Paola, la “morte annunciata” del suicida in cella. I Radicali annunciano ispezione


Casa Circondariale“Se dovesse accadere un mio eventuale decesso, facendo il tentativo di farlo passare per un suicidio, non è così in quanto amo troppo la vita e il mio fine pena è imminente, 30 giugno. Ovvio che l’agente che fa la notte sa”. Così aveva scritto – in una lettera indirizzata ai familiari ed al suo avvocato – Maurilio Pio Morabito che era ristretto nel carcere calabrese di Paola.

Una morte annunciata. Ieri è stato ritrovato morto nella sua cella. Ufficialmente un suicidio, ma considerando le premesse qualche dubbio è lecito. Morabito, 46 anni, era stato recluso nel carcere calabrese di Arghillà, e sarebbe stato aggredito e minacciato di morte. Nella prima lettera infatti lo aveva denunciato dichiarando “di aver ricevuto minacce di morte, conseguenti ai fatti accaduti nel carcere di Arghillà (Rc)”. Dopo quei fatti era stato trasferito nel carcere di Paola. Qualche giorno dopo aver spedito la lettera, datata 6 aprile 2015, nella sua cella posta nella Prima Sezione, si è verificato un incendio ed il Morabito è stato salvato dagli agenti.
L’uomo temeva per la propria vita, come se qualcuno fosse stato incaricato di ucciderlo. Infatti, dopo l’incendio, il detenuto aveva scritto l’ennesima lettera con la quale richiedeva – per la tutela della sua incolumità – “di essere trasferito in una struttura sita in qualsiasi punto della penisola, purché sia dotata di un’area protetta”. Inoltre chiedeva che per il tempo di attesa necessario al suo trasferimento “sia mantenuto il cancello ed il blindo 24 h chiuso e aperto soltanto per i vari colloqui, il divieto di incontro con qualunque detenuto anche lavorante”. Aveva paura Morabito, temeva chiaramente per la sua incolumità tanto da richiedere un isolamento vero e proprio.

Nei giorni scorsi l’attivista radicale Emilio Quintieri era stato allertato dai familiari del detenuto, perché il loro congiunto non aveva voluto nemmeno incontrali per il colloquio ed erano molto preoccupati per la sua vita. Quintieri si era subito attivato comunicando telefonicamente con la casa circondariale di Paola ed era stato riassicurato sul miglioramento delle condizioni di salute di Morabito. L’esponente radicale aveva comunque in programma di andare a fare una visita ispettiva nel carcere per verificare la situazione. Ma non ha fatto in tempo.
Suicidio ? Le modalità della cosa risultano un po’ strane. Secondo una prima ricostruzione dei fatti avrebbe chiesto una sigaretta a un piantone, con la quale poi avrebbe bruciacchiato una coperta e, dopo averla fatta a brandelli, l’avrebbe utilizzata come cappio per suicidarsi. Come ha potuto fare tutto ciò senza essere visto dal personale addetto alla sorveglianza del reparto e quindi del detenuto, soprattutto alla luce delle sue richieste per preservare la sua incolumità? Se la causa della sua morte non fosse il suicidio la risposta sarebbe da ricercarsi in quello che è accaduto nel carcere di Arghillà. Da chi è stato picchiato? Ma, soprattutto, perché è stato minacciato di morte? Morabito è stato arrestato per reati legati allo spaccio di stupefacenti, non risulta legato a nessuna associazione mafiosa. Il reato è comune tra la popolazione carceraria. Ha visto qualcosa che non doveva vedere o sentire? Sarà la magistratura a indagare sulla sua morte misteriosa. Intanto il militante radicale Emilio Quintieri nella prossima settimana farà una visita al carcere di Paola per tentare di capire che cosa può essere successo.

Damiano Aliprandi

Il Dubbio, 30 aprile 2016

Carceri, a Milano Opera si continua a morire: ecco il 6° suicidio del 2015


375487_455457901179752_580693468_nSi è tolto la vita impiccandosi all’interno della sua cella del carcere di Opera, alla periferia di Milano. Parliamo dell’ennesimo suicidio all’interno delle nostre patrie galere e questa volta è toccato ad un detenuto romeno di 39 anni, condannato dalla Corte di assise d’appello di Venezia all’ergastolo per omicidio.

La sua è stata una controversa vicenda giudiziaria. Il detenuto suicidato era accusato dell’omicidio dell’agricoltore sessantenne di Due Carrare, trovato senza vita, semicarbonizzato, nella sua abitazione il 6 giugno del 2007. Barbuta – l’ergastolano suicidato – era stato sempre assolto nei primi due gradi di giudizio, prima dall’Assise di Padova, quindi dall’Assise d’Appello di Venezia.

I giudici avevano sempre condiviso l’impostazione della difesa. Secondo l’avvocato Chiarion non vi sarebbe stata alcuna prova decisiva a carico di Barbuta. I due verdetti erano stati però impugnati in Cassazione dalla Procura generale e dall’ex moglie della vittima. La Suprema Corte aveva annullato la sentenza assolutoria rinviando il processo ad un’altra sezione della Corte d’Assise d’Appello.

