Giustizia: Cantone, Gratteri, Sabella, mezzi magistrati e mezzi politici dell’Italia renziana


Avvocati togheIl guaio è che non si capisce se sono magistrati o politici, e forse non lo sanno più nemmeno loro, spaesati come il resto degli italiani di fronte a uno di quei misteri linguistici che sempre, in questo paese, occultano un pasticcio.

Prendiamo per esempio il dottor Nicola Gratteri, che è procuratore aggiunto a Reggio Calabria, ma un anno fa è stato anche nominato da Renzi – che lo voleva addirittura ministro della Giustizia – presidente della commissione per la riforma Antimafia. Ebbene, dice il dottor Gratteri: “In Parlamento ci sono molte leggi, molta carne al fuoco. In questo momento sembra un lavandino otturato”.

E insomma, mezzo politico e mezzo magistrato, un po’ tecnico e un po’ no, corteggiato come candidato sindaco di Roma (“ma sono più utile da magistrato, almeno per come è oggi la politica”) Gratteri, come Raffaele Cantone, che è il magistrato benemerito della lotta alla camorra nominato (da Renzi) commissario anti corruzione, e come Alfonso Sabella, che è invece il magistrato antimafia nominato assessore alla Legalità del comune di Roma, svela un’inedita antropologia nel paese che già aveva affidato ai giudici la scienza, la storia e la politica: l’antropologia di quelli che rimangono a metà strada, che non scelgono, un po’ di qua e un po’ di là, quelli che si travestono e ci confondono.

Mercoledì scorso, Cantone si è espresso con sinuosità e spessore di politico: “Milano è tornata a essere capitale morale. Roma deve costruirsi gli anticorpi”. Ma ieri ci ha poi ricordato d’essere in effetti un magistrato: “Potrei lasciare l’Anm. E non ho mai fatto politica”. E c’era una volta il pm che prima accusava e poi assimilava, che indossava la toga e infine si appropriava del ruolo dell’imputato, che lo sostituiva persino in Parlamento, c’era insomma una volta Antonio Di Pietro, mentre oggi ci sono Gratteri, Sabella e Cantone, creature vaghe, enigmatiche, indefinibili come Conchita Wurst, l’ermafrodito che al tempo stesso ci incuriosisce e ci spaventa. E intorno a questa nuova e sfuggente antropologia, che d’un tratto sublima le ambiguità dei togati-candidati, cioè dei vecchi Ingroia ed Emiliano, dei Di Pietro e dei De Magistris, che partirono per moralizzare e finirono moralizzati, adesso si mettono in moto tutte le possibili letture e riletture, variazioni e contaminazioni di quell’antica e complessa vicenda che da Tangentopoli in poi è stata battezzata “cortocircuito politico-giudiziario”, o meglio ancora “imperialismo giudiziario”, storia d’energia popolare e di strumentalizzazione. “Io non ho mai fatto politica nella mia vita, rivendico la mia indipendenza ogni giorno al pari di quando ero in magistratura”, ha detto Cantone.

“Ero”, ha detto. Appunto. Un lapsus ma anche no, perché magistrato lo è ancora eppure in effetti non lo è più. E davvero Cantone, come Gratteri e come Sabella (televisivamente ubiquo: da Sky a Raiuno, da Vespa a Porro), riempie le sue giornate d’innocue enormità mondane e di Palazzo, ha insomma il piacere d’essere molti, di vedere tutti i se stesso, essere a discrezione politico e togato, essere un altro, dunque d’ipotizzare l’abbandono dell’Anm ´(da politico?) e di aiutare (da magistrato?) la candidatura renziana di Giuseppe Sala a sindaco di Milano: “A Roma purtroppo non ho un Giuseppe Sala con cui interloquire, e questo mi manca moltissimo”.

E si crea così un tale clima di discorsi, di convegni, di dichiarazioni pubbliche, d’interviste ai quotidiani, di polemiche radiofoniche, di lesto manovrar d’apparizioni televisive, d’incarichi para amministrativi, di candidature a sindaco, a ministro, a commissario speciale, a salvatore supremo della patria o del comune disastrato, per cui la natura di ciascuno di loro si cancella e si ricompone, si trasforma e si confonde.

E non si riesce più a distinguere chi è chi, né cosa fa. Anche l’Anm è rimasta spiazzata. E la politica è evidentemente una malattia che li contagia, ma che non può essere stata contratta durante gli studi universitari di Giurisprudenza né durante la preparazione del concorso in magistratura. È il mondo politico ad averli voluti così come sono, mezzi politici e mezzi magistrati, sospesi nel mondo di mezzo – ops – assessori alla Legalità, commissari alla corruzione, autorità antimafia capaci d’esprimersi su qualsiasi argomento e su qualsiasi canale, capaci di coltivare allo stesso tempo una doppia ambizione (laica e togata), quello stesso mondo che mentre critica il protagonismo dei magistrati e sottilmente li accusa di far politica con la toga indosso, intanto riempie di toghe la politica (perché non ha una classe dirigente all’altezza). Così alla fine, loro, i mezzi e mezzi, fondatori di un metaforico albo dei moralizzatori cui la politica può attingere ad libitum, ovviamente dicono di non far politica, quando sarebbe più rassicurante, opportuno e in linea con il loro impegno, che invece facessero una scelta, preventiva e liberatrice.

Salvatore Merlo

Il Foglio, 30 ottobre 2015

Giustizia, Boato : Renzi ha rotto col giustizialismo, che dagli anni 70 è stata posizione del Pci


On. Marco BoatoConversazione con Marco Boato, 71enne, piccolo padre del 1968 all’Università di Trento, poi con una lungo passato parlamentare, dai Radicali ai Verdi e all’Ulivo, si interrompe quasi subito per una chiamata al cellulare. È monsignor Loris Capovilla, storico segretario di Giovanni XXIII, oggi cardinale, che lo chiama nell’imminenza dei suoi cento anni. “Mi scusi, ma quando ho visto che era lui, non potevo non rispondere”.

