Prof. Palazzo (UniFirenze): Imporre agli ergastolani di collaborare è da Stato di Polizia, non da Stato di Diritto


Ancor prima di quella collegata alla rieducazione vi è più prosaicamente l’anima utilitaristica di spingere il condannato a rendere più agevole e penetrante il compito investigativo delle autorità.

L’ergastolo ostativo, originariamente previsto per alcuni reati associativi molto gravi, è stato esteso successivamente, mediante una serie di aggiunzioni, a reati che possono non avere niente a che fare con le organizzazioni criminali.

Il punto centrale della sua disciplina (che gli è valsa la qualificazione di “ostativo”) è noto: salve le ipotesi di collaborazione impossibile (perché il condannato niente sa) o irrilevante (perché l’autorità già sa tutto), l’accesso agli istituti di progressiva risocializzazione presuppone che il condannato “collabori” – magari a distanza di anni dal fatto – con l’autorità rivelando ciò che sa, segnatamente in ordine alla partecipazione di eventuali correi.

Solitamente si pensa che il requisito della collaborazione sia giustificato in ragione del fatto che senza di essa sarebbe impensabile la dissociazione del reo dall’originario ambiente criminoso e dunque impossibile un giudizio diagnostico/prognostico di cessata pericolosità. In sostanza, si collega funzionalmente la collaborazione a quella finalità rieducativa che non mancherebbe neppure nell’ergastolo in quanto, appunto, suscettibile di aperture progressive alla libertà.

A ben vedere le cose, però, il fondamento giustificativo della collaborazione come chiave di accesso ai “benefici” ha una doppia anima. Forse ancor prima di quella collegata alla rieducazione vi è più prosaicamente l’anima utilitaristica di spingere così il condannato – specie se intraneo ad organizzazioni criminose – a rendere più agevole e penetrante il compito investigativo delle autorità. Se si assume chiara consapevolezza di questa doppia anima dell’ostatività, ne discendono rilevanti conseguenze in punto di costituzionalità della preclusione. Fino a che quelle due anime vanno d’accordo, nel senso che la mancata collaborazione esprime nel caso concreto la persistenza della pericolosità ostacolando nello stesso tempo l’esauriente accertamento processuale, nulla quaestio (legitimitatis), essendo giustificata la perpetuità della pena sulla base dell’ormai consolidata giurisprudenza costituzionale e Cedu in materia di ergastolo.

Ma quando le due anime si dividono perché la mancata collaborazione non esprime la persistenza della pericolosità, essendo ad esempio motivata dalla volontà di non esporre sé o i propri congiunti a vendette o ritorsioni o essendo ispirata a ragioni morali di non nuocere ad altri, avendo però il condannato percorso positivamente il suo itinerario rieducativo, allora le cose cambiano radicalmente. È chiaro, infatti, che in tali ipotesi l’ostatività non può che fondarsi sull’esclusiva anima dell’agevolazione dell’accertamento processuale.

È come dire: tu puoi collaborare ma non lo fai, e allora non m’interessa se hai già raggiunto il risultato risocializzativo che sarebbe sufficiente ad uscire dal carcere e a rompere la perpetuità della pena. Ciò significa, in breve, che l’anima “processuale” dell’ostatività prevale su quella “rieducativa”. Ma questo bilanciamento è palesemente contrario alla Costituzione: mentre, infatti, la rieducazione è un valore espresso in Costituzione e dalla Corte costituzionale affermato in termini sempre più perentori e ricollegato dalla Corte di Strasburgo addirittura alla stessa dignità umana, l’agevolazione processuale coatta non solo non trova riconoscimento in Costituzione ma un suo sistematico uso quale strumento ormai pressoché ordinario per l’accertamento dei reati dovrebbe suscitare serissime perplessità. In fondo, si profilerebbe la trasformazione dello Stato di diritto in uno Stato di polizia, quasi esonerando l’autorità dal suo compito d’accertamento per trasferirlo coattivamente sui cittadini.

Questo è lo sfondo inquietante su cui si pone la quaestio legitimitatis dell’ergastolo ostativo. Ma non c’è nemmeno bisogno che la Corte costituzionale s’impegni expressis verbis su tale piano. Infatti, anche accreditando l’ostatività di un’anima (nobile) in funzione esclusivamente rieducativa, la preclusione si rivela chiaramente affetta da un’intrinseca irrazionalità.

Che senso ha precludere i benefici a chi rifiuta di collaborare per ragioni che non solo non siano incompatibili con la cessazione della pericolosità, ma che – tutto al contrario – possono addirittura essere espressione e conferma dell’avvenuto processo di risocializzazione? Sembra poi addirittura superfluo precisare che l’abolizione della presunzione assoluta non significherebbe rimettere tout court in libertà schiere di pericolosi mafiosi o incalliti delinquenti: è chiaro che l’ammissione ai benefici presuppone pur sempre un accertamento in concreto da parte del giudice di sorveglianza dell’assenza di pericolosità, costituendo indubbiamente la mancata collaborazione un importante indicatore negativo, ma niente di più e niente di meno di un indicatore. Se poi non ci si fidasse dei giudici, allora sarebbe un altro discorso: alla fine del quale, però, si staglierebbe nuovamente l’ombra dello Stato di polizia.

Francesco Palazzo, Emerito di Diritto Penale Università degli Studi di Firenze

Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2019

Adriano Sofri, ex Leader di Lotta Continua : Una condanna è per sempre


Adriano-Sofri«Fine pena mai» è la tetra formula che compare sulle cartelle biografiche delle persone condannate all’ergastolo in Italia. Fino al 1987 voleva dire che il detenuto sarebbe morto dietro le sbarre, poi con la riforma dell’ordinamento, è stato stabilito che dopo 10 anni si può accedere ai permessi, dopo 20 alla semilibertà e dopo 26 alla libertà condizionale. Funziona così (eccetto per i condannati per i reati ostativi – Art. 4 bis O.P., che nello specifico caso degli ergastolani sono la maggior parte, che non usciranno mai più dal Carcere, neanche per brevi permessi, se non dopo morti, salvo che collaborino con la Giustizia ai sensi dell’Art. 58 ter O.P. Emilio Quintieri).

Adriano Sofri è stato condannato nel 1990 a 22 anni di carcere in quanto mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. È uscito nel 2012 per decorrenza dei termini. Il processo, invero, fu controverso: lui si è sempre assunto la ‘responsabilità morale’ dell’omicidio, ma ha sempre negato ogni responsabilità diretta, ritenendosi innocente dal punto di vista penale. Comunque uno la voglia mettere, lasciando da parte il merito delle accuse e ogni valutazione sui cosiddetti Anni di Piombo (a proposito, sarebbe anche il caso di cominciare a parlare di certi temi inquadrandoli da un punto di vista storico, prima o poi. Ma questo è un altro discorso), Adriano Sofri è oggi un uomo libero a tutti gli effetti: ha scontato la sua pena, può andare dove preferisce e fare quello che vuole. Questo dovrebbe essere pacifico in ogni stato di diritto, in ogni democrazia, ovunque. Poi è venuto fuori che il 19 giugno scorso il ministero della Giustizia ha indicato proprio Sofri tra i membri di uno dei tavoli di lavoro che il governo vorrebbe mettere in piedi per riformare il sistema carcerario italiano, una delle vergogne più grandi del paese, definito a più riprese dagli osservatori indipendenti come «disumano e degradante».

