Tolmezzo, detenuto calabrese muore in cella. Inchiesta della Procura


Detenuto muore nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, in provincia di Udine. Si stratta di Giuseppe Lo Piano, nato a Fuscaldo (Cs) il 19 dicembre 1967. L’uomo condannato all’ergastolo, considerato dai giudici appartenente al clan Serpa ma con posizione giuridica di imputato (appellante e ricorrente), è stato rinvenuto privo di vita nella mattinata di ieri dal suo compagno di cella che ha dato subito l’allarme. I sanitari intervenuti non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso.

Giuseppe Lo Piano, era stato condannato, in primo e in secondo grado, all’ergastolo nel processo “Tela del ragno” in merito a numerosi omicidi avvenuti negli ultimi 20 anni lungo il Tirreno cosentino. Un’operazione condotta contro i presunti capi e gregari del clan Perna-Cicero di Cosenza, Gentile-Africano-Besaldo di Amantea, Scofano-Martello-Rosa-Serpa di Paola, e Carbone di San Lucido.

A novembre si sarebbe dovuta tenere l’udienza per l’accusa di omicidio innanzi alla Corte di Cassazione, mentre per quanto riguarda la sentenza di condanna per associazione mafiosa la Suprema Corte, accogliendo il ricorso degli avvocati dell’imputato Sabrina Mannarino e Giuseppe Bruno aveva deciso per l’annullamento con rinvio alla Corte d’Appello per un nuovo giudizio.

Lo Piano, da qualche tempo, accusava un malessere che lo stesso aveva comunicato sia ai suoi famigliari che ai suoi legali difensori. Un malessere che lo aveva portato a ricorrere alle cure ospedaliere sia di Udine che di Tolmezzo. L’ultimo ricovero presso il nosocomio di Udine risale a circa una quindicina di giorni fa e dal quale era stato dimesso dopo qualche giorno. L’uomo pare soffrisse di una patologia cardiaca pregressa, ma i medici sia dell’ospedale che del carcere, avevano ritenuto che le sua malattia fosse compatibile con il regime carcerario. Nei giorni successivi al rientro in carcere, dopo l’ultimo ricovero, le sue condizioni di salute non erano affatto migliorate. Lo stesso Lo Piano, infatti, aveva allertato sia la famiglia che i suoi avvocati, i quali si erano subito attivati. Ma non hanno fatto in tempo. Ieri mattina, come un fulmine a ciel sereno, è arrivata la notizia dell’improvviso decesso.

Gli avvocati Mannarino e Bruno, nella stessa mattinata di ieri hanno fatto pervenire alla Procura di Udine una denuncia con la quale è stato richiesto il sequestro delle cartelle cliniche del detenuto. La morte di Giuseppe Lo Piano è stata segnalata dall’attivista radicale Emilio Quintieri all’Autorità Garante Nazionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale presso il Ministero della Giustizia. “Quel che è davvero intollerabile è che detto detenuto, nonostante da tempo versava in gravissime condizioni di salute, sia stato tenuto in carcere fino alla sua morte – dichiara l’attivista radicale in favore dei diritti dei detenuti Emilio Quintieri – La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Udine, avente giurisdizione sull’istituto penitenziario, ha già aperto un fascicolo e disposto, oltre al sequestro della salma, anche gli opportuni accertamenti medico legali”.

Maria Fiorella Squillaro

Il Quotidiano del Sud, 05/09/2020

Udine, Stupro in carcere confermato dal Direttore al Garante Nazionale dei Detenuti


A seguito della mia segnalazione, il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, sta acquisendo informazioni in merito ad un episodio di presunta violenza avvenuto nella Casa circondariale di Udine ai danni di un giovane 18enne affetto da problemi psichici. Tale fatto, in base a quanto riportato dal Direttore Reggente dell’Istituto Tiziana Paolini, nel corso di un colloquio con il Garante, sarebbe stato denunciato recentemente dall’interessato pur essendo avvenuto negli ultimi mesi del 2019.

In attesa dei riscontri e della documentazione richiesta, il Garante Nazionale ha espresso seria preoccupazione, ha invitato la Direzione della Casa Circondariale di Udine a dare chiari segnali di non tolleranza di tali comportamenti oltre che la doverosa informazione alla Procura della Repubblica e a garantire ogni tutela alla persona coinvolta.

Ringrazio il Collegio del Garante Nazionale per essersi immediatamente attivato per far luce su questo grave evento critico avvenuto nel Carcere di Udine che, come sempre, è stato tenuto nascosto all’esterno dall’Amministrazione Penitenziaria.

Emilio Enzo Quintieri

già Consigliere Nazionale Radicali Italiani

Udine, stupro in carcere ad un giovane 18enne. Segnalazione ai Garanti dei Diritti dei Detenuti


Ho appena denunciato alle Autorità Garanti dei Diritti dei Detenuti (del Comune di Udine, della Regione Friuli Venezia Giulia e Nazionale) un grave caso di stupro verificatosi nella Casa Circondariale di Udine.

