Prof. Palazzo (UniFirenze): Imporre agli ergastolani di collaborare è da Stato di Polizia, non da Stato di Diritto


Ancor prima di quella collegata alla rieducazione vi è più prosaicamente l’anima utilitaristica di spingere il condannato a rendere più agevole e penetrante il compito investigativo delle autorità.

L’ergastolo ostativo, originariamente previsto per alcuni reati associativi molto gravi, è stato esteso successivamente, mediante una serie di aggiunzioni, a reati che possono non avere niente a che fare con le organizzazioni criminali.

Il punto centrale della sua disciplina (che gli è valsa la qualificazione di “ostativo”) è noto: salve le ipotesi di collaborazione impossibile (perché il condannato niente sa) o irrilevante (perché l’autorità già sa tutto), l’accesso agli istituti di progressiva risocializzazione presuppone che il condannato “collabori” – magari a distanza di anni dal fatto – con l’autorità rivelando ciò che sa, segnatamente in ordine alla partecipazione di eventuali correi.

Solitamente si pensa che il requisito della collaborazione sia giustificato in ragione del fatto che senza di essa sarebbe impensabile la dissociazione del reo dall’originario ambiente criminoso e dunque impossibile un giudizio diagnostico/prognostico di cessata pericolosità. In sostanza, si collega funzionalmente la collaborazione a quella finalità rieducativa che non mancherebbe neppure nell’ergastolo in quanto, appunto, suscettibile di aperture progressive alla libertà.

A ben vedere le cose, però, il fondamento giustificativo della collaborazione come chiave di accesso ai “benefici” ha una doppia anima. Forse ancor prima di quella collegata alla rieducazione vi è più prosaicamente l’anima utilitaristica di spingere così il condannato – specie se intraneo ad organizzazioni criminose – a rendere più agevole e penetrante il compito investigativo delle autorità. Se si assume chiara consapevolezza di questa doppia anima dell’ostatività, ne discendono rilevanti conseguenze in punto di costituzionalità della preclusione. Fino a che quelle due anime vanno d’accordo, nel senso che la mancata collaborazione esprime nel caso concreto la persistenza della pericolosità ostacolando nello stesso tempo l’esauriente accertamento processuale, nulla quaestio (legitimitatis), essendo giustificata la perpetuità della pena sulla base dell’ormai consolidata giurisprudenza costituzionale e Cedu in materia di ergastolo.

Ma quando le due anime si dividono perché la mancata collaborazione non esprime la persistenza della pericolosità, essendo ad esempio motivata dalla volontà di non esporre sé o i propri congiunti a vendette o ritorsioni o essendo ispirata a ragioni morali di non nuocere ad altri, avendo però il condannato percorso positivamente il suo itinerario rieducativo, allora le cose cambiano radicalmente. È chiaro, infatti, che in tali ipotesi l’ostatività non può che fondarsi sull’esclusiva anima dell’agevolazione dell’accertamento processuale.

È come dire: tu puoi collaborare ma non lo fai, e allora non m’interessa se hai già raggiunto il risultato risocializzativo che sarebbe sufficiente ad uscire dal carcere e a rompere la perpetuità della pena. Ciò significa, in breve, che l’anima “processuale” dell’ostatività prevale su quella “rieducativa”. Ma questo bilanciamento è palesemente contrario alla Costituzione: mentre, infatti, la rieducazione è un valore espresso in Costituzione e dalla Corte costituzionale affermato in termini sempre più perentori e ricollegato dalla Corte di Strasburgo addirittura alla stessa dignità umana, l’agevolazione processuale coatta non solo non trova riconoscimento in Costituzione ma un suo sistematico uso quale strumento ormai pressoché ordinario per l’accertamento dei reati dovrebbe suscitare serissime perplessità. In fondo, si profilerebbe la trasformazione dello Stato di diritto in uno Stato di polizia, quasi esonerando l’autorità dal suo compito d’accertamento per trasferirlo coattivamente sui cittadini.

Questo è lo sfondo inquietante su cui si pone la quaestio legitimitatis dell’ergastolo ostativo. Ma non c’è nemmeno bisogno che la Corte costituzionale s’impegni expressis verbis su tale piano. Infatti, anche accreditando l’ostatività di un’anima (nobile) in funzione esclusivamente rieducativa, la preclusione si rivela chiaramente affetta da un’intrinseca irrazionalità.

