“Dopo 33 anni non è cambiato nulla. Il tormento di Enzo Tortora è stato inutile”


tortoraFrancesca Scopelliti ha presentato il libro con le lettere di Tortora. Trentatré anni. Tanto è trascorso dall’arresto di Enzo Tortora, ma le sue Lettere a Francesca, scritte in carcere e raccolte in un volume presentato ieri nei locali della Camera di Commercio di Roma, sono di “estrema attualità”, come ha sottolineato il presidente dell’Unione delle camere penali Beniamino Migliucci. L’autore delle missive, lette dall’attore Enzo Decaro, il celebre giornalista e presentatore televisivo, di colpo chiamato a rispondere di accuse gravissime: associazione camorristica e spaccio di droga.

La compagna, Francesca Scopelliti, ha ricordato che la loro era “una storia d’amore piuttosto recente. La separazione forzata fu ancora più dolorosa perché originata da un obbrobrio giuridico, un’infamia ingiustificata, la protervia di due magistrati della Procura di Napoli, che volevano a tutti i costi un colpevole. Più emergeva che Enzo era una persona perbene e non si trovavano riscontri, più i giudici si accanivano alla ricerca di nuovi pentiti. I media lo hanno subito condannato, ma lui è stato un grande esempio, dimettendosi da parlamentare europeo per proseguire la battaglia sulla giustizia giusta”.
Il drammatico errore giudiziario sembra però non avere insegnato nulla: “La tristezza più grande è che ci si è fermati a trent’anni fa: il sistema penale-carcerario è rimasto immutato, nessuno è corso ai ripari. I malesseri che Enzo denuncia nelle sue lettere vivono nella nostra quotidianità. Il ministro della Giustizia dovrebbe tenere conto della sua storia”.

Presenti due testimonial d’eccellenza, Giuliano Ferrara, che ha firmato anche la prefazione del volume, ed Emma Bonino, che da decenni si batte sul tema. L’ex direttore del Foglio ha evidenziato che dalle lettere emergono “amore, umanità, personalità, il rapporto con la sorella, le figlie e soprattutto la compagna. La verità è che il “pentito dire” e il partito preso si erano appropriati del meccanismo giudiziario e lo trascinavano verso il basso, dove erano schiacciati Tortora e molti altri cittadini, come i famosi omonimi, che furono arrestati e detenuti a Poggioreale, distrutti da un’indagine che ha dato luogo a un processo che definire discutibile è un eufemismo grave”.
Anche Ferrara ha acceso i riflettori sull’assenza di provvedimenti conseguenti: “Un referendum sollecitò l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati, ma poi non si intervenne in modo significativo e non vi è stata la separazione delle carriere, per cui uomini come Falcone si erano spesi. Purtroppo tutte le classi dirigenti fanno un patto con i giudici, perché ne hanno paura. Il caso Tortora evidenziò per la prima volta l’onnipotenza della magistratura”.

“All’epoca i giornali dopo l’arresto non furono certo innocentisti – ricorda con amarezza la Bonino. I Radicali, Biagi e Sciascia le uniche voci fuori dal coro. Da allora Marco Pannella e Rita Bernardini non hanno mai interrotto una battaglia che oggi deve continuare. La conseguenza d’altronde è il disastroso stato delle carceri. Per riaffermare pienamente lo Stato di diritto attendiamo ancora le grandi riforme, come l’obbligatorietà dell’azione penale. Enzo ha insegnato ai giovani cos’è la dignità, non arrendendosi mai, neppure nei momenti di sconforto. Purtroppo abbiamo perso la memoria e la vista, guardiamo solo l’ombelico”. Migliucci ha aggiunto che il libro “non è solo una testimonianza di rabbia, dolore e sofferenza ma offre tanti spunti. Dalla separazione delle carriere al pubblico ministero collegato al giudice, dalla gestione dei pentiti alla custodia cautelare, che da “extrema ratio” si è trasformata in carcerazione preventiva. La condotta successiva a quando ha ottenuto Enzo giustizia e le sue lettere lanciano un messaggio e la speranza che il Paese possa migliorare. Questo dramma deve portare a una riflessione collettiva sulla presunzione d’innocenza, sull’esecuzione della pena e sul carcere, inteso come risocializzazione e rieducazione e non come vendetta.

Temi che saranno sostenuti dagli avvocati penalisti, mentre l’assenza della politica oggi è colpevole e imbarazzante”. Ha fatto discutere, in particolare, la mancata concessione di una sala in Senato, giustificata dall’assenza di “finalità istituzionali”. “Spero non sia stata dettata dal passato di magistrato del presidente Grasso. Sarebbe un’ulteriore ferita” ha commentato con amarezza la Scopelliti. Ad attenuare il caso la lettera inviata dall’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: “Enzo Tortora ha subito torti e sofferenze. Indagini e sanzioni penali non sono state fondate su basi probatorie adeguate. Problemi di sistema e di clima che restano ancora aperti”.

Francesco Straface

Il Dubbio, 18 giugno 2016

Fassone : “Io, Giudice che ho condannato un uomo al carcere a vita dico no a questa pena”


Elvio Fassone GiudiceIntervista con Elvio Fassone, autore di “Fine pena ora”. Poteva essere l’ultima lettera. L’ultima di una fitta corrispondenza durata 26 anni, quella tra Salvatore, giovane ventisettenne condannato all’ergastolo 28 anni prima, ed Elvio Fassone il giudice che emise quella sentenza nel 1978. Poteva essere l’ultima lettera, ma per fortuna le cose sono andate diversamente. Salvatore, infatti, aveva deciso di cambiare il corso della sua vita da ergastolano con un “fine pena ora”.

Aveva deciso, cioè, in un momento di sconforto, di suicidarsi. Voleva farlo con una cinghia da stringere intorno al collo. Voleva usarla per riprendersi quella libertà che la condanna a “fine pena mai” non gli avrebbe mai potuto garantire. Ma poi l’intervento tempestivo di un agente di polizia penitenziaria ha evitato la tragedia. E così Salvatore ha scritto al suo giudice-confidente. “L’altra settimana ? gli ha confidato – ne ho combinata una delle mie: mi sono impiccato… Mi scusi”.
Inizia così “Fine pena: ora” (Sellerio editore), il racconto di Elvio Fassone, ex magistrato, ex senatore Ds per due legislature ed ex componente del Csm, del suo rapporto con Salvatore (nome di fantasia utilizzato dall’autore).

