Pordenone: giovane morto in Carcere, Pd e Forza Italia portano il caso in Parlamento


Carcere di PordenoneIl deputato Andrea Martella (Pd) presenterà un’interrogazione. Il pm Matteo Campagnaro andrà oggi in sopralluogo nel carcere di Pordenone. Il caso di Stefano Borriello finisce in Parlamento. Una settimana fa il 29enne accusato di rapina è morto nel carcere del Castello di Pordenone. Non si danno pace i familiari e gli amici, che vogliono vederci chiaro e capire se la morte di Stefano avrebbe potuto essere evitata.

E le stesse domande che si fanno i genitori, verranno fatte anche in parlamento. Nel dettaglio sono stati alcuni deputati a muoversi, anche sulla scorta di un’inchiesta sulle condizioni delle carceri italiane pubblicata dal Manifesto. La documentazione relativa al decesso di Stefano Borriello è finita sul tavolo dei parlamentari Andrea Martella, di Portogruaro e vicepresidente del gruppo del Partito Democratico alla Camera, e dei due vicepresidenti della Camera, il democratico Roberto Giachetti, e Simone Baldelli di Forza Italia, da tempo sensibile alla questione delle carceri italiane. Martella, con la collaborazione dei due colleghi deputati, sta preparando un’interrogazione parlamentare con cui chiedere approfondimenti sulla morte di Borriello.

Intanto don Andrea Ruzzene, sacerdote della Beata Maria Vergine Regina di Portogruaro, ha deciso di abbassare i riflettori sulla vicenda, dopo le perplessità espresse nei giorni scorsi. “Non parlo più, me lo ha imposto la famiglia del ragazzo e io rispetto questa loro decisione. Non voglio parlare”, ha chiarito il parroco.

“Ma io non ho mai parlato di caso Cucchi, riferendomi a Stefano”. Don Ruzzene aveva agitato qualche ombra sull’operato delle guardie carcerarie e sulla prontezza di riflessi di chi avrebbe dovuto intervenire. Conosceva Stefano Borriello, e sostiene che nonostante questo gli sia stato impedito di incontrarlo. “Stava male da giorni, l’hanno portato in ospedale quando ormai stava morendo. Se l’avessero fatto qualche giorno prima, magari”, è stato lo sfogo del sacerdote nei giorni scorsi. Dubbi, quelli espressi dal parroco, che ora richiedono delle risposte.

Oggi il pm Matteo Campagnaro eseguirà un sopralluogo nel carcere di Pordenone, per raccogliere ulteriori elementi che possano contribuire a fare luce sulle ombre gettate sulla morte del giovane. Intanto si allungano i tempo per l’ultimo saluto al 29enne. Il nulla osta alla celebrazione delle esequie non è ancora stato concesso, e quasi certamente si andrà dopo ferragosto. Il funerale comunque dovrebbe essere celebrato nella di San Nicolò.

Rosario Padovano

La Nuova Venezia, 16 agosto 2015

“Sentivo le urla dei detenuti torturati”… Rossano Calabro come Guantánamo?


carcere-620x264“Una parola di troppo e quelli ti pestavano”. La testimonianza di un detenuto messo in libertà. “Appena entrato mi hanno pestato. ho chiesto un medico e me l’hanno negato”. Si chiama D.M., ha 38 anni, ha subito una condanna a cinque anni per furto, falso e lesioni, ha scontato gran parte delia pena e ora è ai domiciliari. Ha passato diversi anni nel carcere di Rossano, e adesso racconta la sua esperienza. Terribile.

Che purtroppo conferma alcune delle tristi scoperte fatte qualche settimana fa dalla deputata del Pd Enza Bruno Bossio in seguito a una visita “improvvisa” nella prigione. D.M. dice che appena arrivò in carcere, alla prima visita, fu pestato. Preso a calci in testa. Perse dei denti, chiese di poter vedere un medico ma non ci fu niente da fare.

Poi finì nella sua cella, la numero 24, e da lì sentiva le urla e i lamenti dei detenuti che venivano picchiati. Dice che li portavano al reparto isolamento e lì li picchiavano. Perché venivano picchiati? “Bastava niente – dico D.M. – uno sguardo, una parola di troppo”. Perché non ha denunciato prima questa barbarie? “Avevo paura di ritorsioni”

L’ombra di una specie di “Guantánamo” avvolge la Casa di Reclusione di Rossano, già al centro di una ispezione ministeriale all’indomani della grave denuncia della parlamentare Pd Enza Bruno Bossio, che nel corso di una visita interna alla struttura penitenziaria aveva scoperto situazioni inammissibili, violenze e condizioni di vivibilità impossibili per i detenuti.

