Lavoro in carcere: i detenuti fanno causa allo Stato che li paga poco… e vincono sempre!


Casa Circondariale 1Da 23 anni la cosiddetta “mercede”, cioè la retribuzione di chi lavora per l’amministrazione penitenziaria, non viene adeguata ai livelli previsti dalla legge perché non ci sono i soldi: è ferma a circa 2,5 euro l’ora. Innumerevoli i ricorsi. Il ministero della Giustizia sta cercando una via di uscita, ma le soluzioni che vuole proporre rischiano di essere incostituzionali.

“Innumerevoli ricorsi” ai giudici del lavoro, davanti ai quali “l’amministrazione è, naturalmente, sempre soccombente”. Cioè perde. E deve mettere mano al portafogli, con esborsi fino a 20mila euro per ogni singolo caso. È il risultato dell’inadempienza dello Stato, che da 23 anni “per carenza di risorse economiche” non adegua ai livelli previsti dalla legge la retribuzione dei detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. I quali ricevono in media 2,5 euro l’ora. A mettere nero su bianco il paradosso, senza nascondere che “l’esponenziale aumento del contenzioso rende sempre più problematico un intervento teso a sanare la situazione”, è lo stesso ministero della Giustizia, nella relazione presentata al Senato dal titolare Andrea Orlando lo scorso 19 gennaio e firmata da Santi Consolo, capo del Dap. Via Arenula sta cercando di trovare una via di uscita, ma le “pezze” che vuole proporre sono peggiori del buco: rischiano di essere incostituzionali.

La “mercede” al palo dal 1994 – I detenuti che lavorano nelle carceri per distribuire i pasti, come impiegati nell’ufficio spesa o come addetti alle pulizie sono più di 10mila (altri 1.400 lavorano per soggetti esterni all’amministrazione, tra cui le cooperative sociali). In base all’articolo 22 dell’ordinamento penitenziario la loro paga, la cosiddetta “mercede”, non deve essere inferiore ai due terzi della retribuzione stabilita per gli altri lavoratori della stessa categoria dal contratto collettivo nazionale in vigore. Peccato che la Commissione ministeriale responsabile di disporre gli adeguamenti non lo faccia dal 1994 perché non ci sono i soldi. Per le mercedi vengono stanziati tra i 50 e i 60 milioni l’anno, a seconda delle presenze di detenuti, ma sempre stando alla relazione in caso di adeguamento servirebbero 50 milioni in più. Così con il passare degli anni la distanza tra i compensi di chi è “fuori” e chi è “dentro” si è allargata sempre di più. A questo va aggiunto che da agosto dello scorso anno la mercede ha subito una contrazione reale a causa dell’aumento, in alcuni casi del cento per cento, della quota di mantenimento, la cifra che ogni detenuto paga per i servizi che riceve in carcere.

La denuncia di Carte Bollate – Le tabelle con la retribuzione netta intascata dai detenuti sono state rese pubbliche da Carte Bollate, il magazine edito dai carcerati del penitenziario in provincia di Milano. “Da noi dipendono tutti i servizi: il funzionamento dei laboratori, le cucine, la distribuzione delle vivande, gli sportelli giuridici e sociali, le cooperative, le biblioteche, la distribuzione della spesa – si legge nel bimestrale – Tutto nelle case di detenzione funziona grazie al lavoro dei detenuti”. Le paghe nette? Da fame: uno scopino riceve 2,23 euro all’ora, uno spesino si ferma a 2,12 e un jolly arriva a 2,33. I più fortunati sono gli scrivani: due euro e settantaquattro centesimi. Notare che questi sono i nomi con cui il gergo ministeriale indica gli addetti alla distribuzione del vitto, all’ufficio e alla tabella spesa, ai quali è concessa una “mercede” in cambio del loro lavoro utile a portare avanti le strutture.

