Venezia: detenuto 38enne muore a Santa Maria Maggiore, il Pm dispone l’autopsia


Carcere di Venezia Santa Maria MaggioreManuel Valesin stava scontando in carcere i suoi 6 mesi di pena, Roberto Terzo, pubblico ministero, ha disposto l’autopsia. Nella giornata di sabato 28 novembre, un giovane detenuto – Manuel Valesin – è venuto a mancare nella prigione veneziana di Santa Maria Maggiore, dove si trovava per scontare una condanna per resistenza a pubblico ufficiale.

Come riporta la Nuova Venezia, ad ucciderlo è stato probabilmente un arresto cardiaco improvviso, ma trattandosi di un giovane di 38 anni – la cui salute e sicurezza è affidata allo Stato – e in trattamento con diversi farmaci, anche anti-trombosi, il pubblico ministero Roberto Terzo ha deciso di disporre l’autopsia, per fugare qualsiasi dubbio sulle cause del decesso.

Così nei prossimi giorni sarà eseguito l’esame autoptico del corpo: la stessa famiglia ha manifestato l’intenzione di affidarsi ad un legale per seguire l’indagine, temendo che l’uomo possa essere morto in seguito a una cattiva somministrazione delle medicine. L’uomo si è sentito male nella mattinata di sabato: a dare l’allarme per primi sono stati i compagni di cella, poi il personale medico della casa circondariale. infine, l’inutile arrivo del Suem che non ha potuto che constatare il decesso dell’uomo. Valesin stava finendo di scontare una condanna a 6 mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale, nel corso di una rissa scoppiata a San Pantalon, all’interno di un locale pizzeria-kebab.

veneziatoday.it, 29 novembre 2015

Parma: Maltrattarono e pestarono un detenuto. Indagati due Agenti di Polizia Penitenziaria


Casa Circondariale 2Botte, umiliazioni e maltrattamenti a un detenuto: individuati dalla Procura i due presunti responsabili. Misura cautelare per uno di loro, che ha fatto parziali ammissioni.

Per tre giorni avrebbero sottoposto un detenuto a botte e pesanti umiliazioni, fino a fargli subire un duro pestaggio. Sono stati identificati dalla Procura i due agenti della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di via Burla che si sarebbero macchiati dei reati di lesioni e maltrattamenti ai danni di un ingegnere italiano accusato di violenza sessuale su minore.

Entrambi sono indagati e per uno dei due il gip ha disposto la misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio per un anno. Il pm Giuseppe Amara, titolare del fascicolo d’inchiesta, aveva chiesto la custodia cautelare agli arresti domiciliari. I fatti erano stati resi noti da un servizio in esclusiva dell’Espresso uscito il mese scorso. Quanto denunciato del Garante dei detenuti del Comune di Parma ha trovato precisi riscontri nell’attività d’indagine affidata dal sostituto procuratore alla Squadra mobile e alla polizia giudiziaria del corpo di polizia penitenziaria. Tra il 4 e il 6 aprile di quest’anno il detenuto è stato picchiato duramente, costretto a rimanere in ginocchio in cella per ore e lasciato senza cena per tre giorni.

Una “punizione” ulteriore per un reato considerato infamante, gli abusi sessuali su minori. Dopo il pestaggio, costatogli grossi lividi alla schiena e al volto, l’uomo è stato trasferito nel carcere di Piacenza. Il Garante ha fatto partire un esposto e la Procura di Parma ha avviato un’indagine.

I due agenti individuati come i responsabili delle violenze sono stati interrogati nei giorni scorsi dal pm Amara. Uno dei due ha fatto parziali ammissioni in particolare sulle lesioni, cercando di ridimensionare l’accaduto. La posizione dell’altro è ancora sottoposta ad accertamenti. Entrambi rimangono iscritti nel registro degli indagati per i reati di lesioni e maltrattamenti. Come detto il pm aveva chiesto i domiciliari per l’agente che ha ammesso i fatti, un 40enne italiano. Il gip ha ritenuto sufficiente la sospensione dal servizio.

La Repubblica, 21 novembre 2015

Giustizia: Cantone, Gratteri, Sabella, mezzi magistrati e mezzi politici dell’Italia renziana


Avvocati togheIl guaio è che non si capisce se sono magistrati o politici, e forse non lo sanno più nemmeno loro, spaesati come il resto degli italiani di fronte a uno di quei misteri linguistici che sempre, in questo paese, occultano un pasticcio.