La nomina di Sofri avrebbe una certa logica, a ben guardare: a parte che ogni detenuto potrebbe offrire prospettive interessanti sulle patrie galere, bisogna riconoscere che l’ex Lotta Continua è uno dei massimi esperti italiani sul tema. Ne ha scritto spesso sui giornali, nel 2002 diede alle stampe il libro «Altri Hotel», uno dei documenti più importanti per capire la detenzione e quello che vuol dire. Insomma, è una voce che verrebbe ascoltata ovunque proprio perché competente in materia. Ovviamente le cose non sono andate così. Circostanza in effetti ovvia a guardare la qualità del dibattito italiano in generale e sulle carceri in particolare. Così, la polemica è scoppiata con un comunicato del Sappe (il sindacato degli agenti di polizia penitenziaria) che ha bollato la scelta del ministero come «inaccettabile, inammissibile, intollerabile e insopportabile», ha invocato l’intervento di Mattarella, ha buttato lì che «gli italiani onesti e con la fedina penale immacolata pagheranno con le loro tasse le trasferte, i pasti ed i gettoni di presenza» al reprobo e suggellato il tutto con quello che probabilmente ritenevano essere un paradosso: «E’ come far sedere Totò Riina al tavolo di revisione del 41 bis».

Sui social network c’è voluto pochissimo perché scoppiasse il finimondo. Su Twitter l’hashtag #Sofri è schizzato in testa ai trend topic nel giro di pochi minuti. Alla fine, proprio Sofri ha annunciato che, dopo essere stato semplicemente interpellato al telefono, non parteciperà ai futuri tavoli a tema, ritenendo di averne abbastanza «delle fesserie in genere e delle fesserie promozionali in particolare». La risposta, recapitata al Foglio, smonta una per una le accuse piovute dal sindacato di Polizia: Sofri ha dichiarato di aver esplicitamente richiesto di non ricevere nemmeno un centesimo per la sua consulenza e ha aggiunto che comunque «Riina, benché non sia necessariamente ‘il massimo competente del 41 bis’ ne è certo competente: e troverei del tutto ragionevole che, in una seria indagine sulla realtà del 41 bis, venisse anche lui interpellato in qualità di ‘competente’. Questo genere di competenza ed esperienza non ha infatti a che fare con l’innocenza, o la colpevolezza, o la gravità della colpevolezza, di chi finisce in carcere».

Il problema, a guardare la qualità della polemica e degli intervenuti, è che il dibattito pubblico italiano si conferma spaventosamente manettaro, quando si parla di giustizia e di ingiustizia. Chi ha subito una condanna, può anche averla scontata tutta fino all’ultimo giorno, ma sarà sempre e comunque destinato a dover subire l’ostracismo da parte del sedicente consesso civile. La riabilitazione non esiste e sembra quasi che la galera sia esclusivamente uno strumento punitivo per chi ha fatto il cattivo, cosa che non sta scritta nemmeno sul Codice di Hammurabi.

Per non dire che, nel caso specifico, non si dibatte della colpevolezza o dell’innocenza di Sofri, ma semplicemente di quello che potrebbe essere il suo parere su un tema per il quale lui è indubbiamente preparato, sia nella teoria sia nella pratica. Ma la cosa più scoraggiante in assoluto è che il dibattito pubblico in tema di giustizia sembra valere soltanto quando si parla di «tintinnar delle manette», possibilmente tante, alla faccia della Costituzione, dello stato di diritto, dell’umanità e del buon senso. Ma nel paese in cui un avviso di garanzia è già una condanna, in fondo, non dovrebbe stupire che il fine pena sia sempre mai.

Mario Di Vito

23 Giugno 2015, http://www.glistatigenerali.com

Leva (Pd) : “Piegare per forza il diritto penale alle logiche del consenso è quanto di più sbagliato ci possa essere”


On Danilo Leva Partito Democratico“Immaginare che la lotta alla corruzione si possa svolgere solo ed esclusivamente con un aumento delle pene ed un allungamento della prescrizione è una illusione. Può essere utile se un partito desidera che i sondaggi gli siano favorevoli, ma non serve a risolvere il problema della corruzione”. Danilo Leva, avvocato, parlamentare del Pd, già responsabile Giustizia del partito durante la segreteria Epifani, considera non tutte positive le iniziative di riforma della giustizia messe in campo dal governo di Matteo Renzi. “Con questi interventi non si va al cuore dei problemi e non li si affrontano per quelli che sono. L’impostazione di fondo è quella di rincorrere l’ opinione pubblica con soluzioni che, si è certi, ne incontrano il favore. Ma è sbagliato e sicuramente poco efficace per rendere davvero efficiente il sistema giudiziario: piegare per forza il diritto penale alle logiche del consenso è quanto di più sbagliato ci possa essere”.

I problemi, però, esistono davvero. E troppi processi finiscono con una prescrizione. Come va affrontato allora questo handicap, che giustamente desta anche proteste e rabbia, soprattutto quando sono in gioco inchieste che riguardano l’uso del denaro pubblico?

“Quando si parla di prescrizione ci vuole equilibrio. Non bisogna dimenticare che è un principio a garanzia del cittadino, il quale ha diritto a un processo dalla durata ragionevole. Allungare i termini della prescrizione a dismisura, come è stato fatto, non va bene. A causa del combinato disposto dell’aumento della pena e dell’aumento della prescrizione, più tutti i meccanismi di sospensione tra i diversi gradi di giudizio, si arriva, per alcune tipologia di reati, a oltre 15 anni. Si arriva al paradosso che un cittadino si può veder comminare una condanna dopo oltre15 anni. In uno stato di diritto come il nostro, con un sistema della pena improntato alla prevenzione e alla rieducazione, arrivare alla pena dopo così tanti anni, a chi è utile? E’ utile a far aumentare  un punto nei sondaggi, ma non  a costruire un sistema penale efficiente”.

Però il sistema penale va reso più efficiente, altrimenti non solo non funziona bene, ma troppe persone vengono per anni pubblicamente messe di fronte al paese come possibili rei, e poi o finiscono prosciolti o prescritti, o se sono colpevoli, patteggiano in tempi brevi pene che limitano il rischio di finire al fresco e scompaiono dalle inchieste.  