L’eco mediatico della denuncia dell’on. Bruno Bossio, ripresa dal nostro giornale da Radio Radicale, ha trasmesso coraggio a chi ritiene di avere subito violenze e sopraffazioni, ma senza mai denunciare alle autorità preposte per paura di eventuali ritorsioni.

Ora rompe il silenzio un signore di 38 anni, del quale vi diamo solo le iniziali, per ragioni evidenti di prudenza: D.M., attualmente in regime di detenzione domiciliare per una condanna che riguarda reati contro il patrimonio commessi a Corigliano Calabro.

Sta scontando una pena di 5 anni e 5 mesi per rapina, falso e lesioni. Gli è rimasto solo qualche residuo, poi tornerà in libertà. L’uomo si racconta, riferisce fatti e circostanze. Lo fa per i suoi ex compagni di cella – dice – per tutelarli, per difenderli da “vili” aggressioni senza scrupoli e dal tenore squadrista.

Il metodo cavalca il modello “brigatista”: “colpirne uno per educarne cento”. Siamo nell’agosto del 2012 quando il 38enne mette piede all’interno della casa di reclusione. Viene collocato nella cella numero 24. Inizia dunque la sua prigionia. Si adagia sulla brandina e inizia a leggere.

Nel primo pomeriggio due agenti di polizia penitenziaria lo prelevano al fine di effettuare i rilievi dattiloscopici, la visita medica e, a seguire, l’ispezione corporale, come da rituale, unitamente alla consegna di tutto il vettovagliamento.

Cosa succede durante la perquisizione? Al detenuto viene chiesto di denudarsi e di procedere alla esecuzione di flessioni. È in questo momento che uno degli agenti sferra inaspettatamente un pugno che colpisce lateralmente la parte destra del cranio: il mento dell’uomo sbatte contro un muro, salta qualche dente, l’incisivo destro. Il detenuto si accascia a terra, sanguinante.

Poi, come se nulla fosse accaduto, viene condotto in cella. Chiede la visita di un medico dentista, ma dall’altra parte trova solo dinieghi. Nell’ora di colloquio con i familiari opta per il silenzio, sospetta possa essere ascoltato e teme ripercussioni non solo per se stesso e per la famiglia. Non parla solo della sua vicenda, anche della vita carceraria. Svela alcuni misteri: “I pestaggi avvengono in isolamento” – denuncia l’uomo.

“Dalla cella 24 si sentiva di tutto”. L’eco delle urla di dolore e di sofferenza di chi è sottoposto a una vera e propria tortura rimbomba nelle stanze dei detenuti, pronto a rispondere rumoreggiante con il tintinnio delle sbarre. Basta una parola di troppo o un mancato saluto per scatenare l’ira furente di qualche frustrato in divisa. Il 38enne rimarca come vittime prescelte siano prevalentemente soggetti detenuti in media sicurezza, tra cui gli stranieri, presi particolarmente di mira.

“Il carcere non rieduca, non riabilita – afferma D.M. – ma aggrava la condizione mentale dei detenuti che, una volta tornati liberi, acuiscono l’azione criminale”. Infine, le famose leggi non scritte del carcere tendenti a punire severamente chi commette reati contro donne e bambini. Qui il meccanismo è trasversale. Questa volta i presunti carnefici non sono più interni all’apparato penitenziario ma sono gli stessi detenuti.

Alzano un muro umano dietro il quale avviene la tortura, la sevizia, nei confronti di chi ha commesso reati che violano i regolamenti rigidi del popolo carcerario. Episodi di inaudita gravità, narrati da un recluso che ha visto, sentito, e solo ora riferito di quel che accade a Rossano. Una struttura ritenuta recentemente dal Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) rieducativa e in grado di favorire il reinserimento sociale.

La stessa organizzazione sindacale sottolineava la carenza della dotazione organica, di uomini e di mezzi. E rimarcava inoltre come gli istituti di pena oggi siano divenuti luogo di tutti i disagi della società: stranieri, tossicodipendenti, malati psichiatrici. Criticità comprensibili ma che non giustificano l’inaudita violenza denunciata oggi da un detenuto.

