Tolmezzo, detenuto calabrese muore in cella. Inchiesta della Procura


Detenuto muore nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, in provincia di Udine. Si stratta di Giuseppe Lo Piano, nato a Fuscaldo (Cs) il 19 dicembre 1967. L’uomo condannato all’ergastolo, considerato dai giudici appartenente al clan Serpa ma con posizione giuridica di imputato (appellante e ricorrente), è stato rinvenuto privo di vita nella mattinata di ieri dal suo compagno di cella che ha dato subito l’allarme. I sanitari intervenuti non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso.

Giuseppe Lo Piano, era stato condannato, in primo e in secondo grado, all’ergastolo nel processo “Tela del ragno” in merito a numerosi omicidi avvenuti negli ultimi 20 anni lungo il Tirreno cosentino. Un’operazione condotta contro i presunti capi e gregari del clan Perna-Cicero di Cosenza, Gentile-Africano-Besaldo di Amantea, Scofano-Martello-Rosa-Serpa di Paola, e Carbone di San Lucido.

A novembre si sarebbe dovuta tenere l’udienza per l’accusa di omicidio innanzi alla Corte di Cassazione, mentre per quanto riguarda la sentenza di condanna per associazione mafiosa la Suprema Corte, accogliendo il ricorso degli avvocati dell’imputato Sabrina Mannarino e Giuseppe Bruno aveva deciso per l’annullamento con rinvio alla Corte d’Appello per un nuovo giudizio.

Lo Piano, da qualche tempo, accusava un malessere che lo stesso aveva comunicato sia ai suoi famigliari che ai suoi legali difensori. Un malessere che lo aveva portato a ricorrere alle cure ospedaliere sia di Udine che di Tolmezzo. L’ultimo ricovero presso il nosocomio di Udine risale a circa una quindicina di giorni fa e dal quale era stato dimesso dopo qualche giorno. L’uomo pare soffrisse di una patologia cardiaca pregressa, ma i medici sia dell’ospedale che del carcere, avevano ritenuto che le sua malattia fosse compatibile con il regime carcerario. Nei giorni successivi al rientro in carcere, dopo l’ultimo ricovero, le sue condizioni di salute non erano affatto migliorate. Lo stesso Lo Piano, infatti, aveva allertato sia la famiglia che i suoi avvocati, i quali si erano subito attivati. Ma non hanno fatto in tempo. Ieri mattina, come un fulmine a ciel sereno, è arrivata la notizia dell’improvviso decesso.

Gli avvocati Mannarino e Bruno, nella stessa mattinata di ieri hanno fatto pervenire alla Procura di Udine una denuncia con la quale è stato richiesto il sequestro delle cartelle cliniche del detenuto. La morte di Giuseppe Lo Piano è stata segnalata dall’attivista radicale Emilio Quintieri all’Autorità Garante Nazionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale presso il Ministero della Giustizia. “Quel che è davvero intollerabile è che detto detenuto, nonostante da tempo versava in gravissime condizioni di salute, sia stato tenuto in carcere fino alla sua morte – dichiara l’attivista radicale in favore dei diritti dei detenuti Emilio Quintieri – La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Udine, avente giurisdizione sull’istituto penitenziario, ha già aperto un fascicolo e disposto, oltre al sequestro della salma, anche gli opportuni accertamenti medico legali”.

Maria Fiorella Squillaro

Il Quotidiano del Sud, 05/09/2020

Strasburgo condanna l’Italia per la morte di un detenuto. Vicenda analoga a quella avvenuta nel 2016 nel Carcere di Paola


Strasburgo condanna ancora l’Italia. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Prima Sezione, riunita in un Comitato composto da Armen Harutyunyan, Presidente, Pere Pastor Vilanova e Pauliine Koskelo, Giudici, nella causa promossa da Santo Citraro e Santa Molino contro Italia (Ricorso n. 50988/13), dopo aver deliberato in Camera di Consiglio il 28 aprile 2020, con Sentenza del 4 giugno 2020, ha dichiarato, all’unanimità, la Repubblica Italiana responsabile della violazione dell’elemento materiale dell’Articolo 2 della Convenzione condannandola anche al risarcimento dei danni (32 mila euro per danno morale e 900 euro per le spese, oltre alla maggioranza dovuta per eventuali imposte ed interessi) da versare, entro tre mesi, in favore dei ricorrenti.

I ricorrenti, signori Citraro e Molino, il 24 luglio 2013, introdussero un ricorso alla Corte di Strasburgo contro l’Italia, ai sensi dell’Art. 34 della Convenzione Europea, lamentando la violazione degli Articoli 2 e 3 della Convenzione, ritenendola responsabile del suicidio per impiccagione del loro figlio Antonio Citraro, 31 anni, di Terme Vigliatore, avvenuto nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 2001, mentre era detenuto nella cella n. 2 del reparto “sosta”, presso la Casa Circondariale di Messina.