Il 26 giugno 2013 i giudici veneziani gli avevano inflitto l’ergastolo, con isolamento diurno per sei mesi. Barbuta era stato arrestato un paio di mesi dopo dalla polizia romena nella città di Miroslava, nel distretto di Ieiu, ed estradato in Italia.

Inizialmente la morte di Guerrino Bissacco era stata attribuita a un incendio accidentale o addirittura ad un suicidio. Le lesioni rilevate sul corpo dell’agricoltore durante l’autopsia avevano rapidamente portato i carabinieri della compagnia di Abano ad orientarsi verso l’omicidio.

Secondo l’accusa, Barbuta, che abitava a pochi chilometri dall’abitazione della vittima in via Bassan, si sarebbe introdotto in casa di Bissacco per rubare la targa della sua auto, da montare successivamente sulla propria vettura. Avrebbe avuto infatti bisogno di una targa ”pulita” per rapire la fidanzata e riportarla in Romania. Scoperto dall’agricoltore, lo avrebbe ucciso provocando poi un incendio per far sparire ogni traccia del delitto.

A rendere noto il suicidio del detenuto è stato il sindacato della Polizia penitenziaria (Sappe) secondo il quale, nonostante l’intervento degli agenti, non c’è stato nulla da fare. «Purtroppo, nonostante il prezioso e costante lavoro svolto dalla polizia penitenziaria, pur con le criticità che l’affliggono, non si è riusciti ad evitare tempestivamente ciò che il detenuto ha posto in essere nella propria cella», osserva il segretario generale del Sappe, Donato Capece.

«Quel che mi preme mettere in luce – aggiunge Capece – è la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistinguono l’operato delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria di Milano Opera con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative come le gravi carenze di organico di poliziotti e le strutture spesso inadeguate. Siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso».

Poi Capece sottolinea i problemi del carcere di Milano stesso: «Nei dodici mesi del 2014 nel carcere di Milano Opera si sono contati purtroppo il suicidio di un detenuto e la morte, per cause naturali, di un altro. Quattro sono stati i tentati suicidi evitati in tempo dai poliziotti penitenziari; 35 gli episodi di autolesionismo, 24 le colluttazioni e 7 i ferimenti».

Sempre Capece conclude: «Numeri su numeri che raccontano un’emergenza purtroppo ancora sottovalutata, anche dall’Amministrazione penitenziaria che pensa alla vigilanza dinamica come unica soluzione all’invivibilità della vita nelle celle senza però far lavorare i detenuti o impiegarli in attività socialmente utili». Resta il fatto che il sistema penitenziario continua a produrre morte. Dall’inizio dell’anno siamo arrivati a sei suicidi, con un totale di 12 morti.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 17 Febbraio 2015

Conso (ex Ministro della Giustizia): “Nessuno sconto alla mafia, ma il 41 bis non è costituzionale”


On. Giovanni Conso“La mancata proroga di trecento decreti di 41 bis ai boss di Cosa Nostra fu una mia scelta e io non sono mai stato al corrente di una trattativa fra lo Stato e la mafia”. L’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, oggi 92 enne, ribadisce così in un’intervista al quotidiano la Repubblica la sua estraneità alla questione della presunta trattativa Stato-Mafia.

Chiamato in causa nel processo (e più volte anche da Marco Travaglio), Conso respinge con forza ogni dietrologia rispetto al suo comportamento: “Non ci fu alcun retroscena in quella scelta. Decisi io, perché così mi sembrava giusto. L’ho detto ai giudici e lo ripeto”.

Il processo? Non segue nemmeno le udienze più importanti. “Sto facendo delle cure ho poco tempo. Non so nulla di quello che accade”. Anche rispetto alla recente deposizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, assicura: “Non ho ricordi particolari sulla notte delle bombe di Roma e Milano, è passato tanto, troppo tempo”. Giovanni Conso è considerato uno dei più grandi giuristi e ha ricevuto attestati di solidarietà dai suoi ex colleghi del mondo accademico.

L’alleggerimento del 41 Bis ai 334 detenuti, eseguito per ordine dell’allora ministro Conso, viene visto come un favore alla mafia. In realtà, i soggetti appartenenti a Cosa Nostra presenti in quell’elenco, il cui alleggerimento avrebbe potuto conseguire il gradimento dell’organizzazione criminale siciliana, erano circa una dozzina. Gli altri erano soggetti secondari, ed in stragrande maggioranza del tutto alieni a Cosa Nostra, e tra l’altro ben oltre la metà di quei 334 non erano neppure siciliani. Persino la commissione Antimafia ha già recepito questa circostanza, e ne ha dato pubblicamente atto.

Parole attente ed equilibrate nei suoi confronti sono da ritrovare nel libro di Pier Luigi Vigna In difesa della giustizia. Egli narra di come Conso, piuttosto di intavolare una trattativa con Riina e Provenzano, si sarebbe fatto volentieri crocifiggere. Vigna ritiene che Conso davvero si fosse posto il problema della legittimità costituzione del 41bis.