Un’amicizia che dice molto di questo sociologo veneziano: cattolico, sessantottino, radicale, ecologista e grande paladino dei diritti, tanto che nel 2008, i Verdi, alleati di Prc, non lo ricandidarono perché i neocomunisti, in piena antiberlusconismo, non tolleravano il suo garantismo.

Domanda. Boato, lei, uomo di sinistra, come si trova nell’Italia di Matteo Renzi? Per qualcuno è l’anticamera dell’autoritarismo.

Risposta. La sorprenderò ma non ho maturato idee, né ho quelle tranchant di chi è più giovane di me. Su Renzi, in pratica, ho sospeso il giudizio.

D. Sorprende, in effetti, in un’Italia così visceralmente pro e contro il premier. Perché non giudica?

R. Perché sono stato colpito, e molto negativamente, dal passaggio di Renzi al governo. Un colpo di mano molto partitocratico, con la conquista della maggioranza interna di un partito, il Pd. E c’erano state quelle ampie e pubbliche rassicurazioni a Enrico Letta…

D….hashtag #enricostaisereno…

R. Esatto e poi contraddette clamorosamente e la cosa, dico la verità, mi aveva disgustato. Sono un po’ all’antica e la lealtà, secondo me, viene prima di tutto. Questa era una tara così grossa che, per non avere pregiudizi ideologici, ho pensato di sospendere il giudizio.

D. Lei è ancora in attesa di farsi un’idea, ma di questo esecutivo avrà visto cose che le sono piaciute e cose no.

R. Sì, luci ed ombre. Partiamo dalle prime.

D. Prego.

R. Fra queste c’è il fatto che il governo Renzi ha segnato una svolta nel Paese. Siamo andati avanti con Silvio Berlusconi, con Mario Monti e anche con Letta a dire, anno dopo anno, che si intravedeva la luce in fondo al tunnel della crisi. Non era vero. Oggi, con Renzi, pur con tutta la cautela, lo si deve affermare. E non solo per merito solo suo, intendiamoci.

D. Una congiuntura favorevole?

R. Sì, il petrolio a prezzi bassi, un rapporto euro dollaro ridimensionato verso la parità, la Banca centrale europea col quantitative easing: tutti fattori che agevolano la possibilità di ripresa e che danno la sensazione della fi ne di una fase di recessione che pareva non avere limiti, una recessione anche morale ed etica.

D. Ombre? Anche lei lo vede come un rischio per la democrazia?

R. Avendo combattuto, negli anni 70, la strategia della tensione, fra Piazza Fontana e i colpi di Stato striscianti, non me la sento di condividere questa immagine che una parte della sinistra del Pd e Sel danno di Renzi. Per quanto anche Berlusconi, di recente, abbia parlato di “regime”.

D. Sì ha detto che Renzi è bulimico di potere.

R. Ma io mi sono rifiutato di parlare di regime anche quando lo addebitavano al Cavaliere, figurarsi se lo accetto adesso.

D. E poi ci sono i costituzionalisti alla Gustavo Zagrebelsky, quelli che Renzi chiama i “professoroni”…

R. Sì, sì dicono che siamo sull’orlo di una democrazia autoritaria, qualcuno ha recuperato il termine di “democratura”, ma mi pare davvero fuori luogo.

D. Veniamo alle ombre…

R. Le ravviso nella legge elettorale, che non mi convince per i capilista bloccati, incostituzionali come lo era il Porcellum che nominava tutti, ma più di tutto per il passaggio dell’attribuzione del premio di maggioranza, al partito anziché alla coalizione e l’impossibilità di fare apparentamenti sotto il 40%.

D. Perché non vanno questi dettagli dell’Italicum?

R. Perché violentano un pluralismo politico che oggi è irrinunciabile, come mostrano anche altri sistemi, una volta bipolari o tripolari, come la Germania o la Gran Bretagna, e dove si registra un moltiplicarsi di nuove sigle. Se l’eccesso di frammentazione è negativo, anche l’eccesso di semplificazione non va bene. E, mi faccia aggiungere, anche il ricorso alla fiducia, per una norma elettorale, fatto mai avvenuto in Italia, è stato abbastanza brutale.

D. Dovrebbe tornare indietro, come sostengono alcuni?

R. Sì, perché potrebbe finire per essere un gigantesco boomerang. Ha fatto questa forzatura, perché nella prima stesura il premio era alla coalizione, quando ha vinto alle europee, ma ora i sondaggi, l’ultimo quello di Repubblica sabato, dicono che il Pd è poco sopra il 30%.

D. Vabbè non si può fare le leggi e modificarle a proprio uso e consumo.

R. Sì, ma il rischio, per Renzi, è andare al ballottaggio con il M5s e perdere, perché magari al secondo turno si coalizzano tutti gli scontenti. E non è solo un rischio per Renzi, lo è anche per l’Italia.

D. I grillini al governo sarebbero una jattura?

R. Guardi non demonizzo, perché quando una forza ottiene i voti di un Italiano su quattro va rispettata, però sarebbe una sciagura se arrivassero al governo. Beppe Grillo è simpaticissimo, come comico, ma lui e i suoi uomini non sono all’altezza di governare un Paese, anche se si stanno facendo le ossa in alcune amministrazioni comunali. Ma mi faccia tornare a Renzi.

D. Prego.

R. Credo che sull’Italicum potrebbe avere l’intelligenza politica di tornare indietro su capi-lista e premio alla coalizione anziché al partito, con una leggina ordinaria, mediando sia con la sua sinistra interna, sia col centrodestra.