All’epoca dei fatti, la morte di Citraro, in un primo momento venne etichettata come un suicidio e subito dopo, grazie alle denunce della famiglia, come omicidio colposo: il Gup del Tribunale di Messina dispose il rinvio a giudizio del Direttore dell’Istituto, di sei Agenti della Polizia Penitenziaria e del Medico Psichiatra per i reati di favoreggiamento, falso per soppressione, omicidio colposo, abuso dei mezzi di correzione e lesioni personali. Ma gli imputati, in tutti i gradi di giudizio, vennero assolti da ogni accusa.

I genitori del giovane detenuto però non si arresero e, dopo aver esaurito i rimedi giurisdizionali interni, assistititi dall’Avvocato Giovambattista Freni del Foro di Messina, proposero ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, nei giorni scorsi, dopo 19 anni, ha finalmente condannato l’Italia per le sue responsabilità. In particolare, i ricorrenti, lamentavano la violazione dell’Articolo 2 della Convenzione sostenendo, tra l’altro, che l’Amministrazione Penitenziaria, per mancanza di precauzioni e per negligenza, non avesse adottato le misure necessarie e adeguate idonee a impedire il suicidio del loro figlio, affetto da disturbi psichici, tant’è vero che in precedenza aveva più volte posto in essere atti di autolesionismo compresi tentativi di suicidio, che avevano portato il Magistrato di Sorveglianza di Messina a disporre il suo ricovero nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, provvedimento rimasto inevaso (solo pochi minuti prima del decesso di Citraro dal Ministero della Giustizia arrivò l’ordine di traduzione presso l’Opg).

Ebbene, la Corte di Strasburgo, ha deciso di condannare la Repubblica Italiana ritenendola responsabile in quanto l’Art. 2 della Convenzione obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. Tale obbligo sussiste, ancora di più, dal momento in cui le Autorità Penitenziarie siano a conoscenza di un rischio reale e immediato che la persona detenuta possa attentare alla propria vita.

Nel caso in questione, l’Amministrazione Penitenziaria, era perfettamente a conoscenza dei disturbi psichici e della gravità della malattia di cui era affetto il giovane detenuto, degli atti di autolesionismo e dei tentativi di suicidio che aveva posto in essere, dei suoi gesti e pensieri suicidi e dei segnali di malessere fisico o psichico (aveva completamente distrutto la cella, impedendo l’ingresso al personale, e faceva discorsi deliranti e paranoici).

Per tali motivi, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha ritenuto che le Autorità Penitenziarie non abbiano adottato le misure ragionevoli che erano necessarie per assicurare l’integrità del detenuto Antonio Citraro. Infatti, nella sentenza, i Giudici Europei scrivono chiaramente che “… le Autorità si sono sottratte al loro obbligo positivo di proteggere il diritto alla vita di Antonio Citraro. Pertanto, vi è stata violazione dell’elemento materiale dell’Articolo 2 della Convenzione.”

La vicenda della morte di Antonio Citraro è analoga a quella di tanti altri detenuti, parimenti affetti da disturbi psichici, verificatasi negli Istituti Penitenziari d’Italia. Tra le tante morti similari, ricordo particolarmente quella di Maurilio Pio Morabito, 46 anni, avvenuta il 29 aprile 2016, a poche settimane dal suo fine pena (30 giugno 2016), mentre era detenuto presso la Casa Circondariale di Paola. Morabito, come Citraro, si è impiccato nella cella n. 9 del reparto di isolamento, dopo aver posto in essere diversi atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, rifiutato di assumere i farmaci per timore di essere avvelenato ed anche di recarsi a colloquio con i propri familiari. Aveva finanche incendiato e distrutto, ripetutamente, le altre celle in cui era precedentemente allocato e per tale ragione era stato posto per diversi giorni in una cella liscia (cioè priva di ogni suppellettile), sporca e maleodorante, senza nemmeno essere sorvegliato a vista, lasciandogli addosso solo le mutande ed una coperta. Proprio utilizzando quest’ultima, che è stata annodata a forma di cappio alla grata della finestra della cella, di notte, è riuscito a togliersi la vita.

Per la vicenda di Morabito, i familiari, non hanno ottenuto giustizia in sede penale, in quanto il procedimento è stato archiviato dal Gip del Tribunale di Paola su conforme richiesta avanzata dalla Procura della Repubblica. Recentemente però, assistiti dagli Avvocati Corrado Politi e Valentino Mazzeo del Foro di Reggio Calabria, hanno citato in giudizio il Ministero della Giustizia per sentirlo condannare al risarcimento dei danni. La causa attualmente è in corso presso il Giudice Civile del Tribunale di Reggio Calabria (ed io sono tra le persone che verranno sentite in merito dall’Autorità Giudiziaria).