Fine pena ora. Ce lo spiega ?

Nella cartella che accompagna la vita di un ergastolano c’era scritto “fine pena mai”. Oggi il computer che pretende di tradurre i concetti in cifre ha sostituito quella frase con un freddo “31/12/9999”. Quando l’ergastolano esaurisce la sua capacità di sopportare la drammatica assenza totale di futuro può capitare, e purtroppo accade di frequente, che tenti di togliersi la vita. Ecco perché idealmente ho sostituito la parola “mai” con “ora”. La mia pena finisce adesso e faccio finire la mia vita dato che non ha più alcun senso.

Salvatore aveva deciso. Lo hanno salvato. Lei che lo ha conosciuto così bene pensa che sia stata per lui l’ennesima sconfitta ?

Mi auguro di no. Il fatto stesso che mi abbia scritto subito dopo per raccontare il gesto e abbia aggiunto le parole “mi scusi non lo farò più”, è confortante. Evidentemente è stato un cedimento di fronte a un’ulteriore delusione. Oramai da quel momento sono passati circa due anni e mezzo e finora non ha più manifestato intenzioni simili. La cosa, però, mi ha comunque allarmato. Per chi ha vissuto oltre trent’anni di reclusione sulla sua pelle, una ricaduta è sempre dietro l’angolo.

Ha deciso di fare qualcosa ?

L’unica cosa che ho potuto fare è stato raccontare questa storia attraverso il carteggio con Salvatore. Credo che raccontare una sofferenza significhi in piccola parte risarcirla e sperare che una mobilitazione di intelligenze e di spiriti possa contribuire ad arrivare anche a un cambio legislativo.

Qual è stata la molla che lo ha spinto a scrivere quella prima lettera ?

Il disagio interiore che provavo dal fatto che avendo instaurato un rapporto un po’ diverso dal solito con alcuni dei detenuti, che normalmente stanno davanti al giudice poche ore, massimo pochi giorni. Nel corso del processo di Salvatore c’era stata una frequentazione di quasi due anni. Era nato un rapporto meno impersonale, meno burocratico. In particolare mi aveva colpito l’ultimo colloquio prima della fine del processo.

Perché ?

Mi chiese se avessi dei figli. Alla mia risposta positiva mi disse: “se suo figlio nasceva dove sono nato io forse a quest’ora era lui nella gabbia e se io nascevo dove è nato suo figlio forse adesso io facevo l’avvocato ed ero pure bravo”. Come a dirmi che nella lotteria della vita aveva avuto il biglietto sbagliato. Fu allora che decisi di scrivergli.

Si aspettava una risposta ?

Ero molto dubbioso, perché quella lettera poteva essere interpretata come un gesto ipocrita. Il gesto del carnefice che si china a fare una carezza alla vittima e può anche giustificare una reazione. Ma Salvatore per fortuna la prese bene.

Dopo quella lettera nella quale Salvatore le chiedeva scusa per il suo tentato suicidio il rapporto epistolare è finito ?

No, affatto. Dura tuttora, ma sta diventando particolarmente difficile perché la sua capacità di resistenza si sta esaurendo e la mia capacità di sostenerlo si rivela piuttosto inefficace. Ho scritto il libro per sollecitare, per quel che mi riesce, l’opinione pubblica a intervenire su questa materia che esige un intervento. L’ergastolo senza via d’uscita ha manifestato e manifesta la sua disumanità e come tale è evidente la necessità di un intervento collettivo.

La storia di Salvatore è quella di tanti detenuti italiani per i quali quel 9999 significa non avere speranze.

I dati ministeriali, di alcuni mesi fa, ci dicono che gli ergastolani sono 1619, dei quali 1200 ostativi. In molti non hanno possibilità di una via d’uscita a meno che non si decidano a collaborare con la giustizia.

Il suo Salvatore decide di riprendersi la libertà, come tanti altri detenuti. I dati sono impressionanti: dal 2000 ad oggi il censimento puntuale di Ristretti Orizzonti ci dice che i morti sono stati 2.527 e i suicidi ben 900.
La media dei suicidi in carcere è superiore di 15/20 volte rispetto ai quella dei cittadini liberi. È uno scarto patologico e va in qualche modo curato.

I radicali da sempre propongono l’amnistia e l’indulto per risolvere il sovraffollamento delle carceri. Che ne pensa ?

L’amnistia riguarda i reati piccoli e serve a svuotare non le carceri, ma gli armadi. L’indulto si è rivelato un palliativo con benefici di breve durata: molti di quelli che sono usciti ritornano in carcere.

Invece che cosa bisognerebbe fare secondo lei ?

Secondo la mia esperienza la soluzione strutturale per i delitti di media gravità, sarebbe quella di sostituire la reclusione con prestazioni pubbliche di utilità a titolo gratuito: in termini di pena potrebbero valere più della reclusione. Ad esempio un giorno di prestazione potrebbe equivalere a tre giorni di detenzione. Occorrerebbe un programma ben definito, con un apparato, al momento inesistente, fatto soprattutto di formatori. Soltanto allora si potrebbe alleggerire in maniera massiccia la popolazione carceraria.

La legge Gozzini ha già indicato una strada simile.

Parliamo di un’eccellente legge sotto molti aspetti. Ne vorrei sottolineare uno in particolare: la possibilità di utilizzare il tempo della detenzione ha incentivato chi è dietro le sbarre a diventare collaboratore delle istituzioni. Se il detenuto sa che ogni sei mesi può scalare giorni di pena partecipando all’opera di trattamento prevista dalla Gozzini, è invogliato a farlo e fin dal primo giorno.

Quello che ha fatto anche il “suo” Salvatore.

Assolutamente. Ha maturato una serie di 45 giorni sterminata, finché ha perso la speranza. Ha pensato: “tanto non mi servono: il mio fine pena non finisce mai. Questa mancanza di prospettiva è un modo indiretto, e forse non pensato, di vanificare parte della Gozzini.

Carmelo Musumeci nel suo libro “Gli uomini ombra” descrive molto bene l’ergastolo e la differenza tra quello ordinario e quello ostativo. Mi sembra questo il punto fondamentale.

L’ergastolo può essere mantenuto, però deve avere una via d’uscita praticabile. Dico questo perché la Corte costituzionale, già stata investita del problema dell’ergastolo ostativo, ha risposto che la via d’uscita c’è, basta che il detenuto collabori. È una risposta poco soddisfacente, perché la collaborazione non è un indice di rieducazione. Si può collaborare per tanti motivi: convenienza, vendetta o quant’altro. Non può essere questo il parametro al quale vincolare il percorso rieducativo.