La vittima, P.B., è un giovane detenuto di 18 anni, alla sua prima esperienza detentiva, da tempo affetto da problemi psichici ed in cura presso il Centro di Salute Mentale di Udine.

Lo stupro, stando a quanto riferitomi, sarebbe avvenuto all’interno della camera di pernottamento ad opera di quattro detenuti pakistani che avrebbero approfittato di lui mentre era sotto l’effetto di psicofarmaci.

Dopo un breve periodo di degenza nel Reparto Infermeria dell’Istituto ove gli sarebbero stati applicati alcuni punti di sutura al retto, pare che sia stato riportato nella stessa camera ove precedentemente è stato oggetto di violenza sessuale.

Secondo quanto mi è stato riferito, dopo aver subito lo stupro non parlerebbe più e avrebbe l’intenzione di suicidarsi, cosa che, peraltro, ha già più volte fatto nel recente passato. Nessuno si è occupato di lui, né la famiglia (con la quale pare che non sia in buoni rapporti) né l’avvocato, né i servizi socio-sanitari.

Ho chiesto alle Autorità Garanti di attivarsi, con la massima urgenza, per verificare di persona quanto accaduto, sollecitando l’immediato trasferimento di questo ragazzo presso una struttura sanitaria esterna attrezzata per il trattamento delle problematiche di cui è portatore verificando, altresì, se i responsabili del reato di violenza sessuale siano stati deferiti all’Autorità Giudiziaria competente.

Emilio Enzo Quintieri

già Consigliere Nazionale Radicali Italiani

Detenuti ex Art. 41 bis O.P., il semplice saluto tra persone di diverso gruppo di socialità non costituisce illecito disciplinare


L’Art. 41 bis c. 2 quater lett. f) dell’Ordinamento Penitenziario prevede, tra le altre cose, «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità» sottoposti al regime detentivo speciale ex Art. 41 bis c. 2 O.P. Sulla base di tale divieto, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia con la Circolare n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017, all’Art. 4, stabiliva che “E’ vietata ogni forma di dialogo e comunicazione tra detenuti/internati appartenenti a gruppi di socialità diversi. Eventuali violazioni saranno valutate in sede disciplinare”.

Tali indicazioni, relative al divieto di comunicazione tra persone in regime detentivo speciale non appartenenti allo stesso gruppo di socialità, come peraltro rilevato dal Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale nel Rapporto tematico sul regime detentivo speciale 2016-2018 dell’8 gennaio 2019, «sono interpretate in maniera estremamente rigida ed estensiva» nella Casa Circondariale di L’Aquila, Istituto ove sono ristretti numerosi detenuti sottoposti al predetto regime. In tale Istituto anche salutare una persona facendo seguire al saluto anche il nome di battesimo viene considerato una violazione del divieto di comunicazione da sanzionare con la sanzione della esclusione dalle attività in comune cd. isolamento. Infatti, la Direzione della Casa Circondariale di L’Aquila, il 6 novembre 2016, prima ancora della emanazione della Circolare Ministeriale del 2 ottobre 2017, aveva diffuso un avviso a tutta la popolazione detenuta ristretta presso le Sezioni 41 bis O.P. comunicando che: «Come previsto dal comma quater, lettera f, dell’Art. 41 bis della Legge n. 354 del 1975, si rammenta alla popolazione detenuta il divieto di comunicare con appartenenti ad altri gruppi di socialità anche sotto forma di semplice saluto. Si evidenzia altresì, che l’inosservanza di tale divieto comporta responsabilità disciplinare in caso di violazione.» A tal proposito, il Garante Nazionale, che ha visitato tutte le Sezioni a regime detentivo speciale tra il 2016 e il 2018, ha potuto comunque osservare che «il divieto di saluto con il nome non è applicato in tutti gli Istituti in maniera omogenea e che soltanto nell’Istituto abruzzese comporta un numero elevato di sanzioni disciplinari.»

Il Garante Nazionale, nel suo Rapporto, aveva sottolineato «la necessità di mantenere rigorosamente la chiara differenza tra il divieto di possibile comunicazione e il divieto di parola: l’osservata attivazione di procedimento disciplinare per chi saluti – chiamandola per nome – una persona non del proprio gruppo di socialità, sembra avvicinarsi più a questa seconda ipotesi che non al necessario controllo sulla prima.» Pertanto, aveva provveduto a raccomandare che «sia dismessa la pratica constatata in alcuni Istituti di sanzionare disciplinarmente, anche con la sospensione dalle attività comuni, le persone detenute che si limitano a salutare un’altra persona ristretta pur chiamandola per nome, a meno che non ci siano elementi fondati e specifici che portino ad attribuire a tale gesto un significato diverso dal mero saluto.» e che «le procedure disciplinari siano sempre usate come meccanismi di ultimo impiego e l’isolamento solo in casi eccezionali, così come affermato dalle Regole Penitenziarie Europee.»