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – Causa Citraro e Molino contro l’Italia (clicca per leggere)

Ferrara, 3 Agenti a giudizio per tortura, lesioni, falso e calunnia ai danni di un detenuto. Imputata anche una Infermiera per falso e favoreggiamento


Tortura, lesioni personali, falso in atto pubblico e calunnia in concorso nonché di falso e favoreggiamento. Sono i reati che la Procura della Repubblica di Ferrara contesta, rispettivamente, a tre Agenti di Polizia Penitenziaria, un Sovrintendente e due Assistenti Capo, e ad una Infermiera in servizio presso la Casa Circondariale di Ferrara per fatti commessi ai danni di un detenuto il 30 settembre 2017.

Il Pubblico Ministero Isabella Cavallari, al termine delle indagini preliminari, ha inteso esercitare l’azione penale chiedendo il rinvio a giudizio per tutti i reati contestati. La vittima degli abusi è Antonio Colopi, 25 anni, di Galatone (Lecce) che all’epoca dei fatti era ristretto in custodia cautelare nell’Istituto Penitenziario di Ferrara (e poi trasferito presso la Casa Circondariale di Reggio Emilia). Gli imputati, invece, sono il Sovrintendente Geremia Casullo, 55 anni, l’Assistente Capo Massimo Vertuani, 49 anni, l’Assistente Capo Pietro Licari, 51 anni e l’Infermiera Eva Tonini, 39 anni. L’udienza preliminare è stata già fissata e si terrà il prossimo 9 luglio 2020 innanzi al Giudice per le Udienze Preliminari del Tribunale di Ferrara Danilo Russo.

Secondo quanto emerge dalla richiesta di rinvio a giudizio a firma del Pm Cavallari, i tre Agenti Penitenziari durante una perquisizione arbitraria eseguita all’interno della cella numero 2 del detenuto Colopi, posta nel reparto di isolamento, lo avrebbero costretto a denudarsi (eccetto le mutande) e poi ad inginocchiarsi ed una volta in quella posizione, dopo averlo ammanettato, lo avrebbero ripetutamente insultato e percosso, anche con un oggetto di metallo, utilizzato dal personale penitenziario per la battitura delle inferriate, lasciandolo in quelle condizioni fino a quando non venne notato dal Medico durante il giro tra le Sezioni, ponendo in essere un «trattamento inumano e degradante per la dignità della persona» agendo «con crudeltà e violenza grave» ed approfittando «della condizione di minorata difesa derivante dall’averlo ammanettato.».

In particolare, il Sovrintendente Casullo, mentre i suoi colleghi Assistenti Capo Vertuani e Licari facevano da palo nel corridoio, sarebbe entrato nella cella e dopo avergli fatto togliere maglia e canottiera, lo avrebbe fatto inginocchiare, colpendolo con calci allo stomaco. Poi gli avrebbe fatto togliere pantaloni, scarpe e calzini, lo avrebbe ammanettato continuando a colpirlo con calci e pugni allo stomaco, alle spalle ed al volto, utilizzando anche il ferro per la battitura per colpirlo alle spalle, alle gambe, alla nuca ed al viso. A quel punto, la vittima, avrebbe reagito con una testata, rompendo gli occhiali al sottufficiale, che lo ha minacciato e lo ha colpito ancora fino a spaccargli un dente. Il detenuto allora avrebbe chiesto aiuto, urlando il nome del Comandante del Reparto, ma Casullo lo avrebbe minacciato dicendogli che “Qui non c’è nessuno, Comandante e Ispettore sono solo io” con un coltello rudimentale puntato alla gola, passatogli dall’Assistente Capo Licari. Quest’ultimo, poi, avrebbe fatto ingresso nella cella dicendo “ora tocca a me” iniziando ad insultare e percuotere il detenuto su tutto il corpo, seguito dal collega Vertuani, che sino a quel momento aveva assolto la funzione di palo. Finito il violento pestaggio, la vittima, che ha avuto una prognosi di 15 giorni, è stata lasciata ammanettata e seminuda, fino a quando, dopo circa un’ora, durante un controllo, non l’ha notata il Medico del Penitenziario.

Il Sovrintendente Casullo e l’Assistente Capo Vertuani, sono anche imputati di falso per aver redatto dei rapporti considerati non veritieri sull’accaduto e, di fatto, contengono il nocciolo della loro versione dei fatti: sarebbe stato Colopi ad opporsi alla perquisizione, accogliendo gli Agenti Penitenziari con fare minaccioso, aggredendoli con calci e pugni, e loro avrebbero solo reagito per contenerlo e riportarlo alla calma. Da uno dei rapporti emergerebbe anche che il detenuto avrebbe usato come arma un oggetto contundente ricavato da una bomboletta del gas, che però secondo il Pubblico Ministero sarebbe stata introdotta proprio dai Poliziotti i quali, peraltro, non avrebbero fatto menzione né delle manette, né delle lesioni del detenuto, né del fatto che lo stesso venne denudato e lasciato in mutande. Inoltre, avrebbero scritto il falso, affermando di aver immediatamente avvisato l’Ispettore di sorveglianza, che invece sarebbe stato attivato solo un’ora dopo e solo al passaggio del Medico. Sempre i due, Casullo e Vertuani, sono imputati anche di calunnia nei confronti del detenuto, per averlo accusato del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, pur sapendolo innocente.

