Sull’ergastolo “duro” ai mafiosi la Corte dei diritti umani di Strasburgo (Cedu) dà torto all’Italia e non accoglie il ricorso del governo contro la sentenza del 13 giugno che bocciava il cosiddetto “fine pena mai” in quanto – secondo la giurisprudenza della Corte – a chi è detenuto non si può togliere del tutto anche la speranza di un recupero, ma al soggetto in carcere va riconosciuta la possibilità di redimersi e di pentirsi ed avere quindi l’ultima chance di migliorare la propria condizione.
L’Italia, nel ricorso presentato a settembre aveva chiesto che il caso dell’ergastolo ostativo, previsto dall’Articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, fosse sottoposto al giudizio della Grand Chambre, l’organo della Cedu che affronta i casi la cui soluzione può riguardare tutti i paesi della Ue. Lì, ad esempio, fu esaminata la controversia di Berlusconi contro la legge Severino (poi archiviata a seguito della sua riabilitazione) che si riferiva al diritto alla eleggibilità di un parlamentare condannato, quindi un caso che poteva avere riflessi giuridici in tutti gli Stati dell’Unione. In questo caso invece l’Italia, nel suo ricorso, spiega la specificità criminale del nostro Paese, la pericolosità stravista delle mafie, Cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta. Il ricorso motiva la ragione delle norme rigide sull’ergastolo spiegando che esse riguardano solo alcuni reati molto gravi – mafia, terrorismo, pedopornografia – e consentono una strategia severa contro chi, aderendo a un’organizzazione mafiosa o terroristica, si pone l’obiettivo di destabilizzare lo Stato.
Ma l’orientamento della Cedu va in tutt’altra direzione. Proprio come dimostra il caso specifico affrontato il 13 giugno e la decisione presa dalla Corte e contestata dall’Italia. Riguardava il ricorso a Strasburgo di Marcello Viola, un capocosca di Taurianova, detenuto per 4 ergastoli a seguito di omicidi, sequestri di persona, detenzione di armi. Ma per la Cedu quell’ergastolo “duro”, che la legge italiana battezza come “ostativo”, nel senso che impedisce la concessione di benefici, viola l’articolo 3 della Convenzione che vieta la tortura, le punizioni disumane e degradanti, soprattutto nega la possibilità di un percorso rieducativo. Da qui l’invito all’Italia a rivedere la legge. Un invito, si badi, che non ha carattere perentorio, non rappresenta un obbligo, ma produce però come conseguenza una serie di altri ricorsi di detenuti che lamentano condizioni disumane, tant’è che a Strasburgo ce ne sarebbero già altri 24. Inoltre anche la Corte costituzionale italiana, il 23 ottobre, dovrà trattare il caso di Sebastiano Cannizzaro, un altro detenuto per mafia, che protesta per las mancanza di permessi.
In realtà l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario (unito al 58ter), più volte rivisto dall’ordinaria stesura del 1975, dà una possibilità al detenuto quando dice espressamente che i benefici – permessi premio, lavoro esterno, misure alternative al carcere, ma non la liberazione anticipata – possono essere concessi solo qualora chi sta in carcere decida di collaborare con la giustizia in modo da rompere in modo definitivo i suoi legami con l’organizzazione mafiosa. L’articolo dell’ordinamento specifica che “i benefici possono essere concessi anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata”. La ragione profonda dell’ergastolo “duro” sta proprio nel fatto che la specificità di un mafioso è quella di conservare per sempre, una volta affiliato a una famiglia criminale, il suo dovere di obbedienza.
La questione dell’ergastolo ostativo divide profondamente il mondo della cultura giuridica tra coloro che sostengono la necessità di un carcere umano – come l’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo e l’ex senatore Luigi Manconi – e chi invece ritiene che aprire le maglie della carcerazione per i mafiosi significhi distruggere anni di politica contro le cosche. Sono soprattutto magistrati antimafia come Piero Grasso, Gian Carlo Caselli, Nino Di Matteo, Federico Cafiero De Raho, Sebastiano Ardita, Luca Tescaroli, a sostenere questa seconda strada. Su cui sono allineati il ministro della Giustizia Bonafede e quello degli Esteri Luigi Di Maio, i quali hanno tentato, negli ultimi giorni, di far comprendere il danno che ricadrebbe sulla lotta alla mafia se l’ergastolo ostativo viene cancellato. Tutti ricordano che Totò Riina, indiscusso capo di Cisa nostra vino alla sua morte, nel “papello” del 1993 in cui poneva le sue condizioni per negoziare con lo Stato citava espressamente l’ergastolo come misura da cancellare.
Giustizia
Droga, Corte Costituzionale: Sproporzionata la pena minima di 8 anni per i fatti non lievi
E’ sproporzionata la pena minima edittale di 8 anni di reclusione prevista per i reati non lievi in materia di sostanze stupefacenti. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale (Presidente Lattanzi, Relatore Cartabia) che, con la Sentenza n. 40 del 23/01/2019, depositata oggi 08/03/2019, ha dichiarato illegittimo l’Art. 73 c. 1 del Testo Unico sugli Stupefacenti (D.P.R. n. 309/1990) la’ dove prevede come pena minima edittale la reclusione di 8 anni invece che di 6. Rimane inalterata la misura massima della pena, fissata dal legislatore in 20 anni di reclusione, applicabile ai fatti più gravi.
In particolare, la Corte Costituzionale ha rilevato che la differenza di ben 4 anni tra il minimo di pena previsto per la fattispecie ordinaria (8 anni) e il massimo della pena stabilito per quella di lieve entità (4 anni) costituisce un’anomalia sanzionatoria in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità’, ragionevolezza (Art. 3 della Costituzione), oltre che con il principio della funzione rieducativa della pena (Art. 27 della Costituzione).
Una decisione importante che arriva proprio mentre il Ministro dell’Interno Sen. Matteo Salvini (Lega Nord) con un Disegno di Legge ha proposto un’ulteriore inasprimento delle sanzioni in materia di stupefacenti (fino a 6 anni di reclusione) per i fatti di lieve entità ex Art. 73 c. 5 D.P.R. n. 309/1990.