La finalità riabilitativa della detenzione non può essere derogata, soppressa o sospesa nemmeno per esigenze di ordine e sicurezza. E sempre secondo Vigna, l’allora ministro e uomo di diritto come Conso, non poteva non tener presente questo: ritendendo di non poter risolvere come ministro questo problema anticostituzionale, aveva optato per non rinnovare quelle misure detentive. Si trattava in diversi casi peraltro di detenuti che non erano nemmeno alla prima applicazione del 41bis, ma in attesa della proroga sistematica biennale. Vigna continua dicendo che forse bisogna porsi delle domande sui depistaggi sulla strage di via d’Amelio, invece di fossilizzarsi sulla presunta trattativa. Ma questa è un’altra storia.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 6 novembre 2014

Ospedali Psichiatrici Giudiziari….. la tortura continua. Chiesta una nuova proroga


OPGLa relazione sugli Opg dei ministri Lorenzin e Orlando, dice che è “irrealistico pensare di eliminare le strutture” a breve. Si prospetta quindi un’ulteriore proroga per la chiusura definitiva degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg).

Secondo la relazione sul Programma di superamento degli opg trasmessa al Parlamento dai ministri della Salute, Beatrice Lorenzin, e della Giustizia, Andrea Orlando, aggiornata al 30 settembre, sarebbe irrealistico pensare di chiudere le strutture entro il 15 marzo del 2015, come previsto dall’ultimo decreto legge.

“Nonostante il differimento al 31 marzo 2015 del termine per la chiusura degli Opg, sulla base dei dati in possesso del ministero della Salute – si legge nella relazione – appare non realistico che lo Regioni riescono a realizzare e riconvertire le strutture entro la predetta data. In caso di mancato rispetto dell’anzidetta data, ovvero in caso di mancato completamento delle strutture nel termine previsto dai programmi regionali, è ferma intenzione dei ministri attivare la procedura che consente al governo di provvedere in via sostitutiva. È quindi di nuovo auspicabile un ulteriore differimento del termine di chiusura degli Opg”.

Inizialmente dovevano essere 38 i milioni predisposti dallo Stato affinché le Regioni presentassero i programmi di conversione degli Ospedali psichiatrici giudiziari in strutture sanitarie alternative. Oggi, secondo l’ultimo aggiornamento del ministero della Salute e del ministero della Giustizia, la spesa è salita a 88,5 milioni di euro. I costi, dunque, continuano incredibilmente a lievitare. Tutta colpa della lentezza della macchina burocratica regionale che è da anni che dovrebbe chiudere quelli che Amnesty International ha definito “luoghi di tortura”, senza però ancora riuscirci. La vicenda è drammatica perché ci sono stati rinvii su rinvii.

Dapprima si pensava al 31 marzo 2013 come termine ultimo concesso alle Regioni per presentare appunto il programma di conversione. Ma non era stato sufficiente. E allora si va di proroga in proroga, Fino all’ultimo decreto firmato dal governo che ha posticipato il termine al 31 marzo 2015. L ‘ultima proroga aveva sollevato reazioni, in particolare quella del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel firmare il decreto legge aveva espresso “estremo rammarico, per non essere state in grado le Regioni di dare attuazione concreta a quella norma ispirata a elementari criteri di civiltà e di rispetto della dignità di persone deboli”.

Il Capo dello Stato aveva comunque “accolto con sollievo interventi previsti nel decreto legge per evitare ulteriori slittamenti e inadempienze, nonché per mantenere il ricovero in ospedale giudiziario soltanto quando non sia possibile assicurare altrimenti cure adeguate alla persona internata e fare fronte alla sua pericolosità sociale”. Il decreto legge del marzo scorso, infatti, prescrive che “il giudice disponga nei confronti dell’infermo o del seminfermo di monto l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dal ricovero in Opg o in una casa di cura e di custodia, a eccezione dei casi in cui emergano elementi dai quali risulti che, ogni altra misura diversa dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario non sia idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale”.

La nuova proroga che secondo la relazione ministeriale si renderà necessaria, “tuttavia dovrebbe essere accompagnata dalla previsione di misure normative finalizzate a consentire la realizzazione e riconversione delle anzidette strutture entro tempi certi; a tal fine si ritengono tuttora valide le proposte formulate nella precedente Relazione inviata al Parlamento: misure normative volte a semplificare e razionalizzare le procedure amministrative; possibilità di avvalersi del silenzio-assenso per le autorizzazioni amministrative richieste a livello locale”.

Con la nuova relazione trasmessa al Governo, quindi, si apprende che passera ancora molto tempo affinché gli Opg chiudano definitivamente. Se si considera che attualmente la regione Piemonte ha già previsto che dovranno passare altri 24 mesi per la realizzazione della struttura sanitaria alternativa, si arriverà dunque a fine 2016. Ancora peggio per la struttura sanitaria di Abruzzo e Molise: sono stati stimati 2 anni e 9 mesi. Si arriverà, in questo caso, all’estate del 2017. Nel frattempo gli internati continuano a vivere negli opg. Abbandonati e prigionieri.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 1 novembre 2014

Calabria, Il Carcere di Rossano è come Abu Ghraib, ma per i grillini va tutto bene


Carcere di RossanoIl Movimento 5 Stelle calabrese di Rossano ha mosso critiche nei confronti della deputata Enza Bruno Bossio del Pd, per la sua visita ispettiva al famigerato carcere (noi de Il Garantista l’abbiamo definito l’Abu Ghraib calabrese) dove ha riscontrato, e denunciato, casi di vera e propria tortura.