L’ergastolo ostativo è la pena, quindi, meno comprensibile e meno conciliabile con l’articolo 27 della Costituzione.

Direi di sì. Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha cambiato registro: in una sentenza del 2013 ha stabilito che una pena senza una via d’uscita praticabile è contraria al senso d’umanità e alla dichiarazione dei diritti dell’uomo che abbiamo sottoscritto. Quindi questa sentenza vincola anche lo Stato italiano. Mi auguro che questo discorso entri nel vivo. Mi fa piacere che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, abbia istituito dei tavoli di lavoro sulla riforma della giustizia e che uno si occupi dell’esecuzione della pena.

Da magistrato e da legislatore crede ci sia speranza che si possa modificare la norma sull’ergastolo ?

Nel 1981 il 77,4% disse di no al referendum che chiedeva l’abrogazione dell’ergastolo. Oggi si otterrebbe, penso, lo stesso risultato. Una battaglia frontale sul piano della praticabilità, non su quello dei principi la vedo molto complicata, anzi perdente. Per questo motivo, nella seconda parte del libro, propongo un approccio graduale che fissi come punto di arrivo una via di uscita all’ergastolo, correlata al percorso di rieducazione del detenuto. Chi continua a delinquere anche in carcere non è meritevole. Chi, invece intraprende un strada diversa deve poter avere una prospettiva di libertà. E questo deve valere per tutti i detenuti.

Oggi Elvio Fassone è un pensionato che non vuole venire meno all’impegno che ha caratterizzato la sua vita, sia da magistrato sia da senatore. Giusto ?

Chi è stato magistrato rimane nella cultura e nella formazione giuridica per sempre. Ho la fortuna di essere sollecitato a continuare a raccontare le mie esperienze e ad esprimere le mie opinioni. Spero che, anche grazie ai miei interventi, cresca un movimento d’opinione pubblica abbastanza diffuso per stimolare la modifica dell’ergastolo a livello istituzionale.

Giustizialisti e garantisti: due fazioni in lotta ?

È un aspetto non bello del nostro costume quello di ridurre tutto a un derby. La divisione tra giustizialisti e garantisti è pluriennale. Occorre innanzitutto ricordare che c’è un codice penale e uno deontologico per ogni professione che è molto più ampio. Non è corretto il permanere o meno in ruolo di grande responsabilità a secondo dell’azione della magistratura.

Il rapporto tra politica e magistratura sta vivendo un momento particolare.

Non penso al protagonismo, ritengo che ci sia il pericolo, oggi più intenso di ieri, della poca percezione da parte della magistratura dei suoi limiti. Il dovere di sindacare certe condotte esiste e legittima l’azione della magistratura, però bisogna fare attenzione su quello che c’è da sanzionare. A costo di rischiare, dico: ritenere che debba essere oggetto di un accertamento penale il voto in Consiglio dei ministri su un emendamento non va bene, a meno che non ci siano gli estremi di un reato, ovviamente. Bisogna fare attenzione ai confini delle azioni delle varie istituzioni.

Lei è stato anche componete del Csm.

Non bisogna mai dimenticare che il Csm è un organo di autogoverno, un privilegio che produce delle responsabilità. Ciascun singolo consigliere deve percepire quali sono i suoi doveri. Tutti i magistrati hanno il diritto di esprimere le loro opinioni, ma non come soggetti istituzionali, soprattutto quando possono avere una marcata influenza sull’opinione pubblica.

I magistrati tedeschi hanno un obbligo molto stringente alla riservatezza: pensa che sia giusto ?

Le rispondo con difficoltà, perché esiste un diritto a manifestare le proprie opinioni sancite dalla Costituzione. Per i magistrati la linea di margine è difficilmente tracciabile. Personalmente nel dubbio propendo per il riserbo. Quando ero in attività mi sono sempre posto il problema del cittadino che doveva essere giudicato e che, conoscendo la mia opinione, avrebbe potuto pensare di essere fregato. In un caso del genere sarei venuto meno al mio dovere che è quello di avere un’immagine che garantisca a tutti i cittadini di avere fiducia nel magistrato singolo e nell’istituzione. Se per ottenere questo c’è bisogno di un piccolo sacrificio del magistrato al riserbo ritengo che debba essere accettato. Purtroppo i tempi cambiano e io mi sono formato a una scuola del diritto che aveva ben chiari questi criteri.

Da magistrato che rapporti ha avuto con gli avvocati ?

Ho vissuto innumerevoli rapporti di cordialità e di amicizia con una quantità di avvocati. Con il codice del 1989 ha esaltato l’antagonismo tra le parti ed è inevitabile. In questi anni è aumentato il peso ed è chiaro che i rapporti siano diventati più tesi.

La prescrizione è uno degli argomenti di scontro tra magistrati e avvocati.

Il legislatore e l’opinione pubblica continuano a ignorare il fatto che la prescrizione consta di due segmenti totalmente diversi che, invece, vengono fusi insieme. Il primo da quando è stato commesso il fatto a quando la giurisdizione ha incominciato ad attivarsi. Il primo periodo andrebbe neutralizzato per un periodo ragionevolmente lungo. La seconda fase è legata all’attività degli avvocati tesa solo a far trascorrere il tempo. Alla difesa devono essere riconosciuti tutti i diritti, ma se il rinvio è conseguente a un’attività difensiva la prescrizione va interrotta. Non è corretto né logico, secondo me, che la prescrizione vada a danno di un parte processuale, l’accusa, per un’azione della controparte, la difesa.

Presidente, chi è il giudice ?

Il giudice è una persona che fa una profezia retrospettiva. Deve affermare l’esistenza di un fatto che non ha visto, che non conosce e che deve ricostruire sulla base di tracce attuali che portino a un giudizio di mera probabilità, seppur alta. Al di là di ogni ragionevole dubbio.

Franco Insardà

Il Dubbio, 3 giugno 2016

Teramo, Carcere inumano, lo Stato dovrà risarcire 6 detenuti tra cui Davide Rosci


carcere_teramo_castrognoIl Tribunale dell’Aquila accoglie il ricorso del suo legale che si è appellato alla Convenzione dei diritti dell’uomo. Lo Stato dovrà risarcire Davide Rosci perché per 340 giorni è stato detenuto in celle troppo piccole, a volte senza finestre, in spazi angusti condivisi con altri reclusi. Per la Corte europea “in condizioni non compatibili con la dignità umana”. Lo dovrà fare dopo che il tribunale civile dell’Aquila ha accolto il ricorso dell’avvocato Filippo Torretta.