La dichiarazione di incostituzionalità arriva dopo che la Consulta, con la Sentenza n. 179 del 2017 aveva invitato “in modo pressante” il legislatore a risanare la frattura che separa le pene per i fatti lievi e per i fatti non lievi, previste, rispettivamente, dai c. 5 e 1 dell’Art. 73 del Testo Unico. Quell’invito è rimasto però inascoltato, così la Corte ha ritenuto “ormai indifferibile” il proprio intervento per correggere “l’irragionevole sproporzione, più volte segnalata dai giudici di merito e di legittimità”. “La soluzione sanzionatoria adottata – si legge in una nota della Corte – non costituisce un’opzione costituzionalmente obbligata e quindi rimane possibile un diverso apprezzamento da parte del legislatore, nel rispetto del principio di proporzionalità”.
Sentenza n. 40 del 2019 – Corte Costituzionale (clicca per leggere)
41 bis, ergastolo e semilibertà in Italia: parla Carmelo Musumeci, uno che ci è passato
In carcere da 25 anni e dopo un’esperienza al 41 bis, a Carmelo Musumeci è stata concessa la semilibertà.
Nel 1991, l’allora 36enne Carmelo Musumeci è stato arrestato con l’accusa di omicidio e di essere organizzatore di un’associazione mafiosa che si occupava di bische, delitti contro il patrimonio e spaccio di cocaina. Un anno dopo, è arrivata la sentenza definitiva che lo ha condannato all’ergastolo.
Da allora sono passati 25 anni: Musumeci ha girato diversi penitenziari italiani, preso due lauree in giurisprudenza e una in filosofia, e infine nel novembre del 2016, mentre era nel penitenziario di Padova gli è stata concessa la semilibertà, da lui richiesta tramite istanza. Nonostante l’ergastolo, grazie al regime della semilibertà ha la possibilità di uscire durante le ore diurne per prestare attività di volontariato (nel suo caso, sostegno scolastico e ricreativo a persone portatrici di handicap presso una struttura).
Negli ultimi tempi, Musumeci ha pubblicato diversi libri, l’ultimo dei quali intitolato L’urlo di un uomo ombra. Da anni tiene anche un diario sul suo sito, e si spende per una campagna contro la formula detentiva dell’ergastolo: è così che è diventato una delle figure pubbliche più note per chi si trova nella sua stessa condizione.
Per capire cosa si prova a scontare una pena a vita e mettere piede fuori dal cacere dopo 25 anni di reclusione, ho incontrato Musumeci in una delle sue ore di semilibertà—cercando di sospendere il giudizio sui reati che ha commesso per parlare liberamente di sistema penitenziario, del concetto di ergastolo e di come ha ritrovato il mondo che aveva lasciato.
VICE: Raccontami come sei finito in carcere.
Carmelo Musumeci: Sono cresciuto in un paesino ai piedi dell’Etna. Eravamo poveri, e io ho cominciato a nutrirmi della cultura di strada già da piccolo. Mia nonna, per esempio, mi ha insegnato a rubare al supermercato quando ero ancora un bambino, e così la prima volta sono finito in carcere che ero ancora minorenne.
Intorno ai 15 anni i miei genitori si sono separati e sono stato mandato in un collegio al nord. Là ho iniziato a covare rabbia nei confronti del mondo e delle istituzioni, e quando poi sono tornato a casa ho trovato le stesse difficoltà economiche che avevo lasciato: in quel momento, forse inconsapevolmente, avevo già imboccato le strade sbagliate. Ho iniziato con una serie di piccoli reati e poi, dopo aver visto che si poteva guadagnare, ho alzato il tiro: nel 1972 sono stato arrestato durante una rapina in un ufficio postale.
Quando sono uscito mi sono ributtato in quel mondo. Fino a una sera del 1990 in cui, in uno scontro tra bande rivali, mi beccai sei pallottole. Sono sopravvissuto, ma quello era un ambiente in cui o ammazzi o vieni ammazzato. Così poi è successo quello che è successo.
A cosa hai pensato quando ti è arrivata la sentenza definitiva?
Quando sono stato arrestato sono stato considerato un criminale di spessore, e quindi nel 1991 sono stato sottoposto al 41bis. Mentre stavo in isolamento per un anno e sei mesi, in una cella buia con l’impossibilità di parlare con qualcuno, mi è arrivato il telegramma della mia compagna che confermava l’ergastolo. Be’, inutile dire come mi è crollato il mondo addosso: avevo la consapevolezza che non sarei mai più uscito da là.
Il 41 bis è il regime carcerario più duro del nostro ordinamento, è l’isolamento totale: personalmente non riesco a pensare a come ci si possa convivere. Com’è stato?
Erano gli anni in seguito alla strage di Capaci e lo Stato era in lotta con l’anti-stato, la mafia: io, tra le accuse, avevo anche quella di associazione mafiosa, e quell’articolo permetteva dei trattamenti più duri per creare collaboratori di giustizia. In pratica vivevo in una cella quasi totalmente buia, ricevevo da mangiare da uno spioncino, avevo poca acqua e sono stato offeso da guardie sbronze. Venivo torturato.
Non hai mai pensato di ucciderti?
Ci ho pensato costantemente: sarebbe stata la via di fuga più facile. Mi sento anche di dire che chi pensa a togliersi la vita non è vero che non l’ama: chi si toglie la vita in quelle condizione ama la vita talmente tanto che non vuole vedersela appassire. Ho sempre ammirato chi ha avuto il coraggio di farcela perché anche oggi soffro per quello che ho vissuto in quei giorni.
Mi fa ancora male parlarne, non perché ero innocente ma perché ho sofferto per nulla, e tutto questo non aiutava né lo Stato né i parenti delle vittime. Ma quando hai dei figli, hai una responsabilità. Non potevo andarmene così.
Nel tuo diario online definisci le notti passate in carcere, dopo una giornata di quasi libertà, il tuo “ritorno all’inferno.” Quali sono le cose più brutte che hai visto?
