Testimonianze di abusi sessuali sulle detenute transessuali e di altre vessazioni nel carcere di San Vittore, l’assoluzione degli agenti di Polizia penitenziaria finiti alla sbarra e poi l’inquietante morte di Erica, la trans che aveva avuto il coraggio di denunciare le violenze, e la scomparsa di un detenuto che in una lettera aveva scelto di raccontare quanto accadeva tra le mura dell’istituto milanese.
È il quadro a tinte fosche descritto dai volontari del gruppo Calamandrana, che hanno contattato il Garantista dopo la pubblicazione del nostro reportage: “L’inferno delle detenute transgender”. Nel dicembre del 2008 venne resa pubblica la lettera di un detenuto del raggio dei protetti che raccontava la vergogna degli abusi sessuali praticati da agenti graduati su detenute trans. Tramite questa lettera, i volontari del Gruppo Calamandrana chiedevano che si facesse luce su questi abusi ben conosciuti nell’ambiente ma mai denunciati da nessuno.
“In questo piano protetto dove sono rinchiusi stupratori, pedofili, infami e trans – scriveva il detenuto recluso al carcere di San Vittore – avviene ogni tipo di sopruso: regole che cambiano da un giorno all’altro, a discapito sempre del detenuto, ore di aria ridotte, scarafaggi ovunque, ecc.”.
Poi il detenuto va nello specifico: “Ma la cosa più scandalosa è ciò che subiscono le persone transessuali, cioè dei veri e propri abusi sessuali da parte di alcuni agenti, per lo più graduati, col tacito consenso di tutti gli altri che sanno. La cosa avviene con chiamate serali giustificate da visite mediche, chiamate per ritiro pacchi postali, chiamate di avvocati, chiamate dell’ufficio comando o matricole. Il detenuto di turno si trova poi in una stanza isolata con uno o più agenti, dove l’abuso avviene con ricatto, minacce, negazione dei medicinali, o più semplicemente con la promessa di agevolazioni di vario genere.
Questo abuso – conclude il detenuto del carcere di San Vittore – continua da sempre, e da sempre impunito, anche se confidato ad avvocati o operatori civili, medici e parenti. In un modo o nell’altro ciò che avviene dentro queste mura viene insabbiato prima di riuscire ad avere un efficace intervento”. Dopo la pubblicazione della lettera, il gruppo Calamandrana subisce una sospensione della sua attività all’interno del carcere milanese. E questo provvedimento ha messo in luce la difficoltà dei volontari operanti all’interno delle carceri di denunciare gli abusi e le inefficienze del sistema penitenziario.
“Durante la loro attività in carcere – sottolinea il gruppo Calamandrana – inevitabilmente i volontari possono essere testimoni di fatti gravi compiuti da singoli operatori penitenziari (di cui, tra l’altro, non sono gli unici a sapere): perché non se ne parla? Forse per il timore dì essere segnalati al Giudice di Sorveglianza e di conseguenza non poter più entrare in carcere?
O forse perché, per una sorta di fatalismo si è convinti che la comunicazione alla Direzione comunque non porterebbe a nulla? E se anche ne parlano, in genere non vengono neppure a sapere se in seguito siano stati adottati dei provvedimenti; l’unica notizia è un eventuale trasferimento del detenuto/a coinvolto/a perché non lo/la si vede più. Siamo consapevoli che il mondo carcerario ha al suo interno equilibri molto delicati e che deve essere presa in considerazione sia la tutela del detenuto/a che denuncia sia la tutela del denunciato/a.
D’altra parte, gli eventuali gravi episodi contrastano nettamente con l’articolo 27 della Costituzione comma terzo (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dì umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e con l’ordinamento penitenziario legge 26 luglio 1975 n° 354 art. 1 comma uno (“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”).