Rosci, così come altre centinaia di reclusi italiani, si è appellato all’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, quello che secondo la corte di Strasburgo lo Stato italiano avrebbe più volte violato per i detenuti. È il caso della ormai nota sentenza Torreggiani, successivamente alla quale c’è stata una nuova normativa italiana. Che naturalmente poco o nulla si concilia con l’annoso problema del sovraffollamento della maggior parte delle carceri.
Rosci attualmente è nell’istituto penitenziario di Castrogno per scontare la condanna definitiva a cinque anni e due mesi non solo per gli scontri di Roma, ma anche per un cumulo di altre pene diventate esecutive. “Non possiamo che esprimere soddisfazione per l’accoglimento del ricorso”, dice l’avvocato Torretta, “è innegabile che Davide, insieme a decine di migliaia di altri detenuti, abbia vissuto in carcere in condizioni contrarie alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, senza dimenticare un anno intero di peregrinazioni tra le carceri di Teramo, Rieti e Viterbo”.

E negli istituti sovraffollati di Teramo e Viterbo, prima della condanna definitiva, ha trascorso 340 giorni che saranno risarciti con 2.700 euro. Scrive il legale nel ricorso accolto dal giudice Ciro Riviezzo: “Rosci ha condiviso nei luoghi di reclusione di Teramo e Viterbo celle di circa 7/8 metri quadrati con un’altra persona, per cui lo spazio di vivibilità, considerato anche il mobilio, era nettamente inferiore al parametro dei tre metri quadrati indicato in più occasioni dalla Corte come lo spazio minimo che deve essere garantito alle persone ristrette”.
E aggiunge: “La disumanità delle condizioni in cui era costretto a vivere l’odierno ricorrente non era determinata soltanto dalla ristrettezza degli spazi, ma anche da altri fattori: la presenza nella cella di una sola finestra (una piccola nel bagno), l’assenza di acqua calda nella cella e di una doccia nel bagno, la permanenza in cella per circa venti ore al giorno”. Insieme a quella di Rosci il tribunale ha accolto altri cinque ricorsi per altrettanti detenuti di Pescara e L’Aquila.

Bari, detenuto di 48 anni si toglie la vita. Il Sappe denuncia “Stato latitante”


Carcere di BariChiuso in cella per reati connessi alla droga e in condizioni fisiche difficili dopo un intervento chirurgico, non ha retto alla convivenza carceraria con altri detenuti e si è impiccato nel bagno della sua cella. Doveva tornare in libertà a dicembre prossimo il 48enne che l’altro pomeriggio, all’ora del cambio delle guardie giurate (nelle Carceri non fanno servizio “Guardie Giurate” ma Agenti di Polizia Penitenziaria n.d.r), ha realizzato con la cinta dell’accappatoio una corda rudimentale e si è chiuso nel bagno, togliendosi la vita con un solo, violento strappo.

Proprio per le modalità con cui si è suicidato, non è servito l’intervento delle guardie chiamate dai compagni di cella: al loro arrivo, l’uomo era già morto. “Ormai ne abbiamo piene le tasche di protocolli, di convegni, di ordini del giorno del Consiglio regionale, di monitoraggi sul sistema carcerario pugliese”, commenta Federico Pilagatti, segretario nazionale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Sappe. Pilagatti si riferisce, in particolare, a un protocollo siglato oltre un anno fa da amministrazione penitenziaria e Regione Puglia “che si prefiggeva lo scopo di prevenire il rischio autolesivo e suicidario dei detenuti”.

Il sindacalista ricorda come “la situazione della sanità nelle carceri è uno dei nodi più drammatici oltre alla grave carenza di poliziotti e alla fatiscenza delle strutture, che non ha trovato alcuna soluzione, nonostante pomposi protocolli firmati tempo fa che, dovevano recepire una legge dello Stato con cui si demandava la responsabilità della sanità penitenziaria alle Regioni”. E annuncia nuove azioni di lotta: “Se a breve non ci saranno risposte concrete – avverte – il Sappe denuncerà l’attuale situazione alla magistratura ordinaria, poiché, a nostro parere, si potrebbe prefigurare in taluni casi, il reato di mancata assistenza sanitaria alla popolazione detenuta”.

Non si tratta, purtroppo, della prima denuncia pubblica fatta dal sindacato, né del primo suicidio nelle carceri pugliesi, dove il sovraffollamento costringe a una eccessiva vicinanza esponenti di clan mafiosi rivali. Il Sappe ha affrontato il problema anche con le istituzioni: “Nelle scorse settimane – spiega il segretario nazionale – ho scritto a tutti i capigruppo regionali, compreso il presidente del Consiglio, rappresentando come alcune problematiche di competenza della Regione, quali la sanità penitenziaria potevano trovare una rapida soluzione se affrontate in maniera concreta”.

Mara Chiarelli

La Repubblica, 17 febbraio 2016

Nessun traffico di droga, assolto il radicale Quintieri. Chiederà 500 mila euro di danni


Emilio Quintieri - Luigi MazzottaNel tardo pomeriggio di ieri, intorno alle ore 17,30, il Tribunale di Paola in composizione collegiale (Del Giudice, Presidente, Paone e Mesiti, Giudici a latere), in nome del popolo italiano, ha pronunciato la sentenza di primo grado nell’ambito dell’Operazione Antidroga “Scacco Matto”, istruita dal Nucleo Operativo della Compagnia Carabinieri di Paola su delega della locale Procura della Repubblica e che portò all’arresto, tra gli altri, anche del cetrarese Emilio Quintieri, in quel periodo candidato nella circoscrizione calabrese alla Camera dei Deputati con la Lista Radicale “Amnistia, Giustizia e Libertà” promossa da Marco Pannella ed Emma Bonino.

