Carceri, illegittimo il termine di 24 ore per impugnare il rigetto del permesso premio. Reclamo consentito entro 15 giorni


Un termine di sole 24 ore per presentare reclamo contro il provvedimento sui permessi premio lede il diritto di difesa del detenuto e rappresenta un indebito ostacolo alla funzione rieducativa della pena, alla quale i permessi premio sono funzionali.

Lo ha affermato la Corte Costituzionale con la sentenza n. 113/2020, depositata oggi (Presidente Marta Cartabia, Relatore Francesco Viganò), accogliendo la questione di legittimità costituzionale dell’Art. 30 bis comma 3, in relazione al successivo Art. 30 ter comma 7 dell’Ordinamento Penitenziario, per violazione degli Artt. 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, sollevata dalla Corte di Cassazione, Prima Sezione Penale, con Ordinanza del 13 novembre 2019, nella parte in cui prevedeva che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del Magistrato di Sorveglianza in tema di permesso premio era pari a 24 ore, analogamente a quanto previsto per il reclamo contro i provvedimenti sui permessi di necessità previsti dall’Art. 30 dell’Ordinamento Penitenziario, legati a situazioni di imminente pericolo di vita di familiari o altri gravi eventi eccezionali, sebbene fossero diversi i presupposti e le finalità.

L’eccessiva brevità del termine era già stata portata all’esame della Consulta che, con la sentenza n. 235 del 1996, aveva rilevato l’irragionevolezza dell’identico termine per il reclamo contro due diversi tipi di permesso e tuttavia aveva ritenuto di fermarsi all’inammissibilità delle questioni prospettate, non riuscendo a rintracciare nell’ordinamento una soluzione costituzionalmente obbligata che potesse porre direttamente rimedio alla, pur riscontrata, eccessiva brevità del termine in esame.

In quell’occasione il Giudice delle Leggi aveva però invitato il legislatore a «provvedere, quanto più rapidamente, alla fissazione di un nuovo termine che contemperi la tutela del diritto di difesa con le esigenze di speditezza della procedura». Esaminando nuovamente la questione a distanza di ventiquattro anni da quel monito, rimasto inascoltato, la Corte ha ribadito la contrarietà alla Costituzione di un termine così breve, che rende assai difficile al detenuto far valere efficacemente le proprie ragioni, anche per l’oggettiva difficoltà di ottenere in così poco tempo l’assistenza tecnica di un difensore; e ha individuato nella disciplina generale del reclamo contro le decisioni del Magistrato di Sorveglianza, introdotta dal legislatore nel 2013, un preciso punto di riferimento per eliminare il vulnus riscontrato. Questa disciplina, costituita dall’Art. 35 bis comma 4 dell’Ordinamento Penitenziario, prevede oggi un termine di 15 giorni per il reclamo al Tribunale di Sorveglianza, che la Corte Costituzionale ha pertanto esteso anche al reclamo contro i provvedimenti concernenti i permessi premio proposti da parte del detenuto o del Pubblico Ministero. Resta ferma, ha precisato la Corte, la possibilità per il legislatore di individuare – nel rispetto dei principi costituzionali sopra richiamati – un altro termine, se ritenuto più congruo, per lo specifico reclamo in esame.

La Corte Costituzionale ha quindi dichiarato costituzionalmente illegittimo l’Art. 30 ter comma 7 dell’Ordinamento Penitenziario nella parte in cui prevede, mediante rinvio al precedente Art. 30 bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio, è soggetto a reclamo al Tribunale di Sorveglianza entro 24 ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di 15 giorni.