Paradossalmente, le cose che ti succedono intorno. Quella che forse mi fa ancora male è del 1992, quando ho visto il trattamento ai ragazzi della strage di Gela [la faida tra gruppi criminali che nel giro di poche ore, nel novembre del 1990, innescò una catena di agguati mortali]. Erano ancora dei ragazzini, non credo sapessero quello che stavano facendo: ho visto strappargli la vita per sempre in quelle mura. Quello che voglio dire è che il carcere dovrebbe far capire al condannato dove ha sbagliato, ma l’unica cosa che vedevo in quegli anni era un processo che portava al “io ho ucciso ma tu [il carcere] mi stai uccidendo lentamente, giorno dopo giorno.”
Penso che la cosa che fa più paura a un criminale è il perdono sociale, perché perdi tutti gli alibi e dici “cazzo, ho fatto del male e queste persone mi stanno perdonando.” Quando invece vieni trattato male ogni singolo giorno ti dimentichi del male che hai fatto, e quello che provi non è certamente il rimorso.
Quanto a te, come si svolgeva una tua regolare giornata in carcere?
Dopo i primi anni ho cambiato carcere spesso: ogni carcere è uno stato a sé, con le proprie regole e i propri ritmi. Ma in generale è tutto molto piatto: mi svegliavo verso l’alba e iniziavo a studiare, nell’ora d’aria facevo una corsetta, e poi verso mezzogiorno mangiavo a mensa. Il pomeriggio rientravo in cella e la sera mi cucinavo qualcosa da mangiare. Questo per migliaia e migliaia di giornate.
È scontato da dire, ma immagino che in una situazione del genere trovare uno scopo ti aiuti ad affrontare le giornate. Come nel caso dello studio. Come funzionava, e come ti procuravi i libri necessari?
Sì, se non fosse stato per lo studio sarei impazzito. Ho anche iniziato a scrivere, oltre a studiare per laurearmi in giurisprudenza e filosofia: penso che in Italia manchi una letteratura sociale carceraria. Voglio dire, la letteratura è l’anima e la storia di un paese, per questo m’illudo di crearne una con i miei romanzi.
Per quanto riguarda i libri, dopo il 41 bis ho potuto averne, fortunatamente. A volte non dovevano essere più di tre, non potevano avere la copertina dura e nonostante fossi iscritto all’università mi mancavano sempre dei manuali. Il solo fatto che cambiavo spesso carcere rendeva sempre difficilissimo l’iter universitario.
A cosa erano dovuti i costanti spostamenti di carcere?
Diciamo che ero un detenuto scomodo. Dopo un po’ che studiavo chiedevo sempre più cose che mi appartenevano come diritto, e questo può dare fastidio ai dirigenti. Era un attivismo scomodo e infatti a chiunque dovesse andare in carcere consiglio assolutamente di procurarsi un codice per capire i propri diritti che spesso vengono trascurati.
Nel tuo caso però a un certo punto sei riuscito a ottenere la semilibertà, caso raro per un ergastolo ex ostativo, per prestare servizio in una comunità. Qual è stata la prima cosa a cui hai pensato?
Ero sicuro di non avere speranza e di morire in carcere. Quando dopo svariati tentativi mi è stata concessa la semilibertà, non so cosa ho provato qualcosa di inspiegabile, forse, ma molto simile all’ansia e alla paura. Ho pensato alla mia famiglia, ai miei nipoti…
E quando sei effettivamente uscito cosa ti ha sorpreso di più?
Le piccole cose, paradossalmente, come affacciarsi a una finestra o guardarmi allo specchio in carcere ci sono solo specchi piccolissimi. Mi sono guardato allo specchio e ho visto tutto il mio corpo, ma non era più il mio corpo. Era quello di una persona che non sapevo chi fosse. Poi un’infinità di sensazioni e cose di cui mi ero completamente dimenticato cose come percepire la sabbia tra le dita dei piedi, l’odore del mare, la pelle dei miei figli.
In che modo hai trovato cambiato il mondo ? Voglio dire, ti sei perso l’esplosione di Internet…
Quando sono uscito la prima volta mi sono fermato, e per un po’ mi sono guardato intorno immobile. Tutto mi sembrava irreale e diverso da come mi ricordavo il mondo. Le persone sono cambiate, così il modo di vivere e adesso anche prendere un semplice treno, con le persone connesse ai loro pc è come guardare un film di fantascienza. Insomma, è tutto molto strano e mi ci sto abituando piano piano, ma sono dannatamente felice di doverlo fare.
Leon Benz
http://www.vice.com – 01 febbraio 2017
Detenuto in coma all’Ospedale Don Bosco di Napoli. Nessuna revoca della carcerazione
Un giovane romano, Stefano Crescenzi, di anni 37, è detenuto in custodia cautelare in quanto condannato alla pena di anni 23 di reclusione dalla Corte di Assise di Roma presieduta dal Giudice dott.ssa Anna Argento, ed è in atteso del giudizio di appello. Il reato è quello dell’omicidio di Giuseppe Cordaro avvenuto in Roma alla via Aquaroni, zona Tor Bella Monaca il 30 marzo dell’anno 2013. Negli ultimi giorni, a causa delle sue gravi condizioni di salute dovute e connesse al rifiuto di alimentarsi, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha ritenuto che Crescenzi non potesse rimanere presso un ordinario istituto penitenziario ed ha deciso il suo trasferimento dalla casa circondariale di Livorno presso il centro clinico della casa circondariale di Napoli – Secondigliano.
A spiegare la circostanza, l’avvocato Dario Vannetiello: “Subito, i sanitari del centro clinico di Napoli – Secondigliano si sono resi conto che non avrebbero potuto apprestare le cure al detenuto, le cui condizioni peggioravano. Così, la direzione sanitaria del penitenziario partenopeo ha deciso il trasferimento all’Ospedale Cardarelli di Napoli, e, di lì, trasferito, infine, in condizioni a dir poco preoccupanti, all’Ospedale Don Bosco di Napoli. Le condizioni del detenuto sono ancora di più precipitate tanto da portare il difensore di Crescenzi, l’avvocato Dario Vannetiello del Foro di Napoli, nel pomeriggio del 19 ottobre a chiedere alla Corte di Assise di Roma di revocare immediatamente la misura cautelare, o adottare urgentemente una decisione che consentisse al detenuto di ricevere le cure adeguate in un centro specializzato, da individuarsi da parte della Corte o da parte dei familiari.