Prendiamo per esempio il dottor Nicola Gratteri, che è procuratore aggiunto a Reggio Calabria, ma un anno fa è stato anche nominato da Renzi – che lo voleva addirittura ministro della Giustizia – presidente della commissione per la riforma Antimafia. Ebbene, dice il dottor Gratteri: “In Parlamento ci sono molte leggi, molta carne al fuoco. In questo momento sembra un lavandino otturato”.

E insomma, mezzo politico e mezzo magistrato, un po’ tecnico e un po’ no, corteggiato come candidato sindaco di Roma (“ma sono più utile da magistrato, almeno per come è oggi la politica”) Gratteri, come Raffaele Cantone, che è il magistrato benemerito della lotta alla camorra nominato (da Renzi) commissario anti corruzione, e come Alfonso Sabella, che è invece il magistrato antimafia nominato assessore alla Legalità del comune di Roma, svela un’inedita antropologia nel paese che già aveva affidato ai giudici la scienza, la storia e la politica: l’antropologia di quelli che rimangono a metà strada, che non scelgono, un po’ di qua e un po’ di là, quelli che si travestono e ci confondono.

Mercoledì scorso, Cantone si è espresso con sinuosità e spessore di politico: “Milano è tornata a essere capitale morale. Roma deve costruirsi gli anticorpi”. Ma ieri ci ha poi ricordato d’essere in effetti un magistrato: “Potrei lasciare l’Anm. E non ho mai fatto politica”. E c’era una volta il pm che prima accusava e poi assimilava, che indossava la toga e infine si appropriava del ruolo dell’imputato, che lo sostituiva persino in Parlamento, c’era insomma una volta Antonio Di Pietro, mentre oggi ci sono Gratteri, Sabella e Cantone, creature vaghe, enigmatiche, indefinibili come Conchita Wurst, l’ermafrodito che al tempo stesso ci incuriosisce e ci spaventa. E intorno a questa nuova e sfuggente antropologia, che d’un tratto sublima le ambiguità dei togati-candidati, cioè dei vecchi Ingroia ed Emiliano, dei Di Pietro e dei De Magistris, che partirono per moralizzare e finirono moralizzati, adesso si mettono in moto tutte le possibili letture e riletture, variazioni e contaminazioni di quell’antica e complessa vicenda che da Tangentopoli in poi è stata battezzata “cortocircuito politico-giudiziario”, o meglio ancora “imperialismo giudiziario”, storia d’energia popolare e di strumentalizzazione. “Io non ho mai fatto politica nella mia vita, rivendico la mia indipendenza ogni giorno al pari di quando ero in magistratura”, ha detto Cantone.

“Ero”, ha detto. Appunto. Un lapsus ma anche no, perché magistrato lo è ancora eppure in effetti non lo è più. E davvero Cantone, come Gratteri e come Sabella (televisivamente ubiquo: da Sky a Raiuno, da Vespa a Porro), riempie le sue giornate d’innocue enormità mondane e di Palazzo, ha insomma il piacere d’essere molti, di vedere tutti i se stesso, essere a discrezione politico e togato, essere un altro, dunque d’ipotizzare l’abbandono dell’Anm ´(da politico?) e di aiutare (da magistrato?) la candidatura renziana di Giuseppe Sala a sindaco di Milano: “A Roma purtroppo non ho un Giuseppe Sala con cui interloquire, e questo mi manca moltissimo”.

E si crea così un tale clima di discorsi, di convegni, di dichiarazioni pubbliche, d’interviste ai quotidiani, di polemiche radiofoniche, di lesto manovrar d’apparizioni televisive, d’incarichi para amministrativi, di candidature a sindaco, a ministro, a commissario speciale, a salvatore supremo della patria o del comune disastrato, per cui la natura di ciascuno di loro si cancella e si ricompone, si trasforma e si confonde.

E non si riesce più a distinguere chi è chi, né cosa fa. Anche l’Anm è rimasta spiazzata. E la politica è evidentemente una malattia che li contagia, ma che non può essere stata contratta durante gli studi universitari di Giurisprudenza né durante la preparazione del concorso in magistratura. È il mondo politico ad averli voluti così come sono, mezzi politici e mezzi magistrati, sospesi nel mondo di mezzo – ops – assessori alla Legalità, commissari alla corruzione, autorità antimafia capaci d’esprimersi su qualsiasi argomento e su qualsiasi canale, capaci di coltivare allo stesso tempo una doppia ambizione (laica e togata), quello stesso mondo che mentre critica il protagonismo dei magistrati e sottilmente li accusa di far politica con la toga indosso, intanto riempie di toghe la politica (perché non ha una classe dirigente all’altezza). Così alla fine, loro, i mezzi e mezzi, fondatori di un metaforico albo dei moralizzatori cui la politica può attingere ad libitum, ovviamente dicono di non far politica, quando sarebbe più rassicurante, opportuno e in linea con il loro impegno, che invece facessero una scelta, preventiva e liberatrice.