“Budget insufficiente incide su qualità della vita” – La gravità della situazione viene evidenziata dalla relazione presentata al Senato dal ministro Orlando lo scorso 19 gennaio. Il documento è firmato da Santi Consolo, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La fotografia è deprimente e inequivocabile: “Non vi è dubbio che nel corso degli ultimi anni le inadeguate risorse finanziarie non hanno consentito l’affermazione di una cultura del lavoro all’interno degli istituti penitenziari”, scrive Consolo. Il budget per la remunerazione dei detenuti nelle attività quotidiane “sebbene incrementato” di recente è “ancora insufficiente” e “incide negativamente sulla qualità della vita”. La retribuzione dei detenuti non viene aggiornata dal 1993 “per carenze di risorse economiche”. Ma la beffa è che quello che lo Stato non paga deve poi versarlo a seguito delle sempre più frequenti cause presentate dagli ex detenuti. Il “mancato aumento delle mercede”, prosegue il documento, ha infatti innescato un “proliferare di ricorsi ai giudici del lavoro” davanti ai quali “l’amministrazione è, naturalmente, soccombente” con “ulteriori aggravi per la finanza pubblica”. Oltre a pagare le differenze retributive modulate sugli anni, lo Stato versa infatti “anche gli interessi e le relative spese di giudizio”.

Osservatorio Antigone: “Mai perso una causa” – Accade sempre più spesso, conferma a ilfattoquotidiano.it l’avvocatessa Simona Filippi, difensore civico dell’Osservatorio Antigone: “Assieme ad alcuni colleghi abbiamo aperto un fronte giuridico e politico da circa quattro anni. In circa quaranta cause intentate non ho mai ricevuto un rigetto”. Le sentenze dei giudici sono univoche e danno ragione agli ex detenuti corrispondendo risarcimenti che variano dai 2mila ai 20mila euro, a seconda del monte ore lavorato. “Visto che le retribuzioni sono ferme dal 1993 – si chiede Filippi – e che la legge prevede la facoltà, in realtà sempre applicata, di abbattere di un terzo i minimi dal contratto nazionale, perché quando è aumentato il mantenimento non è stata tolta la riduzione?”.

Andrea Tundo

Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2016

Expo Milano 2015: 100 detenuti al lavoro. E’ un progetto del Ministero della Giustizia


detenuti-a-Expo-2015_980x571Si chiamano Soimosan, Pietro, Sandar, Mariam… Sono giovani trentenni che lavorano, già da quattro mesi ormai, a Expo Milano 2015, dalle 9 alle 16 tutti i giorni. Hanno in comune una storia negli istituti penitenziari della Lombardia ma anche una gran voglia di riscattarsi.

“Quello che questi ragazzi ci dimostrano con la loro presenza attiva nel sito espositivo è che ci può e ci deve essere sempre una seconda chance anche per chi si e’ macchiato di un reato”, ci ha detto Luigi Palmiero, funzionario del Ministero della Giustizia, che nei sei mesi dell’Esposizione Universale sta seguendo proprio qui il progetto di reinserimento lavorativo di cento detenuti, tra cui ci sono anche otto donne.

“I giovani detenuti si occupano dei servizi di mobility, dell’accesso ai tornelli dei visitatori di Expo, dei servizi di sicurezza e della mediazione linguistica. La multiculturalità di questa squadra di lavoro è un elemento fondamentale in questo luogo dove si incontrano 140 Paesi e la conoscenza di più lingue è sicuramente un ottimo strumento per rispondere ai piccoli e grandi quesiti che possono arrivare dalle migliaia di persone che ogni giorno varcano la soglia dell’Esposizione Universale.
Ma non e’ tutto: per 15 di loro abbiamo anche predisposto un percorso di formazione perché siano in grado di far fronte all’esigenza di un intervento di primo soccorso attraverso l’uso del defribillatore”.

Nessun problema nella gestione di queste persone ?
“Le difficoltà e i problemi non mancano”, dice Palmiero, “ma cerchiamo sempre di gestirli al meglio. A volte, per esempio, c’e’ una certa diffidenza degli altri lavoratori verso i detenuti. Ma si può superare, anche perché queste sono persone selezionate in base alla loro motivazione profonda a rifarsi una vita. Sono consapevoli che questa e’ una seconda e forse l’ultima possibilità che hanno e si comportano di conseguenza”.

