per vederli”.

Roberto Longoni

Gazzetta di Parma, 7 febbraio 2015

Parma: botte in cella, i nastri che accusano, anche Dap apre inchiesta sul carcere emiliano


Polizia Penitenziaria cella detenutoAl processo le denunce del detenuto Rachid Assarag. “La verità la conoscono Dio e questo registratore”. Rachid Assarag è stato arrestato nel 2008 per aver violentato due donne. Un fatto pesante che ha meritato “un supplemento di pena”, almeno a giudizio degli agenti penitenziari del carcere di via Burla, a Parma, dove l’uomo è stato rinchiuso tra il 2010 e il 2011. Botte, minacce di morte, umiliazioni di vario genere. D’altra parte, là fuori, è questa la legge che si invoca per chi si macchia di reati tanto odiosi come quelli sessuali: la galera non basta, serve qualcosa di più.

Nella mattinata di ieri, il 40enne marocchino si è presentato in aula, a Parma, sventolando una foto di Stefano Cucchi: “Non voglio finire così”, ha detto ai pm, che lo stavano interrogando nell’ambito di un processo che lo vede imputato per oltraggio a pubblico ufficiale. È una storia che va avanti da tempo: lui inoltra esposti alla procura e gli agenti lo denunciano, un modo come un altro per tenerlo dentro. Finché continuerà a subire processi su processi per le motivazioni più svariate, Assarag non potrà usufruire di alcuna misura alternativa al carcere.

Davanti ai pm Assarag ha parlato delle violenze subite, e delle prove che ha a disposizione: nastri magnetici sui quali sono state registrate le voci di alcuni secondini.

Conversazioni che restituiscono un affresco piuttosto nitido della realtà inquietante e violentissima che si vive dietro le sbarre, tra spavalderie poliziottesche (“Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu”), amare confessioni da parte di un medico (“Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero… Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no… Ma quello è morto, ha capito?

È morto per le botte”) e un tremendo dialogo con una guardia: “Va bene assistente – dice Rachid -, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?”. “Sì, ho visto – la risposta -, come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici. Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io…”.

L’uomo si è procurato il registratore grazie all’aiuto di sua moglie, Emanuela D’Arcangeli, che, in un modo o nell’altro, è riuscita a farglielo arrivare in cella. E lui l’ha usato come meglio non poteva fare per cercare di incastrare gli agenti che l’avevano picchiato e che, proprio davanti a lui, non si vergognavano di rivendicare i propri abusi di potere, il conclamato monopolio della violenza, inconsapevoli però che tutto quello che stavano dicendo veniva registrato.

A volerla dire tutta, comunque, le violenze denunciate da Assarag, gli investigatori avrebbero potuto scoprirle diverso tempo fa: per mesi un esposto con gli stessi elementi usciti fuori ieri durante l’interrogatorio è rimasto a prendere polvere in qualche ufficio nella procura di Parma. Adesso, però, le indagini dovrebbero partire sul serio: se ne parlerà alla prossima udienza, il 12 dicembre.

Alla fine dell’udienza, la procura ha deciso di acquisire agli atti non solo le registrazioni clandestine (che saranno sottoposte a perizia), ma anche i diari del detenuto e ha ordinato di perquisirne la cella a Sollicciano, dove adesso è recluso. Intanto, il Dap – senza capo ormai dalla fine di maggio – ha annunciato di aver aperto un’inchiesta interna sulla vicenda di Parma, mentre il clima si fa sempre più teso, in un ambiente che non riesce ad accettare il fatto di non essere più al di sopra di ogni sospetto. Prossimamente, il Dipartimento andrà anche in visita ispettiva in via Burla, ma, assicurano qualora qualcuno avesse dei dubbi: “Non vogliamo in alcun modo interferire con il lavoro della procura”.

Il carcere di Parma è già finito più volte in cronaca per altri casi di maltrattamento (come quello di Aldo Cagna, con gli agenti che sono stati condannati a 14 mesi) o per le condizioni allucinanti dell’infermeria interna, grazie a una battaglia che il Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna continua a portare avanti nel solito, colpevole, clima di indifferenza generale.

Mario Di Vito

Il Manifesto, 15 ottobre 2014

Parma: abusi dietro le sbarre, una svolta nelle indagini dopo la denuncia de l’Espresso


CC Parma DAPIl tribunale di Parma acquisisce le carte sui presunti pestaggi denunciati dal detenuto che in carcere aveva registrato le confessioni di alcuni agenti. Ora gli audio, rivelati in esclusiva dalla nostra testata, sono agli atti del processo contro il carcerato accusato di oltraggio da un gruppo di guardie penitenziarie.

Il tribunale di Parma ha acquisito le registrazioni audio dei presunti pestaggi subiti in carcere da Rachid Assarag rivelate in esclusiva da “l’Espresso”. Il detenuto marocchino, che sta scontando una condanna per violenza sessuale, ha registrato, tra il 2010 e il 2011, le confessioni di alcuni agenti all’interno del penitenziario emiliano.

Le sue denunce però sono rimaste ferme in Procura, mentre la querela presentata da un gruppo di agenti contro di lui per oltraggio si è rapidamente trasformata in processo. Così la strategia dell’avvocato Fabio Anselmo (difensore della famiglia di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi) è di sfruttare questo giudizio per ribaltare la situazione. E oggi ha incassato un primo risultato.

Nell’ultima udienza, il giudice, dopo aver interrogato Assarag, ha deciso far entrare nel processo i documenti della difesa, incluse le conversazioni rubate all’interno del penitenziario emiliano. Non solo. È stata anche disposta la perquisizione urgente della sua cella del carcere di Sollicciano, a Firenze, dove attualmente è recluso. La polizia giudiziaria dovrà recuperare i suoi diari scritti in arabo. Insomma, quello che sembrava un processo dall’esito scontato, si arricchisce di nuovi colpi di scena. La prossima udienza è fissata per il 12 dicembre.

Le trascrizioni degli audio raccolti all’interno del super carcere – affidate a una società specializzata che lavora anche per l’autorità giudiziaria – sono impressionanti: presentano uno spaccato di violenza e omertà. Viene proclamata un’unica legge: “Se ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male”, spiega un agente.

E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: “Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata… non credo che lei abbia il potere di cambiare niente”.

“Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu”. Così parlava ai microfoni nascosti del detenuto un poliziotto della penitenziaria. E il medico della stessa struttura è ancora più esplicito: “Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero… Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no… Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte”.

Il direttore dell’epoca, Silvio Di Gregorio, ora responsabile dell’ufficio del personale della polizia penitenziaria, contattato da “l’Espresso”, aveva preferito non rilasciare dichiarazioni. Mentre il rappresentante del Sappe aveva detto di nutrire forti perplessità sul metodo utilizzato dal detenuto nel ricercare le prove: “Mi sembra strano che possa aver registrato, nel carcere non è possibile avere niente di elettrico, non ci sono telefoni.

La denuncia la può fare comunque, si vedrà chi ha ragione e chi ha torto. Poi per carità c’è qualche collega che può sbagliare e il detenuto può denunciare, ma mi sembra strano che si possa registrare” è stata la replica di Enrico Maiorisi responsabile sindacale della struttura emiliana.

Giovanni Tizian

L’Espresso, 14 ottobre 2014