Corte Costituzionale – Sentenza n. 113 del 2020 (clicca per leggere)

Permessi premio a detenuto, polemiche indegne del Consiglio Regionale e del Garante dell’Infanzia della Calabria


Leggo che il Consiglio Regionale della Calabria, nella seduta di ieri 10 ottobre, ha approvato un Ordine del Giorno di iniziativa del Consigliere Regionale Giuseppe Giudiceandrea (Democratici Progressisti), “Sulla vicenda sollevata dal padre di Fabiana Luzzi”, a quanto pare firmato da tutti i Capigruppo ed i Consiglieri Regionali presenti in Aula. In particolare, con il suddetto Ordine del Giorno, il Consiglio Regionale, ha deciso di contestare la concessione dei permessi premio a Davide Morrone, condannato per l’assassinio della giovanissima Fabiana Luzzi, di soli 16 anni, avvenuto il 24 maggio 2013 a Corigliano. “Era ciò che dovevamo al papà ed alla famiglia di Fabiana Luzzi e di tutte le donne vittime di femminicidio e violenza in Calabria” ha detto il Consigliere Regionale Giudiceandrea il quale ha riferito in Aula che l’assassino “sia uscito dal carcere ed è stato sottoposto ad una misura restrittiva meno afflittiva avendo già usufruito di ben tre permessi premio. Il fatto che in queste occasioni i genitori della 16enne che uccise, possano incontrarlo per le strade della propria città oltre ad essere assurdo, come lo trovano assurdo i familiari della giovane donna uccisa, contempla la possibilità di atti e schieramenti di affronto e violenza potenziale fra le persone, e la città di Corigliano Rossano non merita questo latente stato di tensione”.

“Benché nel rispetto della legge e della separazione dei Poteri dello Stato – ha continuato il Capogruppo di Democratici e Progressisti nel suo intervento – occorre un fermo intervento del Presidente e di tutta la Giunta, affinché anche per motivi di ordine pubblico oltre che di rispetto per le vittime di femminicidio in questo Paese, si facciano promotori di qualsiasi azione presso il Prefetto ed il Ministro di Grazia e Giustizia, affinché questa odiosa anomalia abbia fine, nel rispetto di chi ha diritto al recupero pieno al tessuto sociale dopo aver scontato la pena inflittagli dall’ordinamento giudiziario, ma anche e soprattutto della comunità di Corigliano Rossano, delle donne già vittime di violenza, di quelle che potrebbero subirla ma soprattutto alla famiglia di Fabiana Luzzi, la cui giovane vita, è bene ricordarlo ancora una volta, venne spezzata con inaudita violenza e nessuna umana pietà”.

Nei giorni precedenti anche il Garante Regionale dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Calabria Antonio Marziale, ha ritenuto opportuno intervenire pubblicamente in merito “sui permessi premio concessi all’assassino di Fabiana Luzzi, l’adolescente arsa viva dal fidanzato, anch’egli minorenne all’epoca dei fatti. Non voglio e, d’altro canto, non potrei, entrare nelle maglie del diritto, ma penso sia psicologicamente e socialmente sbagliata la tempistica. In cinque anni un soggetto non può maturare un pentimento pieno, non può interiorizzare il crimine commesso, che è da annoverarsi fra i più cinici mai compiuti”. “Certamente i magistrati hanno applicato quanto previsto dalla legge e indubbiamente il detenuto sarà fuori dal carcere prima dei 18 anni e 7 mesi cui l’ha condannato la Corte di Cassazione. Dunque, è dovere dello Stato metterlo in condizione di rientrare nella società quanto più possibilmente ravveduto e senza rappresentare un pericolo. Temo, però – ha precisato Marziale – che la concessione di premi così ravvicinati produca effetti più nefasti che positivi e, soprattutto, fa male ad una ferita ancora non rimarginata. Occorre tempo per lenire un dolore così forte, che non passerà mai del tutto, ed occorre altresì tempo perché chi ha ucciso con tanta ferocia elabori il male fatto”. Per il Garante Regionale dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Calabria, “è necessario che il legislatore cominci seriamente a pensare ad una revisione di tali modalità, che vanificano, così come adesso sono poste in essere, il continuo perpetuarsi di convegni e manifestazioni contro il femminicidio. Non si può chiedere alla comunità educante di fare leva sulle giovani generazioni se poi lo Stato è così tanto velocemente magnanimo contro chi uccide, minorenne o maggiorenne che sia. La prevenzione è importante, ma non più della repressione”.