Matteo Lauria

Il Garantista, 04 Settembre 2014

Articolo de “Il Garantista” sul Carcere di Rossano

Rossano, viaggio nel carcere degli orrori. Parla l’On. Enza Bruno Bossio, Deputato Pd


On. Enza Bruno Bossio PD“Avevo proprio voglia di scappare, di uscire e avvisare il mondo di questa situazione. Ma ci torno!”. Enza Bruno Bossio ha il piglio sicuro e una volontà di ferro. Quando le abbiamo chiesto di raccontarci cosa ha visto nel Carcere di Rossano, non usa mezzi termini: i detenuti in isolamento erano tenuti in condizioni medievali. “Non era un problema strutturale, ma di gestione: la struttura di Rossano, in sé non è male. Non è fatiscente come può essere invece quella di Fiano. E’ la gestione del detenuto che è punitiva in questi termini”. E pensare che quella alla struttura penitenziaria doveva essere una visita ispettiva come le altre… E invece, no. Quella che si è trovata sotto gli occhi la Bossio, Deputato del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia, è una condizione di degrado che non ha precedenti e che subito ha voluto denunciare, assieme al radicale Emilio Quintieri, che l’aveva accompagnata nella visita, ma che non è riuscito a entrare.

“Voglio partire subito dalla fine di questa vicenda: abbiamo già attivato il capo di gabinetto del Ministro e credo che nei prossimi giorni interverranno su questa situazione che io personalmente ho scoperto solo per caso”. Comincia così il suo racconto. “Quando sono andata a Rossano per la mia visita ispettiva non pensavo di trovare la situazione che ho potuto riscontrare. Ero lì semplicemente per incontrare un detenuto trasferito da poco che aveva fatto sapere attraverso i suoi familiari di essere preoccupato per la sua incolumità. Aveva avuto già anche altri problemi e sono voluta andare di persona per rendermi conto del perché arrivassero questo tipo di segnali”. Nel carcere di Rossano, però, le cose non sono così semplici. E anche l’ispezione (che rientra tra i diritti dei parlamentari) si rivela più complessa del previsto: “Arrivata lì non c’era né il comandante né il direttore e l’agente preposto non mi voleva far entrare” racconta la Bruno Bossio. “Io allora ho rivendicato le mie prerogative di entrare anche assieme ai miei accompagnatori. Alla fine ho dovuto accettare una mediazione e sono entrata da sola”.

Le difficoltà sono solo all’inizio: “Volevano portarmi il detenuto in una stanza, quasi fosse un colloquio, ma mi sono rifiutata rivendicando il diritto di visitare la cella. Mentre camminavo nel corridoio chiudevano i blindati per non farmi vedere le altre celle adducendo motivazioni varie”. In un primo momento la deputata spiega a Calabria24News di non aver prestato particolare attenzione alla cosa, non pensando che ci potesse essere qualcosa dietro. “Mentre parlavo con il detenuto che ero andata a incontrare” però, “gli altri hanno iniziato a urlare, chiedendomi di visitare anche le altre celle”. Lo spettacolo riscontrato è tremendo: “Ho trovato una cella completamente vuota, senza mobili, senza letto, con una persona praticamente nuda seduta a terra in condizione di evidente stato confusionale, in mezzo ai suoi escrementi, malamente puliti, e ai piatti sporchi. Nessuno mi spiegava perché fosse abbandonato in una simile condizione. Solo dopo una certa insistenza uno degli agenti mi ha spiegato che il detenuto aveva tentato il suicidio”. Non è tutto. “In altre due celle ho trovato una situazione simile, c’era però il letto… ma senza lenzuola”.

La cosa più grave, però, secondo la deputata Pd è ancora un’altra: “mentre ero lì mi hanno costretto ad allontanarmi e in ufficio mi hanno passato una vicecomandante che si è rivolta a me dicendo: come vi siete permessi di andare in casa d’altri senza avvisare… Io però l’avevo fatto apposta: non voglio che si sappia che arrivo lì. Lo faccio perché non voglio che si mettano a posto le cose prima”. “Ci dovrebbe essere un garante dei detenuti che purtroppo la Calabria non ha e che mi auguro venga nominato con il nuovo governo regionale” spiega a Calabria24News ribadendo tuttavia che la gestione delle strutture carcerarie è sempre stata di una competenza ministeriale “ed è giusto che sia così. Ma devo dire che questo Ministro, per quel che riguarda le carceri, si è dimostrato molto sensibile“. 