Per quanto riguarda l’Infermiera, Eva Tonini, per lei è stato chiesto il processo con le accuse di falso e favoreggiamento nei confronti dei tre Agenti di Polizia Penitenziaria. La predetta, in servizio al momento dei fatti, avrebbe scritto il falso nelle comunicazioni infermieristiche, dichiarando il falso e tacendo il vero ai Carabinieri del Nucleo Investigativo, delegati dal Pubblico Ministero, nel tentativo di aiutare il Sovrintendente Casullo e gli Assistenti Capo Vertuani e Licari, sviando le indagini nei loro confronti. In particolare, avrebbe scritto (e riferito al Medico, che però non avrebbe confermato la circostanza) di aver trovato il detenuto Colopi che sbatteva violentemente la testa sul blindo mentre passata per il giro della terapia tra le 8 e le 9 di mattina di quel 30 settembre: circostanza che risulterebbe smentita da altro Agente di Polizia Penitenziaria che l’accompagnava. Anche su quest’ultimo avrebbe dichiarato il falso, affermando di essere stata accompagnata da uno dei tre imputati, l’Assistente Capo Licari, mentre invece con lei c’era un altro Agente di Polizia Penitenziaria.

Carceri, illegittimo il termine di 24 ore per impugnare il rigetto del permesso premio. Reclamo consentito entro 15 giorni


Un termine di sole 24 ore per presentare reclamo contro il provvedimento sui permessi premio lede il diritto di difesa del detenuto e rappresenta un indebito ostacolo alla funzione rieducativa della pena, alla quale i permessi premio sono funzionali.

Lo ha affermato la Corte Costituzionale con la sentenza n. 113/2020, depositata oggi (Presidente Marta Cartabia, Relatore Francesco Viganò), accogliendo la questione di legittimità costituzionale dell’Art. 30 bis comma 3, in relazione al successivo Art. 30 ter comma 7 dell’Ordinamento Penitenziario, per violazione degli Artt. 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, sollevata dalla Corte di Cassazione, Prima Sezione Penale, con Ordinanza del 13 novembre 2019, nella parte in cui prevedeva che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del Magistrato di Sorveglianza in tema di permesso premio era pari a 24 ore, analogamente a quanto previsto per il reclamo contro i provvedimenti sui permessi di necessità previsti dall’Art. 30 dell’Ordinamento Penitenziario, legati a situazioni di imminente pericolo di vita di familiari o altri gravi eventi eccezionali, sebbene fossero diversi i presupposti e le finalità.

L’eccessiva brevità del termine era già stata portata all’esame della Consulta che, con la sentenza n. 235 del 1996, aveva rilevato l’irragionevolezza dell’identico termine per il reclamo contro due diversi tipi di permesso e tuttavia aveva ritenuto di fermarsi all’inammissibilità delle questioni prospettate, non riuscendo a rintracciare nell’ordinamento una soluzione costituzionalmente obbligata che potesse porre direttamente rimedio alla, pur riscontrata, eccessiva brevità del termine in esame.

In quell’occasione il Giudice delle Leggi aveva però invitato il legislatore a «provvedere, quanto più rapidamente, alla fissazione di un nuovo termine che contemperi la tutela del diritto di difesa con le esigenze di speditezza della procedura». Esaminando nuovamente la questione a distanza di ventiquattro anni da quel monito, rimasto inascoltato, la Corte ha ribadito la contrarietà alla Costituzione di un termine così breve, che rende assai difficile al detenuto far valere efficacemente le proprie ragioni, anche per l’oggettiva difficoltà di ottenere in così poco tempo l’assistenza tecnica di un difensore; e ha individuato nella disciplina generale del reclamo contro le decisioni del Magistrato di Sorveglianza, introdotta dal legislatore nel 2013, un preciso punto di riferimento per eliminare il vulnus riscontrato. Questa disciplina, costituita dall’Art. 35 bis comma 4 dell’Ordinamento Penitenziario, prevede oggi un termine di 15 giorni per il reclamo al Tribunale di Sorveglianza, che la Corte Costituzionale ha pertanto esteso anche al reclamo contro i provvedimenti concernenti i permessi premio proposti da parte del detenuto o del Pubblico Ministero. Resta ferma, ha precisato la Corte, la possibilità per il legislatore di individuare – nel rispetto dei principi costituzionali sopra richiamati – un altro termine, se ritenuto più congruo, per lo specifico reclamo in esame.