Oramai è diventato di moda, cavalcare l’onda populista, facendo demagogia e disinformazione per riscuotere gli applausi del popolo sovrano, soprattutto quello analfabeta ed incivile, anche per affrontare tematiche molto particolari e delicate, come quella in questione, di cui non si conosce proprio nulla. Questa ondata di sdegno e polemica, pur comprensibile da parte dei familiari della vittima, non è invece tollerabile da parte delle Istituzioni Pubbliche ed ancor di più da parte di chi, almeno in teoria, dovrebbe essere il Garante della promozione e tutela dei diritti delle persone di minore età, tra cui quelle private della libertà personale.

Preliminarmente, ebbene chiarire che Davide Morrone, non è mai stato sottoposto ad alcuna “misura restrittiva meno afflittiva” come affermato dal Consigliere Giudiceandrea perché la sua posizione, sin dal maggio 2013, è quella di persona detenuta in regime inframurario. Quindi nessuna “attenuazione” dello status detentionis vi è mai stata sino ad oggi per il condannato che sta continuando ad espiare la giusta pena (18 anni di reclusione) che gli è stata inflitta dall’Autorità Giudiziaria competente per l’orrendo delitto di cui si è reso responsabile durante la minore età, commesso per futili motivi per contrasti sentimentali, senza alcuna premeditazione e con la diminuente del vizio parziale di mente (gli è stato riscontrato una “grave patologia psichiatrica”) che ha grandemente scemato, senza del tutto escluderla, la capacità di intendere e di volere, come sentenziato sia dalla Sezione Minorenni della Corte di Appello di Catanzaro (17/12/2014) che dalla Corte Suprema di Cassazione (01/03/2016). Morrone, già da subito, infatti, per come dimostrano le relazioni psicologiche e comportamentali degli specialisti dell’Amministrazione Penitenziaria (Istituti Penitenziari Minorili di Catanzaro e Torino), ha posto in essere “un percorso progressivamente diretto alla presa di coscienza e di sincero pentimento rispetto al delitto commesso”.

Non c’è alcuna “odiosa anomalia” (come la chiama il Consigliere Regionale Giudiceandrea) di cui debba occuparsi il Prefetto o il Ministro della Giustizia poiché l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali nonché la concessione di benefici o misure penali di comunità, spetta esclusivamente all’Autorità Giudiziaria e, nel caso specifico, alla Magistratura di Sorveglianza Minorile (e non ad altre Autorità Amministrative o Politiche).

Quanto alle affermazioni del Garante Marziale che sollecita il legislatore a rivedere le modalità di concessione dei benefici ai detenuti, sicuramente non conosce che il legislatore proprio di recente, dopo un lungo e travagliato percorso – ad oltre quarant’anni di distanza dall’Ordinamento Penitenziario (Legge n. 354/1975 del 26/07/1975) e da quella disposizione transitoria dell’Art. 79 che estendeva la disciplina esecutiva prevista per gli adulti anche ai condannati minorenni – ha finalmente approvato l’Ordinamento Penitenziario Minorile con Decreto Legislativo n. 121/2018 del 02/10/2018, in attuazione dell’Art. 1 comma 81, 83 e 85 lett. p) della Legge delega n. 103/2017 del 23/06/2017, raccogliendo le sollecitazioni provenienti dalla Corte Costituzionale che già dal 1992 segnalava al Parlamento che l’assenza di ogni diversificazione nel regime trattamentale tra adulti e minorenni comprometteva «quell’esigenza di specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento che l’evolutività della personalità del minore e la preminente funzione educativa richiedono» (Corte Costituzionale, Sentenza n. 125/1992 del 25/03/1992) nonché le indicazioni provenienti dalle fonti di diritto europeo ed internazionale relative ad una giustizia penale “a misura di minore” (Regole di Pechino del 1985, Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, Regole dell’Avana del 1990, Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei minori del 1996, le Raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, etc.), già da tempo ratificate dall’Italia. Non si capisce, dunque, quale “revisione” il legislatore dovrebbe effettuare, visto che è stata appena varata (non è trascorso nemmeno un anno) una “legge speciale” relativa all’esecuzione penale minorile che regolamenta anche i “permessi premio” (si chiamano così perché differiscono dai “permessi di necessità” concedibili eccezionalmente per eventi luttuosi) ed in virtù della quale il detenuto Morrone, ha ottenuto la concessione dei benefici premiali !