“Non ci sono scorciatoie: bisogna accorciare i tempi del processo, rendendo più efficiente la macchina della giustizia, e bisogna essere efficaci, con pena certa, che produca effetti, rimuovendo la differenza tra pena edittale, pena comminata e pena effettivamente eseguita. Oggi non c’è nulla di tutto questo. Qualche passo in avanti è stato fatto, naturalmente. Penso alla riforma della responsabilità civile e a quella della custodia cautelare. Ma rischiano di essere vanificati da questo continuo rincorrere la pancia degli italiani, invece di affrontare i problemi. Senza considerare le contraddizioni. Con una mano si aumentano le pene per il furto in appartamento e con l’altra si introduce l’istituto della tenuità del fatto, peraltro declinato in modo discutibile”.

Che i processi debbano essere più veloci è chiaro. Ma quali iniziative si devono prendere per ottenere sul serio questo risultato?

“Intanto dovremmo fare una riflessione  vera sulla fase delle indagini preliminari. Segnalo in proposito che oggi la maggior parte dei processi si prescrive nella fase delle indagini preliminari. Non è un fatto fisiologico. Quindi credo che sia necessario aprire una riflessione vera per capire ciò che accade. Per esempio, io penso che sarebbe necessario e utile introdurre alcuni termini di fase, relativi alle indagini preliminari, molto più stringenti anche rispetto a quelli che abbiamo oggi”.

I termini già esistono. Perché non funzionano?

“La verità è che, chiuse le indagini preliminari, il pm non ha l’obbligo di esercitare subito l’azione penale. Può farlo subito come due anni più tardi. Ecco. Questo per esempio è un meccanismo che rischia di trasformare l’obbligatorietà dell’azione penale in discrezionalità, che è ben altra cosa”.

E allora?

“E allora potremmo collegare la durata ragionevole del processo alla sospensione o meno dei termini di prescrizione tra il primo, il secondo grado e il terzo grado. Nel senso che i termini stessi si posso sospendere se il pm ha esercitato l’azione penale entro un tot di tempo, altrimenti non si può dar corso alla sospensione. D’altra parte, il processo non può trasformarsi né in un giudizio anticipato di colpevolezza, né tantomeno  una sorta di calvario che poi mortifica la dignità stessa del cittadino”.

Non sono proposte semplici da spiegare all’opinione pubblica…

“Quando si fanno le riforme bisogna capire quali obiettivi di fondo bisogna raggiungere, quale strada bisogna percorrere. Non è l’andare in sé l’obiettivo. Ma l’andare in una direzione. E secondo me la direzione è che bisogna costruire un sistema penale sicuramente efficiente e che torni a fare il suo mestiere. Anche dal punto di vista della prevenzione. Per esempio, i reati contro la Pubblica Amministrazione andrebbero perseguiti con determinazione, introducendo anche  strumenti investigativi che siano  forti, come quelli oggi in vigore per combattere i reati di mafia. Così combatti la corruzione, non con misure di propaganda….”

E le intercettazioni? Sono indispensabili per trovare le prove ma troppo spesso finiscono sui giornali anche conversazioni che non c’entrano con il reato da perseguire.

“Nell’ordinamento già esiste l’udienza stralcio. E le intercettazioni sono uno strumento indispensabile per le indagini quale mezzo di  ricerca delle prove. E’ uno strumento che da questo punto di vista non va assolutamente indebolito. Quel che si può e si dovrebbe fare è introdurre un sistema di responsabilità oggettive per la fuga di notizie. Beninteso, responsabilità di chi lascia fuggire le notizie, non certo del giornalista che utilizza le informazioni: lui fa solo il proprio mestiere. Tanto è vero che quando le notizie, come dire?, non devono uscire, non escono mai, quando invece fa comodo farle uscire escono sempre. Non possiamo prendercela con i giornalisti. Il tema riguarda la fonte. C’è già l’obbligo di non mettere nelle ordinanze le trascrizioni delle intercettazioni non pertinenti. Chi è che non lo rispetta? Perché non lo rispetta? Perché informazioni che non devono circolare circolano? La responsabilità è di chi lascia circolare quelle informazioni. Ma questi sono solo alcuni temi nell’ambito della riforma della giustizia. Per esempio: si può pensare a una riforma del Csm?”

Parliamo anche di struttura. Di attrezzature. Ce ne sono a sufficienza per rendere i processi più rapidi, è un problema di organizzazione o di mezzi?

“Mi limito a ribadire che riformare la giustizia senza soldi e senza investimenti è impossibile. Se un cancelliere lavora fino alle due di pomeriggio e non anche di pomeriggio perché non ci sono i soldi per gli straordinari, è inutile pensare al processo veloce. Certo, in molti casi è anche un problema di organizzazione. Ma la vera riforma della giustizia è questa: vogliamo velocizzare i processi? Non c’è bisogno di norme strane. Bisogna consentire di avere personale nelle cancellerie, consentire l’affermazione del processo telematico, bisogna insomma mettere qualche soldo su questo grande obiettivo di modernizzazione. La bacchetta magica è questa”.

Roberto Seghetti

http://www.ilcampodelleidee.it – 09 Maggio 2015

Paola (Cosenza), Per il Pm dare il diritto di parola ad un imputato sul giornale è favoreggiamento alla mafia


Palazzo di Giustizia di PaolaDa 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perché vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il diritto a difendersi, no? E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza “favoreggiano la mafia…”

Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? È una domanda, a mio avviso superflua -soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica.

In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà.

Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza.

Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico.

Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”.

Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo, ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido -pare sempre su richiesta dello stesso pm – per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno.

Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”. Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla mala-politica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno.

P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.

Guido Scarpino

Il Garantista, 4 febbraio 2015

 

Provenzano crepi pure al 41 bis. Così ha deciso il Tribunale di Sorveglianza di Roma


Bernardo Provenzano arrestoPer i medici il corleonese non sa più parlare, non risponde agli stimoli, ma per i giudici è ancora in grado di fare il boss. Bernardo Provenzano deve crepare al 41 bis. Così ha deciso il Tribunale di Sorveglianza di Roma nel respingere il reclamo presentato dai suoi legali.

Nel chiedere la revoca del regime di detenzione speciale, ormai oltre un anno addietro, i legali avevano allegato la relazione dei sanitari che avevano in cura Provenzano: “Grave decadimento cognitivo e sindrome ipocinetica, dovuta a sindrome estrapiramidale ed agli esiti di una devastante emorragia cerebrale, neoplasia prostatica in trattamento ormono-soppressivo”. Avevano sollecitato la trattazione dell’udienza ricevendo come risposta che le condizioni di salute del soggetto non avevano rilievo per valutare la legittimità del 41 bis.

La prima udienza di trattazione, il 20 giugno scorso, veniva rinviata al 3 ottobre, poi di nuovo al 5 dicembre. Il Tribunale aveva richiesto al San Paolo di Milano, nel reparto detentivo del quale si trova Provenzano, “informazioni più dettagliate e precise in ordine alla storia clinica, alla diagnosi, alle patologie riscontrate, con indicazione di esami clinici e strumentali effettuati e relativi esiti soprattutto in merito alle patologie neurologiche”.