La Corte Costituzionale ha quindi dichiarato costituzionalmente illegittimo l’Art. 30 ter comma 7 dell’Ordinamento Penitenziario nella parte in cui prevede, mediante rinvio al precedente Art. 30 bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio, è soggetto a reclamo al Tribunale di Sorveglianza entro 24 ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di 15 giorni.

Corte Costituzionale – Sentenza n. 113 del 2020 (clicca per leggere)

Carceri, Pubblicato il bando di concorso pubblico per 45 posti di Dirigente Penitenziario


E’ stato pubblicato, dopo 27 anni, un bando di concorso pubblico per esami per l’accesso alla carriera dirigenziale penitenziaria per complessivi 45 posti, a tempo indeterminato, di Dirigenti di Istituto Penitenziario di livello dirigenziale non generale.

Il quindici per cento dei posti, pari a sette, sono riservati ai dipendenti dell’Amministrazione inquadrati nella III area funzionale del ruolo comparto funzioni centrali ovvero nei ruoli direttivi del Corpo di Polizia Penitenziaria, in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 3 del bando e con almeno tre anni di effettivo servizio in queste posizioni.

La domanda di partecipazione al concorso deve essere redatta ed inviata esclusivamente con modalità telematiche, compilando l’apposito modulo.

Il concorso consisterà in tre prove scritte e una prova orale.

Le domande possono essere inoltrate dal 20 maggio 2020 al 18 giugno 2020.

TUTTI I DETTAGLI DEL CONCORSO PUBBLICO

IL BANDO DI CONCORSO 

Riattivata la sartoria nel Carcere di Castrovillari. Le detenute producono mascherine anti Covid


Mentre l’Italia era in lockdown e l’epidemia Covid manifestava tutta la sua virulenza, in molte realtà penitenziarie del Paese si è scelto di dare il proprio contributo nella lotta al virus, facendosi carico del confezionamento di mascherine.

Così in diverse strutture di pena ci si è ingegnati per capire come avviare la produzione. La Casa Circondariale di Castrovillari “Rosetta Sisca”, su input del suo Direttore Giuseppe Carrà, ha scelto di rimettere in attività la sartoria nella sezione femminile: “Certamente la difficoltà nel reperimento dei dispositivi di protezione individuale che in marzo risultavano introvabili, ha giocato un ruolo importante nella decisione di riattivare la sartoria, ma – ha raccontato Carrà – la valenza trattamentale del progetto ha dato la spinta propulsiva. Il carcere deve e può essere lo strumento per restituire alla società dei cittadini migliori”.

L’istituto calabrese non è nuovo a esperienze di inclusione sociale e di giustizia ripartiva e, nel solco già tracciato dalle precedenti esperienze, in tempi brevissimi, ha avviato il progetto-mascherine: tre detenute, abili nei lavori sartoriali, hanno immediatamente manifestato l’entusiasmo e la voglia di dare il loro contributo nei difficili giorni di emergenza per l’epidemia da Covid 19, “prestando il loro lavoro punto dopo punto, taglio dopo taglio, per ricucire, non solo il tessuto, ma anche lo strappo con la società”.

Come spiegato dal Direttore dell’Istituto Carrà “il lavoro è uno degli elementi fondamentali che la nostra legislazione prevede per la rieducazione, ancor di più quando si tratta di volontariato: l’auspicio è di distribuire gratuitamente questi fondamentali strumenti di tutela sanitari anche sul territorio”.

Il risultato ottenuto nella realizzazione della mascherine, di assoluto rilievo, è frutto della sinergia e del lavoro di squadra tra le diverse componenti che animano l’istituto calabrese, dall’area sicurezza con il Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria Carmine Di Giacomo, all’area trattamentale con il Funzionario Giuridico Pedagogico Luigi Bloise. I presidi sanitari, soggetti a specifica autorizzazione dell’Università degli Studi di Catania, contribuiscono così alla sicurezza dei cittadini e danno sostanza allo sforzo rieducativo di chi sta scontando la pena.

Complimenti all’Amministrazione Penitenziaria, centrale e periferica, per questa ennesima lodevole iniziativa ed alle tre sarte detenute per il loro prezioso contributo nella produzione e confezionamento dei dispositivi individuali di protezione per fronteggiare questa emergenza sanitaria.