Monica Gasbarri

Calabria24News – 12 Agosto 2014

Carcere di Rossano Calabro… oltre il limite di ogni possibile pessimismo


CARCERE ROSSANOL’irruzione dell’on. Enza Bruno Bossio nel carcere di Rossano ci ha svelato all’improvviso una realtà che forse nemmeno potevamo sospettare. Una cosa è indignarsi per le celle minuscole, per il sovraffollamento, per l’assenza di strutture, per la mancata rieducazione, per la repressione, eccetera eccetera. Tutte cose che sappiamo, da tanto tempo.

Una cosa diversa è scoprire che dentro le celle ci sono persone trattate peggio delle bestie, che c’è violenza estrema, sadismo, sopraffazione, violazione di ogni legge. Le immagini che l’articolo qui accanto descrive sono quelle dei lager, come Guantánamo, come Abu Ghraib. Siamo scesi in piazza tante volte per chiedere che fossero chiuse Guantánamo e Abu Ghraib. Se è vero che nel carcere di Rossano c’era un detenuto lasciato a terra, sul pavimento, malato, circondato dal suo vomito, se è vero che diversi detenuti presentavano ematomi e dicevano di essere stati picchiati (…)

Se è vero che qualcuno trascorreva l’ora d’aria in quattro o cinque metri quadrati, peggio di un maiale all’ingrasso, di una gallina in batteria, se tutto questo è vero bisogna chiudere il carcere di Rossano. Chiudere. E forse – per una volta lasciatelo dire a noi – sarebbe anche il caso che la magistratura aprisse un’indagine. Dopodiché, fatte queste due cose essenziali e urgentissime, bisognerà anche porsi delle domande. Se l’on Bruno Bossio, che ha fatto irruzione senza preavviso nel carcere, in agosto, quando nessuno se l’aspettava, ha trovato questa situazione, è legittimo sospettare che la medesima situazione possa esserci in molte altre carceri, dove magari non sono avvenute visite improvvise dei deputati?

È chiaro che è possibile. L’iniziativa dell’on Bruno Bossio ci fa capire a quel grado di gravità e di inciviltà sia giunta la situazione delle carceri in Italia. E quanto ipocrita e insufficiente sia stato il varo di una leggina che dispone qualche giorno di sconto di pena o una mancia di 240 euro al mese per chi subisce le torture del sovraffollamento.

Il problema delle carceri è gigantesco, e lo standard delle nostre prigioni spinge l’Italia, in una virtuale classifica della civiltà, tra i più arretrati paesi del terzo mondo. Non si può restare fermi di fronte a questa situazione. Il problema carceri è il più urgente nell’agenda. Se vogliamo che l’Italia resti nel novero dei paesi civili bisogna che le forze politiche, almeno per una volta, si tappino le orecchie, non ascoltino gli urlacci e gli insulti della vasta platea giustizialista, mettano in conto la perdita di un po’ di voti e pongano mano a una riforma seria delle carceri.

In quattro passi. Primo passo: subito amnistia e indulto, per allentare la pressione nelle celle e nei tribunali. Va fatto a settembre, come hanno chiesto il papa e Napolitano, e come da anni, senza sosta, con le proteste e gli scioperi della fame, è sostenuto dai radicali e da Pannella. Secondo depenalizzazione di tutti i reati minori.

Terzo, riforma radicale della carcerazione preventiva che riduca a poche decine di casi le custodie cautelari. Quarto, norme sulla responsabilità civile dei giudici, che abbattano il numero dei procedimenti penali pretestuosi. In questo modo si può arrivare in tempi rapidissimi alla riduzione del 60 o 70 per cento della popolazione carceraria. E a quel punto sarà necessario trovare il modo per avere la certezza di controlli su come si vive nelle prigioni, e probabilmente anche una forte riforma, in senso garantista, di tutti i regolamenti carcerari (a partire dall’abolizione dello sciaguratissimo articolo 41 bis).