D. E della riforma costituzionale del Senato sulla quale, secondo alcuni, il governo rischia grosso?

R. Sono abbastanza critico. Quando Renzi e Maria Elena Boschi dicono che per 30 anni non si era fatto niente su Parlamento e Titolo V, dicono una gigantesca bugia: si è fatto il federalismo, nel 2001, il centrodestra ci ha provato nel 2005, si è fatta l’elezione diretta dei presidenti regionali. E quella del governo è una riforma che, a livello costituzionale, lascia intatte alcune parti, dalla presidenza della Repubblica, alla magistratura, alla Corte costituzionale.

D. Ma sul Senato, nello specifico?

R. Che ci possa essere una camera con una rappresentanza indiretta, come in Francia, può andare anche bene, si sbaglia quando ci si richiama al Bundesrat, il senato tedesco, che non c’entra nulla: quelli sono rappresentanti dei governi dei Länder, non dei consigli. Ma non è il Senato la vera questione.

D. Vale a dire?

R. Il Titolo V, di cui si parla pochissimo, e con cui si vogliono riportare in capo allo Stato quasi tutte le competenze concorrenti di materia regionale, non solo l’energia e le infrastrutture.

D. E non va bene?

R. Fatte 100 le competenze, almeno 80 si riaccentrano. Ora, per quanto i consigli regionali abbiano dato scandalo, credo che travolgere l’intero regionalismo italiano sia un grosso errore. Anche perché non è che lo Stato centrale funzioni benissimo. Eppure si parla solo dell’elettività dei senatori.

D. Forse perché è un dissenso tutto politico della minoranza Pd, per bloccare la riforma e quindi disarcionare Renzi?

R. Mi spiace riconoscerlo, perché ho buoni amici nella minoranza dem, ma è così: giocano questa partita delle riforme contro Renzi. Legittimamente, intendiamoci, ma non nel merito delle questioni. Aspettino due anni e, al congresso, trovino qualcuno che sconfigga il segretario attuale.

D. Da vecchio ecologista, boccia Renzi sulle questioni ambientali, come fanno i suoi amici di Green Italia, Francesco Ferrante e Roberto Della Seta, che criticano lo Sblocca Italia?

R. Sui temi ambientali, questo esecutivo va all’indietro, ma succede anche per come è composta la squadra di governo.

D. Perché?

R. Perché Gian Luca Galletti all’ambiente non è un capolavoro di ambientalismo, e Federica Guidi alle attività produttive, non è un campione di innovazione nella politica industriale. Ecco, quando si polemizza sull’uomo solo al comando, non concordo tanto sul tema della leadership, ma l’essere il primus inter pares, in una compagine di governo non certo di alto livello.

D. Senta e sulla giustizia, qualche luce la vede?

R. Sì, perché Andrea Orlando, viceversa dai colleghi, così com’era stato un decente ministro dell’ambiente, ora lo è della giustizia, ed esercita l’arte del dialogo e del buon compromesso. Quello della giustizia, è un capitolo di una complessità e pericolosità enorme, io c’ho ancora le abrasioni per essermene occupato. E la magistratura, quando decide di far fuori un ministro, lo fa. Come nel 2008, dimostrò la vicenda di Clemente Mastella. A me non potevamo farmi fuori, ma decine di magistrati, lo avrebbero fatto quando ero relatore della Bicamerale: le organizzazioni corporative si opponevano a ogni ipotesi di riforma.

D. C’è chi dice che Renzi sia stato troppo morbido, alla fine, con la responsabilità civile dei giudici e abbia dato peso a magistrati come Raffaele Cantone e Nicola Gratteri per pararsi le spalle.

R. Renzi ha rotto in qualche modo col giustizialismo. Ai miei tempi, negli anni 70, la sinistra era il garantismo, ho imparato tanto nei congressi di Magistratura democratica e anche del Pci a questo riguardo, poi…

D. Poi?

R. Poi sull’onda delle tre emergenze, terrorismo, antimafia e, successivamente, la corruzione, la sinistra ha cambiato di 180 gradi la sua attitudine alla giustizia. Una mutazione genetica: ricordo colleghi di grande valore, del Pds prima, dei Ds poi, ma anche della Margherita, epurati per essersi esposti per le garanzie e lo Stato di diritto. Renzi ha dato qualche forte segnale di discontinuità. Quanto a Cantone e Gratteri…

D. Glielo stavo per chiedere…

R. Vede, sono persone stimabili, ma anche il prodotto di una stagione in cui c’è stato un conflitto permanente fra politica e giustizia. Per cui oggi ci sono troppe toghe, in aspettativa o no, che svolgono ruoli politici. Persone stimabili, ripeto, come Michele Emiliano o Luigi de Magistris, anzi sulla stima al sindaco di Napoli mi faccia mettere un punto interrogativo, persone, dicevo, che segnano una sconfitta della politica. Che quando ha paura, ricorre a un pubblico ministero o a un poliziotto.

D. Come a Roma dove, per fare l’assessorato alla legalità, hanno chiamato un ex pubblico ministero, Alfonso Sabella.

R. Nel conflitto permanente, la politica si è indebolita e, in una logica emergenziale, arriva la supplenza dei magistrati.

Goffredo Pistelli

Italia Oggi, 16 settembre 2015

Il Sap : “No all’approvazione del reato di tortura” Coro di proteste contro il Sindacato Autonomo della Polizia


polizia-picchia-studentiDomani è la giornata internazionale contro la tortura e, in Italia, ad oltre 26 anni dalla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite, il codice penale ancora non prevede questo reato.
Nelle ultime ore il Sap (Sindacato Autonomo di Polizia), vi si è scagliato contro, annunciando che oggi scenderà in piazza distribuendo appositi volantini. La motivazione sta nel fatto che favorirebbe estremisti e violenti, impedendo alle forze dell’ordine di svolgere il proprio lavoro.