 

 

Corte Costituzionale: il Magistrato di Sorveglianza può concedere la semilibertà in via provvisoria per pene fino a 4 anni


Il Magistrato di Sorveglianza può applicare, in via provvisoria, la misura della semilibertà al condannato a una pena detentiva non superiore a quattro anni, senza dover aspettare la decisione definitiva del Tribunale di Sorveglianza. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale presieduta da Marta Cartabia nella sentenza n. 74/2020 (redattore Francesco Viganò), depositata oggi, con la quale è stata ritenuta fondata una questione di legittimità costituzionale dell’Art. 50 comma 6 dell’Ordinamento Penitenziario «nella parte in cui prevede che il Magistrato di sorveglianza può applicare in via provvisoria la semilibertà solo in caso di pena detentiva non superiore a sei mesi» per violazione degli Artt. 3 comma 1 e 27 comma 3 della Costituzione, sollevata dal Magistrato di Sorveglianza di Avellino con Ordinanza del 12 marzo 2019.

La Corte ha osservato che la vigente legge sull’Ordinamento Penitenziario già consente al Magistrato di Sorveglianza di concedere in via provvisoria la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale al condannato che debba espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni. È allora irragionevole non consentirgli anche di anticipare la concessione della meno favorevole misura alternativa della semilibertà, quando il percorso rieducativo compiuto dal condannato non giustifichi ancora la sua completa uscita dal carcere, ma già consenta di ammetterlo a trascorrere parte della giornata fuori dall’Istituto Penitenziario. La necessità di attendere la decisione del Tribunale di Sorveglianza potrebbe infatti arrecare un grave pregiudizio al percorso rieducativo del condannato, soprattutto quando la sua istanza sia motivata da un’offerta di lavoro all’esterno del carcere, che normalmente ha una durata limitata nel tempo.

Per queste ragioni, la Corte Costituzionale, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’Art. 50 comma 6 dell’Ordinamento Penitenziario, nella parte in cui non consente al Magistrato di Sorveglianza di applicare in via provvisoria la semilibertà, ai sensi dell’Art. 47 comma 4 dell’Ordinamento Penitenziario, in quanto compatibile, anche nell’ipotesi prevista dal terzo periodo del comma 2 dello stesso Art. 50 (e dunque quando la pena detentiva da espiare sia superiore a 6 mesi, ma non a 4 anni).

Corte Costituzionale, Sentenza n. 74 del 2020 (clicca per leggere)

Coronavirus, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo chiama a rapporto l’Italia per le condizioni delle Carceri


images_cedu.jpgBonafede dovrà rispondere entro martedì. Le domande sono le stesse poste quasi un mese fa dalle Camere Penali. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiesto spiegazioni urgentissime all’Italia sulla condizione dei detenuti. Vuole una risposta chiara e dettagliata entro martedì prossimo. Ha rivolto al governo un bel numero di domande sulle condizioni delle nostre prigioni, sul sovraffollamento, sulle misure che l’Italia ha preso per fronteggiare il virus e sul perché non vengono utilizzati massicciamente i domiciliari.

La Cedu si è riunita per rispondere al ricorso urgente di un prigioniero al quale è stata negata la scarcerazione. L’avvocato Caiazza, che è il Presidente della Camere Penali, ha fatto notare che le domande della Cedu sono praticamente identiche alle dieci domande che le Camere Penali hanno rivolto quasi un mese fa al ministro e al governo, ottenendo il silenzio, o al massimo il solito mezzo sorriso abituale del ministro Bonafede davanti alle telecamere. Per l’Italia e per il suo governo è uno schiaffo in pieno viso. Non è bello essere indicati da un organismo serio e solenne quale è la Cedu come violatori di diritti essenziali dell’uomo.

Siamo l’Italia, non siamo un Paese disperso del terzo mondo e non siamo un Paese guidato da qualche spietata dittatura. Eppure, sul tema carceri siamo il fanalino di coda della civiltà occidentale. Insieme al Belgio. Come è possibile? È presto detto: nel nostro Paese la ventata populista, che sta accarezzando tutta l’Europa e l’Occidente, ha preso un sapore giustizialista che negli altri Paesi è meno forte.

Il populismo nel resto d’Europa, e anche in America, è più un fenomeno simile a tutti i fenomeni classici di radicalizzazione della destra. Ha un aspetto più tradizionale, anti-establishment, anti-sinistra, xenofobo. Ma non trova, in genere, motivazioni particolarmente radicate nel giustizialismo. Il giustizialismo non manca mai, certo, ma è una componente aggiuntiva.

Da noi è diverso. Il populismo parte da molto lontano, gode di un sostegno generalizzato dei mass-media, è costruito quasi interamente – in tutte le sue sfaccettature – sull’idea del giustizialismo come ideologia di salvazione della società e di contrasto alla modernità e ai suoi peccati.

Nasce addirittura 25 anni fa, non oggi, coi movimenti – solo in parte spontanei – a favore dei magistrati milanesi che stavano smantellando la Prima Repubblica e lo spirito della Costituzione; e poi cresce con la Tv di Santoro, con i Girotondi di Flores, con le campagne del Corriere della Sera contro la Casta, col popolo viola, e infine con i 5 Stelle e con la crescita velocissima della Lega di Salvini.