Purtroppo, la Casa Circondariale di L’Aquila, nonostante i numerosi provvedimenti irrogativi della sanzione disciplinare della esclusione dalle attività in comune – su reclamo giurisdizionale dei detenuti ex Art. 35 bis e 69 c. 6 lett. a) O.P. – siano stati tutti annullati dal Magistrato di Sorveglianza di L’Aquila e nonostante le precise raccomandazioni formulate dal Garante Nazionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale, non solo non ha smesso di infliggere ai detenuti la più grave delle sanzioni disciplinari ex Art. 39 c. 1 n. 5 O.P. ma ha provveduto ad impugnare, persino innanzi alla Corte di Cassazione tramite l’Avvocatura Distrettuale dello Stato, le decisioni della Magistratura di Sorveglianza favorevoli ai detenuti, chiedendone l’annullamento per la erronea applicazione della legge. I primi ricorsi sottoposti allo scrutinio del Giudice di legittimità sono stati quelli relativi ai reclami accolti dal Magistrato di Sorveglianza di L’Aquila e poi confermati dal Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila a carico del calabrese L.F.S., ristretto nell’Area Riservata denominata “Sezione Rossa” della Casa Circondariale abruzzese. Detto detenuto era stato, ripetutamente, punito dal Consiglio di Disciplina con la sanzione della esclusione dalle attività in comune perché alcune volte aveva salutato un’altro detenuto appartenente a un diverso gruppo di socialità.

La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi in merito, ha però dichiarato inammissibili i ricorsi proposti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Anche la Procura Generale della Repubblica presso detta Corte nella sua requisitoria aveva chiesto il rigetto dei ricorsi. La Cassazione, con le Sentenze n. 4378/2020 e 4379/2020 del 20 dicembre 2019, entrambe depositate il 3 febbraio 2020, ha ritenuto corrette le Ordinanze n. 2530/2018 e 2529/2018 del 14 maggio 2019 del Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila, che avevano rigettato il reclamo del Dap avverso i provvedimenti del Magistrato di Sorveglianza di L’Aquila che avevano accolto i reclami avanzati dal detenuto L.F.S, poiché il divieto di comunicazione tra detenuti sottoposti al regime ex Art. 41 bis O.P. appartenenti a diversi gruppi di socialità, «serviva ad evitare uno scambio di notizie e doveva essere costituito da uno scambio di contenuti: il mero saluto era, invece, una forma espressiva neutra, da cui non poteva evincersi il tipo di informazione scambiata. Lo scambio di un mero saluto non poteva essere assimilato ad una trasmissione verbale di contenuti ed informazioni, vietata appunto dalla normativa specifica.»

Emilio Enzo Quintieri

Cass. Pen., Sez. I, Sent. n. 4378 del 2020 (clicca per scaricare)

Cass. Pen. Sez. I, Sent. n. 4379 del 2020 (clicca per scaricare)

Caso Nicosia, Quintieri (Radicali): Accuse infondate, nessuno può fare visite e colloqui riservati nelle Carceri


Parlare male di qualcuno, in privato, chiunque esso sia (anche se si chiamino Falcone e Borsellino), per quanto possa essere ritenuto riprovevole e immorale, non costituisce alcun reato, tantomeno quello, gravissimo, di associazione mafiosa.

Occuparsi della tutela dei diritti dei detenuti, compresi quelli sottoposti al regime detentivo speciale ex Art. 41 bis O.P., non costituisce alcun reato.

Vantarsi con terzi di aver effettuato visite “riservate”, anche di notte, con un Parlamentare della Repubblica, negli Istituti Penitenziari, non costituisce alcun reato.

La cafonaggine, l’ignoranza e la millanteria (almeno per il momento) non sono previste e punite dal Codice Penale.

Se le accuse nei confronti di Antonello Nicosia sono solo quelle apparse in queste ore sulla stampa, sono così labili che non consentiranno, nella maniera più assoluta, di affermarne la colpevolezza all’esito di un giusto processo.

Secondo l’Ordinamento Penitenziario (Legge, Regolamento di Esecuzione, Circolari e Ordini di Servizio) le visite agli Istituti Penitenziari (qualsiasi ambiente compreso quello in cui si trovano i detenuti e gli internati, anche se isolati), sono dirette a verificare le condizioni di vita, di trattamento e di rispetto della dignità personale. Le interlocuzioni con i detenuti durante le visite (che non possono mai avere ad oggetto vicende processuali) non possono trasformarsi in veri e propri colloqui, per i quali occorre specifica ed individuale autorizzazione da parte delle Autorità competenti in considerazione della loro posizione giuridica.