Non costa niente una riforma di questo genere. Anzi, produce risparmi. Costa dei voti, questo sì, costa le grida di Travaglio e dell’Anm. E se per una volta, solo per una volta, cari politici di sinistra e di destra, ve ne fregaste di Travaglio e dell’Anm?

P.S. Certo che se ci fossero in giro più deputate e deputati come Enza Bruno Bossio, sarebbe una buona cosa.

Piero Sansonetti

Il Garantista, 12 agosto 2014

Visita Ispettiva al Carcere di Teramo dell’On. Maria Amato (Pd)


On. Maria Amato PdDietro le sbarre, nel regno della promiscuità. La deputata vastese Maria Amato dopo aver visitato la struttura detentiva di Vasto – sulla cui casa lavoro ha successivamente incentrato un’interrogazione parlamentare – ha scelto il carcere di Castrogno a Teramo. Nel pieno delle sue funzioni di parlamentare, è andata lì dove altri non possono entrare ed ha deciso di raccontarlo al Centro, per testimoniare carenze strutturali e impegno e fatica del personale.

È da quando è stata eletta che la Amato ha riposto particolare attenzione al tema della detenzione e, insieme, della riabilitazione. La deputata ha nel passato rilevato come gran parte delle carceri siano ridotte, nella stragrande maggioranza dei casi, a contenitori di situazioni di disagio e talvolta di sofferenza psico-fisica.

“È facile accettare e amare chi è uguale a noi ma molto difficile accettare chi è diverso”. Ho continuato a pensare a questa frase di Luis Sepulvéda, che fa bella mostra di sé su un murales con la gabbianella e il gatto, su una parete nel Carcere di Teramo. Una immagine tenera che ho continuato a richiamare per ammorbidire la dura intensità della visita all’Istituto. Le immagini sono il mio linguaggio nel lavoro, sono le immagini quelle che mi porto: porte pesanti, corridoi ampi, sbarre, cemento, forme squadrate e lontano un sottofondo indistinto di voci. Il luogo dello Stato nell’ombra, quello che tendiamo a dimenticare come se realmente fosse un contenitore. Il cuore del carcere non è nella immagine che ho descritto, è nelle persone.

Incontro, prima del giro all’interno, il Comandante che con un linguaggio semplice e chiaro mi descrive la popolazione del carcere insistendo sulla realtà complessa, una capienza di 252 detenuti che in realtà sono 358 e di recente con punte di 443 unità. Non è, però il sovraffollamento, male comune delle carceri italiane, il problema maggiore ma la disomogeneità della popolazione per reati: alta sicurezza, circondariale ordinaria, protetti e sezione femminile. Una persona paziente, il comandante, che risponde a tutte le domande, anche ovvie, con cui interrompo ogni tanto il suo discorso. Conosce palmo a palmo la “sua” struttura, parla con rassegnazione delle carenze, l’organico di polizia penitenziaria è sotto di 54 unità e l’età media delle guardie è di 45 anni.

Non sono numeri vuoti: la carenza del personale di custodia a fronte del sovrannumero dei detenuti ha come effetti problemi di sicurezza, difficoltà di “guardare a vista” i tanti detenuti potenzialmente a rischio di autolesionismo, veri o dimostrativi che siano, difficoltà accresciute dalla frequente necessità di accompagnare i malati, tanti!, per accertamenti o eventuali ricoveri ospedalieri. L’età media elevata va di pari passo con un lavoro duro, stressante, che spesso mette il personale a confronto con devianze e fragilità per cui non è adeguatamente formato.

Si formano e acquisiscono competenza con l’esperienza sul campo: il campo è fatto di persone. Cinque piani, un montacarichi Al colloquio introduttivo partecipa il responsabile interno della unità operativa di Medicina Penitenziaria: guardia medica h 24, 12 infermieri, accedono 22 specialisti e 1 tecnico di radiologia, si preparano 600 terapie al giorno, 20% psichiatrici, 25% tossicodipendenti, una sezione femminile col nido, 7-10 disabili, e molto altro.

L’elenco non rende la difficoltà: i malati sono fragili sempre anche se colpevoli di reati, i disabili senza un ascensore non si spostano da un piano all’altro. Sì, l’ascensore! Nel carcere che si sviluppa su 5 livelli c’è un solo montacarichi che nella realtà significa che malati, biancheria, cibo, sporco, viaggiano sullo stesso percorso.