Che senso ha precludere i benefici a chi rifiuta di collaborare per ragioni che non solo non siano incompatibili con la cessazione della pericolosità, ma che – tutto al contrario – possono addirittura essere espressione e conferma dell’avvenuto processo di risocializzazione? Sembra poi addirittura superfluo precisare che l’abolizione della presunzione assoluta non significherebbe rimettere tout court in libertà schiere di pericolosi mafiosi o incalliti delinquenti: è chiaro che l’ammissione ai benefici presuppone pur sempre un accertamento in concreto da parte del giudice di sorveglianza dell’assenza di pericolosità, costituendo indubbiamente la mancata collaborazione un importante indicatore negativo, ma niente di più e niente di meno di un indicatore. Se poi non ci si fidasse dei giudici, allora sarebbe un altro discorso: alla fine del quale, però, si staglierebbe nuovamente l’ombra dello Stato di polizia.

Francesco Palazzo, Emerito di Diritto Penale Università degli Studi di Firenze

Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2019

Prof.ssa Pecorella (UniBicocca): il regime ostativo non risponde ad esigenze di difesa sociale


Il condannato alla pena dell’ergastolo non può mai essere privato di una prospettiva concreta ed effettiva di liberazione. La questione dell’ergastolo ostativo pone la Corte Costituzionale di fronte a un bivio, dovendo scegliere se andare alla ricerca di possibili giustificazioni sul piano teorico della presunzione assoluta di non rieducabilità di chi non collabora con la giustizia oppure valutare quella presunzione alla luce dell’esperienza concreta maturata nei ventisette anni trascorsi dalla sua introduzione.

La Corte Europea, con la sua recente sentenza nel caso Viola, ha ritenuto la disciplina italiana contraria all’art. 3 Cedu perché impedisce al detenuto di vedere riconosciuti i progressi compiuti nel suo percorso rieducativo, fino a quando non collabora con la giustizia. Smentendo quella presunzione in senso contrario, si prende atto del fatto che la mancata collaborazione non ha impedito che un percorso rieducativo sia stato intrapreso dal detenuto e si esige, anzi, che i risultati di quel percorso siano valutabili dal giudice in vista della possibile e graduale uscita dal carcere. Perché il condannato alla pena dell’ergastolo non può mai essere privato di una prospettiva concreta ed effettiva di liberazione.

D’altra parte, abbiamo davanti agli occhi casi di ergastolani ostativi che, senza aver collaborato con l’autorità giudiziaria, hanno potuto ottenere dei benefici penitenziari o delle misure alternative alla detenzione, avendo partecipato attivamente al programma rieducativo durante i lunghi anni trascorsi in carcere. Sono gli ergastolani usciti dal regime ostativo attraverso il riconoscimento della inesigibilità della loro collaborazione, perché tutto è stato ormai chiarito o niente sono in grado di ulteriormente chiarire.

Come è potuto accadere? Nell’unico modo che l’ordinamento penitenziario contempla sulla base:

a) di una relazione positiva dell’equipe penitenziaria che, avendo più di chiunque altro osservato l’evoluzione del condannato durante la detenzione, ha ritenuto da lui compiuta quella “presa di distanza dal suo passato criminale” necessaria, ma anche sufficiente, per poter intraprendere un graduale percorso di ritorno alla libertà; nonché

b) sulla successiva pronuncia del giudice che quella relazione ha ritenuto di poter condividere, concedendo il beneficio penitenziario richiesto.

Perché negare questo stesso percorso, lungo e faticoso, ma ricco di speranza agli ergastolani che non collaborano, pur essendo ritenuti astrattamente in grado di farlo? Si dice che serve la loro collaborazione, sia pure a distanza di tanto tempo dai fatti. Se anche questa fosse la ragione, e se anche questa ragione fosse ritenuta sufficiente a giustificare il sacrificio della funzione rieducativa della pena nei confronti di questi soggetti, dovremmo arrenderci all’evidenza dei fatti: chi non ha collaborato nella fase processuale, ricavandone sensibili benefici in termini di pena, non decide di collaborare una volta che è stato condannato, se non sono cambiate o venute meno le ragioni, qualunque esse fossero, che gli hanno impedito di farlo nel momento più vantaggioso.

E se è vero che la preoccupazione per l’incolumità dei propri familiari è la ragione principale che inibisce la scelta di collaborare, difficile è immaginare che quella preoccupazione svanisca dalla mente del condannato proprio mentre si trova in carcere, lontano da tutto e da tutti e con il solo conforto dei suoi familiari. Una condizione, si noti, che l’ergastolano ostativo condivide con le persone condannate a pena temporanea e parimenti eseguite in regime ostativo: anche ad esse è precluso, se non collaborano con la giustizia, il normale percorso rieducativo e quindi un’effettiva chance di reinserimento una volta uscite dal carcere. Perché loro, a differenza degli ergastolani, riacquistano necessariamente la libertà, una volta terminata l’esecuzione della pena. E allora, possiamo davvero continuare a credere che il regime ostativo previsto dalla legge risponda a esigenze di difesa sociale?