Non e’ questo il solo progetto di reinserimento lavorativo che il ministero della Giustizia coordina ma e’ certamente quello che ha avuto più visibilità negli ultimi mesi grazie a Expo Milano. “La possibilità di dare un futuro ai detenuti non e’ buonismo”, precisa Palmiero, “E’ pura convenienza civile: consente di ridurre in modo drastico la recidiva, la ricaduta di queste persone che, oltre a essere un pericolo diventerebbero anche un ulteriore costo per la società”.

A proposito di costi, e’ prevista una retribuzione per i carcerati? “Si in base a una legge del 75, che regola il lavoro e la retribuzione dei detenuti, e’ previsto uno stipendio che deve essere pero’ inferiore di un terzo rispetto a quello degli altri lavoratori che fanno lo stesso mestiere”.

http://www.vanityfair.it

26 Agosto 2015

Giustizia, il lavoro dei detenuti in carcere è un buon antidoto contro la recidivanza


carcere_latina-2Se due filosofi come Kant e Hegel sentissero parlare di depenalizzazione e di abolizione del carcere, avrebbero di che discutere: la pena, per i due grandi pensatori tedeschi, ristabiliva l’equilibrio sociale violato, quindi ne era necessaria la sua piena esecuzione.

Chi è stato capace di spostare l’attenzione sulla concezione della pena che è alla base degli ordinamenti giuridici più civili e avanzati è stato il nostro Cesare Beccaria. All’illuminato giurista milanese interessava più del reo e del suo recupero che dell’equilibrio sociale violato: è nata così la concezione rieducativa della pena, che ispira la nostra stessa Costituzione e, in particolare, il suo articolo 27.

Tornando ai giorni nostri e riflettendo sul nostro sistema penitenziario, negli ultimi anni ne abbiamo scoperto – anche per via dei richiami della Ue – molti malfunzionamenti: dal problema del sovraffollamento, alla fatiscenza di molte strutture di esecuzione penale, alla poca capacità che il settore dell’amministrazione penitenziaria ha di sviluppare misure alternative alla pena, in particolare il lavoro; si consideri però che ciò forse necessita di competenze che non fanno propriamente capo alla Giustizia e che possono essere integrate con il Welfare e il Lavoro.

L’ultima rilevazione al 31 marzo 2015 ci dice che nelle nostre carceri sono presenti 54.122 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 49.494. Siamo quasi allineati agli standard, le sanzioni minacciate dalla Ue hanno sortito il loro effetto circa i problemi del sovraffollamento, riportando i tassi di detenzione in linea con gli altri Paesi europei (Germania, Francia e Inghilterra).

Per quanto riguarda la poca capacità di sviluppare misure alternative alla pena – il lavoro in particolare – è chiaro che a chi amministra la giustizia può essere molto utile un supporto integrato: il coinvolgimento di imprese e la gestione del matching tra domanda e offerta di lavoro sono specialità un po’ più familiari a chi si occupa di politiche del lavoro e di welfare.

Al di là del problema del sovraffollamento, è chiaro che se non si fa nulla per rendere il luogo di esecuzione della pena meno fatiscente e si resiste a coinvolgere chi è abituato a fare con successo interventi di politica attiva del lavoro difficilmente il carcere potrà diventare un luogo più efficace nella rieducazione.

Il carcere non riabilita di per sé, non esclude di per sé, non riproduce delitti di per sé. È l’assenza di un percorso rieducativo che genera esclusione e riproduce delitto. Stupiscono quindi le proposte, più o meno velate, che ricadono sotto lo slogan di abolire il carcere: per la serie, buttiamo il bambino con l’acqua sporca.

In realtà modelli ed esperienze non mancano, sia in Italia che all’estero. A dire il vero, Germania, Francia e Inghilterra fanno più ricorso di noi alla detenzione: sono così meno esposti a fenomeni di corruzione e di criminalità organizzata.