Il detenuto era ed è a rischio di morte improvvisa. Ora il detenuto è addirittura arrivato in coma, morirà se non verranno effettuati i giusti interventi e le opportune cure.
La urgentissima richiesta formulata dall’avvocato ancora non riceve risposta. In tali provate condizioni, a prescindere dagli accertamenti del caso, la decisione deve esser assunta con la immediatezza che il caso impone, così come l’avvocato Vannetiello pretende. Ognuno ha diritto di non morire, ivi compreso un uomo in stato di detenzione, a maggior ragione quando non è stato neppure condannato definitivamente. Vi è la presunzione di innocenza dei cittadini sino alla decisione definitiva di condanna.
La legge, giustamente, prevede che un uomo può essere sottoposto a carcerazione preventiva, quindi prima della sentenza definitiva, ma devono ricorrere le esigenze cautelari che sono quelle del pericolo di inquinamento delle prove, di fuga e di reiterazione del reato. Nel presente caso il pericolo di inquinamento delle prove è superato dalla avvenuta conclusione del processo di primo grado. Mentre il pericolo di fuga e quello di reiterazione è escluso in radice dall’essere il detenuto in coma, in fin di vita. Allora perché la Corte di Assise di Roma non ha deciso subito ?
Cosa i giudici aspettano? C’è mezzo la vita di un uomo, un presunto innocente. La mamma del detenuto ed i familiari tutti chiedono solo di non farlo morire, poi, se Crescenzi ha sbagliato, pagherà il suo conto con lo Stato. Ma adesso lo Stato, e gli uomini che lo rappresentano, cioè i Giudici della Corte di Assise di Roma lo devono proteggere. La detenzione non deve mai essere disumana, come le decisioni di chi rappresenta lo Stato, le quali non possono in casi simili arrivare in ritardo. E poi, come potrebbe un moribondo in coma (attualmente è intubato, con ventilazione assistita ed ha perso conoscenza) con prognosi estremamente riservata, darsi alla fuga o commettere reati?
I familiari di Crescenzi hanno o non hanno il diritto di decidere loro dove e come e chi deve cercare di salvare Stefano? Qualora i medici dell’ospedale dove per legge è stato portato (e che non sono stati scelti né da detenuto, né dai familiari) hanno riferito che il detenuto è talmente grave tale da non poter essere trasportato altrove, allora come è possibile che non viene revocata la carcerazione preventiva? Spesso ci si dimentica che dietro un nome ed un cognome, non c’è un numero, ma un uomo, come ci sono i familiari, i quali, spesso, non hanno neppure compiuto un’ illegalità, ma che subiscono quello che, in questi tragici momenti, nessun uomo non dovrebbe subire, tantomeno da chi rappresenta la Giustizia. Tutto quello che accadendo è inaccettabile”.
Quotidiano del Sud, 21 ottobre 2016
Suicidio al Carcere di Ivrea. Detenuto si toglie la vita con la bomboletta del gas
Nella giornata di sabato un detenuto italiano di 50 anni, A.L., ristretto per espiare un residuo pena per reati comuni, si è tolto la vita all’interno della Casa Circondariale di Ivrea (Torino). Lo rivela l’Osapp, Sindacato del Corpo di Polizia Penitenziaria tramite il Segretario Generale Leo Beneduci.
L’uomo, secondo quanto viene riferito, ha infilato la testa in un sacchetto insieme a una bomboletta di gas che poi ha aperto. “A nulla, spiega Leo Beneduci, segretario generale Osapp, sono valsi i tentativi prima del personale di polizia penitenziaria presente, poi del personale medico, di evitare il 23mo suicidio di un detenuto nelle carceri italiane nel corrente anno”.
“Malgrado la popolazione ristretta nelle carceri italiane sia diminuita dal 2014 a oggi di oltre 15 mila unità, osserva, sono ancora troppi i casi di suicidio a cui il personale di polizia penitenziaria non riesce a porre rimedio in ragione di una costante, grave e inaccettabile carenza di organico di ben oltre il 25% e pur considerando che, proprio grazie agli interventi del personale del corpo, solo un tentato suicidio su 20 ha esito infausto”.
Nessun traffico di droga, assolto il radicale Quintieri. Chiederà 500 mila euro di danni
Nel tardo pomeriggio di ieri, intorno alle ore 17,30, il Tribunale di Paola in composizione collegiale (Del Giudice, Presidente, Paone e Mesiti, Giudici a latere), in nome del popolo italiano, ha pronunciato la sentenza di primo grado nell’ambito dell’Operazione Antidroga “Scacco Matto”, istruita dal Nucleo Operativo della Compagnia Carabinieri di Paola su delega della locale Procura della Repubblica e che portò all’arresto, tra gli altri, anche del cetrarese Emilio Quintieri, in quel periodo candidato nella circoscrizione calabrese alla Camera dei Deputati con la Lista Radicale “Amnistia, Giustizia e Libertà” promossa da Marco Pannella ed Emma Bonino.