“La posizione del Sap è fuori dalla comunità internazionale” dichiarano Patrizio Gonnella (Antigone), Massimo Corti (Acat) e Franco Corleone (coordinatore dei Garanti dei detenuti). “La polizia deve essere un corpo che protegge i diritti umani e non deve aver paura del reato di tortura. Va ricordato che la tortura è considerato dal diritto internazionale un crimine contro l’umanità tanto da essere fra quelli su cui può investigare e giudicare la Corte Penale Internazionale dell’Aia”.

“Affermare che il reato di tortura sarebbe un regalo agli estremisti e ai violenti è inaccettabile. Praticamente tutti i Paesi a democrazia avanzata dell’Europa hanno il reato nel loro Codice. Anche il Vaticano grazie a Papa Francesco ha codificato il crimine di tortura così come chiesto dall’Onu di Ban Ki-Moon”.

“Il Sap – proseguono – parla di reato ideologico, ma di ideologica c’è solo la loro opposizione. La previsione di questo crimine non è un capriccio italiano, né tantomeno di un presunto partito contro le forze dell’ordine, ma arriva direttamente dalle Nazioni Unite che, nel 1984, approvarono la Convenzione contro la tortura. La codificazione del crimine ci consente di dare valore al lavoro straordinario di tutti quei poliziotti che si muovono nel solco della legalità”.
“Va spiegato dunque al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon e al Papa perché sono contrari”.

Tra le varie questioni su cui il sindacato di polizia si scaglia c’è anche la dicitura “torture psichiche”, anch’esse previste nella Convenzione internazionale. Anche qui, con una posizione per nulla ancorata alla realtà, il Sap paragona questo genere di torture all’alzare la voce durante un interrogatorio, avvertendo con durezza l’indiziato sui rischi che corre. Le torture psichiche sono un dramma nella vita delle persone così come ci raccontano le organizzazioni internazionali: finte esecuzioni, la privazione costante e per giorni del sonno, l’obbligo di radersi per i prigionieri di fede musulmana, minacce di stupro, isolamento prolungato, deprivazione sensoriale. Alcune di queste furono inflitte a due detenuti del carcere di Asti, quando un giudice – nella sentenza di condanna di alcuni poliziotti penitenziari – scrisse che di torture si trattava, ma che i responsabili non potevano ricevere pene proporzionali alla gravità del fatto commesso per l’assenza dello specifico reato.

“È responsabilità anche del governo rispondere a questi muri che si costruiscono e obiezioni fittizie che vengono sollevate. Approvare la legge oggi è un obbligo per il nostro paese e, se qualcosa di ideologico c’è nel volere il crimine di tortura – dichiarano infine Patrizio Gonnella, Massimo Corti e Franco Corleone –, è il volersi ancorare alle democrazie avanzate europee e mondiali”.

Per domani Antigone ha organizzato una mobilitazione via twitter, invitando chi utilizza questo social network a scrivere questo tweet:
#‎GiornataMondialeControLaTortura‬ In Italia la tortura esiste e si pratica. @matteorenzi vogliamo ‪#‎SubitoLaLegge

Per Fabio Ferrara (i tanti Fabio Ferrara) nessuna slide, presidente Renzi, ministro Orlando ?


Centro Penitenziario SecondiglianoCi sono storie emblematiche, che fanno pensare e dicono più di cento discorsi, di mille twitter, di “farò” e “prometto di fare” in uno, dieci, cento, mille giorni. Storie come quella di un detenuto nel carcere di Napoli Secondigliano. Questo detenuto è doppiamente prigioniero: in cella, e su una sedia a rotelle. Ha uno spazio vitale ridotto, per muoversi si affida ad altri detenuti, a causa delle numerose barriere architettoniche che ci sono in carcere; in ogni carcere. Da sei mesi questo detenuto chiede di essere operato, è in sciopero della fame da dieci giorni.

 

Questo detenuto che rivendica in questo modo nonviolento un suo sacrosanto diritto, quello della salute, che lo stato ha il dovere di tutelare proprio perché lo ha privato della libertà, si chiama Fabio Ferrara.

Ferrara è sulla sedia a rotelle da diversi anni; è rimasto ferito gravemente al momento dell’arresto per concorso in tentata rapina; sei giorni di coma, poi si è risvegliato, ma da quel momento è rimasto immobilizzato. Si trova in una stanza dell’infermeria del carcere. Una stanza adatta per una sola persona, sono in due: lui in carrozzina e l’altro detenuto che lo aiuta a lavarsi, a muoversi, le funzioni più elementari. E’ difficilissima ogni azione quotidiana, anche essere lavato è un’impresa: bisogna salire e scendere le scale, non è in grado di uscire dalla cella autonomamente: deve essere trasportato in braccio poiché ci sono molte scale: anche per accedere ai colloqui o andare in bagno. Lo aiutano altri detenuti, racconta la moglie Anna Belladonna, se non fosse così, “non potrebbe fare nulla, resterebbe imprigionato in uno spazio che è di tre metri quadri scarso.

“Una condizione disumana”, la definisce Luigi Mazzotta, dell’associazione Radicali Per La Grande Napoli, che ha visitato il carcere di Secondigliano insieme al senatore Luigi Compagna. “Ferrara deve essere operato alla vescica, e attende questo ricovero da oltre sei mesi”. Sono state presentate due istanze per il differimento della pena. Il magistrato di sorveglianza, però, ha rigettato l’istanza in quanto non sussisterebbe “un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose”. Il detenuto, insomma, può essere curato in carcere.

Intanto, il ricovero non arriva, la fisioterapia di cui avrebbe bisogno neanche. Nessuna slide, su vicende come questo né da parte di Renzi, né da parte del ministro Orlando. Buona giornata; e buona fortuna.