Salvatore Merlo

Il Foglio, 30 ottobre 2015

Mantova: internata di 21 anni si impiccò all’Opg di Castiglione delle Stiviere, indagati due dipendenti per omicidio colposo


Opg Castiglione delle Stiviere MantovaBocciata la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, il giudice vuole una nuova inchiesta. Il dubbio: quella morte si poteva evitare? Si era suicidata, impiccandosi con un lenzuolo, nei bagni dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. La procura aveva aperto un’inchiesta che, di recente si è conclusa con la richiesta di archiviazione da parte del sostituto procuratore che ha seguito il caso.

Il giudice però non solo ha respinto la richiesta del pm ma ha disposto nuove indagini, iscrivendo nel registro degli indagati due dipendenti dell’ospedale psichiatrico giudiziario per omicidio colposo. Ha inoltre invitato il pubblico ministero a servirsi di un perito affinché possa stabilire se quel suicidio si poteva evitare. La nuova inchiesta è agli inizi, ma altri soggetti potrebbero aggiungersi a quelli già indagati.

La tragica vicenda risale al giugno del 2014. Vittima una ragazza di appena 21 anni. La giovane quel giorno non era andata in mensa ma con un lenzuolo del suo letto si era infilata in bagno. Aveva legato un’estremità alle inferriate della finestra e l’altra attorno al collo. Poi si era lasciata andare. L’aveva trovata un’altra ospite dell’Opg che aveva dato l’allarme. La disperata corsa all’ospedale di Desenzano, purtroppo, si era rivelata inutile.

Già ospite della comunità riabilitativa di Quistello, per il disagio psichico la ragazza aveva tentato di strozzare una delle operatrici. All’arrivo dei carabinieri si era scagliata contro di loro, cercando di colpirli con alcuni colli di bottiglia. Per quell’episodio era stata condannata a tre anni e otto mesi. L’accusa: tentato omicidio. Il pubblico ministero Rosaria Micucci ne aveva chiesti cinque.

Era accaduto il 30 maggio 2012 nella comunità riabilitativa ad alta assistenza psichiatrica, dove la giovane era ricoverata per un disturbo borderline di personalità. Nel pomeriggio aveva insistito per parlare con una delle operatrici, da cui pretendeva delle sigarette. Dopo il no della dipendente aveva cominciato a spintonarla e a colpirla con pugni e sberle fino a farla cadere a terra. A quel punto aveva cercato di strangolarla. Provvidenziale l’intervento di un medico e di un’infermiera che l’avevano bloccata appena in tempo.

“Adesso voglio finire quello che ho iniziato” aveva detto la giovane che era poi riuscita a liberarsi dalla presa dei soccorritori, dopo aver rotto due bottiglie e minacciato con i cocci le persone presenti. La sua furia non si era calmata nemmeno all’arrivo dei carabinieri, anche loro minacciati di morte se avessero osato toccarla. Le stesse frasi le aveva lanciate all’indirizzo del personale della struttura.

Alla fine era stata neutralizzata. Trasferita in psichiatria al Poma aveva continuato a comportarsi in maniera violenta. Da qui la decisione del giudice, su richiesta del pubblico ministero, di emettere nei suoi confronti un’ordinanza di custodia cautelare a San Vittore. E da lì tre mesi dopo è stata trasferita all’Opg di Castiglione, dove si è tolta la vita.

Giancarlo Oliani

Gazzetta di Mantova, 27 agosto 2015

Pordenone: giovane morto in Carcere, Pd e Forza Italia portano il caso in Parlamento


Carcere di PordenoneIl deputato Andrea Martella (Pd) presenterà un’interrogazione. Il pm Matteo Campagnaro andrà oggi in sopralluogo nel carcere di Pordenone. Il caso di Stefano Borriello finisce in Parlamento. Una settimana fa il 29enne accusato di rapina è morto nel carcere del Castello di Pordenone. Non si danno pace i familiari e gli amici, che vogliono vederci chiaro e capire se la morte di Stefano avrebbe potuto essere evitata.