Qualora nel corso della visita, si verifichino violazioni alle suddette previsioni normative (per il fatto di riferirsi od estendersi ad argomenti diversi da quelli consentiti), l’Autorità Penitenziaria che accompagna il visitatore (Direttore dell’Istituto o, spesso, il personale di Polizia Penitenziaria delegato dallo stesso) deve, dopo un primo richiamo, finalizzato a rammentare detti limiti normativi, prontamente intervenire, per interrompere immediatamente il colloquio stesso e ciò, ove la irragionevole persistenza dell’interlocutore nel suo comportamento illegittimo non consenta altra modalità di intervento, mediante il pronto allontanamento del detenuto che partecipi alle interlocuzioni non consentite, in modo da impedire che la violazione possa condurre a pregiudizi maggiori.

Nel caso in cui si ravvisino estremi di reato, l’Autorità Penitenziaria, al termine della visita, ha l’obbligo di informare immediatamente l’Autorità Giudiziaria competente, oltre alle consuete informazioni al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia ed al Magistrato di Sorveglianza competente territorialmente.

In ogni caso, le visite e le interlocuzioni non sono “riservate” (tranne quelle del Garante Nazionale in qualità di Meccanismo Nazionale di Prevenzione ai sensi dell’OPCAT), ma debbono essere sempre effettuate in lingua italiana ed alla presenza dell’Autorità Penitenziaria. Non esiste la possibilità che un visitatore si chiuda, da solo, nella cella con il detenuto (a meno che il Direttore od il personale penitenziario siano corrotti ma lo escludo nella maniera più convinta e categorica !)

Tutte le indicazioni che precedono, come disposto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, valgono nei confronti di qualunque detenuto. Ed un attenzione peculiare deve essere riservata per quelli sottoposti al regime speciale ex Art. 41 bis O.P. Infatti, il Dap, ha dato disposizione che il rispetto delle disposizioni sopra evidenziate “sia particolarmente rigoroso” quando la interlocuzione dei visitatori si rivolga a detenuti sottoposti all’Art. 41 bis O.P.

Emilio Enzo Quintieri

già Consigliere Nazionale Radicali Italiani

Catanzaro, detenuto psichiatrico tenta il suicidio. Ricoverato in rianimazione


Di nuovo il carcere diventa teatro di una tragedia. Di nuovo il sistema insiste nel voler tenere in gabbia una persona gravemente affette da disturbi psichiatrici, bisognose di cura ed assistenza.

La trama è questa: prima il carcere di Paola, poi il “Panzera” di Reggio Calabria, dopo l’istituto penitenziario del capoluogo e infine l’ospedale Pugliese Ciaccio di Catanzaro. Si evolve così la tragica storia di un detenuto di origine cosentina che nei giorni scorsi ha tentato il suicidio nel carcere di Catanzaro. Ed oltre al danno la beffa: a quanto pare, sembrerebbe che alla moglie sia stata negata la possibilità di avere un colloquio con suo marito.

A farlo sapere è Emilio Quintieri (Radicali Italiani), che proprio tempo fa ha chiesto all’Amministrazione penitenziaria un’adeguata sorveglianza custodiale e un sostegno morale e psicologico per il detenuto.

Ma accade quello che si voleva evitare: l’uomo, 49 anni e condannato per estorsione, cerca di mettere fine alla propria vita. Immediato il trasporto d’urgenza al nosocomio catanzarese, dove ora è ricoverato in rianimazione.

Non è finita, perché tra i protagonisti della vicenda c’è anche la moglie del detenuto. E’ lei che, appena saputo di quanto successo, si precipita nell’ospedale catanzarese. La Polizia Penitenziaria, però, le avrebbe negato di poterlo vedere ed avere dai medici notizie sulle condizioni di salute dell’uomo ricoverato, nonostante fosse stato autorizzata.

Quintieri ha inviato una informativa al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti, Mauro Palma, sollecitando una visita ispettiva con la massima urgenza.

Edoardo Corasaniti

La Nuova Calabria – 4 novembre 2019

Mauro Palma sull’ergastolo ostativo: nessun allarme per la lotta alla criminalità organizzata


Né stupore, né allarme per la decisione del Collegio della Grande Camera della Corte di Strasburgo di rigettare la richiesta italiana di riesame della sentenza dello scorso giugno sul caso di Marcello Viola. La III sessione della Cedu aveva condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani.

L’articolo 3 è un articolo inderogabile della Convenzione europea e vieta, oltre alla tortura, anche le pene o i trattamenti inumani o degradanti. Da tempo la giurisprudenza della Corte ha considerato che “l’ergastolo senza speranza” sia da considerare un trattamento di questo tipo e che l’ordinamento degli Stati tenuti insieme da quell’impegno solido che l’appartenenza alla comune Convenzione per i diritti umani rappresenta, debbano prevedere dopo un congruo numero di anni che il giudice possa stabilire se la persona che sta eseguendo una condanna all’ergastolo abbia compiuto un percorso significativo di resipiscenza e possibile reinserimento, rappresenti ancora un pericolo per la società esterna, abbia o meno ancora legami criminali. Nessun automatismo concessivo, quindi, ma soltanto la possibilità di valutare la persona, senza inchiodarla al reato commesso 25 o 30 anni prima.