Valter Vecellio

Notizie Radicali 03 Settembre 2014

 

Giustizia: una riforma che viola la Costituzione, ma qualcuno proverà a fermarla ?


giustizia2Fissare la scadenza della prescrizione alla conclusione del processo di primo grado viola due articoli della Costituzione: il 27 e il 111. Qualcuno raccoglierà firme per impedirlo?

Le indiscrezioni dicono che oggi il ministro Orlando presenterà al Consiglio dei ministri una proposta di riforma della giustizia mutilata dai veti dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) e che di conseguenza non riforma quasi nulla: perché l’Anm è assolutamente contraria a qualunque tipo di provvedimento che non accresca ulteriormente il potere della magistratura.

È probabile che questa riforma – gentile, impalpabile – troverà robuste opposizioni in Parlamento, proprio per la sua inconsistenza, per il suo carattere di “finzione”, e non sarà approvata. Noi (noi del Garantista) avremo la soddisfazione, magra, di avere predetto il fallimento della riforma.

Il Paese pagherà lo scotto per la vigliaccheria di un ceto politico di governo impreparato e un po’ servile, che in fondo preferisce sopravvivere, seppure agli ordini della magistratura, piuttosto che dover navigare in mare aperto e affrontare i marosi dell’indipendenza. La mancata riforma della giustizia costringerà l’Italia in una condizione che ormai sta diventando di regime: dove il potere politico non è più autonomo, non è più legittimato dal voto popolare, ma è espropriato da una casta, e cioè i magistrati – per essere precisi e giusti: una parte dei magistrati – in grado di influenzare la formazione delle leggi, la gestione dell’economia, la selezione delle classi dirigenti, e naturalmente di poter esercitare la giurisdizione senza nessun controllo e limite.

Quali erano i limiti dentro i quali doveva mantenersi l’ordine giudiziario e quali nuovi limiti la riforma avrebbe potuto introdurre? Il limite, per la verità, era praticamente uno solo: la prescrizione. Che risponde alle indicazioni della Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) e anche della nostra Costituzione (articolo 111) e garantisce la cosiddetta “ragionevole durata del processo”. Tutti gli altri limiti, che esistono in molti altri paesi, o non ci sono mai stati o sono saltati. Non c’è la responsabilità civile dei giudice, non c’è la limitazione agli arresti preventivi, non c’è nessun argine alle intercettazioni (che in un solo giorno in Italia, sono quante ne fanno in un anno intero negli Stati Uniti d’America), né tantomeno alla loro indiscriminata e intimidatoria pubblicazione, non c’è la parità tra accusa e difesa (anche questa prevista dall’articolo 111 della Costituzione, ma inutilmente), non c’è la terzietà del giudice (cioè la separazione delle camere), eccetera eccetera.

Questa assenza di argini ha permesso e permette molti soprusi, che non sono quelli – pur reali – esercitati nei confronti di Berlusconi (che uno, al limite, potrebbe anche fregarsene…) ma sono migliaia e migliaia che si abbattono sulle spalle piccole di tanti poveri cristi. La riforma avrebbe dovuto ripristinare quei limiti o fissarne dì nuovi. Invece sorvola sulla possibilità di porre rimedio a questi guai. E per di più, a quanto dicono le indiscrezioni, attenua e quasi cancella l’unica limitazione esistente, e cioè la prescrizione. Quindi non sarà una riforma che alza l’asticella delle garanzie per l’imputato, ma invece l’abbassa. Non aumenta il grado delle libertà: si innalza il livello dell’autoritarismo, spingendo il nostro paese piuttosto che verso la modernità, verso qualcosa che un pochino assomiglia allo Stato di polizia.

La possibilità che si fissi la scadenza della prescrizione alla conclusione del processo di primo grado, per altro, rende del tutto incostituzionale questa legge. Proviamo a spiegarci bene. Cos’è la prescrizione? È una misura, prevista dal codice penale, che estingue la pena (o addirittura il reato) dopo un certo numero di anni. Gli anni necessari ad ottenere la prescrizione sono proporzionali alla gravità del reato e cioè coincidono con la pena “edittale” prevista dal codice penale, e in ogni caso sono almeno sei peri i reati più piccoli. Non c’è prescrizione per l’ergastolo, visto che l’ergastolo non è quantificabile in anni. La prescrizione interviene se, prima del tempo stabilito, non si arriva alla condanna definitiva. Nella riforma-Orlando, su richiesta dell’Anm (che di solito pubblica su Repubblica i suoi “ordini” al ministro), la prescrizione viene – diciamo così -anticipata, nel senso che scatta solo se i limiti di tempo vengono superati prima della sentenza di primo grado. Dopo la sentenza di primo grado non esiste più prescrizione e il processo d’appello, ed eventualmente di Cassazione, non ha limiti di tempo.

In questo modo si violano in modo palese, consapevole e sfacciato due articoli della Costituzione: il 27 e il 111. L’articolo 27 stabilisce che nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva. Dunque la condizione di un imputato non cambia in nessun modo con la sentenza di primo grado, mentre la riforma ne cambia radicalmente la condizione, facendogli perdere il beneficio della prescrizione. L’articolo 111 stabilisce la ragionevole durata del processo, mentre la riforma, ponendo il limite della prescrizione al processo di primo grado (è chiaro che la magistratura tenterà di affrettare i processi di primo grado e poi non avrà più fretta per l’appello) elimina ogni possibilità di ragionevole durata. È grave se la riforma della Giustizia in modo evidente e dichiarato sfida e calpesta i principi costituzionali?

Non so se è grave, certo non è inusuale. Basta dire che da più di un decennio votiamo con una legge incostituzionale e che ora si sta valutando una legge elettorale ancor più incostituzionale della precedente. La Costituzione è considerata abbastanza un optional dal potere italiano. E non vi aspettate però che gli intellettuali – e gli attori, i cantanti, i giocatori di calcio – aderiscano in massa ad una raccolta di firme – tipo quella del “Fatto” a difesa del Senato – contro la violazione della Costituzione da parte del binomio governo-magistratura.