E le informazioni erano arrivate: “Paziente solo a tratti contattabile, non esegue gli ordini della visita; si oppone all’apertura delle palpebre. Muove spontaneamente gli arti superiori e ruota i globi oculari in tutte le direzioni. L’eloquio è incomprensibile per afonia e disartria.

Non può eseguire ordini o fornire risposte”. Nel frattempo, il Tribunale di Milano incaricava medici specialisti perché redigessero una perizia, le cui conclusioni, depositate ai Giudici di Roma, erano del seguente tenore: “Per ciò che concerne le problematiche di natura cognitiva i periti hanno ribadito la valutazione di uno stato cognitivo gravemente ed irrimediabilmente compromesso ed annotato come il paziente, all’atto della visita peritale, “è risultato risvegliabile ma sostanzialmente non contattabile, con eloquio privo di funzione comunicativa, probabilmente confabulante, incapace di eseguire ordini semplici. Tale condizione risulta di fatto evoluta in senso peggiorativo rispetto a quanto descritto nella valutazione neuropsicologica dell’aprile 2014.

Anche la collaborazione appare oggi sostanzialmente non valutabile per l’incomprensibilità della produzione verbale”. Tutti i medici e i sanitari interpellati, ritenevano che il malato fosse del tutto incompatibile con qualunque regime carcerario ed in progressivo peggioramento.

Ma il Tribunale di Sorveglianza di Roma, dopo oltre un anno e tre rinvii istruttori ha ritenuto il detenuto ancora pericoloso. Potrebbe ancora mantenere contatti con l’organizzazione criminale! Il gravissimo e irreversibile decadimento cognitivo – attestato dai medici che lo hanno in cura e che lo hanno sottoposto a perizia – che rende l’ex boss privo di funzione comunicativa non basta. Se detenuto in condizioni di alta sicurezza, ma non più in 41 bis – sempre in un reparto di lungodegenza ospedaliera perché staccato dai macchinari che lo tengono in vita morirebbe in poche ore – potrebbe venire in contatto con un sodale

che – questo sembrano dire i giudici di sorveglianza – da un movimento dell’arcata sopracciliare potrebbe trarre un comando di mafia. Per sostenere questa incredibile tesi, il collegio di magistrati usa una relazione redatta dalla polizia penitenziaria nella quale agenti deputati al controllo del detenuto hanno affermato di avergli sentito, fino al maggio 2014, proferire alcune espressioni di senso compiuto (sebbene del tutto decontestualizzate, assi sporadiche e frammentarie e, all’evidenza, non rispondenti ad alcuna logica).

Ci si domanda come mai affermazioni del medesimo tenore non siano state fatte da alcun soggetto del personale ospedaliero e non si rinvengano nelle relazioni sanitarie. Ma il dato inquietante e decisivo è che, da allora, otto mesi e tre rinvii di udienza sono passati e nel corso di essi il quadro clinico del Provenzano è drammaticamente peggiorato.

Da molto tempo Provenzano non è un boss e non è più nemmeno un uomo se a tale concetto si correla la capacità di muoversi, di parlare, di comunicare in qualunque forma, di trasmettere emozioni. Quando il diritto muore lo Stato muore. Ogni volta che un giudice non applica la legge, che si sostituisce ad essa, la giustizia si spegne.

Non importa che a subire l’abuso sia un boss, un assassino, un pedofilo, uno stupratore. È un abuso e deve suscitare lo sdegno di chiunque si senta cittadino di un Paese che ha voluto, ha preteso, che anche la magistratura si inchini alla legge. Oggi la giustizia è morta, lo Stato di diritto è morto. In quanti lo piangono ?

Avv. Maria Brucale e Avv. Rosalba Di Gregorio

Il Garantista, 08 Gennaio 2015

XIII Congresso di Radicali Italiani a Chianciano Terme dal 30 ottobre al 2 novembre


radicali-italiani-540x210Care compagne, cari compagni,
il 13° Congresso di Radicali italiani si terrà a Chianciano Terme da giovedì 30 ottobre (inizio ore 16.00) a tutta domenica 2 novembre presso il Centro Congressi Excelsior in piazza Sant’Agnese 6 (piazza Italia).

Voglio innanzi tutto ringraziarti per aver voluto dare, con il tuo sostegno, letteralmente corpo e vita a iniziative e lotte politiche essenziali. Grazie per aver compreso l’importanza e il valore dell’iscrizione, della militanza, in poche parole dell’essere e del fare i radicali. Davvero, grazie per esserci.
È stato un anno, questo che ci stiamo lasciando alle spalle, denso, ricco di iniziative politiche; ed è stato anche uno degli anni più difficili, per il Movimento di Radicali Italiani, ma in generale per tutte le organizzazioni che compongono la “galassia radicale” e che sono i soggetti costituenti del Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transnazionale. È stato un anno pesante per la pervicace e perdurante esclusione dall’accesso ai media. Il diritto a conoscere e ad essere conosciuti è costantemente violato, nonostante sentenze della magistratura e deliberati delle Authority. È una delle questioni che credo debba costituire oggetto della nostra riflessione nei giorni del congresso per l’individuazione di strumenti e iniziative che consentano di ripristinare un minimo di legalità.

Questa violazione di un diritto umano fondamentale ha avuto ed ha come logica conseguenza risvolti concreti nella nostra vita quotidiana. È infatti vero che RI ha dovuto vivere con una struttura operativa quasi inesistente e che il Partito Radicale ha dovuto chiudere il call center e licenziare le otto persone che da anni vi lavoravano; Partito che, nonostante i tagli, registra, ad oggi, un indebitamento pari all’intero autofinanziamento dello scorso anno.

È una questione di stretta attualità, rispetto alla quale noi – come movimento – non abbiamo dimostrato di essere, individualmente e collettivamente, non solo adeguati, ma neanche del tutto consapevoli. Intendo consapevoli del fatto che, dopo sessant’anni, il connotato di “democrazia reale” – l’opposto a Stato di Diritto, democratico, laico e federalista – del regime italiano è divenuto un dato strutturale, tecnicamente e formalmente ciò che si definisce un Regime, non fosse per il fatto che, anche in questo caso, vale la massima: “la durata è la forma delle cose”. Un sistema di comportamenti reiterati e trasmessi per un tempo così lungo nei confronti del popolo italiano è difficile da mutare a meno che non si operi un salto di qualità nella nostra lotta politica, nella nostra consapevolezza e intenzionalità, nell’esercizio e nella disciplina di analisi, idee e obiettivi a cui si dà corpo e che abbiano la forza della durata e della durezza delle cose che si fanno, le quali – ne sono convinta – durano solo se sono dure.