E le stesse domande che si fanno i genitori, verranno fatte anche in parlamento. Nel dettaglio sono stati alcuni deputati a muoversi, anche sulla scorta di un’inchiesta sulle condizioni delle carceri italiane pubblicata dal Manifesto. La documentazione relativa al decesso di Stefano Borriello è finita sul tavolo dei parlamentari Andrea Martella, di Portogruaro e vicepresidente del gruppo del Partito Democratico alla Camera, e dei due vicepresidenti della Camera, il democratico Roberto Giachetti, e Simone Baldelli di Forza Italia, da tempo sensibile alla questione delle carceri italiane. Martella, con la collaborazione dei due colleghi deputati, sta preparando un’interrogazione parlamentare con cui chiedere approfondimenti sulla morte di Borriello.

Intanto don Andrea Ruzzene, sacerdote della Beata Maria Vergine Regina di Portogruaro, ha deciso di abbassare i riflettori sulla vicenda, dopo le perplessità espresse nei giorni scorsi. “Non parlo più, me lo ha imposto la famiglia del ragazzo e io rispetto questa loro decisione. Non voglio parlare”, ha chiarito il parroco.

“Ma io non ho mai parlato di caso Cucchi, riferendomi a Stefano”. Don Ruzzene aveva agitato qualche ombra sull’operato delle guardie carcerarie e sulla prontezza di riflessi di chi avrebbe dovuto intervenire. Conosceva Stefano Borriello, e sostiene che nonostante questo gli sia stato impedito di incontrarlo. “Stava male da giorni, l’hanno portato in ospedale quando ormai stava morendo. Se l’avessero fatto qualche giorno prima, magari”, è stato lo sfogo del sacerdote nei giorni scorsi. Dubbi, quelli espressi dal parroco, che ora richiedono delle risposte.

Oggi il pm Matteo Campagnaro eseguirà un sopralluogo nel carcere di Pordenone, per raccogliere ulteriori elementi che possano contribuire a fare luce sulle ombre gettate sulla morte del giovane. Intanto si allungano i tempo per l’ultimo saluto al 29enne. Il nulla osta alla celebrazione delle esequie non è ancora stato concesso, e quasi certamente si andrà dopo ferragosto. Il funerale comunque dovrebbe essere celebrato nella di San Nicolò.

Rosario Padovano

La Nuova Venezia, 16 agosto 2015

Gherardo Colombo (Magistrato) : Ero uno che mandava in galera le persone. Ho sbagliato, oggi sono pentito !


PM Colombo“Questa donna ha ragione. E va ascoltata. Perché se oggi il carcere svolge una funzione, è la vendetta”. Prima giudice, poi pubblico ministero in inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come la Loggia P2 o Mani Pulite, Gherardo Colombo ha messo profondamente in discussione le sue idee: “Ero uno che le mandava le persone in prigione, convinto fosse utile. Ma da almeno quindici anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione”.

Da uomo di legge, la sua è una posizione tanto netta quanto sorprendente.

“È concreta. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi, privando le persone della libertà senza dare loro quella possibilità di recupero sancita dalla Costituzione. Esistono esempi positivi, come il reparto “La Nave” per i tossicodipendenti a San Vittore, o il carcere di Bollate, ma sono minimi”.

Molti dati mostrano la debolezza della rieducazione nei nostri penitenziari. Ma perché parlare addirittura di vendetta?

“Credo sia così. Pensiamo alle vittime: cosa riconosce la giustizia italiana alla vittima di un reato? Nulla. Niente; se vuole un risarcimento deve pagarsi l’avvocato. Così non gli resta che una sola compensazione: la vendetta, sapere che chi ha offeso sta soffrendo. La nostra è infatti una giustizia retributiva: che retribuisce cioè chi ha subito il danno con la sofferenza di chi gli ha fatto male”.

Esistono esperienze alternative?

“Sì. In molti Paesi europei sono sperimentate da tempo le strade della “giustizia riparativa”, che cerca di compensare la vittima e far assumere al condannato la piena responsabilità del proprio gesto. Sono percorsi difficili, spesso più duri dei pomeriggi in cella. Ma dai risultati molto positivi”.

Se questa possibilità è tracciata in Europa, perché un governo come quello attuale, così impegnato nelle riforme, non guarda anche alle carceri?