Il Collegio giudicante, disattendendo la richiesta avanzata dal Pubblico Ministero Valeria Teresa Grieco che concludeva per la condanna dell’esponente radicale alla pena di 3 anni di reclusione e 6.000 euro di multa, riqualificati i fatti come di lieve entità ex Art. 73 comma 5 D.P.R. nr. 309/1990 (quasi il massimo atteso che la pena prevista è la reclusione da 6 mesi a 4 anni e la multa da euro 1.032 ad euro 10.329), ha riconosciuto l’innocenza dell’imputato assolvendolo con la formula più ampia “perché il fatto non sussiste” per tutti e cinque i capi di imputazione (capi 3, 10, 11, 12 e 20) che gli erano stati ascritti nell’ordinanza custodiale e nel decreto di giudizio immediato, provvedimenti entrambi firmati dal Gip del Tribunale di Paola Carmine De Rose. L’ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere era stata persino confermata dal Tribunale del Riesame di Catanzaro (Perri, Presidente, Natale e Tarantino, Giudici a latere) che aveva rigettato il ricorso proposto dall’Avvocato Sabrina Mannarino del Foro di Paola, difensore di fiducia del Quintieri, con il quale veniva diffusamente contestato il quadro indiziario e cautelare e, per l’effetto, chiesto l’annullamento e la revoca della misura o, in subordine, la sostituzione della stessa con altra meno afflittiva. Su questa specifica questione, l’imputato Quintieri, che è intervenuto personalmente in udienza, si è soffermato per stigmatizzare l’operato dei Giudici catanzaresi leggendo brevi passi dell’ordinanza da loro vergata, che già all’epoca dei fatti non aveva alcun fondamento. Ed infatti, secondo il Riesame nei confronti del Quintieri vi era la sussistenza della “gravità indiziaria” per i delitti a lui ascritti nella imputazione provvisoria, poiché dagli atti di indagine e, in particolare, dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali svolte dagli inquirenti – rituali e pienamente utilizzabili – il cui contenuto appariva esplicito ed univoco, nonché dalle attività di riscontro (osservazioni, pedinamenti e sommarie informazioni di tossicodipendenti) posti in essere dagli organi di Polizia Giudiziaria, emergevano gravi indizi di colpevolezza a suo carico, senza necessità di altri riscontri esterni. “Vorrei sapere dove sono queste intercettazioni telefoniche ed ambientali visto che negli atti non ve né traccia così come vorrei sapere chi ha compiuto queste osservazioni e pedinamenti visto che i Carabinieri quando sono stati sentiti in aula hanno riferito tutt’altro.” Per quanto riguarda, invece, i cinque tossicodipendenti – sulla cui posizione il Tribunale ha trasmesso gli atti alla Procura della Repubblica per quanto di competenza – l’esponente radicale, ha detto che questi soggetti sono “inattendibili ed inaffidabili” e che le dichiarazioni rese nei suoi confronti sono tutte “false e calunniose” e prive di ogni minimo riscontro, anzi smentite da altri dati acquisiti durante l’istruttoria dibattimentale, lamentando altresì che “non si possono fare processi in queste condizioni”.

Per Quintieri, complessivamente, la “carcerazione preventiva” è durata un anno venendo ristretto in carcere, prima a Paola e poi a Cosenza (dal 13/02/2013) poi sottoposto agli arresti domiciliari “aggravati” in Fagnano Castello (dal 04/09/2013) e, successivamente, scarcerato e sottoposto all’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria per tre volte alla settimana (dal 23/12/2013 al 13/02/2014). Attualmente, per gli stessi fatti, è sottoposto alla misura di prevenzione della Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza che gli impone particolari divieti e restrizioni anche alla libertà personale, misura per la quale, a breve, chiederà la revoca.

Visto che il Codice di Procedura Penale, in adempimento di un preciso obbligo posto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, riconosce all’imputato il diritto di ottenere un’equa riparazione per la ingiustizia sostanziale della custodia cautelare subita e per gli ulteriori danni morali arrecati sul piano familiare sociale e fisico, considerato anche che al momento dell’arresto Emilio Quintieri era candidato al Parlamento, non appena l’assoluzione diverrà irrevocabile, chiederà alla Corte di Appello di Catanzaro la condanna dello Stato a 500.000 euro di risarcimento, il massimo previsto attualmente dalla legge, non lasciando nulla di intentato nei confronti di chiunque altro abbia sbagliato, abusando delle proprie funzioni.

In poche ore, all’esponente dei Radicali Italiani, è pervenuta la solidarietà di oltre 500 persone tra cui numerosi Deputati e Senatori, Sindaci, Consiglieri Regionali, Funzionari dell’Amministrazione Penitenziaria, Giuristi, Magistrati, Docenti Universitari e Presidenti di Associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani.

Rapporto annuale del Blog Emilio Quintieri di WordPress.com : 65 mila visite nel 2015


I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un Rapporto annuale 2015 per il Blog “Emilio Quintieri”.

Ecco un estratto:

Il Madison Square Garden può accogliere 20 000 spettatori per un concerto. Questo blog è stato visto circa 65.000 volte nel 2015. Se fosse un concerto al Madison Square Garden, ci vorrebbero circa 3 rappresentazioni esaurite perché lo vedessero altrettante persone.

Clicca qui per vedere il rapporto completo.

Giustizia: Cantone, Gratteri, Sabella, mezzi magistrati e mezzi politici dell’Italia renziana


Avvocati togheIl guaio è che non si capisce se sono magistrati o politici, e forse non lo sanno più nemmeno loro, spaesati come il resto degli italiani di fronte a uno di quei misteri linguistici che sempre, in questo paese, occultano un pasticcio.

Prendiamo per esempio il dottor Nicola Gratteri, che è procuratore aggiunto a Reggio Calabria, ma un anno fa è stato anche nominato da Renzi – che lo voleva addirittura ministro della Giustizia – presidente della commissione per la riforma Antimafia. Ebbene, dice il dottor Gratteri: “In Parlamento ci sono molte leggi, molta carne al fuoco. In questo momento sembra un lavandino otturato”.

E insomma, mezzo politico e mezzo magistrato, un po’ tecnico e un po’ no, corteggiato come candidato sindaco di Roma (“ma sono più utile da magistrato, almeno per come è oggi la politica”) Gratteri, come Raffaele Cantone, che è il magistrato benemerito della lotta alla camorra nominato (da Renzi) commissario anti corruzione, e come Alfonso Sabella, che è invece il magistrato antimafia nominato assessore alla Legalità del comune di Roma, svela un’inedita antropologia nel paese che già aveva affidato ai giudici la scienza, la storia e la politica: l’antropologia di quelli che rimangono a metà strada, che non scelgono, un po’ di qua e un po’ di là, quelli che si travestono e ci confondono.