L’attuazione pratica di questi due articoli è stata l’istituzione della Magistratura di Sorveglianza che ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena nel rispetto dei diritti dei detenuti ed ha il potere di intervenire. C’è perfino una sentenza della Corte Costituzionale n. 26 dell’11.02.1999 che prescrive l’adozione di una specifica procedura giurisdizionale in merito ai reclami dei detenuti al Magistrato di Sorveglianza per violazione dei propri diritti”.
Conclude poi il gruppo Calamandrana con un quesito: “Quindi, tornando alla domanda iniziale, se ne aggiunge un’altra, con la speranza che si possa arrivare ad un dibattito per avere chiarezza su quanto abbiamo esposto: quali sono i limiti del silenzio del volontariato (e non solo del volontariato) in carcere?”.
E, di fatto, i volontari del gruppo Calamandrana non si sono imposti limiti nel denunciare ciò che accadeva all’interno del carcere dove operavano, Non solo hanno reso pubblico la testimonianza del detenuto e della trans Erica, ma hanno trascritto e diffuso una parte significativa di un1 intervista radiofonica nei confronti di una trans uscita dal carcere milanese. “Dal mio primo ingresso a San Vittore – spiega la trans nell’intervista – ho dovuto sopportarne di tutti i colori. Se fuori la discriminazione verso i trans è al 100%, dentro il carcere è al 200%, In carcere vieni vista come un animale, E a furia di essere trattati come animali, lo si diventa”.
La trans durante l’intervista spiega nel dettaglio anche le vessazioni subite e il fatto di non essere creduto dalla dal direttore del carcere. “Ero in una situazione così grave – continua la trans -che ho cominciato a riempirmi di psicofarmaci per dormire e non sentire niente. Ho avuto tante colleghe trans arrivare alla pazzia. Alle richieste di prestazioni sessuali da parte degli agenti io reagivo con odio e a uno di questi un giorno non solo l’ho mandato a fanculo, ma gli ho detto: “Un pompino te lo deve fare la tua mamma, non io”.
Questo mi è costato 45 giorni di carcere in più, perché lui mi ha fatto rapporto”. A quel punto la trans spiega che “per 3 anni ho passato questa vita non di merda, ma sotto la merda. Giorno dopo giorno ho ricevuto violenze dagli agenti, violenze anche verbali.
“Puttana di merda, come li facevi i pompini fuori?”. E allora io rispondevo; “Bene, molto bene”. Perché se li mandavo a fanculo avevo altri 45 giorni di pena in più”. Ma la trans durante l’intervista tiene a specificare che “non tutti gli agenti sono così, Ci sono fra loro anche persone bravissime, I veri bravi agenti esistono, ma molti si approfittano della loro posizione, Dagli altri detenuti ho ricevuto molta solidarietà e ho imparato tanto”.
Le denunce delle vessazioni nei confronti delle trans detenute hanno avuto un effetto concreto: dopo circa due mesi dalla diffusione delle testimonianze, nel 2009 la Procura di Milano ha cominciato ad occuparsi della faccenda. È scattato il rinvio a giudizio nei confronti delle due guardie penitenziarie e avviato il processo. Dopo molti rinvii il processo si è concluso il 18 luglio 2013 con l’assoluzione dei due agenti “perché il fatto non sussiste”.
Ma la conclusione di questa storia è molto più amara e inquietante. Gabriella Sacchetti, volontaria del gruppo Calamandrana, spiega al Garantista che “due protagonisti importanti di questa brutta storia sono spariti subito dopo il processo o poco prima. Di Erica, una delle trans che aveva denunciato gli abusi, è corsa voce che sia stata uccisa, ma non siamo riusciti a sapere dove, come e quando. Il detenuto della lettera di denuncia che abbiamo pubblicato è sparito dalla circolazione dopo che ha finito di scontare la pena. E questo ci è molto dispiaciuto e ci ha inquietato, anche perché – conclude amaramente Gabriella Sacchetti – li avevamo conosciuti durante il nostro volontariato ed eravamo rimasti in contatto epistolare fino a poco prima della sentenza”.
Damiano Aliprandi
Il Garantista, 14 ottobre 2014
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