Piero Sansonetti

Il Garantista, 29 agosto 2014

Buemi (Psi) : Nessuno c’è l’ha con i Magistrati ma, quando sbagliano. anche loro debbono pagare


Sen. Enrico Buemi PSI“L’Anm grida al lupo, quando il lupo, di fatto, ha fatto marcia indietro”. Esordisce cosi’ il Senatore Enrico Buemi, Capogruppo del Partito Socialista Italiano (PSI) in Commissione Giustizia a Palazzo Madama, interpellato dal Velino, a proposito della reazione del sindacato delle toghe alle linee guida del Governo sulla riforma della giustizia in materia di responsabilità civile dei magistrati. Buemi, che e’ relatore della norma al Senato e che sulla responsabilità civile dei magistrati ha presentato la pdl n. 1070, spiega che la sanzione applicabile in caso di colpa grave del magistrato “e’ molto limitata rispetto all’elaborazione fatta in commissione Giustizia, dove si profilava che il minimo recupero economico potesse essere intorno al 50% del danno arrecato”. Mentre nelle linee guida della riforma del ministro della Giustizia Andrea Orlando e’ previsto che il risarcimento per chi ha subito il danno può arrivare fino al 50% dello stipendio annuo netto del magistrato al momento in cui sono avvenuti i fatti.

“Una briciola di incremento – commenta Buemi – rispetto a una situazione che prima era irrisoria. Stiamo infatti parlando di qualche migliaio di euro di incremento, passando dal 30% al 50% dello stipendio, e cioè a 25/30 mila euro di risarcimento del danno, in più col vincolo del prelievo mensile di un massimo del quinto dello stipendio”. Il risarcimento previsto dal ministero non e’ proporzionale al danno. “Di fronte a un danno che potrebbe essere di decine di migliaia di euro, penso in particolare ai magistrati del civile, c’e’ una non proporzionalità, tra il danno arrecato e la sanzione applicata”, osserva Buemi.

Un discorso che vale anche per i comportamenti che prevedono la limitazione della libertà. “I magistrati – spiega ancora Buemi – non hanno mai risposto civilmente per gli arresti prolungati nel tempo che hanno generato azioni di risarcimento da parte di coloro che li hanno subiti. In 25 anni di applicazione della norma Vassalli – ricorda il senatore Psi – solo quattro casi sono andati a compimento, ma nessuno ha avuto un’azione di rivalsa”. Insomma “il lupo non c’e’ e nessuno c’e’ l’ha con i magistrati che svolgono azione meritoria – osserva Buemi rispondendo alle preoccupazione dell’Anm – inoltre e’ sempre un giudice che deve stabilire se un altro giudice ha commesso o no colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni”.

Quando la riforma passerà all’esame del Parlamento “chiederò ai colleghi un atteggiamento coerente e lo chiederò anche al presidente del Consiglio, che in più riprese ha detto che ci deve essere lo stesso tipo di recupero rispetto al danno arrecato. Non dico che ci debba essere un recupero al cento per cento, ma ci deve essere una proporzionalità – ribadisce Buemi – tra il danno arrecato e l’azione di concorso all’indennizzo della parte che ha subito il danno, un indennizzo che non può essere irrisorio”.

Il Ministro della Giustizia Orlando annuncia la nomina del Capo dell’Amministrazione Penitenziaria


Orlando, Festa Penitenziaria“Nei prossimi giorni proporrò al Consiglio dei Ministri la nomina del nuovo capo del Dap”, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Lo ha preannunciato l’Onorevole Andrea Orlando, Ministro della Giustizia al termine di un incontro tenutosi al Dicastero di Via Arenula, ricordando che si era impegnato a questo passaggio dopo il via libera al decreto carceri e dopo la sentenza di Strasburgo.

Il nuovo Capo del Dap prenderà il posto di Giovanni Tamburino che è stato esautorato dalle sue funzioni il 27 maggio 2014 poichè il nuovo Governo guidato da Matteo Renzi non gli ha riconfermato il mandato nel termine previsto (90 giorni) dalla Legge . L’attuale reggente è Luigi Pagano, Vice Capo Vicario del Dipartimento che in questo periodo ha retto la responsabilità dell’Amministrazione Penitenziaria.

 

Nuovo Decreto Carceri, approvato dal Parlamento sotto dettatura dei Magistrati


carcere_latina-2Il Ministro della Giustizia Orlando impone il voto di fiducia sul decreto carceri, che passa al Senato: ora il provvedimento è legge. Ma con la forzatura di sabato scorso è stata cancellata la modifica approvata dalla commissione Giustizia del Senato, che aveva eliminato la norma sui Tribunali di Sorveglianza affidati ai giudici ragazzini.

Il governo aveva mostrato molta più disponibilità, quando si era trattato di accogliere le rettifiche imposte, alla Camera, dall’Anm. A inizio seduta i senatori di opposizione sono assaliti da quelli che il ragionier Fantozzi definirebbe “vaghissimi sospetti”.

Le voci di un maxiemendamento dell’esecutivo sul decreto carceri circolano già da giovedì. Poi una passeggiata per i corridoi di Palazzo Madama toglie ogni dubbio: molti colleghi di maggioranza sono arrivati armati di trolley, pronti a volare verso una domenica di relax. Due indizi bastano in questo caso a fare una prova: il provvedimento sui detenuti sarà risolto con maxiemendamento governativo e fiducia, niente discussioni lunghe. Così il calendario, già alleggerito dal “canguro”, si libera.