Per questo e in tal senso, dobbiamo ringraziare, intanto, lo studio legale del Prof. Andrea Saccucci per la collaborazione che ci ha permesso di depositare un nostro primo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo proprio riguardo al diritto fondamentale negato al popolo italiano di conoscere per poter scegliere e deliberare: l’esempio, certificato, della nostra esclusione dai media sta lì a dimostrarlo. A partire da questo esempio, occorre estendere, perfezionare e aggravare i nostri ricorsi alle giurisdizioni sovranazionali contro lo Stato-canaglia detto Italia, che non merita di essere annoverato nella lista dei Paesi democratici, lista che già lo vede agli ultimi posti per molti altri aspetti che riguardino il Diritto e la Legge.
Come documentato fino a poco tempo fa dal Centro di Ascolto, nonostante le grandi difficoltà che lo hanno portato alla chiusura (e anche questo è un segno dei tempi della “democrazia reale” in cui vive il Paese), esiste e si aggrava una scientifica espulsione dei radicali da ogni spazio informativo, pubblico o privato che sia; l’ostracismo nei confronti delle iniziative del movimento radicale e dei suoi leader Emma Bonino e Marco Pannella; ed esiste, clamoroso, un vero e proprio “caso Pannella”, deliberatamente, sistematicamente cancellato, abrogato.

Ciò nonostante, grazie a tutti voi, al vostro impegno e alla vostra consapevolezza, siamo riusciti negli anni a inscrivere nell’agenda politica di questo Paese molti dei temi da noi individuati come prioritari ed essenziali. Grazie a una durissima lotta nonviolenta, condotta in prima persona da Pannella, e con l’adesione importantissima di tanti radicali, e di tantissimi appartenenti alla comunità penitenziaria e cittadini, abbiamo conseguito significativi risultati per quel che riguarda il diritto alla Giustizia e l’Amnistia per la Repubblica. Non era scontato il messaggio solenne del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alle Camere; quel messaggio, un vero e proprio documento radicale, pur se finora vergognosamente e volgarmente ignorato dai partiti del regime, costituisce un punto fermo destinato a incidere; e ha già inciso, come hanno inciso gli strumenti da noi individuati del ricorso alle giurisdizioni nazionali e internazionali che sempre più confermano e fortificano la nostra analisi.

Sono indubitabili conquiste e successi radicali le sentenze delle corti di giustizia europee, della Corte Costituzionale, e persino le prese di posizione di Papa Francesco, il quale non solo ha abrogato la pena dell’ergastolo e introdotto nell’ordinamento Vaticano il reato di tortura, ma ha voluto anche incoraggiare, mentre da ogni parte gli si chiedeva di “mollare”, con due telefonate, l’azione nonviolenta di Marco Pannella. Non solo: una delegazione di esperti dell’ONU sulla detenzione arbitraria che ha visitato le carceri italiane dal 7 al 9 luglio ha avanzato raccomandazioni e proposte puntuali analoghe a quelle formulate dal Presidente Napolitano nel messaggio alle Camere volte a interrompere lo stato di illegalità in cui versa l’amministrazione della giustizia e la sua appendice carceraria nel nostro Paese, incluse le proposte in materia di Amnistia e indulto, che sono “quanto mai urgenti per garantire la conformità al diritto internazionale”.

È stato l’anno in cui le giurisdizioni hanno emesso sentenze letteralmente rivoluzionarie che hanno recepito diritti umani fondamentali, obiettivi storici delle lotte per il movimento radicale: dall’abrogazione per incostituzionalità delle parti più proibizioniste della legge Fini-Giovanardi sugli stupefacenti, alla demolizione di molti degli aspetti più odiosamente restrittivi dell’accesso alla procreazione medicalmente assistita ottenuti, questi ultimi, grazie al perseverante impegno dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà della ricerca. La via del ricorso alle giurisdizioni si rivela uno strumento imprescindibile di lotta per affermare lo Stato di diritto, democratico, federalista in una realtà in cui la degenerazione partitocratica e corporativa ha fatto precipitare l’Italia agli ultimi posti delle classifiche mondiali riguardo all’amministrazione della giustizia, alla libertà di impresa, all’inarrestabile formazione del debito pubblico.

È anche stato l’anno in cui ho posto in essere, con la presidente Laura Arconti e Marco Pannella un rilancio dell’iniziativa nonviolenta di disobbedienza civile in merito all’uso terapeutico della cannabis e volto alla legalizzazione delle sostanze stupefacenti a partire dalla marijuana.
Il Congresso deve essere l’occasione per dibattere e riflettere di tutto questo e di altro ancora, per confermare e rafforzare l’impegno sulle iniziative in corso, e decidere quelle che ci vedranno impegnati nel prossimo anno. Dovremo inoltre assumere decisioni urgenti e importanti rispetto al futuro e alle prospettive del Movimento, il reperimento di risorse, come far fronte a una situazione economico-finanziaria che rischia di collassare e pregiudicare le future iniziative, l’esistenza stessa di Radicali Italiani; e, non ultimo, l’apporto che saremo in grado di assicurare al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito.

Il prossimo anno il Partito Radicale compirà 60 anni. Nella nostra storia abbiamo spesso attraversato lunghi periodi di resistenza che hanno poi consentito all’Italia di realizzare grandi conquiste nel campo dei diritti umani, sociali e civili e di rallentare il processo di desertificazione della democrazia perseguito con sempre maggiore violenza dal regime partitocratico nelle sue diverse manifestazioni. Un processo che ha prodotto un “deserto” che è soprattutto di idee e si manifesta nella forma della supremazia della ragione di Stato sullo Stato di diritto democratico, federalista e laico. L’obiettivo primario è e resta la fuoriuscita del nostro Stato dalla condizione indiscutibile e indiscussa di flagranza criminale per la sua reiterata, ultradecennale violazione di diritti umani fondamentali sanciti dalla Costituzione italiana e tutelati dalla Convenzione Europea sui diritti umani relativi al divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti e all’irragionevole durata dei processi.

La vera e propria débâcle della democrazia ha prodotto quella della giustizia e dell’economia. Chi si ricorda di quando Marco Pannella ammoniva che il formarsi del debito pubblico italiano era un macigno sulle spalle di ogni cittadino, neonati compresi, un macigno che avrebbe ipotecato il futuro? Chi rammenta i referendum vinti, negati, ostracizzati, sull’economia, sulla giustizia, sui diritti civili, sulle riforme istituzionali e sull’ambiente? Non solo “prese di posizione”, che lasciano il tempo che trovano, ma lotte concrete, vissute spesso sui marciapiedi e mai nei salotti televisivi abitati da sempre -e sempre di più- da voraci maggioranze e opposizioni di regime. Nel solco di questa nostra alterità va considerato l’esposto per danno erariale recentemente presentato alla Corte dei Conti a causa dell’inaccettabile costo che lo Stato ha fatto e sta facendo pagare al popolo italiano per decenni di violazioni di diritti umani nel campo dell’amministrazione della giustizia e delle carceri.

Molto è stato conquistato e incardinato, molto resta da conquistare e incardinare; e non ho accennato alle importanti iniziative poste in essere sul fronte del dissesto ambientale e idrogeologico, il “caso Vesuvio e “campi Flegrei”, il disastro ecologico combattuto dai radicali -sul campo- in alcune regioni del nostro Paese.