“Nei discorsi ufficiali sono tutti impegnati piuttosto ad aumentare le pene, a sostenere “condanne esemplari”, come sta succedendo per la legge sull’omicidio stradale – una prospettiva che trovo quasi fuori luogo: quale effetto deterrente avrebbe su un delitto colposo? Ma al di là del caso particolare, il problema è che i politici rispondono alla cultura dei loro elettori. Il pensiero comune è che al reato debba corrispondere una punizione, che è giusto consista nella sofferenza. Me ne accorgo quando parlo nelle scuole del mio libro, “Il perdono responsabile”: l’idea per cui chi ha sbagliato deve pagare è un assioma granitico, che solo attraverso un dialogo approfondito i ragazzi, al contrario di tanti adulti, riescono a superare. D’altronde il carcere è una risposta alla paura, e la paura è irrazionale, per cui è difficile discuterne”.

È una paura comprensibile, però. Parliamo di persone che hanno rubato, spacciato, ucciso, corrotto.

“Ovviamente chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, nel rispetto delle condizioni di dignità spesso disattese nei nostri penitenziari. Ma solo chi è pericoloso. Ed è invece necessario pensare in da subito, per tutti, alla riabilitazione. Anche perché queste persone, scontata la condanna, torneranno all’interno di quella società che li respinge”.

Francesca Sironi

L’Espresso, 15 maggio 2015

Giustizia: l’ex Pm Gherardo Colombo “il carcere ? è inumano e non serve a nulla”


Gherardo Colombo PMConsegnato ieri dal presidente della fondazione Bruno Rossi. L’ex pm: “Il 68% dei detenuti scarcerati torna in cella. Il sistema non è efficace”.

“Il carcere non serve”. È il messaggio lanciato dall’ex magistrato Gherardo Colombo ieri mattina, in occasione della consegna del premio Mario Tommasini 2015. “Il 68% di chi esce dal carcere torna al suo interno perché commette nuove azioni criminose – ha dichiarato.

È chiaro che questo sistema non è efficace. Inoltre il concetto della punizione è in contrasto con il riconoscimento della dignità delle persone. Il sistema carcerario non è coerente con i principi dell’umanità”. “Il premio Tommasini – ha aggiunto – è un incentivo a portare avanti queste idee”.

A consegnare il riconoscimento – durante la cerimonia svoltasi all’auditorium Don Gnocchi, in piazzale dei Servi – Bruno Rossi, presidente della Fondazione Tommasini, e Barbara Tommasini, figlia di Mario. “Diversi concetti legano l’opera di Tommasini – ha dichiarato Rossi – con le idee di Gherardo Colombo, soprattutto sul tema del carcere. Tommasini diceva che bisognava far uscire almeno per qualche ora i detenuti dal carcere, mentre Gherardo Colombo afferma che il carcere non serve”. “Questa importante personalità – ha aggiunto Barbara Tommasini – incarna l’idea di libertà della persona che animava anche mio padre”.

La cerimonia di consegna è stata anticipata dall’introduzione di Maristella Galli, vicepresidente della Fondazione Tommasini, che ha sottolineato come Gherardo Colombo, lasciata l’attività professionale, abbia dedicato il suo tempo ed energie alla valorizzazione della cultura del rispetto e alla divulgazione dell’esercizio di una giustizia riparativa, per il recupero di una relazione che si è interrotta con la società e la conquista di un posto utile e rispettato nella comunità.

All’incontro erano presenti anche alcune classi del liceo delle Scienze Umane Sanvitale che hanno preso parte al progetto Fuga d’affetto. Per l’occasione il liceo ha ricevuto una targa per l’impegno sul tema del carcere che gli studenti svolgono da alcuni anni con la Cooperativa Sirio. La Fondazione Tommasini nasce per iniziativa di un gruppo di persone, amici, studiosi, politici e religiosi, determinati a conservare la memoria dell’uomo e del politico, ma soprattutto a creare un laboratorio di riflessioni e idee in grado di accrescere e sviluppare i principi ispiratori della vita di Mario Tommasini. All’iniziativa hanno aderito le principali istituzioni di Parma e provincia, oltre ai comuni del territorio parmense che hanno sostenuto le iniziative di Tommasini.

Luca Molinari

Gazzetta di Parma, 17 maggio 2015

Leva (Pd) : “Piegare per forza il diritto penale alle logiche del consenso è quanto di più sbagliato ci possa essere”


On Danilo Leva Partito Democratico“Immaginare che la lotta alla corruzione si possa svolgere solo ed esclusivamente con un aumento delle pene ed un allungamento della prescrizione è una illusione. Può essere utile se un partito desidera che i sondaggi gli siano favorevoli, ma non serve a risolvere il problema della corruzione”. Danilo Leva, avvocato, parlamentare del Pd, già responsabile Giustizia del partito durante la segreteria Epifani, considera non tutte positive le iniziative di riforma della giustizia messe in campo dal governo di Matteo Renzi. “Con questi interventi non si va al cuore dei problemi e non li si affrontano per quelli che sono. L’impostazione di fondo è quella di rincorrere l’ opinione pubblica con soluzioni che, si è certi, ne incontrano il favore. Ma è sbagliato e sicuramente poco efficace per rendere davvero efficiente il sistema giudiziario: piegare per forza il diritto penale alle logiche del consenso è quanto di più sbagliato ci possa essere”.