Secondo la lista grillina locale “Amici di Beppe Grillo, Rossano in Movimento”, le condizioni dei detenuti erano giustificate in quanto “in quella particolare ala del carcere di Rossano vengono rinchiuse determinate tipologie di soggetti che danno segni di elevata irrequietezza ovvero che vengono monitorati costantemente dallo psichiatra della Casa di detenzione in attesa dì un eventuale trasferimento nelle apposite strutture”.

Pronta la replica del radicale Emilio Quintieri, il quale collabora in perfetta sinergia con la deputata Bossio per le visite ispettive nelle carceri calabresi: “Infatti, nel reparto di isolamento (attualmente in fase di ristrutturazione dopo l’attività ispettiva dell’on. Bruno Bossio), possono essere “rinchiuse” soltanto quelle persone nei casi tassativi stabiliti dal legislatore.

Non vi è alcuna disposizione di legge che consentiva alla direzione della casa di reclusione di Rossano di allocare i detenuti che davano “segni di elevata irrequietezza” o per essere “monitorati costantemente dallo psichiatra” all’interno di quel reparto.

Anzi, vi è di più. Proprio per rafforzare l’eccezionalità della disciplina, il legislatore, ha stabilito il divieto per l’amministrazione penitenziaria, di utilizzare sezioni o reparti di isolamento per casi diversi da quelli previsti dalla legge. L’isolamento del detenuto rappresenta una situazione del tutto eccezionale in quanto idonea ad incidere negativamente sul diritto alla salute e al benessere individuale della persona e poiché, di norma, il detenuto, deve vivere insieme agli altri perché la vita in comune è un elemento basilare del trattamento penitenziario. Il medico può prescrivere l’isolamento per ragioni sanitarie e, più precisamente, solo in caso di malattia contagiosa, da eseguirsi in appositi locali dell’infermeria o in un reparto clinico.

A tal proposito, sono già numerosi, i medici (ed altri dipendenti dell’amministrazione penitenziaria] condannati dall’Autorità Giudiziaria competente, per omicidio colposo proprio per aver cagionato il suicidio di detenuti, specie quelli con disturbi psichiatrici conclamati, mettendoli in isolamento, misura prevista in casi eccezionali e tassativamente elencati, in violazione dell’ordinamento e del regolamento di esecuzione penitenziaria”.

Poi il radicale Emilio Quintieri puntualizza: “Quanto, invece, alle “celle” di questa “particolare ala del Carcere”, ribadisco la illegittimità del collocamento dei detenuti nelle “celle lisce” cioè prive dell’arredo ministeriale poiché, anche durante l’esecuzione dell’isolamento, ì detenuti debbono essere alloggiati in camere ordinarie pur se il loro comportamento sia tale da arrecare disturbo o da costituire pregiudizio per l’ordine e la disciplina.

Anche per questa particolare “prassi generalizzata” sono già state diverse le sentenze di condanna pronunciate noi confronti del personale dipendente dell’Amministrazione Penitenziaria. Le sanzioni disciplinari, infatti, devo essere “eseguite nel rispetto della personalità” in ossequio al principio costituzionale di cui all’art. 27 secondo cui le pene devono essere conformi ad umanità. E “rinchiudere” delle persone in cella, senza vestiti, senza alcun mobilio o suppellettile non può considerarsi sicuramente rispettoso della dignità umana!”.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 1 novembre 2014

Catanzaro: Detenuto salvato dal suicidio per un pelo… ma ora aiutate Fabio Pignataro


10469776_786327044759501_4692306044271438006_nHa tentato di impiccarsi con un cappio rudimentale nella sua cella all’interno del reparto di isolamento del carcere di Catanzaro Siano ma, per fortuna, è stato salvato in extremis dai sanitari e dalla polizia penitenziaria. Grazie alla immediata denuncia del radicale Emilio Quintieri e l’immediata attenzione della deputata del Pd Enza Bruno Bossio, l’amministrazione penitenziaria ha sospeso il regime 14 bis a cui era sottoposto. L’autore del disperato ed estremo gesto è il detenuto Fabio Pignataro, proveniente dal famigerato carcere di Rossano – vicenda raccontata anche dal Garantista – dove, grazie alla visita ispettiva condotta dalla deputata Enza Bruno Bossio, aveva denunciato di aver subito pestaggi dalla polizia penitenziaria perché avrebbe tentato di evadere.

Aveva già messo il cappio al collo quando davanti alla sua cella, per fortuna, si sono presentati i sanitari per la somministrazione della terapia ed una volta accortisi di quanto stava accadendo, hanno allertato il personale di polizia penitenziaria ed insieme sono riusciti a salvarlo.

A darne notizia è l’esponente radicale calabrese Emilio Quintieri che ha colto l’occasione per chiedere all’Amministrazione penitenziaria ed alla magistratura di sorveglianza di Catanzaro di intervenire, per quanto di competenza, per valutare la sospensione – quantomeno temporanea -del regime di sorveglianza particolare nei confronti di questo detenuto, per prevenire ulteriori atti autolesionistici o suicidari.