La struttura è percorso di cura, lo è per i malati, lo è per la salute mentale, lo è per il complesso percorso di recupero per il reo, a volte lungo quasi una vita intera: non ci vuole una grande sensibilità per capire quanto è difficile recuperare una corretta relazione sociale vivendo senza la garanzia del decoro. La mancanza di percorsi differenziati è il più grosso handicap strutturale, viene sottolineato dal Direttore che generosamente mi ha regalato mezza giornata delle sue ferie ed è rientrato per essere guida in questa visita.

I percorsi interni dei detenuti delle diverse categorie si incrociano obbligatoriamente sulla via dell’area medica, dell’attività sportiva, dell’orto, dei colloqui e del passeggio, con i rischi che ne possono derivare. L’ho ascoltato con attenzione, cortese, attento senza sussiego, un autocontrollo notevole descrivendo le iniziative finalizzate alla umanizzazione del carcere, richiami alle regole che assumono un tono che si appesantisce quando si toccano i tempi burocratici.

Una persona che fa un lavoro ad alto rischio che facilmente può finire sui media per un gesto di autolesionismo: recente il suicidio di una donna con disagio sociale e in attesa di giudizio, non una rarità come caratteristiche, ma evidentemente, tragicamente più fragile degli altri. In attesa di giudizio L’attesa di giudizio, il grande nodo del nostro sistema giudiziario: a Teramo 66 persone sono in attesa di primo giudizio, 33 appellanti, 10 ricorrenti.

Chiedo a bruciapelo al Direttore se lui crede nel recupero: senza remore e senza giri di parole mi dice “Non per tutti ma per molti. Devono sentire che lo Stato dentro e fuori il carcere crede al loro recupero”. Il recupero è un delicato percorso di relazione ed è la base per la reintegrazione sociale. Ed è il fuori dal carcere l’anello debole del percorso, è difficile la cultura dell’accoglienza e del ridare fiducia, difficile ma indispensabile. Mi accompagnano all’interno il Comandante e il Direttore, cambia il mio grado di attenzione, acuisco il sensorio, l’unico odore forte è nell’area sanitaria, l’odore tipico delle medicherie.

È pulito e non c’è lo sgradevole odore dell’alta densità umana che pure in altri posti mi ha colpito. Tre sezioni architettonicamente uguali, tante facce, tante storie diverse, ci sono detenuti famosi nel carcere di Teramo, facce e storie che si mischiano all’ordinario disagio, storie che hanno interessato i media, un femminicidio, una madre marginalmente coinvolta in un infanticidio, storie di singoli risucchiate nel mare magnum del disagio.

carcere_teramo_castrognoVedo le celle, 9 metri quadri, due posti letto a castello, un servizio decoroso con wc e lavabo, un piccolo televisore da muro, panni stesi, pareti con molto colore, altre desolatamente spoglie, molti rosari, molte madonne e qualche foto di famiglia. Le docce da tre, pulite ristrutturate da poco. I detenuti sulla porta delle celle o appoggiati al muro, un gruppetto gioca a carte, il disagio psichiatrico frequentemente riconoscibili nelle espressioni, negli occhi irrequieti o nella fissità dello sguardo, in piccoli gesti delle mani uguali e ripetitivi, molti salutano il direttore e il comandante semplicemente con garbo, qualcuno con maggiore deferenza.

Ci fermiamo davanti alla porta dei protetti: da una parte, il braccetto, collaboratori di giustizia ed ex forze armate, e il braccio per i sex offender. Sex offender come se il suono di una lingua diversa potesse ridurre l’effetto del suono stupro, pedofilia, femminicidio. Mi chiedono se voglio entrare, me lo chiedo anch’io. Mi sconvolge non essere capace di guardare a questo disagio con la stessa lente con cui guardo al mondo.

Dico di sì ed è stato come uscire da me, non ho saputo cercare gli occhi degli uomini, sprecando forse una occasione unica di incontro umano. Quello che colpisce è il silenzio ed il senso profondo di solitudine. Protetti perché la morale del carcere non perdona questi delitti e c’è il rischio che qualcuno decida di fare sommaria giustizia. Io che disinvoltamente, una vita fa, ho affrontato il ponte di Salle con lo bungee jamping, ho attraversato un corridoio di miseria senza correre alcun rischio e provando una punta di paura viscerale; a metà corridoio mi sono accorta di tenere le braccia strette sul petto. Ecco questa è la traduzione vera non controllabile della resistenza culturale a dare di nuovo fiducia: la mia reazione irrazionale.