Mercoledì scorso, Cantone si è espresso con sinuosità e spessore di politico: “Milano è tornata a essere capitale morale. Roma deve costruirsi gli anticorpi”. Ma ieri ci ha poi ricordato d’essere in effetti un magistrato: “Potrei lasciare l’Anm. E non ho mai fatto politica”. E c’era una volta il pm che prima accusava e poi assimilava, che indossava la toga e infine si appropriava del ruolo dell’imputato, che lo sostituiva persino in Parlamento, c’era insomma una volta Antonio Di Pietro, mentre oggi ci sono Gratteri, Sabella e Cantone, creature vaghe, enigmatiche, indefinibili come Conchita Wurst, l’ermafrodito che al tempo stesso ci incuriosisce e ci spaventa. E intorno a questa nuova e sfuggente antropologia, che d’un tratto sublima le ambiguità dei togati-candidati, cioè dei vecchi Ingroia ed Emiliano, dei Di Pietro e dei De Magistris, che partirono per moralizzare e finirono moralizzati, adesso si mettono in moto tutte le possibili letture e riletture, variazioni e contaminazioni di quell’antica e complessa vicenda che da Tangentopoli in poi è stata battezzata “cortocircuito politico-giudiziario”, o meglio ancora “imperialismo giudiziario”, storia d’energia popolare e di strumentalizzazione. “Io non ho mai fatto politica nella mia vita, rivendico la mia indipendenza ogni giorno al pari di quando ero in magistratura”, ha detto Cantone.

“Ero”, ha detto. Appunto. Un lapsus ma anche no, perché magistrato lo è ancora eppure in effetti non lo è più. E davvero Cantone, come Gratteri e come Sabella (televisivamente ubiquo: da Sky a Raiuno, da Vespa a Porro), riempie le sue giornate d’innocue enormità mondane e di Palazzo, ha insomma il piacere d’essere molti, di vedere tutti i se stesso, essere a discrezione politico e togato, essere un altro, dunque d’ipotizzare l’abbandono dell’Anm ´(da politico?) e di aiutare (da magistrato?) la candidatura renziana di Giuseppe Sala a sindaco di Milano: “A Roma purtroppo non ho un Giuseppe Sala con cui interloquire, e questo mi manca moltissimo”.

E si crea così un tale clima di discorsi, di convegni, di dichiarazioni pubbliche, d’interviste ai quotidiani, di polemiche radiofoniche, di lesto manovrar d’apparizioni televisive, d’incarichi para amministrativi, di candidature a sindaco, a ministro, a commissario speciale, a salvatore supremo della patria o del comune disastrato, per cui la natura di ciascuno di loro si cancella e si ricompone, si trasforma e si confonde.

E non si riesce più a distinguere chi è chi, né cosa fa. Anche l’Anm è rimasta spiazzata. E la politica è evidentemente una malattia che li contagia, ma che non può essere stata contratta durante gli studi universitari di Giurisprudenza né durante la preparazione del concorso in magistratura. È il mondo politico ad averli voluti così come sono, mezzi politici e mezzi magistrati, sospesi nel mondo di mezzo – ops – assessori alla Legalità, commissari alla corruzione, autorità antimafia capaci d’esprimersi su qualsiasi argomento e su qualsiasi canale, capaci di coltivare allo stesso tempo una doppia ambizione (laica e togata), quello stesso mondo che mentre critica il protagonismo dei magistrati e sottilmente li accusa di far politica con la toga indosso, intanto riempie di toghe la politica (perché non ha una classe dirigente all’altezza). Così alla fine, loro, i mezzi e mezzi, fondatori di un metaforico albo dei moralizzatori cui la politica può attingere ad libitum, ovviamente dicono di non far politica, quando sarebbe più rassicurante, opportuno e in linea con il loro impegno, che invece facessero una scelta, preventiva e liberatrice.

Salvatore Merlo

Il Foglio, 30 ottobre 2015

L’Unione Camere Penali indaga sulla custodia cautelare. Il Presidente Migliucci scrive a tutte le Camere Penali