E lascia spazio per un mini week end, prima dello sprint sulla riforma costituzionale. Così è: a un’oretta dall’inizio dell’esame in aula il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi comunica che l’esecutivo pone la fiducia sul decreto detenuti. Proteste dell’opposizione, uno striscione vecchia maniera della curva leghista (“Il governo sta dalla parte dei criminali”). Contestuale comunicazione che la capigruppo ha revocato a maggioranza la seduta fissata, con orario 9-24, anche per oggi. Altre proteste, stavolta soprattutto del capogruppo cinque stelle Vito Petrocelli. I suoi fotografano i trolley e li postano sul blog di Grillo. Ma finisce secondo previsioni: la fiducia viene votata e il decreto è convertito in legge, con 162 favorevoli, 39 contrari e nessun astenuto.

Due obiettivi in un colpo solo, per Renzi. Evitare di stressare ulteriormente un’aula attesa dalla fase finale dell’esame sulla riforma della Costituzione. E tagliare corto sulla questione carceri, diventata fastidiosissima per il premier e il guardasigilli Orlando, dopo l’emendamento fatto passare dalle opposizioni in commissione Giustizia. Una modifica che avrebbe costretto a sottoporre di nuovo il provvedimento all’esame di Montecitorio, con il rischio di vederlo decadere. Disciplina ripristinata, rapporti di forza chiariti. Anche se a costo di insistere su un decreto carceri che rischia di essere bocciato in sede europea, per l’esiguità del risarcimento da 8 euro al giorno. E con la possibilità che la Consulta lo dichiari incostituzionale, dopo i dubbi sollevati dal Csm.

Riforme, si tratta

D’altronde l’aula si presenta vuota per un terzo, segno che le voci sulla fiducia sono considerate sufficientemente affidabili da indurre a un’ampia diserzione. Il riflettori si spostano subito sulle riforme. Partita in cui resta da definire ancora qualche nodo. Potrebbe essere perfezionato l’armistizio tra Pd e Sei, dopo il ritorno in aula dei vendoliani.

Sul tavolo c’è la disponibilità offerta dal ministro Boschi per “modifiche migliorative sugli articoli del ddl di riforma che vanno dal 2 al 40”. Le concessioni potrebbero estendersi fino alla soppressione dell’immunità. Con una valvola di sicurezza: se saltasse la trattativa il premier potrebbe additare all’opinione pubblica chi ha causato la sopravvivenza del privilegio. Dopodiché il vero punto di caduta dell’accordo resta la legge elettorale. Il partito del governatore pugliese chiede soglie di sbarramento meno severe. È lì lo snodo che può consentire di arrivare alla “quadra” sull’italicum.

Lo strappo

Intanto il combinato disposto tra la norma canguro e la determinazione cieca di Renzi riportano l’equilibrio in favore dell’esecutivo. Che riesce a liquidare in tempi più rapidi del previsto anche l’insidiosa questione del decreto detenuti. Un po’ la scena iniziale inganna. Perché il Pd Beppe Lumia fa un discorso spiazzante. Del tipo: “Sull’impiego dei magistrati appena vincitori di concorso nei tribunali di sorveglianza sono emerse molte perplessità”.

E vero che all’inizio dell’esame in Commissione anche il relatore democratico Felice Casson aveva espresso dubbi. Poi però è bastato che il viceministro Costa inarcasse le sopracciglia perché lo stesso Casson desistesse. Tanto da limitarsi a uscire dall’auletta al momento del voto. A governo battuto, Lumia se l’è presa con l’unico senatore di maggioranza ad aver votato l’emendamento, Susta di Scelta civica. Perciò a sentirgli pronunciare quell'”abbiamo espresso perplessità” per un attimo fa pensare che la fiducia e il ritorno al testo della Camera non siano scontati.

Invece finisce proprio così. Con Orlando che rivendica la necessità del decreto detenuti di fronte agli impegni assunti in Europa dopo la sentenza Torreggiani: “Dobbiamo evitare il rischio di una condanna europea sulle carceri nel pieno del semestre di presidenza italiano”. Viene dunque ripristinata e approvata la versione del provvedimento in cui compare anche la norma sui giovani magistrati di sorveglianza. Ma lo stesso Orlando si impegna a riproporne l’eliminazione “nel primo provvedimento utile”. Nessun ripensamento, neppure postumo, sul risarcimento da 8 euro a chi è detenuto “in condizioni inumane e degradanti”.

È il vero cuore del provvedimento. Un ristoro che il Csm ha bocciato come insufficiente e iniquo, addirittura a rischio incostituzionalità. Ma anche su questo il governo tira dritto. C’è da piantare la bandiera delle riforme, e la piccola bandierina delle carceri rischiava di essere un intralcio. Che poi da qui a qualche mese il Consiglio d’Europa possa sollevare obiezioni sulla “idoneità” della misura, o che la Corte costituzionale italiana possa cancellarla, è problema che ci si porrà dopo.

Enrico Novi

Il Garantista, 5 agosto 2014

Carceri/Giustizia: le Camere Penali Italiane pronte a protestare contro il Governo


regina-coeli-carcereIl decreto legge che prevede risarcimenti per i reclusi ristretti nelle carceri in condizioni inumane “produrrà effetti opposti, addirittura ingiuriosi, nei confronti della collettività detenuta, se non sarà modificato in fase di conversione”.

L’allarme viene dall’Unione delle Camere Penali. “Se già è avvilente pensare di fissare nell’irrisoria cifra di 8 euro al giorno o di un giorno di sconto per ogni dieci di detenzione il risarcimento per essere stati ammassati come rifiuti umani in quelle discariche sociali che sono le carceri italiane, diventa intollerabile l’idea che questo possa essere il prezzo anche di atti classificabili come tortura”, affermano i penalisti, sottolineando la loro opposizione.

Su questo gli avvocati sono pronti alla protesta “più ferma”, ed è quello che faranno anche “se, come già sta avvenendo per quanto riguarda la marcia indietro sulla custodia cautelare con la modifica della norma che voleva finalmente marcare una inversione di tendenza inibendo il carcere, e solo il carcere, di fronte a pene suscettibili di futura sospensione in sede esecutiva, si tradurranno in iniziative concrete i propositi di riforma dell’appello e della prescrizione”.