I problemi, però, esistono davvero. E troppi processi finiscono con una prescrizione. Come va affrontato allora questo handicap, che giustamente desta anche proteste e rabbia, soprattutto quando sono in gioco inchieste che riguardano l’uso del denaro pubblico?

“Quando si parla di prescrizione ci vuole equilibrio. Non bisogna dimenticare che è un principio a garanzia del cittadino, il quale ha diritto a un processo dalla durata ragionevole. Allungare i termini della prescrizione a dismisura, come è stato fatto, non va bene. A causa del combinato disposto dell’aumento della pena e dell’aumento della prescrizione, più tutti i meccanismi di sospensione tra i diversi gradi di giudizio, si arriva, per alcune tipologia di reati, a oltre 15 anni. Si arriva al paradosso che un cittadino si può veder comminare una condanna dopo oltre15 anni. In uno stato di diritto come il nostro, con un sistema della pena improntato alla prevenzione e alla rieducazione, arrivare alla pena dopo così tanti anni, a chi è utile? E’ utile a far aumentare  un punto nei sondaggi, ma non  a costruire un sistema penale efficiente”.

Però il sistema penale va reso più efficiente, altrimenti non solo non funziona bene, ma troppe persone vengono per anni pubblicamente messe di fronte al paese come possibili rei, e poi o finiscono prosciolti o prescritti, o se sono colpevoli, patteggiano in tempi brevi pene che limitano il rischio di finire al fresco e scompaiono dalle inchieste.  

“Non ci sono scorciatoie: bisogna accorciare i tempi del processo, rendendo più efficiente la macchina della giustizia, e bisogna essere efficaci, con pena certa, che produca effetti, rimuovendo la differenza tra pena edittale, pena comminata e pena effettivamente eseguita. Oggi non c’è nulla di tutto questo. Qualche passo in avanti è stato fatto, naturalmente. Penso alla riforma della responsabilità civile e a quella della custodia cautelare. Ma rischiano di essere vanificati da questo continuo rincorrere la pancia degli italiani, invece di affrontare i problemi. Senza considerare le contraddizioni. Con una mano si aumentano le pene per il furto in appartamento e con l’altra si introduce l’istituto della tenuità del fatto, peraltro declinato in modo discutibile”.

Che i processi debbano essere più veloci è chiaro. Ma quali iniziative si devono prendere per ottenere sul serio questo risultato?

“Intanto dovremmo fare una riflessione  vera sulla fase delle indagini preliminari. Segnalo in proposito che oggi la maggior parte dei processi si prescrive nella fase delle indagini preliminari. Non è un fatto fisiologico. Quindi credo che sia necessario aprire una riflessione vera per capire ciò che accade. Per esempio, io penso che sarebbe necessario e utile introdurre alcuni termini di fase, relativi alle indagini preliminari, molto più stringenti anche rispetto a quelli che abbiamo oggi”.

I termini già esistono. Perché non funzionano?

“La verità è che, chiuse le indagini preliminari, il pm non ha l’obbligo di esercitare subito l’azione penale. Può farlo subito come due anni più tardi. Ecco. Questo per esempio è un meccanismo che rischia di trasformare l’obbligatorietà dell’azione penale in discrezionalità, che è ben altra cosa”.

E allora?

“E allora potremmo collegare la durata ragionevole del processo alla sospensione o meno dei termini di prescrizione tra il primo, il secondo grado e il terzo grado. Nel senso che i termini stessi si posso sospendere se il pm ha esercitato l’azione penale entro un tot di tempo, altrimenti non si può dar corso alla sospensione. D’altra parte, il processo non può trasformarsi né in un giudizio anticipato di colpevolezza, né tantomeno  una sorta di calvario che poi mortifica la dignità stessa del cittadino”.