Lasciandoci alle spalle i tre settori degli uomini ci siamo diretti alla sezione femminile.

Ci sono spazi esterni che il direttore sta rendendo più accoglienti per ridurre la brutalità impattante delle mura, alte e sorvegliate, sulle famiglie in visita: col prato cresce la speranza di un sistema carcerario meno brutale, in cui prevalga la valenza riabilitativa con un percorso che possa comprendere le famiglie, i figli, i bambini. I gazebo sono predisposti, due murales grandi sono completati, un ponte di pietra e due cerbiatti, uno dei detenuti ha il grande talento delle forme e dei colori, c’è uno spazio in attesa dei giochi da giardino che speriamo la generosità di associazioni e singoli voglia riempire.

Mi meraviglia la modestia del Direttore, quando rispondendo alle mie domande, senza vanto mi dice che quello che vedo è a iso-risorse, che vuol dire tempo, domande e soprattutto l’impegno a chiedere il concorso della generosità della società, risultati che qualche volta arrivano di slancio ed altri per sfinimento. Le donne sono più colorate, molte rom, capelli e gonne lunghe, parlano e sorridono più volentieri. Due bambini, uno di due e l’altro di tre anni in braccio alle madri, un mezzo sorriso: come ci si può sentire paese civile con i bambini nel carcere? Sono più ordinate le donne, ridono anche, una vuole un po’ più di tempo di sole.

Porto con me uno sguardo profondo, muto di una giovane donna, lineamenti bellissimi, lunghi capelli neri, un mezzo sorriso a rispondere al mio: è dentro per rapina. Penso come sempre cosa sarei stata senza la fortuna della mia famiglia, senza i miei insegnanti, senza il mio lavoro, senza la mia salute, sarei stata a rischio, come molti di loro. Una donna piccola, sottile con evidenti segni di abuso di stupefacenti, le cicatrici sulla braccia, è l’unica a cui interessa il mio ruolo e di che partito sono. Un mondo a sé il carcere perché noi lo abbiamo voluto così, più facile per non pensare che uno stato moderno, civile deve garantire il rispetto della dignità ovunque. Vorrebbero lavorare o imparare un lavoro. Il bisogno di lavoro rende fragile il mondo nel carcere e fuori, il lavoro un mal comune che non è mezzo gaudio.

Alla fine una lucina di soddisfazione negli occhi scappa all’autocontrollo del Direttore: mi fa vedere l’area dedicata al progetto genitorialità, uno spazio che per arredamento e struttura pare una casa, è per le donne con i figli, a basso rischio psichiatrico ed elevato senso materno: la gabianella e il gatto sono qui, le tende da doccia colorate e nei servizi compare il bidet tra i sanitari. Fasciatoi, box, seggiolini nuovi, mobili semplici, chiari per un ambiente accogliente e luminoso. Ripete “tutto a costo zero”. È tutto pronto da aprile ma in attesa di autorizzazione. È un uomo dello Stato il Direttore, rispettoso delle regole, non usa il mio tono un po’ stizzito a dire “burocrazia”, non perde mai il tono rispettoso. Mi sono impegnata, senza che me lo chiedesse a provare a far velocizzare la procedura autorizzatoria.

Fuori un orto con tante fragole, delle viti e un albero da frutta: cresce ed è anche qui, tra le mura un segno di speranza. Si vede la montagna e mi esibisco nella domanda stupida: com’è l’inverno qui? Che volevo che mi rispondessero, è freddo l’inverno, molto! Vado via, un amico mi ha aspettato tutto il tempo e con la sua carica umana e una grande capacità di ascolto mi consente attraverso il racconto di tornare a casa serena, portando con me una esperienza umana forte e le informazioni che un parlamentare deve avere visitando un carcere.

On. Maria Amato, Deputato Pd

Il Centro, 29 giugno 2014

Il caso Alessio Ricco e la Cancellieri sotto tiro. L’impegno del Ministro per il detenuto calabrese


Annamaria-CancellieriCancellieri sensibile solo al caso Ligresti? Non è così. E ai cento casi portati ad esempio dallo stesso ministro della Giustizia per dimostrare il suo interesse nei confronti di tutti i carcerati, da qualche giorno se ne aggiunge un altro. Il caso di Alessio Ricco.