Un principio che si è andato consolidando negli anni. Nel caso italiano, si trattava di stabilire se l’ordinamento offrisse o meno un’ipotesi di “speranza”, anche nel caso di reati gravissimi e peculiari, quali sono quelli connessi alla criminalità organizzata e, in generale, quelli compresi in quell’eterogeneo elenco di reati dell’articolo 4bis.

È vero che è prevista l’ipotesi che la collaborazione possa essere inesigibile per vari motivi, incluso il già totale accertamento degli eventi e degli autori, tuttavia la Corte ha ritenuto che la sola ipotesi collaborativa prevista dalle nostre norme non fosse sufficiente e ha osservato che la non collaborazione può non essere legata alla persistente adesione al disegno criminale, o considerata sinonimo di attuale pericolosità sociale. E d’altra parte, potrebbero esserci anche collaborazioni opportunistiche e non dovute ad un effettivo distacco dalle organizzazioni di appartenenza.

In sintesi, ha affermato che ci debba essere un momento – sottolineo nuovamente dopo un alto numero di anni – di considerazione da parte del giudice del singolo caso in esame, anche perché ha ricordato che le politiche penali europee mettono sempre più l’accento sull’obiettivo della risocializzazione anche per i condannati all’ergastolo o a una lunga pena detentiva.

La sentenza del giugno scorso ha dato anche un’indicazione generale: richiamando un particolare articolo del Regolamento della Corte (l’art. 46) ha chiarito che il problema non riguarda una singola situazione, ma ha una dimensione “strutturale”, sistemica, per cui ha implicitamente invitato lo Stato a riconsiderare la materia sulla base delle indicazioni formulate nella sentenza. Che peraltro è stata adottata dai sette giudici con sei voti a favore (incluso il giudice italiano) e uno contrario (quello polacco).

Quindi, nessun allarme, quali quelli letti in questi giorni circa lo smantellamento della lotta alla criminalità organizzata, che continua e deve continuare con la stessa determinazione. Soprattutto nessuna conseguenza, se non quella del ripensamento e della revisione complessiva degli strumenti da utilizzare per sconfiggere le organizzazioni criminali: la sentenza non mette fuori dal carcere il signor Viola, né alcuna altra persona nella stessa posizione; mette piuttosto noi fuori dalla gabbia mentale dell’impossibilità di una pena costituzionalmente orientata anche per coloro che hanno commesso reati gravissimi e strutturati in forme organizzative criminali radicate anche territorialmente.

Ma, anche nessuno stupore per la decisione del Collegio di non riesaminare il caso: alla forma allargata di composizione della Corte (i 17 giudici della Grande Camera) si ricorre per casi che investono la possibilità di stabilire un principio che abbia un carattere di novità per tutti i 47 Paesi del Consiglio d’Europa. Nel caso in esame, quello del rifiuto dell’ergastolo senza speranza, il principio era già chiaro e affermato dalla Corte. Quindi, nessun nuovo principio generale su cui soffermarsi, ma un’applicazione specifica. Un’applicazione che però per noi, per la nostra cultura, ha la forma e la sostanza di un principio su cui riflettere.

Mauro Palma (Garante Nazionale Diritti delle persone detenute o private della libertà personale)

Il Manifesto, 9 ottobre 2019

La Corte di Strasburgo boccia l’ergastolo ostativo. Il Dap : su 1.633 ergastolani, 1.106 sono ostativi, 156 dei quali al 41 bis


Il Collegio della Grande Chambre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, nella sua ultima seduta del 7 ottobre, ha deciso di respingere il ricorso proposto dal Governo Italiano contro la sentenza pronunciata il 13 giugno 2019 nella causa Marcello Viola contro Italia (ricorso n. 77633/16) dalla Prima Sezione della stessa Corte, presieduta dal Presidente, il greco Linos-Alexandre Sicilianos, con la quale veniva dichiarata la illegittimità convenzionale del carcere a vita, cd. “ergastolo ostativo” con l’Art. 3 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali che proibisce, in termini assoluti, la tortura ed ogni altro trattamento o pena inumana e degradante.