Non sono proposte semplici da spiegare all’opinione pubblica…

“Quando si fanno le riforme bisogna capire quali obiettivi di fondo bisogna raggiungere, quale strada bisogna percorrere. Non è l’andare in sé l’obiettivo. Ma l’andare in una direzione. E secondo me la direzione è che bisogna costruire un sistema penale sicuramente efficiente e che torni a fare il suo mestiere. Anche dal punto di vista della prevenzione. Per esempio, i reati contro la Pubblica Amministrazione andrebbero perseguiti con determinazione, introducendo anche  strumenti investigativi che siano  forti, come quelli oggi in vigore per combattere i reati di mafia. Così combatti la corruzione, non con misure di propaganda….”

E le intercettazioni? Sono indispensabili per trovare le prove ma troppo spesso finiscono sui giornali anche conversazioni che non c’entrano con il reato da perseguire.

“Nell’ordinamento già esiste l’udienza stralcio. E le intercettazioni sono uno strumento indispensabile per le indagini quale mezzo di  ricerca delle prove. E’ uno strumento che da questo punto di vista non va assolutamente indebolito. Quel che si può e si dovrebbe fare è introdurre un sistema di responsabilità oggettive per la fuga di notizie. Beninteso, responsabilità di chi lascia fuggire le notizie, non certo del giornalista che utilizza le informazioni: lui fa solo il proprio mestiere. Tanto è vero che quando le notizie, come dire?, non devono uscire, non escono mai, quando invece fa comodo farle uscire escono sempre. Non possiamo prendercela con i giornalisti. Il tema riguarda la fonte. C’è già l’obbligo di non mettere nelle ordinanze le trascrizioni delle intercettazioni non pertinenti. Chi è che non lo rispetta? Perché non lo rispetta? Perché informazioni che non devono circolare circolano? La responsabilità è di chi lascia circolare quelle informazioni. Ma questi sono solo alcuni temi nell’ambito della riforma della giustizia. Per esempio: si può pensare a una riforma del Csm?”

Parliamo anche di struttura. Di attrezzature. Ce ne sono a sufficienza per rendere i processi più rapidi, è un problema di organizzazione o di mezzi?

“Mi limito a ribadire che riformare la giustizia senza soldi e senza investimenti è impossibile. Se un cancelliere lavora fino alle due di pomeriggio e non anche di pomeriggio perché non ci sono i soldi per gli straordinari, è inutile pensare al processo veloce. Certo, in molti casi è anche un problema di organizzazione. Ma la vera riforma della giustizia è questa: vogliamo velocizzare i processi? Non c’è bisogno di norme strane. Bisogna consentire di avere personale nelle cancellerie, consentire l’affermazione del processo telematico, bisogna insomma mettere qualche soldo su questo grande obiettivo di modernizzazione. La bacchetta magica è questa”.

Roberto Seghetti

http://www.ilcampodelleidee.it – 09 Maggio 2015

Padova, detenuto calabrese morto di peritonite curato con antidolorifici, 5 Medici indagati


Casa Circondariale di PadovaLa cercavano per avere conferme dei sospetti sulla morte del detenuto Francesco Amoruso. E quando è stata rintracciata e convocata dagli investigatori, ha confermato: i sanitari le avevano indicato di somministrare al paziente del Buscopan.

Lei è un’infermiera che, all’epoca dei fatti, lavorava nel carcere Due Palazzi di Padova dove Amoruso – 45enne originario di Crotone, una condanna definitiva da scontare fino al 15 luglio 2023 per rapina, omicidio e reati legati allo spaccio di droga – è stato rinchiuso fino al 7 marzo del 2014.

Quel giorno il trasferimento urgente nel Pronto soccorso dell’Azienda ospedaliera padovana. Troppo tardi: è morto il 10 marzo tra dolori atroci in seguito a una peritonite stercoracea, una perforazione di un tratto dell’intestino con infiammazione del peritoneo (membrana che riveste gli organi addominali) e del passaggio retto-pelvico a causa di un’abnorme stasi di feci. Tutto ciò aveva provocato uno shock ipovolemico (una riduzione acuta della massa sanguigna circolante), con problemi renali e due arresti cardiaci.

Eppure il Buscopan si impiega nel “trattamento sintomatico delle manifestazioni spastico-dolorose del tratto gastroenterico e genito-urinario”: in pratica si usa per alleviare i classici crampi allo stomaco dovuti ad iperacidità gastrica. L’infermiera ha ammesso: quell’antidolorifico era stato prescritto al recluso colpito da dolori lancinanti tanto da reclamare più volte una visita medica.