Con pochissimi giorni a disposizione e davvero tanta “carne al fuoco”, affido a questo scritto il mio caloroso invito a partecipare in tanti al congresso sin dal primo giorno. È importante. Un abbraccio

Rita Bernardini 

Gratteri ha già pronta l’anti-riforma della Giustizia. Una vera e propria spada di Damocle sullo Stato di Diritto


giustizia1-640x436Gratteri ha già pronta l’anti-riforma della giustizia. Trapelano i punti cardine delle proposte della Commissione presieduta a Via Arenula dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Una vera e propria spada di Damocle sullo stato di diritto.

Forse non tutti lo sanno ma il pm antimafia Nicola Gratteri presiede anche una commissione ministeriale per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità. L’Ansa ha fatto trapelare le prime indiscrezioni sulle sue proposte. I punti focali sono un concetto di giustizia come negazione del diritto di difesa, l’umiliazione del ruolo dell’avvocato difensore, l’annichilimento delle garanzie del giusto processo e della certezza della prova.

Si era detto disponibile a diventare ministro della Giustizia per il governo Renzi, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, a patto di avere la libertà di realizzare le cose che aveva in testa. La nomina sembrava certa prima che Renzi salisse al Colle. Poi il nulla di fatto. Uno stop del presidente Napolitano, pare, determinato da ragioni di opportunità.

Un magistrato ancora in servizio attivo non dovrebbe rivestire incarichi politici, tanto più che al ministro della Giustizia spettano compiti vistosamente incompatibili con il ruolo di pm dell’antimafia rivestito da Gratteri, quali la firma sui decreti di applicazione e proroga dei 41 bis.

Allora la nomina del ministro Orlando con il suo passato di garantista, anti manette facili, contro l’ergastolo e l’obbligatorietà dell’azione penale. Certo è che sul fronte della garanzia dei diritti nessun passo sembra essere stato mosso. Intanto l’Ansa rende note le linee guida della riforma voluta da Gratteri.

Sì, perché il pm antimafia presiede la commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità, istituita presso Palazzo Chigi. I punti focali delle proposte di modifica appaiono una stridente espressione di una impostazione del concetto di “giustizia” come negazione del diritto di difesa, umiliazione del ruolo dell’avvocato difensore, annichilimento delle garanzie del giusto processo e della certezza della prova, disattenzione alle logiche deflattive dei giudizi a vantaggio della celere definizione dei processi, superamento del principio del favor rei e perfino confusione tra i ruoli – e già ce n’è troppa – tra chi esercita l’azione penale e chi giudica.

Il primo punto riguarda la parificazione, in termini sanzionatori, del partecipe ad associazione mafiosa al partecipe ad associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Pene fino a trent’anni di reclusione – tuona Gratteri – per i mafiosi che, a suo dire, temono solo le condanne per omicidio, che possono comportare l’ergastolo, e per la droga, che comportano pene assai severe. Un aumento sanzionatorio, quello prospettato, che appare già un abominio giuridico se si pensa che la contestazione di partecipazione non viene certo mossa soltanto ai boss ma a piccoli fiancheggiatori con una capacità criminale a volte infima che sarebbe quanto meno spropositato punire con sanzioni così follemente afflittive.

Cadrebbe il divieto di re-formatio in pejus in sede di appello proposto dal solo imputato. In parole povere: oggi, se la procura non impugna la sentenza di condanna a carico dell’imputato e tacitamente si dichiara soddisfatta dell’esito del giudizio, opera un divieto per i giudici dell’appello di aggravare la condanna emessa dal primo giudice.

È un principio di civiltà che, nel nostro ordinamento, risponde anche alla divisione di funzioni operata dal codice di rito. È il pm che esercita l’azione penale. Se ritiene che la condanna a carico dell’accusato sia coerente all’atto di accusa che ha formulato, nessun potere è dato al magistrato giudicante di ravvisare nuovi elementi di responsabilità dai quali far scaturire inasprimenti sanzionatori. Ancora: verrebbe abrogato il rito abbreviato, la possibilità, cioè, per l’imputato di scegliere di essere giudicato con il materiale di prova raccolto nelle indagini rinunciando a un processo in aula nel quale confutare gli esiti istruttori raccolti dalla pubblica accusa con conseguente sconto di pena in caso di condanna.

Una modifica normativa del genere comporterebbe la paralisi definitiva dei tribunali. L’accesso al rito abbreviato, infatti, determina il venir meno di centinaia di udienze, di video conferenze, di traduzioni in aula di detenuti, di trasferimenti in località protette di collaboratori di giustizia, un abbattimento considerevole dei costi e dei tempi della giustizia.

La logica della cancellazione di tale rito – che peraltro santifica l’operato dei pm poiché sottopone ai magistrati che giudicano, quale prova da valutare, solo l’esito delle attività di indagine – appare del tutto incomprensibile. Non trova, peraltro, alcuna compensazione nell’ulteriore progetto di ampliare l’accesso al patteggiamento a tutti i reati. La proposta appare incoerente se si pensa che lo stesso Gratteri ha più volte parificato patteggiamento e rito abbreviato definendoli “sconti fatti alle mafie”.

Diverso sarebbe se, come sembra, l’accesso al patteggiamento venga subordinato alla confessione, sulla bontà e pienezza della quale è ipotizzabile si preveda il parere del pm e il vaglio del magistrato. Si apre la prospettiva a derive incostituzionali di coazione psicologica all’accusato che sarebbe indotto a confessare e ad indicare i corresponsabili per accedere al solo rito -abrogata la previsione dell’abbreviato – che permetta uno sconto di pena. Non è finita! Il progetto di modifica contempla l’estensione ai legali, in solido con i propri assistiti, del pagamento delle spese processuali in caso di ricorso dichiarato inammissibile.

Una norma che se esistente spazzerebbe via del tutto il diritto di difesa e troncherebbe ogni anelito di giustizia inibendo di fatto gli avvocati dal prospettare questioni giuridiche talora innovative e creative per non correre il rischio di subire un danno economico. L’avvocato è per sua essenza sentinella del diritto. Studia le norme, le loro interpretazioni e implicazioni, le rapporta in aula con il caso concreto, ne osserva l’applicazione al fatto e le illogicità, le storture e le abnormità e se ne fa portavoce. È una voce di garanzia, quella dell’avvocatura, che non può, non deve essere menomata! Ancora: videoconferenze per tutti i detenuti per i reati più gravi. Nessun imputato potrebbe più essere presente in udienza.

Verrebbe meno radicalmente l’oralità del processo penale. La videoconferenza, infatti, già prevista per i soli detenuti in 41 bis, vanifica, di fatto, la possibilità di intervenire in aula in corso di giudizio. Mentre il detenuto in saletta video chiede il permesso di intervenire, o di comunicare telefonicamente con il proprio difensore in aula, il processo si svolge, va avanti e rende inutile la pretesa legittima del detenuto.