Il ricorrente, Marcello Viola, di Taurianova (Reggio Calabria), condannato all’ergastolo con due anni e due mesi di isolamento diurno per diversi omicidi, associazione a delinquere di stampo mafioso, sequestro di persona, occultamento di cadavere ed altro (anche se lui si è sempre proclamato innocente), ininterrottamente detenuto dal 1996 ed attualmente ristretto presso la Casa di Reclusione di Sulmona (L’Aquila), è stato rappresentato dall’Avvocato Antonella Mascia del Foro di Verona e dagli Avvocati Barbara Randazzo e Valerio Onida del Foro di Milano. Viola, per circa 6 anni (per la precisione dal 22 luglio 2000 al 23 marzo 2006), è stato sottoposto anche al regime detentivo speciale 41 bis, poi revocato a seguito della decisione emessa dal Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila (il 14 marzo 2006). In più occasioni (nel 2011 e nel 2015) ha chiesto alla Magistratura di Sorveglianza di L’Aquila di poter fruire dei permessi premio previsti dall’Art. 30 ter dell’Ordinamento Penitenziario nonché della liberazione condizionale, istituto previsto dall’Art. 176 del Codice Penale. Ma ogni sua richiesta è stata rigettata (anche dalla Corte di Cassazione nel 2016) poiché, pur avendo espiato il quantum di pena stabilito, mantenuto regolare condotta e partecipato al trattamento rieducativo predisposto dall’Amministrazione Penitenziaria (tra l’altro si è laureato in biologia, medicina e chirurgia e, da ultimo, si è iscritto al corso di laurea in economia aziendale), non aveva mai inteso collaborare con la Giustizia ex Articolo 58 ter dell’Ordinamento Penitenziario, condizione indispensabile sia per essere ammesso ai benefici premiali che alla liberazione condizionale, secondo quanto stabilito dall’Art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario. L’ergastolano Marcello Viola, in circa 30 anni della sua carcerazione, è stato detenuto negli Istituti Penitenziari di Reggio Calabria, Vibo Valentia, Asinara, Palmi, Messina, Livorno, Novara, Torino, Ascoli Piceno, L’Aquila e Sulmona.

A questo punto, il ricorrente, atteso che l’Italia non offriva alcuna possibilità di riduzione della pena per i condannati all’ergastolo per uno dei reati di cui all’Art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, avendo esaurito le vie giurisdizionali interne, si è rivolto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo per lamentare che la sua detenzione era in contrasto con l’Art. 3 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali. Viola, nel suo ricorso, rappresentava alla Corte di Strasburgo che non aveva la possibilità di ottenere nemmeno la grazia, prevista dall’Art. 174 del Codice Penale, poiché il Presidente della Repubblica non ha mai utilizzato tale potere nei confronti di nessuno dei condannati all’ergastolo ostativo, circostanza che non è stata smentita in alcun modo dal Governo Italiano il quale, durante il giudizio, ha cercato di contestare le affermazioni del ricorrente sostenendo che la pena dell’ergastolo era de jure e de facto riducibile e non perpetua, come peraltro ribadito in diverse sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione italiana.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, premesso che la dignità umana, che si trova al centro stesso del sistema messo in atto dalla Convenzione, impedisce di privare una persona della sua libertà in maniera coercitiva senza operare nel contempo per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà, ha ritenuto che la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente, in applicazione dell’Articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, detta «ergastolo ostativo», limiti eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di un riesame della sua pena. Pertanto, tale pena perpetua, contrariamente a quanto sostenuto dal Governo Italiano, non può essere definita riducibile ai fini dell’Articolo 3 della Convenzione e, per l’effetto, rigettate le eccezioni formulate dal Governo Italiano, ha dichiarato a sei voti contro uno (quello del Giudice polacco Krzysztof Wojtyczek), cioè a larghissima maggioranza, che vi è stata violazione all’Art. 3 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali, condannando l’Italia, anche al pagamento delle spese sostenute dal ricorrente, quantificate in 6.000 euro, da versare entro tre mesi dal momento in cui la sentenza diverrà definitiva.

Secondo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, attualmente negli Istituti Penitenziari italiani, sono ristretti 60.894 detenuti, di cui 36.903 con posizione giuridica definitiva. Tra questi, gli ergastolani “puri” (cioè quelli condannati alla pena dell’ergastolo su cui non pende alcun altro giudizio definitivo) sono 1.633, di cui 1.106 sono ergastolani “ostativi”, ai sensi dell’Art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario. Inoltre, dei 1.633 ergastolani definitivi, 773 sono in carcere da oltre 20 anni e 454 da oltre 25 anni; dei 1.106 ergastolani ostativi, 628 sono in carcere da oltre 20 anni e 375 da oltre 25 anni. Infine, gli ergastolani definitivi condannati anche per associazione a delinquere di stampo mafioso ex Art. 416 bis del Codice Penale sono 944, quelli ai quali è applicato anche il 41 bis sono 101 in carcere da oltre 20 anni e 55 in carcere da oltre 25 anni. Alla pena in concreto espiata, deve aggiungersi anche la liberazione anticipata ex Articolo 54 dell’Ordinamento Penitenziario per cui gli ergastolani ristretti da oltre 20 anni, hanno superato i 25 anni di carcerazione, mentre quelli ristretti da oltre 25 anni, hanno superato i 30 anni di reclusione.