Claudia Pecorella Professore di Diritto Penale Università di Milano Bicocca

Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019

Prof. Fiandaca : Gli studiosi del Diritto Penale e Costituzionale salutano con favore la sentenza Cedu contro l’ergastolo ostativo


L’attesa pronuncia della Corte Costituzionale potrebbe essere l’occasione per precisare ulteriormente cosa debba intendersi per rieducazione. La sentenza della Corte di Strasburgo, che ha ravvisato un contrasto tra l’ergastolo ostativo e l’art. 3 della Cedu (divieto di trattamenti inumani e degradanti), ha suscitato reazioni di segno opposto. Gli studiosi di diritto penale e costituzionale la hanno salutata con prevalente favore, mentre dal fronte dei magistrati antimafia si è levato un allarmato coro di critiche e preoccupazioni: come se la bocciatura di questa forma di ergastolo equivalga, addirittura, a un cedimento dello Stato alle mafie.

Pur senza contestare l’esigenza prioritaria di contrastare il fenomeno mafioso, ho l’impressione che la magistratura antimafia assolutizzi la dimensione dell’efficacia degli strumenti di lotta, finendo col perdere di vista un punto sul quale anch’essa dovrebbe in teoria concordare: la politica criminale non può non soggiacere, anche nel settore della criminalità organizzata, ai limiti e ai vincoli che il costituzionalismo nazionale ed europeo oppone a garanzia dei fondamentali diritti individuali degli stessi delinquenti. Se quello della massima efficacia fosse l’unico parametro di valutazione, perché allora non ricorrere alla tortura per fare pentire i mafiosi o non impiegare mezzi bellici per scardinare le organizzazioni criminali?

Preoccupata soprattutto del rischio di indebolimento dell’azione di contrasto, l’antimafia giudiziaria ha dunque mostrato minore sensibilità per le ragioni di principio e valoriali poste alla base della sentenza europea. Eppure, si tratta di ragioni che affondano le radici in un retroterra di principi di fondo largamente consonanti con quelli che la Costituzione italiana stabilisce in materia di delitti e pene, e che la nostra Corte Costituzionale va progressivamente affinando di sua iniziativa o – come da qualche tempo accade – in dialogo con le Corti europee. A cominciare dal principio di rieducazione e da quello di umanità delle pene, che rappresentano sempre più due principi-cardine anche per l’odierna giurisprudenza di Strasburgo.

Appunto partendo da tali principi, i giudici europei hanno in sintesi ragionato così: richiedere la collaborazione giudiziaria – come fa l’ordinamento italiano, eccetto che nei casi di collaborazione impossibile o irrilevante – quale condizione necessaria per concedere agli ergastolani mafiosi (o terroristi) la liberazione condizionale o i cosiddetti benefici penitenziari, equivale a trascurare che i progressi sulla via della rieducazione sono possibili e accertabili anche in mancanza di collaborazione giudiziaria, per cui il disconoscerlo finisce col rinnegare il diritto alla speranza e col ledere la dignità umana dell’ergastolano non collaborante.

Rimane, tuttavia, ancora incerto il modo di intendere la rieducazione specie quando il condannato sia un boss mafioso autore di una pluralità di gravi delitti. Che non tutto sia chiaro emerge, ad esempio, dai provvedimenti giudiziari relativi al recente diniego della detenzione domiciliare al boss pluriomicida “pentito” Giovanni Brusca (condannato non all’ergastolo, ma a una lunga pena detentiva grazie agli effetti della collaborazione) e dai commenti anche in forma di interviste apparsi sulla stampa.

Mentre nell’ottica in particolare dei magistrati d’accusa l’avere fornito una collaborazione giudiziaria duratura ed efficace costituisce un affidabile criterio diagnostico di ravvedimento, nella diversa prospettiva di almeno una parte dei giudici di sorveglianza (e delle vittime di mafia) la rieducazione di un efferato mafioso implicherebbe qualcosa di più: cioè un mutamento profondo e sensibile della personalità, una sorta di ‘pentimento civile inclusivo di momenti di riconciliazione-riparazione anche simboliche nei confronti dei discendenti delle vittime. Ma un concetto così impegnativo di rieducazione, denso di implicazioni eticheggianti ed emozionali, va ben al di là della nozione più laica finora adottata dalla Consulta: la quale identifica il ravvedimento con l’acquisita capacità, da parte del condannato che interrompe lo stato detentivo, di rispettare le regole della convivenza sociale.