Questa follia antigiuridica, finora accettata – seppur inaccettabile – per i 41 bis in ragione del prevalere di logiche di sicurezza, dovrebbe essere estesa ad una enorme categoria di detenuti che verrebbero di fatto estromessi dalla partecipazione attiva ai processi. Verrebbe abolito l’appello incidentale, ossia l’impugnazione proposta dall’imputato per contrastare quella del pm, con vistoso detrimento del principio costituzionale del favor rei.

Sarebbe introdotta la declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni in appello per manifesta infondatezza, con un iter che in sostanza ricalcherebbe quello analogo già operante in Cassazione: soppressione, dunque, ancorata a parametri discrezionali, di un grado di giudizio di merito e insensata ed illusoria attribuzione ad un solo giudicante delle sorti dell’imputato.

L’abolizione del ricorso per Cassazione per vizio di motivazione che sottrarrebbe al giudice di legittimità il potere di annullare le sentenze illogiche o contraddittorie: una grave menomazione delle garanzie difensive se solo si pensa al frequente approdo, alla Corte di Cassazione, di sentenze di condanna che poggiano interamente sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia in relazione alle quali fondamentale appare che il giudice di legittimità preservi il compito di verifica di coerenza e logicità dell’apparato motivazionale.

La militarizzazione degli istituti penitenziari che avrebbero, come direttori, non più civili bensì commissari di polizia penitenziaria. Un controllo interno, dunque, che non sfugge alle ansie di meccanismi corporativi (un pò come il Csm che giudica i magistrati!). Una serie, dunque, di ipotesi normative nella sostanza antigiuridiche e costituzionalmente illegittime, una minaccia concreta al giusto processo, una spada di Damocle sullo stato di diritto.

Maria Brucale

Il Garantista, 16 ottobre 2014

Mattiello (Pd): Le condizioni di salute di Provenzano impongono la revoca del 41 bis


On. Davide Mattiello Pd“Le condizioni di salute di Bernardo Provenzano impongono una nuova valutazione sulla compatibilità tra detenuto e regime del 41 bis. Il regime carcerario del 41 bis introdotto nell’agosto del 1992 ha uno scopo fondamentale che ne giustifica l’estremo rigore: impedire ai mafiosi di continuare a comandare dal carcere. Questo scopo si traduce nella impossibilità per il detenuto di comunicare con l’esterno.

Oggi per Provenzano il 41 bis è assicurato dalle sue stesse condizioni di salute. Prenderne atto e sospendere l’applicazione del 41 bis per Provenzano non è soltanto un atto di giustizia proprio di uno Stato di diritto che mai confonde punizione con vendetta, ma è anche il modo migliore per salvaguardare lo stesso istituto del 41 bis da chi non lo ha mai digerito e che ha usato e usa ogni mezzo per cancellarlo dall’ordinamento: dai papelli alla Cedu”.

Così Davide Mattiello, deputato Pd della commissione Antimafia. Che aggiunge: “Guai a dare argomenti a chi voglia dimostrare che il 41 bis provoca una condizione di fatto inumana e degradante, guai a fornire alibi a chi voglia equipararlo ad una forma di tortura. Piuttosto invito il Ministro Orlando, che ha già dimostrato grande sensibilità, a verificare se il 41 bis venga applicato sempre correttamente, impedendo ai boss di comunicare con l’esterno sia direttamente, sia indirettamente”.

9Colonne, 7 agosto 2014

Comitato Nazionale di Radicali Italiani 11-13 luglio 2014. La Mozione Generale


 

Radicali Italiani campagna autofinanziamentoComitato Nazionale di Radicali Italiani 11-13 luglio 2014

Mozione generale

e documenti aggiuntivi

Il movimento radicale nella sua storia sessantennale ha più volte dovuto attraversare lunghi periodi di resistenza che hanno poi consentito all’Italia di realizzare grandi conquiste nel campo dei diritti umani, sociali e civili o perlomeno di rallentare il processo di desertificazione della democrazia perseguito via via con sempre maggiore violenza dal regime partitocratico nelle sue diverse manifestazioni. Oggi questo processo ha prodotto un deserto che è soprattutto di idee e si manifesta ormai nella forma della supremazia della ragion di Stato sullo Stato di diritto democratico e federalista.

Il diritto alla conoscenza è ormai negato al popolo italiano fino ad un punto di non ritorno. Il Centro d’Ascolto dei programmi radiotelevisivi ha dimostrato la precisa corrispondenza tra la percentuale di ascolti consentita ai leader e alle forze politiche in occasione della recente consultazione europea e il risultato conseguito dalle varie liste. Clamoroso il caso del Presidente del Consiglio Matteo Renzi e del PD: 41,1% di ascolti consentiti, 40,8% il risultato elettorale conseguito. Quanto al movimento radicale, altrettanto eloquente è il dato che vede Marco Pannella al 349° posto ed Emma Bonino addirittura espulsa dalla classifica dei 512 esponenti politici monitorati in merito alle trasmissioni della Rai-TV.

Sulla totale illegalità del “sistema giustizia” italiano e delle carceri, ambedue pluricondannati in sede europea – il primo per l’irragionevole durata dei processi e il secondo per i trattamenti inumani e degradanti – paradigmatico è il caso del ponderoso dossier inviato il 22 maggio da Radicali italiani al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa chiamato, il 5 giugno scorso, ad esprimersi sul rispetto da parte del nostro paese della Sentenza di condanna “Torreggiani”: la burocrazia europea ha illegalmente omesso di consegnarlo, con meschine azioni di occultamento, ai 47 delegati degli Stati favorendo così un esito benevolo verso la tesi difesa dal Governo italiano, che ha ammesso la forzatura, dichiarando “sulle carceri, per ora, ci abbiamo messo una pezza”.

Persino sulle misure compensative e riparatorie, il Governo italiano non si è fatto scrupolo – con l’ultimo decreto – di gabbare la CEDU: là dove la condanna ordinava all’Italia di prevedere ricorsi interni “effettivi” e “idonei”, il Governo Renzi ha fissato il “prezzo della tortura” in 1 giorno di sconto pena per ogni 10 giorni vissuti in carcere oppure, per chi è uscito dal carcere, in 8 euro per ogni giorno di prigionia inumana e degradante. Accedere a tale “mercimonio” sarà oltretutto impraticabile considerata l’impossibilità per magistrati di sorveglianza e giudici civili di verificare per ciascun soggetto quali siano state materialmente le condizioni di detenzione.

Il Comitato Nazionale di Radicali italiani, riunito a Roma l’11-12 e 13 luglio 2014

ribadisce come obbligato un provvedimento di amnistia e di indulto quale unica riforma strutturale in grado di fermare il mancato rispetto della Costituzione italiana e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, anche secondo quanto affermato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con il suo ostracizzato messaggio alle Camere.