Il Collegio giudicante, disattendendo la richiesta avanzata dal Pubblico Ministero Valeria Teresa Grieco che concludeva per la condanna dell’esponente radicale alla pena di 3 anni di reclusione e 6.000 euro di multa, riqualificati i fatti come di lieve entità ex Art. 73 comma 5 D.P.R. nr. 309/1990 (quasi il massimo atteso che la pena prevista è la reclusione da 6 mesi a 4 anni e la multa da euro 1.032 ad euro 10.329), ha riconosciuto l’innocenza dell’imputato assolvendolo con la formula più ampia “perché il fatto non sussiste” per tutti e cinque i capi di imputazione (capi 3, 10, 11, 12 e 20) che gli erano stati ascritti nell’ordinanza custodiale e nel decreto di giudizio immediato, provvedimenti entrambi firmati dal Gip del Tribunale di Paola Carmine De Rose. L’ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere era stata persino confermata dal Tribunale del Riesame di Catanzaro (Perri, Presidente, Natale e Tarantino, Giudici a latere) che aveva rigettato il ricorso proposto dall’Avvocato Sabrina Mannarino del Foro di Paola, difensore di fiducia del Quintieri, con il quale veniva diffusamente contestato il quadro indiziario e cautelare e, per l’effetto, chiesto l’annullamento e la revoca della misura o, in subordine, la sostituzione della stessa con altra meno afflittiva. Su questa specifica questione, l’imputato Quintieri, che è intervenuto personalmente in udienza, si è soffermato per stigmatizzare l’operato dei Giudici catanzaresi leggendo brevi passi dell’ordinanza da loro vergata, che già all’epoca dei fatti non aveva alcun fondamento. Ed infatti, secondo il Riesame nei confronti del Quintieri vi era la sussistenza della “gravità indiziaria” per i delitti a lui ascritti nella imputazione provvisoria, poiché dagli atti di indagine e, in particolare, dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali svolte dagli inquirenti – rituali e pienamente utilizzabili – il cui contenuto appariva esplicito ed univoco, nonché dalle attività di riscontro (osservazioni, pedinamenti e sommarie informazioni di tossicodipendenti) posti in essere dagli organi di Polizia Giudiziaria, emergevano gravi indizi di colpevolezza a suo carico, senza necessità di altri riscontri esterni. “Vorrei sapere dove sono queste intercettazioni telefoniche ed ambientali visto che negli atti non ve né traccia così come vorrei sapere chi ha compiuto queste osservazioni e pedinamenti visto che i Carabinieri quando sono stati sentiti in aula hanno riferito tutt’altro.” Per quanto riguarda, invece, i cinque tossicodipendenti – sulla cui posizione il Tribunale ha trasmesso gli atti alla Procura della Repubblica per quanto di competenza – l’esponente radicale, ha detto che questi soggetti sono “inattendibili ed inaffidabili” e che le dichiarazioni rese nei suoi confronti sono tutte “false e calunniose” e prive di ogni minimo riscontro, anzi smentite da altri dati acquisiti durante l’istruttoria dibattimentale, lamentando altresì che “non si possono fare processi in queste condizioni”.
Per Quintieri, complessivamente, la “carcerazione preventiva” è durata un anno venendo ristretto in carcere, prima a Paola e poi a Cosenza (dal 13/02/2013) poi sottoposto agli arresti domiciliari “aggravati” in Fagnano Castello (dal 04/09/2013) e, successivamente, scarcerato e sottoposto all’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria per tre volte alla settimana (dal 23/12/2013 al 13/02/2014). Attualmente, per gli stessi fatti, è sottoposto alla misura di prevenzione della Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza che gli impone particolari divieti e restrizioni anche alla libertà personale, misura per la quale, a breve, chiederà la revoca.
Visto che il Codice di Procedura Penale, in adempimento di un preciso obbligo posto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, riconosce all’imputato il diritto di ottenere un’equa riparazione per la ingiustizia sostanziale della custodia cautelare subita e per gli ulteriori danni morali arrecati sul piano familiare sociale e fisico, considerato anche che al momento dell’arresto Emilio Quintieri era candidato al Parlamento, non appena l’assoluzione diverrà irrevocabile, chiederà alla Corte di Appello di Catanzaro la condanna dello Stato a 500.000 euro di risarcimento, il massimo previsto attualmente dalla legge, non lasciando nulla di intentato nei confronti di chiunque altro abbia sbagliato, abusando delle proprie funzioni.
In poche ore, all’esponente dei Radicali Italiani, è pervenuta la solidarietà di oltre 500 persone tra cui numerosi Deputati e Senatori, Sindaci, Consiglieri Regionali, Funzionari dell’Amministrazione Penitenziaria, Giuristi, Magistrati, Docenti Universitari e Presidenti di Associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani.
Padova, Natale in carcere, alla ricerca di un po’ di speranza. Lettere degli Ergastolani ostativi
Il Papa ha deciso che i detenuti passeranno la Porta santa del Giubileo ogni volta che varcheranno la soglia della loro cella, a Padova poi anche la cappella del carcere Due Palazzi è Porta santa. Ma troppe persone in carcere vivono ancora SENZA SPERANZA. Sono i condannati all’ergastolo, una pena che Papa Francesco ha definito “pena di morte nascosta”, e in particolare all’ergastolo ostativo, l’ergastolo cioè che non concede vie d’uscita a meno che la persona condannata non collabori con la Giustizia, ma in tanti non lo vogliono fare per non rovinare la vita dei propri cari.
Assieme alle testimonianze di ergastolani, per aprire uno spiraglio di speranza riportiamo anche le parole di Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dai terroristi nel 1978: “Ogni essere umano è, in quanto tale, titolare di dignità e di diritti; anche se in uno o più momenti della vita ha scelto il male, se è profugo, povero, violento, barbone, straniero, disabile, tossicodipendente, malato, giovane e ribelle. La nostra Repubblica nasce dal rifiuto di ogni totalitarismo per il quale – di destra o di sinistra che sia – le persone non sono niente. Per noi, invece, sono tutto. Ad ognuno di noi, noi che siamo la Repubblica, la responsabilità di non lasciare indietro nessuno”.
Il Mattino di Padova, 29 dicembre 2015
Il mio orologio ha un orario fisso, l’orario dell’ergastolo ostativo
Questa mattina mi sono alzato alle 5, fuori era ancora buio e mi sono messo a pensare alla mia vita passata, a quanto tempo ho trascorso in questi posti e quanto ancora ci dovrò restare. Sono passati tanti anni da quel lontano 1994 e per fortuna gioisco ancora quando, quelle rare volte, il sole riesce a spaccare le giornate gelide dell’inverno di Padova. Vorrei essere anch’io forte come il sole e risorgere ogni giorno, ma da 21 anni l’inverno è entrato nel mio cuore e nel cuore dei miei cari senza mai abbandonarci.