Questo giustizialismo – anche così variegato, che va da un pezzo del vecchio Pci fino alla Lega – ha bisogno di simboli. Non gli basta più il ricordo di Mani Pulite. E il simbolo allora diventa il carcere. È il carcere lo strumento principale del giustizialismo, è il carcere il cuore della sua idea, e il carcere deve essere difeso con le unghie e coi denti. Da tutti.

Persino dagli amici magistrati, se dissentono. L’Europa, il Papa, il Presidente della Repubblica, l’Onu, e poi gli avvocati, gli operatori del carcere, persino un bel pezzo di magistratura chiedono un intervento di riduzione del numero dei detenuti. Ma c’è il nucleo duro del giustizialismo che regge impavido, e si trascina dietro un bel pezzo di opinione pubblica e del sistema dei mass media. È guidato ormai da due o tre leader riconosciuti: Travaglio, Gratteri, Di Matteo.

E non molla neppure un centimetro. Costringendo gli stessi 5 Stelle – che sono al governo e quindi in una posizione delicata – a non cedere, a mantenere il punto. Il Pd gli va dietro. Il fronte giustizialista, anche sul piano della comunicazione, usa tutti i mezzi. Chi vuole decongestionare le carceri, chi considera il sovraffollamento un problema, è evidentemente amico della ‘ndrangheta, di Cosa nostra, della camorra.

Gli avvocati, soprattutto, i radicali, e quei pochissimi e isolatissimi giornalisti che si occupano di questo problema. Chissà se ora useranno lo stesso schema col Papa e con la Cedu. Vaticano uguale mafia, Europa uguale mafia. Non ci sarebbe niente di cui stupirsi.

Piero Sansonetti

Il Riformista, 11 aprile 2020

Coronavirus, Di Rosa (TdS Milano): Ministro Bonafede bisogna mandare i detenuti ai domiciliari. Lo Stato rispetti le sue Leggi


Giovanna Di Rosa Presidente TdS di MilanoLa Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa: “Non viene garantito il distanziamento sociale. Ci deve essere un meccanismo automatico per mandare a casa i detenuti”.

Quando lo Stato prende in carico una persona per fargli espiare una pena deve fare in modo che ciò avvenga in condizioni di legalità e di tutela delle esigenze di salute. Se non è possibile, cosa l’ha messa a fare in carcere? Che messaggio viene dato quando lo Stato per primo non rispetta le regole?”, tuona Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano.

La Presidente Di Rosa sta fronteggiando l’emergenza Covid-19 da un’aula d’udienza ubicata al piano terra del Palazzo di giustizia del capoluogo lombardo. Gli uffici della Sorveglianza, posti all’ultimo piano, sono andati distrutti la scorsa settimana a seguito di un violento incendio causato da un cortocircuito.

Presidente, com’è la situazione adesso?

Di disagio estremo. Siamo accampati. L’Ufficio di Sorveglianza di Milano aveva diverse stanze, adesso è concentrato in un unico ambiente al cui interno abbiamo allestito, in maniera estremamente precaria, cinque postazioni. Il problema è che non abbiamo i fascicoli: dobbiamo andarli a recuperare di volta in volta nel piano incendiato dove però non c’è più l’illuminazione ed è tutto avvolto dalla cenere.

E nelle carceri milanesi

La difficoltà principale, per mancanza di spazio, è quella di riuscire a garantire il “distanziamento sociale” per scongiurare il contagio. Ma non essendoci lo spazio per quelli in regime normale, che sono di più di quelli che dovrebbero essere.

Come ci si organizza?

A San Vittore, ad esempio, per creare le zone d’isolamento stanno pensando di chiudere il centro clinico. E i malati, allora, dove si mettono?

Alcuni giorni fa ha inviato, con la collega della Sorveglianza di Brescia Monica Lazzaroni, una nota al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede con alcune proposte per fronteggiare l’emergenza Covid. Può illustrarcene qualcuna?

Premesso che il sistema è responsabile del sovraffollamento, in questo momento di grandissima emergenza ci deve essere un meccanismo automatico per la concessione dei domiciliari.

Senza passare dal Magistrato di sorveglianza?

Esatto: l’applicazione della detenzione domiciliare, se vogliamo alleggerire le strutture, deve essere automatica. Ad esempio, per chi ha un residuo di pena sotto ai due anni e la disponibilità di un domicilio. Ovviamente non deve aver partecipato alle ultime rivolte. Le attuali procedure per la concessione delle misure alternative al carcere sono fatte per tempi ordinari e non sono compatibili con quelli della pandemia. Bisogna fare l’istruttoria, attendere il visto del pm, tutta una seria di passaggi che rendono lungo l’iter. Il diretto vivente deve adattare le sue norme alla situazione sanitaria.