Il pestaggio da parte della Polizia Penitenziaria, sul quale la Procura della Repubblica di Castrovillari ha aperto un fascicolo, venne denunciato dal Pignataro all’onorevole Enza Bruno Bossio, deputato del Partito democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia, durante la visita ispettiva “a sorpresa” effettuata lo scorso 9 agosto al Carcere di Rossano.

Una vicenda che l’on. Bruno Bossio, ha espressamente richiamato nella sua interrogazione a risposta in commissione, indirizzata ai ministri della Giustizia, della Salute e del Lavoro e delle Politiche sociali del governo Renzi, presentata alla Camera dei Deputati durante la 291esima seduta del 16 settembre.

Il radicale Quintieri, non appena venuto a conoscenza del tentato suicidio del detenuto Pignataro, ne ha immediatamente informato la parlamentare democratica, la quale ha chiesto immediatamente delucidazioni al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia.

“Avevo già evidenziato – denuncia il radicale Quintieri – che quei detenuti ristretti a Rossano tenuti per lungo tempo in isolamento, erano a rischio suicidio. Ieri, a Catanzaro, per fortuna, è stato evitato il peggio. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, ed un eventuale fallimento di questo mandato può anche essere perseguito penalmente.

Il metodo più utilizzato per il suicidio è l’impiccamento, messo in atto il più delle volte, durante l’isolamento”. Il radicale calabrese prosegue dicendo che “gli studi effettuati hanno dimostrato che esiste una torte associazione tra il suicidio dei detenuti ed il tipo di alloggio assegnato. Nello specifico, un detenuto posto in isolamento, o sottoposto a particolari regimi di detenzione (specialmente in cella singola) e incapace di adattarvisi, è ad alto rischio di suicidio.

La detenzione, in sé e per sé, è un evento devastante anche per detenuti “sani” figuriamoci per chi, come il Pignataro, soggetto tossicodipendente e quindi particolarmente vulnerabile, la sottoposizione ad un rigoroso regime custodiale, qual è il 14 bis, possa sviluppare gesti auto-suicidari”.

Per questo motivo, il radicale Quinteri chiede all’amministrazione penitenziaria ed alla magistratura di sorveglianza competente di “valutare di sospendere, quantomeno temporaneamente, l’applicazione del regime di sorveglianza particolare nei confronti del detenuto Fabio Pignataro che prevede una serie di restrizioni, a partire dall’isolamento totale, che comportano anche vistose deroghe all’ordinario trattamento carcerario, lesive dei principi costituzionali di umanità e rispetto della dignità umana”.

Dopo lo scandalo del carcere di Rossano, definito “l’Abu Ghraib calabrese” per via delle condizioni di tortura riscontrate, l’onorevole Enza Bruno Bossio aveva espressamente segnalato, con una precisa interrogazione parlamentare al governo, che tenere in isolamento i detenuti (tra i quali proprio Pignataro, colui che stava per morire impiccato) era pericoloso per la loro incolumità psicofisica. “Non capisco – si interroga il radicale Quinteri – perché ancora oggi questo detenuto si trovava in isolamento anche dopo il trasferimento”. Ma grazie alla sua pronta denuncia, il Dap ha sospeso il regime di isolamento nei confronti di Pignataro.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 23 ottobre 2014

Suicidi dei detenuti e 41 bis, indaga la Commissione Diritti Umani del Senato. Audita la Radicale Bernardini


Cella 41 bis OPAl Senato continuano le audizioni della Commissione straordinaria dei diritti umani, in particolar modo sul regime di detenzione relativo all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, presieduta dal senatore Luigi Manconi. Il 15 ottobre scorso è stata la volta della segretaria dei radicali Rita Bernardini che ha tracciato un bilancio preoccupante in merito alla situazione del nostro sistema penitenziario. “Ci sono intere sezioni detentive esclusivamente in mano alla polizia penitenziaria – ha spiegato la Bernardini – anch’essa sotto organico e sofferente, e lo dimostra il numero di suicidi. Anche sull’aspetto lavoro a me non risulta che i numeri siano notevolmente cambiati. Siamo sempre a una percentuale di non più del 20% di detenuti che hanno accesso alla possibilità di lavoro e questo determina la giornata del detenuto, che viene trascorsa nell’ozio”.


D’altronde, sempre secondo la Bernardini, “in carcere si risparmia su tutto, anche nel materiale di pulizia della cella, tranne che sugli psicofarmaci, che consentono a persone provate dalla detenzione di poter superare questo stato. E molto alta infatti, intorno al 25%, la percentuale di persone detenute che hanno precedenti di tossicodipendenza”. Davanti alla Commissione, la segretaria dei radicali ha anche affrontato il tema, oramai abbandonato dalla politica, dell’amnistia spiegando che “non viene tenuto conto del fatto che avere oltre 5 milioni di procedimenti penali pendenti continua a rallentare la nostra giustizia, quindi fare un’amnistia significa pulire un’arteria intasata per fare quelle riforme strutturali che consentano alla macchina di camminare”.
La segretaria dei radicali spiega anche il ruolo decisivo dell’informazione: “Si martella l’opinione pubblica con i fatti di cronaca nera, facendo intuire che aumentano i reati quando non è vero e solo perché fa audience. In un Paese che così facendo, dal punto di vista del diritto della conoscenza dei cittadini – ha concluso la Bernardini – dimostra di essere fuori da ogni criterio di democrazia”.