Emilio Quintieri, un giovane e combattivo esponente dei Radicali italiani, aveva inoltrato un appello al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri per segnalarle la preoccupante condizione di salute di un giovane detenuto ammalato, allegando anche la lettera che Francesca Scornaienchi , moglie del recluso, aveva mandato al direttore del carcere. Le condizioni del detenuto (29 anni) sono incompatibili con il regime carcerario avendo l’artrite reumatoide, una malattia del sistema immunitario, invalidante e degenerativa: rischia di non poter camminare più. Dopo l’appello, il radicale e la deputata del Pd Enza Bruno Bossio si sono recati nel carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro, esattamente dove “vegeta” il detenuto Ricco. E hanno potuto denunciare le condizioni vergognose e incivili della struttura; nel loro comunicato stampa congiunto, così l’hanno descritto: “A Catanzaro, i detenuti sono costretti a sopravvivere in una struttura fatiscente, in delle celle piccolissime, piene di muffa ed umidità e prive di riscaldamento. Inoltre, come se non bastasse, la struttura è invasa dai topi e non funzionano nemmeno le docce i cui locali sono completamente malridotti ed insalubri. Anche il personale di polizia penitenziaria che ha accompagnato la delegazione durante l’ispezione ha confermato le lamentele dei reclusi specialmente per quanto attiene la presenza numerosa dei roditori nell’istituto”.

Qualche giorno fa, il segretario del guardasigilli Edoardo Sottile, per conto della Cancellieri stessa, ha contattato telefonicamente sia la parlamentare democratica Enza Bruno Bossio che all’attivista radicale Emilio Quintieri per portarli a conoscenza dell’interessamento della ministra per la vicenda del detenuto Ricco. In particolare, Cancellieri, ha chiesto alla direzione del carcere di Catanzaro di avere ampie ed esaustive delucidazioni in ordine alle problematiche di salute del detenuto cetrarese ed ha dato incarico al dottor Francesco Cascini, vice capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di seguire con attenzione il caso e di tenerla aggiornata.

Eppure – vi ricordate? – Cancellieri è stata attaccata duramente per i suoi presunti  favoritismi nei confronti degli amici potenti. Aveva appena finito di pronunciarsi a favore dell’amnistia, indulto e “umanizzazione” delle carceri, compreso l’abuso della custodia cautelare , che immediatamente sono spuntate le intercettazioni “fuoriuscite” dalla Procura di Torino riguardanti proprio lei: la “lady di Ferro”. Stesso temperamento di Thatcher, ma per fortuna con sensibilità differente a proposito della condizione disastrosa delle carceri, in virtù della quale siamo pluricondannati dalla Corte Europea.

Quella storia brucia ancora, anche perché spesso evocata quando si parla di rimpasto e si chiede la testa del ministro della Giustizia.

Al telefono, il ministro Cancellieri a metà luglio dice alla compagna di Ligresti, Gabriella Fragni, un generico “qualsiasi cosa io possa fare – anche se davvero non saprei cosa – conta su di me”. Un mese dopo, appreso del peggioramento delle condizioni di salute di Giulia Maria Ligresti, che era in custodia cautelare (meglio definito “carcere preventivo), si attiva e parla con i due vice capi del Dap, per sensibilizzarli sul fatto che la donna soffre di anoressia. Pochi giorni dopo Ligresti esce dal carcere e viene messa ai domiciliari.

I giustizialisti di prim’ordine, ovvero Flores D’Arcais, Travaglio, Barbara Spinelli tramite il loro giornali come Micromega e il Fatto Quotidiano, hanno subito dopo sparato una serie di articoli velenosi per stimolare quell’indignazione a comando che serve a mantenere lo status quo.

Chissà allora se questi fabbricanti dell’indignazione reazionaria avranno la decenza di raccontare anche questa telefonata della Cancellieri per aiutare un detenuto comune e in condizioni degenerative come Alessio Ricco.

Gli Altri, 26 Gennaio 2014

http://www.glialtrionline.it/2014/01/26/cancellieri-dalla-parte-di-tutti-i-detenuti-la-telefonata-del-ministro-per-alessio-ricco/