Il tempo si è fermato per sempre, il mio orologio ha un orario fisso, l’orario dell’ERGASTOLO OSTATIVO. I primi tempi sognavo che la mia situazione potesse cambiare, cercavo di farmi forza per lottare e facevo di tutto per essere il sostegno morale della mia famiglia, ma purtroppo quell’orologio mi ha dimostrato di essere più forte di ogni mia volontà, di ogni mio sogno e desiderio. Per tanti anni ho allenato il mio fisico nella speranza vana di contrastare i segni dell’invecchiamento sul mio corpo, ma oggi mi rendo conto che il ciclo della vita è inarrestabile, niente e nessuno può fermare lo scorrere degli anni e l’amarezza di vederli scorrere nel peggiore dei modi.
Oggi mi rendo conto che quello che mi salva da tutto questo orrore è l’amore di mia figlia e di mia moglie, che sono state più forti di tutti questi anni di carcere, anche se per resistere a questo lungo calvario stanno pagando un caro prezzo, visto che hanno scelto di starmi vicino seguendomi nelle varie carceri che mi hanno fatto girare su giù e per l’Italia, come un pacco postale e per motivi che non avevano a che fare con i miei comportamenti. A volte mi chiedo se si sono mai rese veramente conto che dovranno seguirmi per tutta la vita poiché io da qui non uscirò vivo, perché il mio ergastolo ostativo non me lo permetterà, perché chi è condannato a questa pena è ritenuto colpevole per sempre, irrecuperabile.
Vorrei solo trovare la forza e la lucidità di dire a mia moglie e a mia figlia che la speranza non ha nulla di concreto a cui aggrapparsi, ma non vorrei che anche loro smettessero di sognare come ho fatto io. Sicuramente il fatto di non essere mai riuscito a spiegare chiaramente che cos’è l’ergastolo ostativo ai miei cari non mi fa stare bene, ma è anche vero che sono sempre stato convinto che l’ergastolo ostativo fosse una condanna fatta per errore e che uno stato democratico come l’Italia, culla del cristianesimo, non potesse fregiarsi di una pena così disumana, visto che ha sempre lottato in prima linea contro le torture e la pena di morte, quindi pensavo che sarebbe stata rivista e con questa ferma convinzione ho sempre temporeggiato. Comunque, non voglio rassegnarmi a questa pena di morte mascherata così come l’ha definita Papa Francesco e continuo a sperare che al più presto venga rivista, così che non mi sentirò di essere stato un bugiardo nei confronti di mia moglie e di mia figlia, dalle quali traggo ancora oggi la forza necessaria per continuare a lottare.
Gaetano Fiandaca
La mia famiglia vive a 1.800 Km. di distanza e fare colloqui diventa un’impresa
Dopo sei anni di regime duro del 41bis sono stato trasferito nella Casa di reclusione di Padova, nella sezione Alta Sicurezza, adesso sono tre anni che mi trovo in questo istituto. La mia famiglia vive a 1.800 Km. di distanza (Gela) e fare colloqui diventa un’impresa, specialmente per questioni economiche. Tutta la mia famiglia, compresi genitori, fratelli e sorelle, sono persone oneste e lavoratori che vivono di stipendio e non sempre hanno un posto fisso di lavoro, quindi ognuno ha i suoi problemi e non possono certo pensare a me. I sacrifici per me li fanno mia moglie e i miei figli.
Ho fatto l’ultimo colloquio nel mese di luglio e spero in Dio che sotto le feste di Natale mia moglie e uno dei miei figli riescano a racimolare la somma necessaria per venirmi a trovare. Purtroppo, ogni volta che faccio colloquio non c’è la possibilità che vengano a trovarmi tutti insieme, mia moglie e i miei tre figli, solo per due persone spendono intorno ai 1.500 euro, tra biglietto dell’aereo e albergo, poiché sono obbligati ad arrivare la sera prima del giorno di colloquio. E così, due volte l’anno, al massimo tre, riesco a fare un colloquio di sei ore… ma cosa sono sei ore in confronto a sei mesi che non vedi la tua famiglia? Quelle sei ore passano come se fossero sei minuti. Non vedo la figlia più piccola da oltre un anno. Nessuno può capire il cuore di un padre come si può sentire, solo chi ha i miei stessi problemi mi può capire. Aumentare le ore di colloquio non ucciderebbe nessuno. Io sono stato privato della libertà perché ho commesso un reato, ma la mia famiglia di che colpa si è macchiata? Mia moglie e i miei figli alla fine del colloquio la prima cosa che dicono è: “Sono già passate sei ore?” e vanno via nascondendo le lacrime dietro un sorriso e chiedendosi quando ci rivedremo di nuovo. E che dire delle telefonate? Una a settimana e per la durata di dieci minuti da dividere con mia moglie e i miei tre figli, il tempo di salutarci e domandarci come stai e subito dall’altro lato del telefono ti dicono che la telefonata sta per terminare. Durante questa mia detenzione, ho incontrato una persona che negli anni passati era stata detenuta in Spagna e mi diceva che lì se avevi i soldi ti caricavi la scheda telefonica e potevi chiamare la famiglia ogni volta che volevi nei giorni della settimana e per la durata che volevi. Perché non poterlo fare anche qui in Italia?
Domenico Vullo
Non c’è pena di morte o ergastolo ostativo che possa frenare chi è pieno di odio.