Il ministro ha risposto?

A oggi (ieri per chi legge, ndr), no.

Anche il personale delle Sorveglianza è stato colpito dal virus?

I Tribunali di sorveglianza sono stati decimati, ci sono stati contagi, il personale è a casa autodecimato. Già per carenze di personale erano disorganizzati, ora hanno ricevuto il colpo di grazia.

La strada maestra è un provvedimento legislativo “chiaro”?

Sì. Penso anche a quello per non mandare in esecuzione ordini di carcerazione per sentenze che hanno avuto un lunghissimo iter processuale e arrivano a tanti anni dalla data di commissione del fatto. Non mi pare il caso adesso di procedere con nuovi accessi.

E per chi è in custodia cautelare?

Ci siamo già coordinati con il Gip e con la Corte d’appello affinché sia incentivata il più possibile la detenzione domiciliare.

Oltre alla mancanza di spazi, nelle carceri mancano pure le mascherine e i prodotti igienizzanti…

Ultimamente a Milano c’è stata una loro fornitura da parte di alcuni privati. Ma affidare allo spontaneismo la gestione delle carceri non può diventare un sistema: la solidarietà è un valore costituzionale che lo Stato deve rispettare.

Pensa che non ci sia piena consapevolezza dei rischi di un contagio di massa nelle carceri?

C’è esitazione ed incertezza. Non compete a me fare valutazioni politiche, penso però che qualsiasi decisione debba essere accompagnata dalla preventiva verifica dei luoghi. Io conosco benissimo le carceri e so come si vive al loro interno. Invito tutti a fare altrettanto, andando a vedere con i propri occhi e non da dietro un pc. Vuole aggiungere qualcosa? Voglio solo dire che, nonostante l’incendio, non ci siamo fermati neanche un giorno. L’impegno è massimo e saremo all’altezza della responsabilità che abbiamo.

Paolo Comi

Il Riformista, 7 aprile 2020

Detenuto 32enne con fine pena a novembre si impicca nel Carcere di Aversa. E’ il sedicesimo del 2020


agente penitenziario cancelloAncora un suicidio negli Istituti Penitenziari d’Italia. Un detenuto romeno, Emil V., 32 anni, si è tolto la vita impiccandosi con delle lenzuola all’alba nella sua cella che condivideva con altri quattro compagni. L’uomo era ristretto presso la Casa di Reclusione di Aversa “Filippo Saporito”, in Provincia di Caserta, per espiare una condanna definitiva per rapina che avrebbe terminato a novembre, tra pochi mesi. Purtroppo, nonostante i soccorsi immediati da parte del personale di Polizia Penitenziaria addetto alla sorveglianza, per il 32enne non c’è stato niente da fare.

In questo tempo così disperato e così intenso si continua a morire di carcere e in carcere. Emil era detenuto per rapina e sarebbe uscito a novembre. Non faceva colloqui, non aveva mai avuto sanzioni disciplinari. Gli altri suoi quattro compagni di cella non si sono accorti del suo gesto disperato. Sebbene il fenomeno dei suicidi in carcere sia in diminuzione, e aumentano i casi di autolesionismo, il suicidio di una persona privata della libertà, in particolare, costituisce, da un lato, il fallimento più evidente del ruolo punitivo dello Stato. E la politica e l’opinione pubblica vivono l’indifferenza. Lo dice Samuele Ciambriello, Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Campania.

La questione penale è seria e per essere concretamente valutata necessita di verità, trasparenza e di una riconsiderazione complessiva, e l’autolesionismo e in casi estremi il suicidio, rappresentano l’ultima residuale forma di reclamo, di richiesta di attenzioni da parte di un universo di disperati che, nella gran parte dei casi, non possiede molte altre alternative per far sentire la propria presenza.

Il carcere di Aversa – aggiunge il Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti – in questi giorni aveva attirato la mia attenzione, positivamente, per i provvedimenti fatti dal Magistrato di Sorveglianza per la detenzione domiciliare in seguito al Decreto 123, erano usciti 8 detenuti, altri 12 aspettano i fantomatici braccialetti e nove relazioni sanitarie sono in attesa delle decisioni del Magistrato. Il carcere è una lente particolare attraverso cui guardare la nostra società e, per tale ragione, chiedersi anche che fare dopo le restrizioni dei contatti con l’esterno causa corona virus non riguarda soltanto la vita dei detenuti, ma quella degli Agenti di Polizia Penitenziaria, dell’area educativa, delle direzioni delle carceri e degli operatori socio sanitari, conclude Ciambriello.

Con il decesso di Emil V. salgono a 48 i detenuti morti negli Istituti Penitenziari d’Italia dall’inizio dell’anno di cui 16 per suicidio.