Gratteri ha già pronta l’anti-riforma della giustizia. Trapelano i punti cardine delle proposte della Commissione presieduta a Via Arenula dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Una vera e propria spada di Damocle sullo stato di diritto.
Forse non tutti lo sanno ma il pm antimafia Nicola Gratteri presiede anche una commissione ministeriale per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità. L’Ansa ha fatto trapelare le prime indiscrezioni sulle sue proposte. I punti focali sono un concetto di giustizia come negazione del diritto di difesa, l’umiliazione del ruolo dell’avvocato difensore, l’annichilimento delle garanzie del giusto processo e della certezza della prova.
Si era detto disponibile a diventare ministro della Giustizia per il governo Renzi, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, a patto di avere la libertà di realizzare le cose che aveva in testa. La nomina sembrava certa prima che Renzi salisse al Colle. Poi il nulla di fatto. Uno stop del presidente Napolitano, pare, determinato da ragioni di opportunità.
Un magistrato ancora in servizio attivo non dovrebbe rivestire incarichi politici, tanto più che al ministro della Giustizia spettano compiti vistosamente incompatibili con il ruolo di pm dell’antimafia rivestito da Gratteri, quali la firma sui decreti di applicazione e proroga dei 41 bis.
Allora la nomina del ministro Orlando con il suo passato di garantista, anti manette facili, contro l’ergastolo e l’obbligatorietà dell’azione penale. Certo è che sul fronte della garanzia dei diritti nessun passo sembra essere stato mosso. Intanto l’Ansa rende note le linee guida della riforma voluta da Gratteri.
Sì, perché il pm antimafia presiede la commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità, istituita presso Palazzo Chigi. I punti focali delle proposte di modifica appaiono una stridente espressione di una impostazione del concetto di “giustizia” come negazione del diritto di difesa, umiliazione del ruolo dell’avvocato difensore, annichilimento delle garanzie del giusto processo e della certezza della prova, disattenzione alle logiche deflattive dei giudizi a vantaggio della celere definizione dei processi, superamento del principio del favor rei e perfino confusione tra i ruoli – e già ce n’è troppa – tra chi esercita l’azione penale e chi giudica.
Il primo punto riguarda la parificazione, in termini sanzionatori, del partecipe ad associazione mafiosa al partecipe ad associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Pene fino a trent’anni di reclusione – tuona Gratteri – per i mafiosi che, a suo dire, temono solo le condanne per omicidio, che possono comportare l’ergastolo, e per la droga, che comportano pene assai severe. Un aumento sanzionatorio, quello prospettato, che appare già un abominio giuridico se si pensa che la contestazione di partecipazione non viene certo mossa soltanto ai boss ma a piccoli fiancheggiatori con una capacità criminale a volte infima che sarebbe quanto meno spropositato punire con sanzioni così follemente afflittive.
Cadrebbe il divieto di re-formatio in pejus in sede di appello proposto dal solo imputato. In parole povere: oggi, se la procura non impugna la sentenza di condanna a carico dell’imputato e tacitamente si dichiara soddisfatta dell’esito del giudizio, opera un divieto per i giudici dell’appello di aggravare la condanna emessa dal primo giudice.
È un principio di civiltà che, nel nostro ordinamento, risponde anche alla divisione di funzioni operata dal codice di rito. È il pm che esercita l’azione penale. Se ritiene che la condanna a carico dell’accusato sia coerente all’atto di accusa che ha formulato, nessun potere è dato al magistrato giudicante di ravvisare nuovi elementi di responsabilità dai quali far scaturire inasprimenti sanzionatori. Ancora: verrebbe abrogato il rito abbreviato, la possibilità, cioè, per l’imputato di scegliere di essere giudicato con il materiale di prova raccolto nelle indagini rinunciando a un processo in aula nel quale confutare gli esiti istruttori raccolti dalla pubblica accusa con conseguente sconto di pena in caso di condanna.
Una modifica normativa del genere comporterebbe la paralisi definitiva dei tribunali. L’accesso al rito abbreviato, infatti, determina il venir meno di centinaia di udienze, di video conferenze, di traduzioni in aula di detenuti, di trasferimenti in località protette di collaboratori di giustizia, un abbattimento considerevole dei costi e dei tempi della giustizia.