La notizia delle stragi di Parigi mi ha portato a riflettere perché anche io sono padre e nonno. È indiscutibile che i conflitti alimenteranno odio e vendette. Una volta quei paesi geograficamente distanti da noi tenevano per sé anche le loro cose negative, e i conflitti restavano lontani da noi, invece oggi il mondo ha accorciato le distanze, e siamo diventati una miscela esplosiva. Io che sono da ventitré anni in carcere mi accorgo di questa miscela vedendo come è cambiata la popolazione detenuta dai primi anni del mio arresto, oggi in ogni sezione troverai detenuti di etnie diverse. E lo stesso è nelle grandi città del nostro paese e molti di questi stranieri, in particolare i giovani, si sentono ghettizzati, come lo sono i nostri nipoti. Io quando faccio colloquio e vedo il mio nipotino di sette anni fissare gli agenti e nei suoi occhi leggo l’odio, finisco per rimproverare mia figlia, che però mi dice “Papà, mai nessuno di noi si è permesso di parlare male delle istituzioni, ma nella sua scuola la maggior parte dei bambini ha un parente in carcere e sicuramente parleranno di queste cose”. La mia grande paura è che si stia spingendo le nuove generazioni verso l’estremismo e in particolare nella braccia di organizzazioni come ISIS, non c’è pena di morte o ergastolo ostativo che possa frenare chi è pieno di odio. Lo Stato si deve preoccupare di quella generazione dell’età di mio nipotino, di quei bambini che fin da piccoli vengono additati come i figli o nipoti del criminale. Lo Stato vincerà la sua battaglia quando toglierà dallo sguardo di quei bambini l’odio verso le istituzioni. Penso che qualcuno debba riflettere pensando a tutti quei bambini che crescono vedendo il proprio genitore dietro un vetro blindato e che non hanno nessuna speranza di poterlo abbracciare in libertà, anche dopo che ha scontato trent’anni di detenzione, perché condannato all’ergastolo ostativo. Togliere l’odio da quegli occhi innocenti significa costruire un futuro sereno, un primo passo è che lo Stato faccia vedere un volto umano e non implacabile e punitivo.
Tommaso Romeo
Lo Stato nelle carceri tortura i detenuti : lo ammette, ma continua a farlo con il 41 bis
Nel 2004 due detenuti vennero torturati nel carcere di Asti. L’associazione Antigone si costituì parte civile in quel procedimento che, nei mesi scorsi è arrivato davanti alla Corte Europea dei Diritti Umani la quale, il 23 novembre, ha dichiarato ammissibile il ricorso. Lo Stato italiano, a quel punto, ha proposto una composizione amichevole di 45.000 euro per ciascuno dei due ricorrenti. “Quella della Corte europea è una decisione di importanza enorme che riguarda la tortura in un carcere italiano. Il Governo ammette sostanzialmente le responsabilità e si rende disponibile a risarcire i due detenuti torturati ad Asti.
Come aveva scritto a chiare lettere il giudice di Asti nella sentenza del 2012, si era trattato di un caso inequivocabile, e impunito, di tortura” – ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, la quale è tornata a chiedere al Governo di approvare subito, anche in Italia, una legge che punisca questo crimine contro l’umanità. Su questo è stata avviata una petizione che ha raccolto sinora più di 52mila firme.
Ma quella della tortura in Italia, è una pratica che si presenta con varie dimensioni, una delle quali è la detenzione in regime di 41 bis. L’art.41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, è il punto più rigido della scala del trattamento differenziato che regola il sistema carcerario italiano. Nato come provvedimento emergenziale, come sempre succede, è diventato norma permanente e questo processo di stabilizzazione determina inasprimenti anche di altri regimi carcerari, come l’Alta Sicurezza 1 e 2 o l’isolamento prolungato dell’art. 14 bis. Dal regime di 41 bis non si esce, se non attraverso la collaborazione con lo Stato.
Il regime carcerario del 41 bis prevede:
1. isolamento per 23 ore al giorno (soltanto nell’ora d’aria è possibile incontrare altri/e detenuti/e, comunque al massimo tre, e solo con questi è possibile parlare);
2. colloquio con i soli familiari diretti (un’ora al mese) che impedisce per mezzo di vetri, telecamere e citofoni ogni contatto diretto;
3. esclusione a priori dell’accesso ai “benefici”;
4. utilizzo dei Gruppi Operativi Mobili (Gom), il gruppo speciale della polizia penitenziaria, tristemente conosciuto per i pestaggi nelle carceri e per i massacri compiuti a Genova nel 2001;
5. “processo in videoconferenza”: l’imputato/a detenuto/a segue il processo da solo/a in una cella attrezzata del carcere, tramite un collegamento video gestito a discrezione da giudici, pm, forze dell’ordine, quindi privato/a della possibilità di essere in aula;
6. censura-restringimento nella consegna di posta, stampe, libri. È evidentemente un regime che mira all’annullamento de detenuto, di ogni suo pensiero e autonomia. Solo in questo senso è spiegabile la nuova restrizione della possibilità di accesso a libri e pubblicazioni.
Chi è sottoposto al 41 bis non può più ricevere libri, né qualsiasi altra forma di stampa, attraverso la corrispondenza e i colloqui sia con parenti sia con avvocati: è un’ulteriore restrizione in aggiunta a quella che già prevede che il detenuto possa avere al massimo tre libri in cella. La campagna “Pagine contro la tortura” vuole agire su questo ulteriore accanimento per mettere in discussione tutto il regime del 41 bis ed in ultima analisi tutto il sistema carcerario perché il carcere non è la soluzione, ma parte del problema.
La campagna consiste nello spedire cataloghi, libri, riviste e altre pubblicazioni presso le biblioteche delle carceri in cui sono presenti le sezioni di 41bis ed ai detenuti e alle detenute che di volta in volta ne faranno richiesta. Sabato 19 dicembre al Cpa Fi-Sud alle 18.00 è fissato un incontro con Olga (è Ora di Liberarsi dalle GAlere) e Uniti contro la Repressione che presenteranno la campagna nazionale “Pagine contro la tortura” a Firenze.
Federico Rucco
contropiano.org, 4 dicembre 2015
Carceri, Da Pordenone alla Sardegna, in Italia si continua a morire di pena
Sì, in Italia si continua a morire di carcere. E anche se probabilmente è prematuro parlare di nuovi casi Cucchi, specie negli ultimi mesi dai penitenziari del nostro Paese sono usciti detenuti coperti da teli bianchi, sul cui destino si addensano parecchie e pesanti ombre. Non sarebbe un caso, allora, che proprio nell’ultimo mese anche diversi parlamentari si sono interessati alla questione, rivolgendo al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, interrogazioni cui si spera possa giungere una risposta nel più breve tempo possibile.