Infatti, lo stesso, trovandosi ristretto prima in custodia cautelare e poi in espiazione di pena dal maggio 2013 ad oggi, ha “scontato” 6 anni di reclusione, ai quali vanno aggiunti i semestri per la liberazione anticipata pari ad 1 anno e 6 mesi, quindi 7 anni e 6 mesi di pena espiata rispetto ai 18 anni di reclusione che gli sono stati comminati. Orbene, l’Art. 30 ter c. 4 lett. b) dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 prevede che al detenuto condannato ad una pena superiore a 4 anni di reclusione per poter avere accesso ai “permessi premio”, oltre ad una serie di requisiti, debba aver espiato almeno un quarto della pena (7 anni e 6 mesi sono più di un quarto di 18 anni). Qualcuno dirà (anzi lo ha già detto), ma si tratta di un omicidio per cui essendo reato ostativo (Art. 4 bis O.P.) avrebbe dovuto espiare almeno metà della pena ed invece così non è perché la “legge speciale” (Ordinamento Penitenziario Minorile del 2018) che deroga quella generale, all’Art. 2 c. 3, prevede che «Fermo quanto previsto all’Articolo 1, comma 1, ai fini della concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio e per l’assegnazione al lavoro esterno, si applica l’Articolo 4 bis, commi 1 e 1 bis, della Legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni.» Il reato di omicidio (Art. 575 c.p.) non rientra né nel comma 1 né nel comma 1 bis ma nel comma 1 ter dell’Art. 4 bis O.P. per cui si applica, come detto, l’Art. 30 ter c. 4 lett. b) O.P. che per l’ammissione al beneficio premiale prevede l’aver espiato almeno un quarto della pena in esecuzione.

Naturalmente per poter fruire dei benefici premiali, non basta solo aver espiato la pena, occorre avere mantenuto regolare condotta, non essere socialmente pericolosi, partecipato al trattamento e che tali benefici siano inclusi nel “progetto di intervento educativo” elaborato dall’Istituto Penitenziario Minorile in cui si è ristretti, secondo il principio della personalizzazione delle prescrizioni e della flessibilità educativa, previo ascolto del condannato, utile al recupero sociale e alla prevenzione del rischio di commissione di ulteriori reati. Tale progetto viene costantemente aggiornato, considerati il grado di adesione alle opportunità offerte, l’evoluzione psicofisica e il percorso di maturazione e di responsabilizzazione, assicurando la graduale restituzione di spazi di libertà in funzione dei progressi raggiunti nel percorso di recupero. Ciò in piena linea con quanto, tra l’altro, stabilisce la Convenzione delle Nazioni Unite del 1989 che riconosce al minore condannato «il diritto ad un trattamento tale da favorire il suo senso della dignità e del valore personale» e prescrive da ultimo che la detenzione o l’imprigionamento devono «costituire un provvedimento di ultima risorsa ed avere la durata più breve possibile».

Sempre con riferimento alla “tempistica” di concessione del permesso premio, sollevata dal Garante Regionale dell’Infanzia (evidentemente, per lui, sono pochi 7 anni e 6 mesi di carcerazione), mi pare doveroso evidenziare come per il condannato alla pena dell’ergastolo siano richiesti, per l’ammissione ai benefici premiali, solo 10 anni di pena espiata. Credo che, detto questo, non ci sia più bisogno di aggiungere altro al riguardo !

Emilio Enzo Quintieri

già Consigliere Nazionale Radicali Italiani