Nelle prossime settimane e, più precisamente, il 22 ottobre 2019, a seguito di due ordinanze remissive sollevate dalla Corte di Cassazione il 20 dicembre 2018 e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia il 28 maggio 2019, la Corte Costituzionale (Giudice Relatore Nicolò Zanon) all’esito della Udienza Pubblica in cui, tra gli altri, interverranno il Garante Nazionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale, l’Associazione Radicale Nessuno Tocchi Caino e l’Unione delle Camere Penali Italiane, si dovrà pronunciare sulla legittimità costituzionale dell’Articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario ritenuto in contrasto con gli Articoli 3 e 27 della Costituzione, nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’Articolo 416 bis del Codice Penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste di cui sia stato partecipe, che non abbia collaborato con la Giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio.

Emilio Enzo Quintieri

Corte Edu, I sez., sent. 13 giugno 2019, Viola c. Italia (clicca per scaricare)

Comunicato della Cancelleria della Corte sulla decisione della Grande Chambre del 08 ottobre 2019 (clicca per scaricare)

Reggio Calabria, ennesimo detenuto morto suicida. Ed il Consiglio Regionale continua a non eleggere il Garante


Nelle Carceri calabresi, si continua a morire. Ed il Consiglio Regionale della Calabria (che si riunirà il 1 agosto) continua a non eleggere il Garante Regionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale, nonostante espressamente diffidato ad adempiere ! Oggi l’ennesimo decesso di un detenuto, in custodia cautelare, presso la Casa Circondariale “Arghillà” di Reggio Calabria. L’uomo, Golomaschi Antonio Petru, cittadino rumeno, senza fissa dimora, incensurato, da tempo presente a Reggio Calabria, arrestato il 16 luglio scorso dalla Polizia di Stato per un presunto sequestro di minore, si è impiccato nella sua cella.

Nonostante l’Avv. Valentino Mazzeo del Foro di Reggio Calabria, suo difensore d’ufficio, abbia chiesto al Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Reggio Calabria Dott. Domenico Armoleo, di disporre una perizia psichiatrica e nelle more il ricovero del suo assistito detenuto in una struttura sanitaria esterna, poiché probabilmente affetto da gravi disturbi psichiatrici come emerso già all’atto dell’arresto, il Giudice ha respinto l’istanza, confermando la custodia in carcere.

Si tratta della solita tragedia annunciata, afferma Emilio Enzo Quintieri, già Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani e candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Calabria. Mi domando per quale motivo il Gip di Reggio Calabria non abbia accolto la richiesta del difensore disponendo una consulenza psichiatrica ed il ricovero in una struttura sanitaria per questo poveraccio, anziché tenerlo nel sovraffollato Carcere di Arghillà (360 detenuti presenti a fronte di una capienza di 302 posti), Istituto in cui peraltro risulta carente, oltre al personale di Polizia Penitenziaria (113 unità a fronte delle 160 previste dalla pianta organica) e della professionalità giuridico pedagogica (4 funzionari a fronte dei 7 previsti), l’assistenza sanitaria ed in modo particolare quella specialistica di tipo psichiatrico (6 ore settimanali con circa 100 detenuti con problemi psichiatrici di cui circa 30 ad alto rischio suicidario) nonché quella psicologica (8 ore settimanali). Ad oggi, sono 77 i detenuti morti negli Istituti Penitenziari d’Italia, 28 dei quali per suicidio. Ed in Calabria, in questi pochi mesi del 2019, sono morti 4 detenuti, 2 dei quali si sono tolti la vita. Segnalerò l’ennesimo vergognoso decesso, conclude l’ex Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani, al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti ed al Garante Comunale di Reggio Calabria e solleciterò la presentazione di una Interrogazione Parlamentare a risposta scritta ai Ministri della Giustizia e della Salute per conoscere la dinamica e le cause della morte del detenuto e se durante la sua permanenza in Istituto abbia avuto tutta la sorveglianza e l’assistenza sanitaria di cui aveva bisogno, in forma adeguata ed efficiente.

Il Garante Nazionale dei Detenuti Palma: “Gli arresti non servono, se manca la rieducazione non c’è più sicurezza”


Il Garante nazionale dei detenuti lancia l’allarme: “Senza reinserimento le azioni politiche sono destinate al fallimento”. “In cella c’è tutto ciò che non affrontiamo più. Dalle malattie mentali alla povertà, dalle dipendenze alle diseguaglianze”.

Quando si parla di sicurezza, si pensa solo ad arrestare la gente. E spesso ci si dimentica una cosa delle persone in galera: prima o poi usciranno. E se non facciamo niente per recuperarli, il problema non è solo loro, ma anche nostro, perché ritorneranno a delinquere”.

Mauro Palma, matematico e giurista, già fondatore e presidente dell’associazione Antigone, del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e del Consiglio europeo per la cooperazione penalistica, è l’attuale Garante nazionale dei detenuti.