rita bernardiniDurante l’audizione ha preso la parola il senatore Peppe De Cristofaro, del gruppo Sinistra ecologia e libertà e membro della commissione, esprimendo sintonia di idee con la Bernardini e ribadendo che “il clima è sfavorevole grazie anche all’informazione, ma il parlamento dovrebbe avviare una riflessione e porre l’argomento della clemenza, accompagnata però dalle riforme che aboliscano leggi che producono carcerazione facile”.
Il senatore De Cristofaro ha voluto anche porre una considerazione sulla vicenda del 41 Bis spiegando che “la vera struttura del 41 bis è quella del non detto. Non si dice chiaramente – ha chiosato De Cristofaro – che è un duro strumento per portare al pentimento i mafiosi”. Il senatore ha concluso con una domanda: “È un esempio di civiltà il fatto che lo Stato utilizzi uno strumento di tortura per portare i mafiosi a collaborare?”. Parole forti, soprattutto dopo l’audizione del 4 Giugno scorso del procuratore Nicola Gratteri, il quale ha confermato la validità del 41 Bis e la proposta di riaprire il carcere dell’Asinara e Pianosa per concentrare tutti i detenuti sottoposti alla carcerazione dura. Parere che si era andato a scontrare con le parole del dottor Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento presso il Dap, ascoltato dalla Commissione sempre nel mese di Giungo: “Nell’assegnazione della misura si evita l’assembramento in pochi istituti di soggetti che facciano parte della medesima associazione o ai organizzazioni fra loro contrapposte. E si evita che soggetti di grande spessore criminale siano ristretti nello stesso istituto. I soggetti in 41 bis sono detenuti rigorosamente in celle singole. Come tutti i detenuti hanno diritto a colloqui e momenti socialità con altri detenuti, in gruppi non superiori a quattro”. La Commissione preseduta da Luigi Manconi, continuerà a svolgere l’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani per poi produrre un dossier entro gennaio prossimo. La prospettiva sarebbe quella di portare la discussione in parlamento.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 18 ottobre 2014

Abusi in carcere a San Vittore : «Sei una trans ? Allora fammi un pompino»


Casa Circondariale San Vittore MilanoTestimonianze di abusi sessuali sulle detenute transessuali e di altre vessazioni nel carcere di San Vittore, l’assoluzione degli agenti di Polizia penitenziaria finiti alla sbarra e poi l’inquietante morte di Erica, la trans che aveva avuto il coraggio di denunciare le violenze, e la scomparsa di un detenuto che in una lettera aveva scelto di raccontare quanto accadeva tra le mura dell’istituto milanese.

È il quadro a tinte fosche descritto dai volontari del gruppo Calamandrana, che hanno contattato il Garantista dopo la pubblicazione del nostro reportage: “L’inferno delle detenute transgender”. Nel dicembre del 2008 venne resa pubblica la lettera di un detenuto del raggio dei protetti che raccontava la vergogna degli abusi sessuali praticati da agenti graduati su detenute trans. Tramite questa lettera, i volontari del Gruppo Calamandrana chiedevano che si facesse luce su questi abusi ben conosciuti nell’ambiente ma mai denunciati da nessuno.

“In questo piano protetto dove sono rinchiusi stupratori, pedofili, infami e trans – scriveva il detenuto recluso al carcere di San Vittore – avviene ogni tipo di sopruso: regole che cambiano da un giorno all’altro, a discapito sempre del detenuto, ore di aria ridotte, scarafaggi ovunque, ecc.”.

Poi il detenuto va nello specifico: “Ma la cosa più scandalosa è ciò che subiscono le persone transessuali, cioè dei veri e propri abusi sessuali da parte di alcuni agenti, per lo più graduati, col tacito consenso di tutti gli altri che sanno. La cosa avviene con chiamate serali giustificate da visite mediche, chiamate per ritiro pacchi postali, chiamate di avvocati, chiamate dell’ufficio comando o matricole. Il detenuto di turno si trova poi in una stanza isolata con uno o più agenti, dove l’abuso avviene con ricatto, minacce, negazione dei medicinali, o più semplicemente con la promessa di agevolazioni di vario genere.

Questo abuso – conclude il detenuto del carcere di San Vittore – continua da sempre, e da sempre impunito, anche se confidato ad avvocati o operatori civili, medici e parenti. In un modo o nell’altro ciò che avviene dentro queste mura viene insabbiato prima di riuscire ad avere un efficace intervento”. Dopo la pubblicazione della lettera, il gruppo Calamandrana subisce una sospensione della sua attività all’interno del carcere milanese. E questo provvedimento ha messo in luce la difficoltà dei volontari operanti all’interno delle carceri di denunciare gli abusi e le inefficienze del sistema penitenziario.

“Durante la loro attività in carcere – sottolinea il gruppo Calamandrana – inevitabilmente i volontari possono essere testimoni di fatti gravi compiuti da singoli operatori penitenziari (di cui, tra l’altro, non sono gli unici a sapere): perché non se ne parla? Forse per il timore dì essere segnalati al Giudice di Sorveglianza e di conseguenza non poter più entrare in carcere?