La logica della cancellazione di tale rito – che peraltro santifica l’operato dei pm poiché sottopone ai magistrati che giudicano, quale prova da valutare, solo l’esito delle attività di indagine – appare del tutto incomprensibile. Non trova, peraltro, alcuna compensazione nell’ulteriore progetto di ampliare l’accesso al patteggiamento a tutti i reati. La proposta appare incoerente se si pensa che lo stesso Gratteri ha più volte parificato patteggiamento e rito abbreviato definendoli “sconti fatti alle mafie”.
Diverso sarebbe se, come sembra, l’accesso al patteggiamento venga subordinato alla confessione, sulla bontà e pienezza della quale è ipotizzabile si preveda il parere del pm e il vaglio del magistrato. Si apre la prospettiva a derive incostituzionali di coazione psicologica all’accusato che sarebbe indotto a confessare e ad indicare i corresponsabili per accedere al solo rito -abrogata la previsione dell’abbreviato – che permetta uno sconto di pena. Non è finita! Il progetto di modifica contempla l’estensione ai legali, in solido con i propri assistiti, del pagamento delle spese processuali in caso di ricorso dichiarato inammissibile.
Una norma che se esistente spazzerebbe via del tutto il diritto di difesa e troncherebbe ogni anelito di giustizia inibendo di fatto gli avvocati dal prospettare questioni giuridiche talora innovative e creative per non correre il rischio di subire un danno economico. L’avvocato è per sua essenza sentinella del diritto. Studia le norme, le loro interpretazioni e implicazioni, le rapporta in aula con il caso concreto, ne osserva l’applicazione al fatto e le illogicità, le storture e le abnormità e se ne fa portavoce. È una voce di garanzia, quella dell’avvocatura, che non può, non deve essere menomata! Ancora: videoconferenze per tutti i detenuti per i reati più gravi. Nessun imputato potrebbe più essere presente in udienza.
Verrebbe meno radicalmente l’oralità del processo penale. La videoconferenza, infatti, già prevista per i soli detenuti in 41 bis, vanifica, di fatto, la possibilità di intervenire in aula in corso di giudizio. Mentre il detenuto in saletta video chiede il permesso di intervenire, o di comunicare telefonicamente con il proprio difensore in aula, il processo si svolge, va avanti e rende inutile la pretesa legittima del detenuto.
Questa follia antigiuridica, finora accettata – seppur inaccettabile – per i 41 bis in ragione del prevalere di logiche di sicurezza, dovrebbe essere estesa ad una enorme categoria di detenuti che verrebbero di fatto estromessi dalla partecipazione attiva ai processi. Verrebbe abolito l’appello incidentale, ossia l’impugnazione proposta dall’imputato per contrastare quella del pm, con vistoso detrimento del principio costituzionale del favor rei.
Sarebbe introdotta la declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni in appello per manifesta infondatezza, con un iter che in sostanza ricalcherebbe quello analogo già operante in Cassazione: soppressione, dunque, ancorata a parametri discrezionali, di un grado di giudizio di merito e insensata ed illusoria attribuzione ad un solo giudicante delle sorti dell’imputato.
L’abolizione del ricorso per Cassazione per vizio di motivazione che sottrarrebbe al giudice di legittimità il potere di annullare le sentenze illogiche o contraddittorie: una grave menomazione delle garanzie difensive se solo si pensa al frequente approdo, alla Corte di Cassazione, di sentenze di condanna che poggiano interamente sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia in relazione alle quali fondamentale appare che il giudice di legittimità preservi il compito di verifica di coerenza e logicità dell’apparato motivazionale.
La militarizzazione degli istituti penitenziari che avrebbero, come direttori, non più civili bensì commissari di polizia penitenziaria. Un controllo interno, dunque, che non sfugge alle ansie di meccanismi corporativi (un pò come il Csm che giudica i magistrati!). Una serie, dunque, di ipotesi normative nella sostanza antigiuridiche e costituzionalmente illegittime, una minaccia concreta al giusto processo, una spada di Damocle sullo stato di diritto.
Maria Brucale
Il Garantista, 16 ottobre 2014
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