“La politica – ammonisce l’Ucpi – dovrebbe imparare almeno dalla cronaca: se le proposte di abrogare, o comunque ridimensionare, l’appello e di bloccare la prescrizione al primo grado di giudizio fossero già state attuate, tutte le affermazioni di questi giorni sulla bontà del nostro sistema giudiziario sarebbero rimaste nell’armadio della demagogia, perché il processo in appello a Berlusconi non sarebbe stato celebrato. Riformare il sistema – concludono i penalisti – significa farlo progredire non riportarlo all’Ottocento”.

Doc 86 – UCPI_Oss. Carcere – La tortura no

Carceri-lager e irragionevole durata dei processi, ora anche l’Onu condanna l’Italia


Trapani 1La “notizia” è di quelle che dovrebbe farci arrossire per la vergogna. Ma ci si può vergognare se si conosce di cosa ci si dovrebbe vergognare. Ma se non si sa? Quello che non si sa – e anche questo non sapere dovrebbe costituire “materiale” di riflessione, amara – è che non sono solo le corti di giustizia europee a condannare il nostro paese per le ignobili condizioni delle nostre carceri, per l’irragionevole durata dei processi, e la non episodica denegata giustizia. Ora siamo nel mirino dell’Onu. Se ne sono accorti solo “Il Manifesto”, “Il Garantista” e la segretaria radicale Rita Bernardini. E dire che le agenzie la “notizia” l’hanno diffusa.

È accaduto che una delegazione dell’Onu guidata dal norvegese Mads Andenas, sia venuta in visita in Italia dal 7 al 9 luglio, e al termine delle loro ispezioni hanno stilato un memorandum in cinque punti: 1) Adottare “misure straordinarie, come per esempio soluzioni alternative alla detenzione, al fine di eliminare l’eccessivo ricorso alla detenzione e proteggere i diritti dei migranti”. 2) “Quando gli standard minimi non possono essere altrimenti rispettati, il rimedio è la scarcerazione”. 3) “Che le autorità italiane rispettino le raccomandazioni Onu del 2008 e quanto statuito dalla sentenza Torreggiani. 4) Raccomandazioni come quelle formulate dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2013, incluse le proposte in materia di amnistia e indulto, sono “quanto mai urgenti per garantire la conformità al diritto internazionale”. 5) Sui migranti, oltre ad esprimere rammarico per i “rimpatri forzati”, la delegazione Onu “resta preoccupata per la durata della detenzione amministrativa e per le condizioni detentive nei Centri di identificazione ed espulsione”.

Giustizia al collasso, purtroppo storia di tutti i giorni. Andiamo, per esempio, a Reggio Calabria. È il 7 gennaio del 1984, trent’anni fa. Un’automobile improvvisamente taglia la strada a un autobus, che frena di colpo. Un passeggero cade, si ammacca due costole. Non sembra una cosa grave. Poi però le sue condizioni peggiorano. Sopraggiunge un infarto, l’uomo muore. La famiglia fa causa all’azienda di trasporto. Non si entra nel merito, i famigliari possono avere ragione oppure no, non interessa, qui. Quello che si vuole porre in evidenza è che il processo, anno dopo anno, si è trascinato per trent’anni. La moglie del passeggero nel frattempo è morta, è morta anche la figlia.

Quando finalmente la terza sezione civile della Cassazione ha emesso la sentenza, a “salutarla” c’erano gli eredi degli eredi. Quel processo ha impiegato trent’anni per arrivare in Cassazione. Al tribunale di Reggio Calabria sono occorsi 17 anni per emettere il giudizio di primo grado, arrivato il 25 novembre 2003. La Corte di Appello sempre di Reggio Calabria ce ne ha messi altri nove, la sentenza di secondo grado è arrivata il 10 dicembre 2012.

Trasferiamoci ora in Puglia. È il 2 settembre 2002, solo dodici anni fa. I magistrati della Direzione distrettuale antimafia Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (che poi diventerà sindaco di Bari) chiudono un filone investigativo nato cinque anni prima, con un’ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone, accusate di far parte di un’organizzazione criminale che spadroneggia tra Altamura e Gravina in Puglia; i reati ipotizzati non sono bazzecole: estorsioni, traffico di droga, ferimenti. E tuttavia solo dopo 17 anni il Pubblico Ministero Isabella Ginefra è in condizione di concludere la sua requisitoria. Chiede pene tra i 4 e i 10 anni per 58 imputati. E gli altri? Alcuni sono stati prosciolti, per qualcuno è sopraggiunta la prescrizione, c’è chi è morto per vecchiaia, o perché ucciso da qualcuno di qualche clan rivale. Sono storie che accadono un po’ tutti i giorni un po’ in tutti i tribunali. Non fanno neanche più “notizia”, sono considerate ormai cose “fisiologiche”, parte del “sistema”.

Accadono poi cose che definire paradossali è un eufemismo. Proprio nelle stesse ore in cui il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il ministro della Giustizia Andrea Orlando annunciavano le linee guida della loro riforma della giustizia, il ministero veniva condannato a pagare la doppia penalità. Perché lo stato italiano non si accontenta di essere sanzionato per i danni provocati dall’irragionevole durata dei processi; si fa anche condannare perché i risarcimenti delle cause lumaca sono più lunghi delle cause stesse. “Italia, dolce paese,/ dove chi rompe non paga le spese, / dove chi urla più forte ha ragione,/ dove c’è il sole e il mare blu”, cantava molti anni fa Sergio Endrigo. Patria del diritto; e del suo rovescio.

Valter Vecellio

http://www.articolo21.org, 18 luglio 2014