O forse perché, per una sorta di fatalismo si è convinti che la comunicazione alla Direzione comunque non porterebbe a nulla? E se anche ne parlano, in genere non vengono neppure a sapere se in seguito siano stati adottati dei provvedimenti; l’unica notizia è un eventuale trasferimento del detenuto/a coinvolto/a perché non lo/la si vede più. Siamo consapevoli che il mondo carcerario ha al suo interno equilibri molto delicati e che deve essere presa in considerazione sia la tutela del detenuto/a che denuncia sia la tutela del denunciato/a.

D’altra parte, gli eventuali gravi episodi contrastano nettamente con l’articolo 27 della Costituzione comma terzo (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dì umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e con l’ordinamento penitenziario legge 26 luglio 1975 n° 354 art. 1 comma uno (“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”).

L’attuazione pratica di questi due articoli è stata l’istituzione della Magistratura di Sorveglianza che ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena nel rispetto dei diritti dei detenuti ed ha il potere di intervenire. C’è perfino una sentenza della Corte Costituzionale n. 26 dell’11.02.1999 che prescrive l’adozione di una specifica procedura giurisdizionale in merito ai reclami dei detenuti al Magistrato di Sorveglianza per violazione dei propri diritti”.

Conclude poi il gruppo Calamandrana con un quesito: “Quindi, tornando alla domanda iniziale, se ne aggiunge un’altra, con la speranza che si possa arrivare ad un dibattito per avere chiarezza su quanto abbiamo esposto: quali sono i limiti del silenzio del volontariato (e non solo del volontariato) in carcere?”.

E, di fatto, i volontari del gruppo Calamandrana non si sono imposti limiti nel denunciare ciò che accadeva all’interno del carcere dove operavano, Non solo hanno reso pubblico la testimonianza del detenuto e della trans Erica, ma hanno trascritto e diffuso una parte significativa di un1 intervista radiofonica nei confronti di una trans uscita dal carcere milanese. “Dal mio primo ingresso a San Vittore – spiega la trans nell’intervista – ho dovuto sopportarne di tutti i colori. Se fuori la discriminazione verso i trans è al 100%, dentro il carcere è al 200%, In carcere vieni vista come un animale, E a furia di essere trattati come animali, lo si diventa”.

La trans durante l’intervista spiega nel dettaglio anche le vessazioni subite e il fatto di non essere creduto dalla dal direttore del carcere. “Ero in una situazione così grave – continua la trans -che ho cominciato a riempirmi di psicofarmaci per dormire e non sentire niente. Ho avuto tante colleghe trans arrivare alla pazzia. Alle richieste di prestazioni sessuali da parte degli agenti io reagivo con odio e a uno di questi un giorno non solo l’ho mandato a fanculo, ma gli ho detto: “Un pompino te lo deve fare la tua mamma, non io”.

Questo mi è costato 45 giorni di carcere in più, perché lui mi ha fatto rapporto”. A quel punto la trans spiega che “per 3 anni ho passato questa vita non di merda, ma sotto la merda. Giorno dopo giorno ho ricevuto violenze dagli agenti, violenze anche verbali.

“Puttana di merda, come li facevi i pompini fuori?”. E allora io rispondevo; “Bene, molto bene”. Perché se li mandavo a fanculo avevo altri 45 giorni di pena in più”. Ma la trans durante l’intervista tiene a specificare che “non tutti gli agenti sono così, Ci sono fra loro anche persone bravissime, I veri bravi agenti esistono, ma molti si approfittano della loro posizione, Dagli altri detenuti ho ricevuto molta solidarietà e ho imparato tanto”.

Le denunce delle vessazioni nei confronti delle trans detenute hanno avuto un effetto concreto: dopo circa due mesi dalla diffusione delle testimonianze, nel 2009 la Procura di Milano ha cominciato ad occuparsi della faccenda. È scattato il rinvio a giudizio nei confronti delle due guardie penitenziarie e avviato il processo. Dopo molti rinvii il processo si è concluso il 18 luglio 2013 con l’assoluzione dei due agenti “perché il fatto non sussiste”.

Ma la conclusione di questa storia è molto più amara e inquietante. Gabriella Sacchetti, volontaria del gruppo Calamandrana, spiega al Garantista che “due protagonisti importanti di questa brutta storia sono spariti subito dopo il processo o poco prima. Di Erica, una delle trans che aveva denunciato gli abusi, è corsa voce che sia stata uccisa, ma non siamo riusciti a sapere dove, come e quando. Il detenuto della lettera di denuncia che abbiamo pubblicato è sparito dalla circolazione dopo che ha finito di scontare la pena. E questo ci è molto dispiaciuto e ci ha inquietato, anche perché – conclude amaramente Gabriella Sacchetti – li avevamo conosciuti durante il nostro volontariato ed eravamo rimasti in contatto epistolare fino a poco prima della sentenza”.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 14 ottobre 2014

Roma: detenuto rischia di perdere l’utilizzo delle gambe a causa di mancata fisioterapia in Carcere


regina-coeli-carcereDopo una caduta e un intervento all’Ospedale “Pertini”, avrebbe bisogno di fare la fisioterapia.