Avv. Beniamino MigliucciAi Presidenti delle Camere Penali
Loro Sedi

Caro Presidente,
sono lieto di renderTi partecipe – e per Tuo tramite, tutti gli iscritti alla Camera Penale da Te presieduta – di una nuova iniziativa politica che l’Unione ha deliberato di assumere, alla quale io e la Giunta che ho l’onore di presiedere annettiamo grande importanza, e che richiede, per la sua riuscita, la diretta e fattiva partecipazione di tutte le Camere Penali italiane.
E’ infatti giunta l’ora di raccontare – all’ opinione pubblica, alle istituzioni parlamentari, alle forze politiche – la verità sull’uso che quotidianamente viene fatto nel nostro Paese, nella concreta amministrazione della giustizia penale, dell’istituto della custodia cautelare.
E’ una verità che i penalisti italiani, beninteso, conoscono alla perfezione, grazie alla propria quotidiana esperienza professionale; ed è la verità di un abuso ordinario e sistematico di uno strumento che invece legge e Costituzione impongono categoricamente come eccezionale e residuale. Ma, appunto, il problema politico che ci siamo posti è: come la possiamo raccontare, questa verità, in modo che non possa essere liquidata come un punto di vista, fazioso ed interessato, degli avvocati penalisti, ma sia invece disvelata nella sua rigorosa, non controvertibile oggettività?
L’UCPI già raggiunse con successo, nel 2008, un analogo obiettivo politico: la ricerca sull’udienza dibattimentale, realizzata insieme all’Istituto Eurispes con la decisiva collaborazione di un gran numero di Camere Penali, demolì una volta per tutte la menzogna che pretendeva di attribuire ad un supposto eccesso di garanzie difensive la irragionevole durata dei processi penali.
E noi vogliamo – o almeno, questa è la nostra ambizione- esattamente replicare quel successo politico, questa volta in tema di abuso della custodia cautelare, e di malfunzionamento dei meccanismi procedimentali deputati al controllo della legittimità delle misure custodiali.
Per tali ragioni, sin dal suo insediamento questa Giunta ha ritenuto prioritario dotarsi di uno strumento deputato proprio alla raccolta dei dati statistici sul funzionamento e sulla amministrazione della giustizia penale in Italia: l’Osservatorio Dati, affidandone la responsabilità a Gian Domenico Caiazza, che già aveva organizzato e coordinato la “ricerca Eurispes” nel 2007-2008.
Ebbene, in questi mesi i (numerosi) Colleghi componenti di quell’Osservatorio (espressione di tutte le 24 Camere Penali residenti nelle città sede delle Corti di Appello), hanno con grande impegno lavorato alla predisposizione degli strumenti indispensabili per la realizzazione di questa grande indagine nazionale, che si realizzerà mediante due distinti, ma ovviamente convergenti, strumenti di acquisizione dei dati.
Il primo nasce dalla collaborazione tra l’Osservatorio e l’Ufficio Statistica del Ministero di Giustizia, che ha prodotto la condivisa elaborazione di un complesso catalogo di query, cioè di interrogazioni in tema di custodia cautelare e di procedimenti cautelari, che verranno ora poste ai sistemi informatici ed agli uffici statistici degli uffici giudiziari territoriali, prima nelle sedi-pilota di Palermo e Milano, e poi su tutto il territorio nazionale.
Il secondo nasce grazie alla collaborazione scientifica, preziosa ed ovviamente indispensabile, con il Dipartimento di scienze statistiche dell’Università “Sapienza” di Roma, e consiste nella realizzazione di un sofisticato questionario on line, destinato alla interrogazione di un preciso campione statistico di avvocati penalisti italiani.
Il questionario, la cui davvero complessa articolazione ha richiesto molti mesi di lavoro, costituisce ora lo straordinario strumento scientifico attraverso il quale gli avvocati italiani, ricostruendo le vicende cautelari direttamente patrocinate negli anni 2013 e 2014, potranno raccontare non un innocuo punto di vista, ma la deflagrante, oggettiva verità di questo ormai non più tollerabile scandalo della giustizia penale italiana, dal momento della richiesta della misura, alla sua esecuzione, alle esigenze che l’hanno motivata, a tutte le successive vicende procedimentali (Riesame, Appello, Cassazione, istanze di revoca e di sostituzione), fino all’esito (se nel frattempo intervenuto nell’arco di tempo considerato), del giudizio di merito, quantomeno del primo grado.
Come puoi constatare, caro Presidente, si tratta di una autentica impresa, considerata la mole monumentale dei dati che intendiamo raccogliere ed elaborare con rigore scientifico non controvertibile, e poi analizzare politicamente; ed è una impresa le cui possibilità di successo sono interamente nelle nostre mani. Qui, a differenza che nella ricerca Eurispes 2008, la natura dei dati che ci proponiamo di raccogliere non è pubblica, e dunque la raccolta non può che derivare dallo scrutinio accurato e rigoroso dei fascicoli, di studio o di ufficio, relativi alle vicende cautelari da noi patrocinate.
Dunque il successo di questa nostra iniziativa politica dipenderà, senza dubbio alcuno, dall’impegno che ciascuna Camera Penale italiana (coordinata, per distretto di Corte di Appello, dal rispettivo componente dell’Osservatorio), saprà assicurare per garantire le risposte al questionario da parte del numero di avvocati che a ciascuna di esse sarà assegnato di raggiungere.
Anche per questa ragione, nel corso del Congresso straordinario che si terrà a Cagliari dal 25 al 27 settembre 2015, effettueremo una presentazione della ricerca ed una dimostrazione delle modalità di compilazione del questionario on line.
Confidiamo dunque molto nel forte impegno della Tua Camera Penale, non solo per il raggiungimento dell’obiettivo politico immediato di questa ricerca, ma ancor più per vedere definitivamente affermata e riconosciuta ai penalisti italiani una ulteriore ragione di forza ed autorevolezza politica, cioè quella –ci auguriamo – di avere finalmente sconfitto il monopolio della Magistratura italiana sulla raccolta e la conoscenza dei dati relativi al funzionamento della giustizia penale italiana.
Gli avvocati penalisti italiani, caro Presidente, sono – letteralmente – seduti su una miniera di dati e di verità sul processo penale: noi vogliamo finalmente portarli alla luce, per costringere politica, istituzioni ed opinione pubblica a conoscerli, ed a misurarsi con essi.
RingraziandoTi per l’attenzione, formulo i miei più cordiali saluti.

Roma, 1 settembre 2015
Beniamino Migliucci

* Presidente Unione Camere Penali Italiane

Tolmezzo: detenuto 66enne rischia di morire per colpa del Medico del Carcere


Carcere TolmezzoRischia di morire perché sono rimaste inascoltati i suoi appelli. Perché, nonostante fatti acclarati, un medico del reparto detenuti dell’ospedale di Salerno ha preferito deriderlo “sbattendogli” in faccia i suoi titoli di studio invece di salvaguardare quel diritto alla salute che non dovrebbe mai essere negato a nessuno. Anche ad un detenuto. Anche a Francesco Sorrentino, esponente della Nco, condannato a 30 anni per il sequestro di Franco Amato (leggerete a parte) e detenuto nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo.

L’avvocato difensore, Bianca De Concilio, dopo mesi di appelli a vuoti, e richieste che non hanno trovato alcun tipo di risposta, ha rotto gli indugi ed in una conferenza stampa ha ricostruita la storia di un uomo che aveva quasi scontato il suo conto con la giustizia e che è stato nuovamente tirato in ballo in una vicenda giudiziaria dallo stesso figlio.

Uno dei pochi congiunti rimasti in vita dopo averne perso due in tragiche circostanze (uno impiccato e l’altra in seguito ad un malore accusato durante un processo in aula bunker). Per seguire le udienze del processo al Tribunale di Nocera Sorrentino il 29 gennaio viene trasferito al carcere di Fuorni.

Qui inizia il dramma di un uomo già provato da 36 anni di carcere. Sorrentino denuncia tracce di sangue nelle urine. Dopo una visita sommaria ed esami di routine i medici gli somministrano antibiotici ma, nonostante ciò, le perdite ematiche continuano.

Il sessantaseienne chiede che vengano effettuati nuovi esami ma il medico rovescia sistematicamente il campione prelevato nel water. “Comprendo una certa diffidenza nei confronti dei detenuti – ha sottolineato l’avvocato De Concilio- ma ci sono casi e casi e non si può far di tutta un’erba un fascio. Bisogna approfondire per garantire quel diritto alla salute che non va negato a nessun essere umano. Nel caso di Sorrentino dopo oltre trent’anni di carcere fatti dignitosamente non avrebbe mai cercato un escamotage per uscire”.

L’uomo, per sottolineare la sua buona fede, è arrivato a fare l’esame -in pratica- davanti al medico che anche in quel caso ha rovesciato il campione e, di fronte alle insistenze del sessantaseienne, ha ribadito di sapere quello che faceva in quanto aveva acquisito un titolo di studio: “Gli ha riferito che era solo un detenuto e doveva restare in silenzio e accettare le prescrizioni mediche fatte da chi ha competenza in materia”.