Misteri in Friuli – Siamo a Pordenone. È il 7 agosto 2015 quando Stefano Borriello, un giovane di soli 29 anni, viene trasportato dal carcere friulano in condizioni che, con il passare del tempo, si fanno via via più critiche. Arriva in ospedale e subito gli viene offerto il dovuto controllo. Ma non c’è niente da fare. Poco dopo l’arrivo, Borriello muore. Per arresto cardiaco, reciterà il referto. Da subito, però, la madre di Stefano chiede con fermezza quali siano le ragioni del decesso del figlio sempre stato in ottime condizioni di salute. Un dubbio che tortura la madre. E non solo lei: la Procura, infatti, decide di aprire un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Sembra che Stefano stesse male già da qualche giorno prima della morte, infatti. A interessarsi della vicenda, anche l’associazione Antigone, sempre presente quando si parla di diritti umani e detenzione. Ebbene, dalla visita effettuata dagli osservatori dell’associazione nei giorni seguenti, è emerso che all’interno del carcere di Pordenone il servizio medico non è garantito 24 ore su 24, ma soltanto fino alle 21, che esiste una unica infermeria per tutto il carcere e che non ci sono defibrillatori nella sezione. Ma arriviamo al dunque: com’è morto Stefano? Non è dato ancora saperlo. A più di tre mesi dalla sua terribile morte, infatti, ancora non se ne conoscono le cause: i periti nominati dalla Procura per riferire in merito alle “cause della morte” e ad “eventuali lesioni interne o esterne”, ancora non hanno consegnato la relazione. Le ragioni della morte di Stefano sono ad oggi assolutamente incomprensibili.
Istigazione al suicidio – Scendiamo lungo lo stivale e facciamo tappa a Pesaro, nelle Marche. È il 25 settembre quando Anas Zamzami, da tutti conosciuto come Eneas, viene trovato morto in cella. A soli 29 anni. Era stato arretato per il reato di falsa identità e resistenza a pubblico ufficiale, reati commessi nel 2011, e in relazione ai quali doveva scontare dodici mesi di reclusione. Nonostante quanto previsto dalla legge del 2010 riguardante “Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi”, Eneas scontava, inspiegabilmente, la pena nell’istituto e già da 5 mesi.
Ma non è questo l’unico buco nero della vicenda. Secondo la casa circondariale, Eneas sarebbe morto per suicidio. Peccato però che per i familiari e gli amici le dinamiche dei fatti risultino invece poco chiare. Ad interessarsi alla vicenda è stato anche Adriano Zaccagnini (Sel) che ha presentato un’interrogazione a riguardo. Perché l’unica cosa certa, paradossalmente, è che al momento più di qualcosa non torna. Eneas stesso, infatti, si lamentava delle condizioni di vita all’interno dell’istituto di pena che l’avevano anche portato ad una significativa perdita di peso e di fiducia verso chi lo circondava. Non è un caso che la Procura marchigiana ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio.
Tre morti in quindici giorni – Facciamo ancora un salto e sbarchiamo in Sardegna dove, a distanza di soli 15 giorni, sono morti tre detenuti, due a Uta (Cagliari) e uno nella colonia penale di Mamone (Nuoro), avvenuta il 26 ottobre e tenuta incredibilmente nascosta fino al 15 novembre. Si tratta di un’escalation senza precedenti, denunciata anche da Mauro Pili in Parlamento. Ma dei tre decessi, come detto, ce n’è uno inquietante, quello di Simone Olla la cui morte, stando alla denuncia del leader di Unidos, “non sarebbe da attribuire a cause naturali come aveva dichiarato la direzione del carcere cercando di eludere la gravità della situazione. Sarebbe certa, invece, l’overdose. Con un quesito inquietante: chi ha fornito o somministrato quel cocktail letale al giovane sardo?”. La polizia penitenziaria, ovviamente, nega tutto. Ma le indagini sono in corso. Ed è stato riconosciuto, dopo l’autopsia, che la morte del giovane sarebbe stata causata da una dose eccessiva di morfina iniettata con una siringa. E allora si ripropone la domanda. Perché qualcuno ha deciso di farla. Qualcuno ne ha deciso la quantità di dose. Qualcuno, di fatto, potrebbe aver ucciso Olla.
Carmine Gazzanni
lanotiziagiornale.it, 4 dicembre 2015
Genova: detenuto albanese di 54 anni, in attesa di giudizio, si è impiccato ieri nel Carcere di Marassi
Un anno fa aveva ammazzato a Sutri (Viterbo) la sua compagna per gelosia con sette coltellate alla gola e tentò il suicidio, quattrordici anni prima la moglie a Roma a colpi di piccone. Aslan Agoi, 54 anni, albanese, si è tolto la vita nella Casa Circondariale di Marassi a Genova, impiccandosi con la cordicella della tuta legata alla finestra. Per impiccarsi ha atteso che i suoi compagni uscissero per recarsi all’aria. Inutili sono stati i soccorsi prestati dal personale di Polizia Penitenziaria e dai Sanitari del 118.
Era un detenuto in attesa di giudizio. L’11 novembre scorso a Sutri, aveva ucciso la sua compagna mentre i figli di lei erano a scuola e aveva tentato di suicidarsi bevendo candeggina. L’uomo, quattordici anni fa, aveva ucciso la moglie. Era accaduto a Cave, in provincia di Roma: la donna fu ammazzata a picconate, colpita più volte alla testa. Per quell’omicidio, particolarmente cruento, fu condannato a 14 anni. Ma grazie agli sconti di pena, Agoi era tornato libero dopo 9 anni. Trasferitosi poi a Sutri, aveva conosciuto questa connazionale, molto più giovane di lui. Era sempre chiuso in casa, molti dei vicini non sapevano che faccia avesse.
«Non siamo riusciti a evitare questa morte – interviene Fabio Pagani, segretario regionale del sindacato Uilpa Penitenziari –, ma questo fatto rilancia l’emergenza che il carcere di Marassi sta affrontando. Questo carcere un girone infernale, la struttura è sovraffollata, ci sono 730 detenuti contro i 435 che può contenere». Nelle celle in Italia quest’anno ci sono stati 36 suicidi, 545 tentati, 198 detenuti salvati in extremis dal personale di polizia. Gli atti di autolesionismo sono stati 3768 e gli episodi di aggressioni al personale hanno toccato quota 760. «Siamo sotto organico e i colleghi che sono finiti all’ospedale sono stati 216».