Ma a Regina Coeli da cinque mesi gli è negata. Nelle carceri il mancato funzionamento del sistema sanitario nazionale è emergenza quotidiana.

L’ennesima emergenza riguarda questa volta un detenuto che rischia di perdere irrimediabilmente l’utilizzo delle gambe a causa della mancata fisioterapia. Si tratta del caso di Claudio B., un detenuto dì 46 anni ristretto al carcere di Rebibbia.

“Una vicenda surreale – ha commentato il garante dei detenuti Angiolo Marroni – a metà strada fra malasanità ed eccesso di ottusa burocrazia. Ed intanto, secondo i medici, ogni giorno che passa allontana sempre di più la possibilità per Claudio di recuperare il normale uso degli arti. Proprio in queste ore ho inviato un telegramma al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. Quest’uomo deve essere curato al più presto”.

L’odissea è partita da un incidente verificatosi il 21 aprile scorso al carcere di Rebibbia. Claudio cade in carcere e, a causa dei forti dolori alle gambe dovuti dall’impatto, viene ricoverato d’urgenza all’ospedale Pertini con una diagnosi di “plegia arto superiore destro ed arti inferiori bilateralmente associata ad alterazioni del visus e a deficit campo visivo in occhio destro insorte dopo trauma da caduta”.

Al momento della dimissione, i medici raccomandano il trasferimento in una struttura dove si effettuino cicli di fisioterapia e il costante monitoraggio neurologico. Il 13 giugno Claudio viene però trasferito al centro clinico di Regina Coeli dove è

noto che non viene effettuata la fisioterapia. Il 7 luglio, viste la sue condizioni e le reiterate segnalazioni, il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria dispone l’assegnazione dell’uomo nel carcere di Velletri, ma tale trasferimento avviene solo il 20 settembre e solamente dopo il pressante intervento del Garante.

Arrivato a Velletri, però, Claudio, non viene accettato dai medici del carcere che non ritengono gestibili le sue problematiche e deve tornare a Regina Coeli. Sono passati cinque mesi e il detenuto ancora non riesce a beneficiare della fisioterapia e rischia di perdere l’utilizzo delle gambe. Il garante Marroni chiede al più presto un provvedimento sanitario adeguato per il detenuto e conclude con una denuncia generale sulle problematicità del sistema penitenziario: “Come dimostra questa vicenda, i problemi del carcere non sono legati solo al sovraffollamento. Errori, eccessi di burocrazia, leggerezze e mancanze di comunicazione possono creare danni ancor più gravi”.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 30 settembre 2014

Parma, dopo le registrazioni delle torture si indaga, ma deve cadere un muro di omertà


CC Parma DAPRachid, marito di Emanuela D’Arcangeli, ha registrato le voci di medici e agenti che ammettono le violenze. Si sta indagando, ma deve cadere un muro di omertà. La moglie del detenuto che ha registrato di nascosto le guardie che parlano di pestaggi nel carcere di Parma, decide di rivelarsi al Garantista. Nella registrazione la guardia carceraria si lascia andare: “Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu”.

Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: “Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero. Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredite l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no. Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte. Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi”.

Da questa registrazione, resa pubblica attraverso i mass media, è partita un’ispezione interna da parte dell’Amministrazione penitenziaria e l’apertura di un’inchiesta da parte della Procura. Sono intervenuti, in merito alla vicenda, Desi Bruno e Roberto Cavalieri, rispettivamente Garante regionale e Garante del comune di Parma dei detenuti, esprimendo “preoccupazione circa il contenuto delle registrazioni diffuse dalla stampa e realizzate, per come viene riferito, all’interno del penitenziario di Parma da parte di un detenuto”.

Proseguono ancora i Garanti: “Tali contenuti qualora confermati nella loro veridicità e completezza, farebbero emergere che all’epoca dei fatti, e cioè negli anni 2010-2011, si sarebbe verificata una situazione di subordinazione delle questioni di salute e incolumità dei detenuti alle pratiche della custodia anche quando queste si sono manifestate, secondo le accuse, in modo illegittimo attraverso l’uso della violenza”.

Il detenuto che ha registrato la conversazione si chiama Rachid e attualmente è rinchiuso nel carcere di Sollicciano. La moglie ha inviato una lettera al direttore del carcere affinché gli garantisca protezione da eventuali ritorsioni. Emanuela D’Arcangeli – questo è il suo nome – tramite il suo Blog “Carcere e Verità” sta intraprendendo una battaglia per combattere la situazione infernale del sistema penitenziario.

La sua lettera indirizzata al Garantista è un invito ad intraprendere una battaglia che non sia una lotta tra detenuti e guardie “cattive” ma una lotta creando un fronte comune composto da familiari detenuti, operatori e le stesse guardie penitenziarie che credono nel loro lavoro. In altre registrazioni, sempre messe a disposizione sul canale Youtube “Carcere e Verità”, ci sono colloqui con altre guardie carcerarie le quali ammettono che non testimonieranno mai contro i loro colleghi. Quello che avviene in carcere resta chiuso tra quattro mura; una sola parola vige tra gli operatori penitenziari: omertà. L’invito di Emanuela è quello di combatterla.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 25 settembre 2014