Nel dicembre 2011 il Parlamento europeo ha approvato la Risoluzione sulle condizioni detentive nell’Unione europea. Nel testo approvato si sottolinea la necessità che, anche nell’ambito di limitazioni alla libertà personale imposte dal diritto nazionale, devono essere rispettate, secondo le modalità specificatamente previste a livello territoriale nel rispetto delle indicazioni del Consiglio, le attività di rieducazione, istruzione, riabilitazione e reinserimento sociale e professionale, anche con riferimento al lavoro in generale.

La risoluzione, inoltre, prevede una particolare attenzione alle attività di tipo informativo, rivolte ai detenuti al fine di esplicitare i mezzi esistenti per preparare il loro reinserimento (orientamento e accompagnamento alla ricerca attiva di lavoro).

Come si evince, il lavoro è ritenuto la via della rieducazione. Considerando che, nel 98% dei casi, chi esce dal carcere inserito nel lavoro in carcere non torna più (dato Italia Lavoro), è facile comprendere come un detenuto che non torni più a delinquere sia un successo anche per i conti dello stato. Diamoci da fare per rendere il carcere sempre più rieducativo. Beccaria ne gioirebbe, ma anche Kant e Hegel non ne sarebbero poi così dispiaciuti.

Giuseppe Sabella

Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2015

Carceri, “lavoro forzato” per 25 mila detenuti, l’Italia rischia la condanna da Strasburgo


cedu strasburgoDopo la proroga concessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sul sovraffollamento, potrebbe finire sul banco degli imputati il lavoro in carcere: sottopagato e in netto contrasto con la giurisprudenza europea. Sarebbe una nuova e imprevedibile sentenza “Torreggiani”.

Carceri italiane e amministrazione penitenziaria di nuovo al centro di un ciclone che potrebbe avere proporzioni e ricadute pari alla storica condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Torreggiani. Se per quest’ultima l’Italia ha ottenuto una proroga di un anno per migliorare le condizioni dei vita dei detenuti in carcere, la nuova possibile condanna riguarda il lavoro tra le mura dei penitenziari: sottopagato, legato a minimi di oltre 20 anni fa e in netto contrasto con la giurisprudenza europea.

A lanciare l’allarme è Emilio Santoro, docente di Teoria e storia del diritto dell’Università di Firenze, secondo cui le violazioni riguarderebbero praticamente tutti i detenuti che lavorano in carcere: circa il 40 per cento di essi, intorno a 25 mila persone. Numeri che fanno pensare ad una nuova Torreggiani, un rischio che potrebbe incrinare la fiducia della Corte nei confronti degli sforzi compiuti dall’amministrazione penitenziaria per far fronte al sovraffollamento carcerario. Retribuzioni ferme agli anni 90.

In carcere il lavoro viene pagato meno di quanto previsto dai contratti nazionali collettivi per le stesse mansioni svolte in libertà. “La retribuzione per il lavoro carcerario deve essere circa l’85 della retribuzione prevista dai contratti collettivi – spiega Santoro a Redattore sociale -, ma lo Stato italiano continua a fare il calcolo sulla retribuzione prevista dal contratto collettivo del 1993 e non l’ha mai più aggiornata. Quindi continua a pagare le retribuzioni che dava più di vent’anni fa”. Chi se ne accorge, tra i detenuti, spesso si appella alla giustizia ordinaria e il giudice del lavoro finisce per condannare lo Stato italiano a pagare la differenza della retribuzione calcolata sulla base dei dati aggiornati.

“L’Italia è già normalmente condannata dalla giustizia ordinaria – spiega Santoro – ma i ricorsi non sono tanti, anche perché il detenuto deve mostrare le buste paga che gli ha dato l’amministrazione penitenziaria che in genere pochissimi detenuti recuperano. Il processo poi è lungo e si recuperano solo pochi spiccioli”. Sul tema è intervenuta anche la Corte di Cassazione, aggiunge Santoro, per dire che non solo è illegittimo il riferimento al ’93, ma anche la riduzione a circa l’84 per cento.