Il Comitato sostiene il Satyagraha in corso di Marco PannellaRita Bernardini e di altri 150 cittadini esplicitamente volto, in questa fase, a fermare le morti in carcere e a garantire le cure necessarie ai detenuti malati. Da questo punto di vista è con ogni evidenza emblematico – e perciò richiamato espressamente come obiettivo dello sciopero della fame – il caso dell’ottantunenne boss di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, tuttora trattenuto in regime di 41-bis benché le Procure della Repubblica di Palermo, Caltanissetta e Firenze si siano pronunciate nei suoi confronti per la cancellazione del “carcere duro” e malgrado non sia più chiamato a intervenire nei processi in cui è ancora coinvolto perché “incapace di intendere e di volere”.

Il Comitato rileva che la inutile crudeltà di questa situazione non fa che qualificare lo Stato italiano ad un livello di criminalità, se possibile, addirittura superiore a quella del condannato.
Nella condizione di antidemocrazia in cui si trova il Paese, il Comitato di Radicali italiani richiama il movimento alla forza e alla conseguente necessità della pratica della nonviolenza e della disobbedienza civile, nel difficile tentativo di ricercare e aprire varchi di agibilità politica nei quali la sovranità del popolo possa finalmente affermarsi.

Il Comitato auspica che il ricorso alle Giurisdizioni nazionali, europee e transnazionali sia sempre più praticato da tutti gli organi di Radicali italiani per affermare, con il ripristino della legalità, i diritti fondamentali dei cittadini. Da questo punto di vista, il Comitato esprime il massimo plauso al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, all’Associazione Luca Coscioni, e al nostro stesso movimento per tutte le iniziative già intraprese consuccesso, in attesa di pronunciamento o pressoché prossime alla presentazione.

Il Comitato impegna gli organi dirigenti a dare il massimo supporto all’Avv. Deborah Cianfanelli affinché il dossier sulla giustizia, riguardante l’irragionevole durata dei processi civili e penali, sia al più presto aggiornato e depositato presso la Corte EDU. Il Comitato sostiene altresì l’iniziativa volta a presentare un esposto alla Corte dei Conti per danno erariale causato dallo Stato italiano ai suoi cittadini.

Il Comitato ribadisce che partendo dall’analisi radicale sulla permanenza e vigenza di un sistema economico finanziario fondato su capitalismo inquinato, sottocapitalizzato, bancocentrico e di relazione, le campagne in corso #sbanchiamoli#menoinquinomenopago e l’insieme di proposte sul capitalismo locale delle società partecipate da Enti locali e Regioni, oggi si confermano più che mai centrali nell’azione utile a rilanciare legalità, concorrenza, merito e innovazione, nonché a contenere il debito pubblico e quello ecologico, la spesa pubblica, la pressione fiscale e l’intermediazione indebita della politica e dei Partiti nell’economia. Il Comitato invita il governo Renzi, oltreché a far sue le misure citate, ad attivare al più presto un piano di riduzione dei trasferimenti anticompetitivi alle imprese nell’ambito del programma di tagli di spesa delineati dal commissario Cottarelli.

Il Comitato rivolge un accorato appello a tutti coloro che siano raggiunti da questa “mozione” e ne condividano premesse e obiettivi, affinché si iscrivano a Radicali italiani, al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito così come a tutte le Associazioni dell’area radicale ricordando che solo il versamento “dell’obolo di uno scellino” da dignità e forza ad una partecipazione responsabile.

Caso Provenzano, Bernardini (Radicali): Ennesimo trattamento disumano nelle nostre Carceri


Rita Bernardini, Segretaria Nazionale RadicaliVecchio, gravemente malato, tenuto in vita da macchine e sondini, incapace di intendere e di volere, ma nonostante ciò considerato ancora un terribile pericolo pubblico. E’ questa la storia della fine di Bernardo Provenzano, ex storico boss di Cosa Nostra, mantenuto in regime di carcere duro (41-bis) malgrado le sue gravissime condizioni di salute. Una vicenda avvolta dal classico silenzio dei media, che rivela l’ennesimo caso di trattamento disumano perpetrato nelle carceri italiane e, con esso, l’inarrestabile violazione dei principi dello Stato di diritto.

Dopo aver trascorso un lungo periodo nel carcere di Parma (dove, nel 2012, ha anche tentato il suicidio), il “capo dei capi”, oggi 81enne e affetto da patologie neurologiche, è stato trasferito l’8 aprile scorso nel carcere milanese di Opera, per poi essere ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale San Paolo. Qui i medici non hanno potuto far altro che constatare le precarie condizioni di salute dell’ex padrino corleonese.

Nel certificato inviato dai medici al gup di Palermo (davanti al quale pende il procedimento in cui il boss è imputato per la trattativa Stato-mafia) e al Tribunale di Sorveglianza di Roma (competente su tutto il territorio nazionale sulle istanze di revoca del carcere duro), si parla infatti di “stato clinico del paziente gravemente deteriorato e in progressivo peggioramento“, nonché di “stato cognitivo irrimediabilmente compromesso”, per poi concludere ribadendo l'”incompatibilità con il sistema carcerario” del detenuto Provenzano.

Parole molto chiare, quelle dei medici milanesi, che fanno tornare alla mente la discutibile decisione con la quale, appena tre mesi fa, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha negato la sospensione del carcere duro chiesta dagli avvocati di Provenzano e soprattutto avallata da ben tre diverse procure (Palermo, Caltanissetta, Firenze). Nonostante l’ex boss siciliano sia ormai incapace di comunicare con l’esterno, infatti, secondo il Guardasigilli egli continuerebbe a rappresentare un soggetto “pericoloso”.

A richiamare l’attenzione sulle gravi condizioni di salute di Provenzano era stato, nelle settimane scorse, il figlio Angelo, che, dalle pagine de Il Garantista, aveva raccontato il suo ultimo incontro con il padre (“Lo chiamo tante volte, ma non riesco neppure ad attrarre il suo sguardo, perché guarda il soffitto. Se lo portiamo fuori dall’ospedale può vivere 48 ore”) e denunciato l’assurda situazione che lo costringe a non poter svolgere il compito di amministratore di sostegno affidatogli dai giudici tutelari di Milano: “Le mie nuove funzioni (compresa la richiesta di cartella clinica) non potrò esercitarle, se non con il consenso del Ministero”.

Ora, di fronte alle proteste del figlio e all’aggravarsi delle condizioni di Provenzano, l’ultima beffa: “Sebbene sia ridotto al lumicino − denuncia Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani −, il tribunale di sorveglianza di Roma ha rimandato la decisione sulla revoca del 41-bis al 3 ottobre, abbondantemente superate le ferie estive”.

Anche il principio del rispetto della dignità umana (già costantemente screditato), insomma, va in vacanza: “Abbiamo istituzioni − nota Bernardini − che, quanto al rispetto di diritti umani fondamentali, si pongono allo stesso livello di criminalità di coloro che affermano di voler combattere”.

Ermes Antonucci

Agenzia Radicale, 08 Luglio 2014