Il rientro a Tolmezzo. Il 31 marzo, nonostante la richiesta dell’avvocato De Concilio ed il parere favorevole del presidente del collegio giudicante del Tribunale di Nocera (Diograzia ndr), Sorrentino viene trasferito nuovamente a Tolmezzo in virtù di un rinvio lungo dell’udienza del processo che vede l’ex esponente della Nco imputato. I sanitari della struttura penitenziaria friulana si rendono immediatamente conto del cattivo stato di salute dell’uomo che lamenta perdite più forti ed è sempre più provato e dimagrito. Viene immediatamente disposta una visita urologica ed un’ecografia, esami che non erano stati disposti a Salerno. I medici riferiscono che bisogna intervenire al più presto ma nel frattempo Sorrentino rientra a Salerno il 5 maggio per l’udienza che sarà celebrata due giorni dopo.

Qui inizia un nuovo calvario. La terribile diagnosi. L’uomo lamenta forti dolori alla vescica e chiede a gran voce esami più approfonditi. Litiga anche con i compagni di cella e con un poliziotto della penitenziaria. Vengono disposti 15 giorni di sospensione nonostante le condizioni fisiche di Sorrentino peggiorino di giorno in giorno. Il 26 maggio rende dichiarazioni spontanee davanti al giudice del Tribunale di Nocera, su consiglio dell’avvocato difensore, dove denuncia il suo delicato stato di salute e l’assoluto immobilismo dei medici del reparto detenuti del carcere di Salerno. Riferisce anche del suo delicato problema alla vescica. “Non si possono trattare i detenuti peggio dei cani”.

Vengono disposti esami più approfonditi ma nulla cambia. A Sorrentino vengono somministrati soltanto antibiotici fino al 31 maggio quando avverte un dolore lancinante e riferisce che non riesce più ad urinare. “Per fortuna di turno c’era un medico diverso da quello che finora l’aveva visitato ed immediatamente interviene inserendo un catetere e disponendo il trasferimento al pronto soccorso dove viene rilevata un’occlusione dovuta dal sangue. Le notevoli perdite di sangue hanno portato il valore dell’emoglobina a livelli bassissimi (otto).

Vengono immediatamente disposte le trasfusioni e gli accertamenti rilevano un tumore alla vescica di grosse dimensioni. La diagnosi è gravissima con l’uomo che ora è in forte pericolo di vita per la negligenza di un medico che avrebbe potuto disporre accertamenti cinque mesi prima e, di conseguenza, intervenire, probabilmente, in condizioni meno disperate. In occasione dell’udienza in programma oggi al Tribunale di Nocera, ed in attesa delle risultanze degli accertamenti disposti, l’avvocato Bianca De Concilio depositerà gli atti relativi agli ultimi accertamenti effettuati da Sorrentino. “Il nostro intervento è fatto a tutele dei detenuti. Chiederemo al ministero un’accurata ispezione ed alle modalità di intervento applicate alle strutture carcerarie”.

Tommaso D’Angelo

Cronache dal Salernitano, 12 giugno 2015

Gherardo Colombo (Magistrato) : Ero uno che mandava in galera le persone. Ho sbagliato, oggi sono pentito !


PM Colombo“Questa donna ha ragione. E va ascoltata. Perché se oggi il carcere svolge una funzione, è la vendetta”. Prima giudice, poi pubblico ministero in inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come la Loggia P2 o Mani Pulite, Gherardo Colombo ha messo profondamente in discussione le sue idee: “Ero uno che le mandava le persone in prigione, convinto fosse utile. Ma da almeno quindici anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione”.

Da uomo di legge, la sua è una posizione tanto netta quanto sorprendente.

“È concreta. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi, privando le persone della libertà senza dare loro quella possibilità di recupero sancita dalla Costituzione. Esistono esempi positivi, come il reparto “La Nave” per i tossicodipendenti a San Vittore, o il carcere di Bollate, ma sono minimi”.

Molti dati mostrano la debolezza della rieducazione nei nostri penitenziari. Ma perché parlare addirittura di vendetta?

“Credo sia così. Pensiamo alle vittime: cosa riconosce la giustizia italiana alla vittima di un reato? Nulla. Niente; se vuole un risarcimento deve pagarsi l’avvocato. Così non gli resta che una sola compensazione: la vendetta, sapere che chi ha offeso sta soffrendo. La nostra è infatti una giustizia retributiva: che retribuisce cioè chi ha subito il danno con la sofferenza di chi gli ha fatto male”.

Esistono esperienze alternative?

“Sì. In molti Paesi europei sono sperimentate da tempo le strade della “giustizia riparativa”, che cerca di compensare la vittima e far assumere al condannato la piena responsabilità del proprio gesto. Sono percorsi difficili, spesso più duri dei pomeriggi in cella. Ma dai risultati molto positivi”.

Se questa possibilità è tracciata in Europa, perché un governo come quello attuale, così impegnato nelle riforme, non guarda anche alle carceri?

“Nei discorsi ufficiali sono tutti impegnati piuttosto ad aumentare le pene, a sostenere “condanne esemplari”, come sta succedendo per la legge sull’omicidio stradale – una prospettiva che trovo quasi fuori luogo: quale effetto deterrente avrebbe su un delitto colposo? Ma al di là del caso particolare, il problema è che i politici rispondono alla cultura dei loro elettori. Il pensiero comune è che al reato debba corrispondere una punizione, che è giusto consista nella sofferenza. Me ne accorgo quando parlo nelle scuole del mio libro, “Il perdono responsabile”: l’idea per cui chi ha sbagliato deve pagare è un assioma granitico, che solo attraverso un dialogo approfondito i ragazzi, al contrario di tanti adulti, riescono a superare. D’altronde il carcere è una risposta alla paura, e la paura è irrazionale, per cui è difficile discuterne”.

È una paura comprensibile, però. Parliamo di persone che hanno rubato, spacciato, ucciso, corrotto.

“Ovviamente chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, nel rispetto delle condizioni di dignità spesso disattese nei nostri penitenziari. Ma solo chi è pericoloso. Ed è invece necessario pensare in da subito, per tutti, alla riabilitazione. Anche perché queste persone, scontata la condanna, torneranno all’interno di quella società che li respinge”.

Francesca Sironi

L’Espresso, 15 maggio 2015