E, in effetti, nell’arco di appena ventiquattr’ore, Amoruso era stato sottoposto a cinque visite dal personale sanitario dell’istituto. Visite che si erano concluse con la somministrazione di Buscopan, senza ritenere necessari altri approfondimenti diagnostici. Questi ultimi avrebbero imposto un immediato trasferimento in ospedale. Fu un errore quel mancato trasferimento: lo rileva un consulente tecnico nominato dal pubblico ministero Francesco Tonon che coordina l’inchiesta per omicidio colposo. Ma il magistrato vuole capire di più, in particolare se Amoruso pagò con la vita quel ricovero tardivo. Ecco perché ha sollecitato un’integrazione della consulenza tecnica.

Cristina Genesin

Il Mattino di Padova, 1 aprile 2015

Catanzaro, i Pm fanno danni e lo Stato paga. 26 mila euro di risarcimento per il collega Magistrato ingiustamente indagato


tribunale_catanzaroL’ultimo errore giudiziario “inescusabile” che lo Stato dovrà risarcire chiama in causa il sindaco di Napoli ed ex “toga” Luigi De Magistris. La legge Vassalli sulla responsabilità civile dei magistrati, da pochi giorni soppiantata dalle nuove norme del governo Renzi, ha concluso i suoi 27 anni di applicazione con un caso clamoroso: Palazzo Chigi dovrà risarcire 22.400 euro (circa 26mila con le rivalutazioni Istat), tra danni e spese legali, in favore di Paolo Antonio Bruno, magistrato di Cassazione che la procura di Catanzaro, nel 2004, aveva perquisito e indagato per concorso in associazione mafiosa. A firmare quel provvedimento, poi rivelatosi abnorme, erano stati l’allora procuratore capo di Catanzaro Mariano Lombardi (deceduto nel 2011), il pm De Magistris (dimessosi dalla magistratura a fine 2009 per entrare in europarlamento con l’Idv di Di Pietro) e l’aggiunto Mario Spagnuolo (ora procuratore capo a Vibo Valentia).

A condannare lo Stato per almeno due “errori inescusabili”, commessi dalla procura di Catanzaro ben 11 anni fa, è stato il mese scorso il Tribunale civile di Salerno con motivazioni che pesano come macigni e ora aprono una serie di interrogativi: il governo avrà o no l’obbligo di rivalsa entro due anni su De Magistris, ora che non è più in magistratura? Varranno le vecchie norme della Vassalli o quelle più salate della nuova legge Orlando (fino alla metà dell’annualità dello stipendio)? In assenza di una norma transitoria, vige l’incertezza sui procedimenti pendenti. Agli atti resta però un fatto: in dieci anni, il nono e ultimo caso di condanna dello Stato per un errore giudiziario, valutato sulla base della Vassalli, tocca la procura di Catanzaro, finita tra il 2006 e il 2008 nell’occhio del ciclone.

Le inchieste “Toghe lucane”, “Why Not” e “Poseidone” aprirono una stagione di guerre intestine alla magistratura (De Magistris intercettò alcuni colleghi e avviò un conflitto col suo capo Lombardi) e di scontro frontale con la politica (nel registro degli indagati, poi archiviati, finirono anche l’allora premier Prodi e l’ex Guardasigilli Mastella).

Il giudice Paolo Antonio Bruno si era trovato coinvolto in una precedente inchiesta di Catanzaro che, il 9 novembre del 2004, aveva portato all’arresto di sei persone, tra cui l’ex parlamentare forzista Matacena, accusate a vario titolo di associazione a delinquere di stampo mafioso e minaccia a un corpo giudiziario. L’ipotesi di De Magistris era la seguente: a Reggio Calabria ci sarebbe stato un comitato di affari che avrebbe cercato di condizionare i magistrati della Dda per bloccare le inchieste. Tra i 34 indagati anche il consigliere di Cassazione Bruno. Il quale aveva solo una “colpa”: essere nato a Reggio. Il filone principale fu chiuso con l’assoluzione in primo grado di tutti gli imputati.

E anche il giudice Bruno ha avuto ragione in toto. Il gup di Roma, competente per territorio e al quale Catanzaro ha inviato gli atti in ritardo, dopo averli girati per errore a Perugia, ha archiviato tutte le accuse. E lo ha fatto, scrive il Tribunale di Salerno che ha condannato lo Stato, “non già in forza di sopravvenienze investigative, ma sulla base della mera presa d’atto che fin dall’inizio mancava qualsiasi elemento, sia pure di mero sospetto, idonea a sorreggere l’accusa come prospettata”. Le indagini, poi, hanno avuto una “durata assolutamente irragionevole”, senza contare che il magistrato perquisito non è mai stato interrogato, nonostante lo avesse chiesto per oltre un anno.

Silvia Barocci

Il Messaggero, 2 marzo 2015