È abituato a navigare controcorrente, come quando pubblicò un rapporto molto critico sul regime del 41bis, il carcere duro per i mafiosi. “So che parlare di temi come la rieducazione e il recupero dei carcerati non va molto di moda ma il mio non è un discorso buonista: io parlo di prevenzione della sicurezza”.

Cosa intende, professore?

“Non possiamo solo occuparci di come rinchiudere le persone. È fondamentale, anche per la sicurezza delle nostre città, accompagnarne il percorso di ritorno alla vita civile. Altrimenti è un circuito vizioso. Sento invocare spesso la galera. Attenzione: questo approccio non è la soluzione, ma un rinvio dei problemi”.

Può spiegare meglio?

“È semplice: il 70% delle persone che scontano una pena in cella, nell’arco di 5 anni torna a commettere reati. In carceri modello, come Bollate, dove i detenuti lavorano e le celle non sono chiuse, questa percentuale scende al 18-20%”.

Una delle critiche a questo argomento mette in luce il fatto che quei detenuti sono selezionati a monte.

“È vero. Io non affermo che tutti possano essere rieducati. Penso però che potremmo limitare, e molto, i danni. Tra il 70 e il 20% c’è un mondo”.

Chi c’è oggi è in prigione?

“Purtroppo il carcere è un contenitore di questioni irrisolte”.

A cosa si riferisce?

“Parlo di povertà, di dipendenze, di malattie mentali. Più lo Stato si indebolisce, e rende più fragili le strutture sul territorio, il welfare, più deleghiamo tutto alla repressione. Ma è un’illusione”.

Qual è la fotografia delle carceri oggi?

“Quella di un mondo diseguale. Basta guardare i numeri: bassa alfabetizzazione, spesso nessun posto dove andare. È chiaro che una volta fuori, senza un accompagnamento, sostegno, si troveranno disorientate. Oggi stiamo ritornando a una situazione simile a quella del Regno d’Italia: in carcere c’è soprattutto marginalità”.

Che tipo di reati scontano i carcerati in Italia?

“La metà dei 60mila detenuti italiani sono in carcere per droga. Cinque su sei, parliamo di circa 50mila persone, se aggiungiamo a questa popolazione chi ha commesso reati contro il patrimonio o predatori. Droga, furti, rapine. Ovvero i reati con la più alta percentuale di recidiva”.

Quali sono le sue ricette?

“Prima di tutto bisogna ridare responsabilità ai detenuti. Il lavoro è un modo di affrancarsi, ma le percentuali sono molto basse. Ciò che accade spesso è il contrario: l’infantilizzazione di queste persone. Se trattiamo degli adulti come fossero bambini, se li teniamo a non fare niente, non usciranno mai dalla mentalità assistenzialista. Una volta fuori, si aspetteranno un sostegno che non arriverà. E quindi ritorneranno sulla vecchia strada”.

Cosa manca?

“Percorsi che indirizzino la seconda fase, il reinserimento. Penso a commissioni che seguano il detenuto, lo supportino ed eventualmente valutino se merita o no di compiere un percorso di riabilitazione. Una sorta di libertà vigilata, un organo di supporto e controllo. E fino a questo punto non ho ancora fatto cenno a un altro aspetto: che la pena debba tendere alla rieducazione lo dice la nostra Costituzione”.

Ritorniamo alla questione sicurezza. I reati diminuiscono, ma aumenta l’insicurezza. Come lo spiega?

“Da un lato è un meccanismo psicologico. La società italiana di trent’anni fa era molto più violenta, c’erano il doppio degli omicidi. Oggi ci sono meno crimini violenti. E l’allarme sociale arriva dalla minaccia alle cose. Un fenomeno tipico di una società che si è arricchita”.

Le periferie sono in forte sofferenza…

“Quando dico che non si può pensare di risolvere il problema sicurezza solo con il carcere, penso soprattutto alle periferie. Un tempo c’erano le parrocchie, i partiti. Oggi tutto questo non c’è più. Dobbiamo trovare vie per rendere il territorio vivo, ricreare un senso di comunità”.

Esistono soluzioni?

“Dovremmo investire nella battaglia contro la dispersione scolastica, finanziare chi intercetta ragazzini che stanno sulla strada invece di andare a scuola. Dovremmo lavorare sulle dipendenze, sostenere il lavoro e le strutture sul territorio. Più questi presidi vanno in difficoltà, più il senso di insicurezza crescerà. La scorciatoia repressiva piace perché è più rassicurante e immediata. In inglese è più facile che in italiano, dove l’ambiguità è anche linguistica. Sicurezza si dice con due parole: “security” e “safety”. Noi pensiamo molto alla prima, sperando che arrivi anche la seconda. Mai due concetti sono diversi. Non saremo più “safe” solo con politiche securitarie”.

Marco Grasso

Il Secolo XIX, 4 giugno 2019