Anno 2006, cambiano le regole. Se per circa 30 anni, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha considerato la possibilità che il lavoro in detenzione potesse anche non venir pagato, negli ultimi anni qualcosa si è mosso nella direzione opposta. “Il primo cambiamento è avvenuto nel 2006 – racconta Santoro -. È entrata in vigore la nuova versione delle regole minime europee per il trattamento dei detenuti che hanno cominciato a dire che il detenuto ha diritto alla retribuzione alla pari del lavoratore libero”.

Per far sì che anche la Corte europea cambiasse la propria giurisprudenza, però, sono stati necessari ancora altri anni. Fino al 2013. “Lo scorso anno, la Corte europea ha cambiato la propria giurisprudenza su questo punto – spiega Santoro – e ha affermato che il detenuto in esecuzione di pena deve essere pagato come il lavoratore libero.

Altrimenti è lavoro forzato. Quindi, non solo può condannare uno Stato a risarcire il detenuto, ma può condannarlo anche perché viola un diritto umano del detenuto a una pena che è sanzionatoria, esattamente come nel caso della Torreggiani”.

Infine: cosa rischia l’Italia. Finché si tratta di pochi euro per altrettante poche ore di lavoro da rimborsare, allo Stato italiano è sempre convenuto far finta di nulla e risarcire solo i detenuti che se ne accorgevano e chiedevano conto. Ora la vicenda rischia di complicarsi ulteriormente e di finire sul tavolo della Corte europea che potrebbe infliggere risarcimenti ben più consistenti. “Sono stato più volte al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a dire di adeguare le retribuzioni dal 93 al 2014 – racconta Santoro, ma mi hanno sempre risposto che preferiscono pagare quando ci sono i ricorsi perché non ci sono i soldi.

Se i ricorsi iniziano ad arrivare alla Corte europea dei diritti dell’uomo, però, c’è il risarcimento per la lesione della dignità il discorso cambia completamente: per il caso Torreggiani si contano tra i 25-26 euro al giorno, da aggiungere ai 3-4 euro l’ora del risarcimento per l’adeguamento della retribuzione”. Se ad oggi le richieste di risarcimento per la mancata piena retribuzione sono state facilmente ammortizzate, le cose potrebbero complicarsi in futuro.

“I detenuti lavorano a rotazione, a volte per un mese o due mesi l’anno e con orari di 20 ore settimanali – spiega Santoro. Per questo, le richieste di risarcimento erano minime, perché le ore di lavoro erano poche. Ma quando il risarcimento non è più dovuto alla sola differenza di retribuzione, ma è dovuta al fatto che si è lesa la dignità umana torniamo ai risarcimenti calcolati con la Torreggiani dove c’è la lesione della dignità umana”.

Pochi i ricorsi, ma potrebbero aumentare. Difficile fare una stima esatta di quanti siano stati ad oggi i ricorsi al giudice del lavoro. Secondo Santoro potrebbero essere circa un centinaio, ma spesso in carcere i numeri dei ricorsi crescono col crescere del passaparola tra i detenuti. Quel che è certo è che la nuova “Torreggiani” riguarderebbe tutti i detenuti che lavorano in carcere.

Ad oggi, però, non c’è stata ancora nessuna condanna da parte della Corte europea su questo tema, aggiunge Santoro, “perché il cambiamento è stato molto recente, iniziato nella seconda metà del 2013”. Due i casi presi in considerazione dalla Corte, senza alcuna condanna.

Il primo caso riguarda la Bulgaria, dove per la Corte europea i fatti risalivano a prima del 2006 per cui ha evitato la condanna. Il secondo caso, invece, riguarda l’Austria che ha scampato la condanna per via degli sconti di pena per il lavoro fatto in carcere dai detenuti. “Due sentenze poco conosciute perché non riguardano l’Italia – spiega Santoro, ma appena la cosa di diffonderà, inizierà il tam tam tra i detenuti italiani e tutti potranno presentare facilmente il ricorso. Dopotutto, è ancora più facile che dimostrare che vivi in meno di 3 metri quadrati in cella, perché porti la retribuzione che hai avuto”. Documentata, ironia della sorte, dalla stessa amministrazione penitenziaria.

Dire, 2 luglio 2014