È auspicabile che la Corte Costituzionale, in occasione della prossima pronuncia sul caso dell’ergastolano mafioso non collaborante Sebastiano Cannizzaro, precisi ulteriormente cosa debba intendersi per rieducazione, e non si limiti a prendere in esame il nodo dei rapporti tra rieducazione e collaborazione.

Giovanni Fiandaca – Professore Ordinario di Diritto Penale Università di Palermo

Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2019

Presidente lei mi ha dato l’ergastolo perché lo dice la legge ma son sicuro che il suo cuore era contrario


braccio cellaIl giudice Fassone e un suo ergastolano si sono scritti per 26 anni. Esperienza condensata in un libro. “Presidente, io di libri non ne ho letti mai, ho letto solo atti processuali, ma questo mi sforzerò di leggerlo e anche di capirlo” (…) Verso la fine della lettera mi tramortisce: “Presidente, io lo so che lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge, ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare”.
Tramortisce anche noi questa riflessione che il giovane ergastolano Salvatore affida alla lettera con cui risponde a quella inviatagli dal giudice che lo ha condannato. Letta la sentenza che pone fine a venti mesi di maxi processo alla mafia catanese, il presidente della Corte d’Assise Elvio Fassone torna a casa, ma la notte lo sorprende inquieto, popolando il sonno di immagini e frasi spezzate: “Uno di questi fotogrammi rifiuta di spegnersi, quello di Salvatore che mi dice: “Se io nascevo dove è nato suo figlio, ora…”.
Nell’atmosfera un po’ drogata di questo sonno malato formulo un pensiero: “domani gli scrivo”. Un’irrequietezza che non si attenua se non quando il giudice, il mattino successivo, si mette al computer e incomincia con l’attacco di prammatica “Caro Salvatore”.
Tra quelli della sua biblioteca, inoltre, cerca un libro con cui accompagnare il messaggio, e sceglie Siddharta perché alla mente gli ritorna un suo passo: “Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore”. È da questo scambio epistolare che nasce Fine pena: ora (Sellerio, 2015) il libro di Elvio Fassone (Torino, 1938), che è stato magistrato e componente del Consiglio superiore della magistratura.
Senatore per due legislature, è autore di numerose pubblicazioni in materia penitenziaria e su temi politico-istituzionali (Piccola grammatica della grande crisi, 2009; Una costituzione amica, 2012). Nel 1985 a Torino si celebra un maxi processo alla mafia catanese che dura quasi due anni. Tra i condannati all’ergastolo c’è Salvatore con il quale il presidente della Corte d’Assise stabilisce un rapporto di reciproco rispetto, che poi si approfondisce attraverso una corrispondenza durata 26 anni, e che continua tuttora.
Il 14 dicembre alle 20.30 al Museo diocesano tridentino una lettura scenica di “Fine pena: ora” porterà il pubblico tra le pieghe di una storia che si interroga su come conciliare la domanda di sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di qualsiasi condannato. Insieme a Fassone interverrà Enrico Franco, direttore del Corriere del Trentino, Corriere dell’Alto Adige, Corriere di Bologna, mentre la lettura scenica sarà a cura di Maura Pettorruso e Stefano Pietro Detassis. L’iniziativa si colloca nell’ambito della mostra Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere, in corso al Diocesano fino al 27 marzo.

Presidente, il “Fine pena: ora” evocato dal titolo del libro capovolge il punto di vista del “fine pena: mai” scolpito nella scheda personale di Salvatore. Perché, dopo tanti anni, ha deciso di scrivere questa storia?

“Quando ho appreso del tentato suicidio di Salvatore mi sono chiesto se e come io potessi fare qualche cosa per lui, e raccontare la sua storia, illuminante e coinvolgente, mi è parsa la sola via. In un primo tempo Salvatore si è mostrato abbastanza restio ad acconsentire, però gli ho fatto presente che doveva fare i conti con una situazione giuridica pesante: era diventato un “ostativo”, non in relazione ai fatti per cui ebbe la condanna dalla nostra Corte di Assise, che erano anteriori alla legge del 1992″.

Che cosa dispone questa legge, conseguente gli assassinii di Falcone e Borsellino?

“Lo Stato, a quel punto, ritenne indispensabile dare un giro di vite alla disciplina e prescrisse che coloro che venissero condannati per reato di associazione mafiosa non fossero più ammissibili a tutti i benefici penitenziari, a meno che non diventassero dei collaboratori di giustizia. Pochissimi accettarono questa via, perché anche i detenuti hanno un codice di onore: “Io non posso barattare la mia libertà con la galera di un altro”, questo il senso che lo sorregge, e che magari non approviamo”.

Nel libro lei parla di una sorta di gioco di specchi in cui lo sforzo di prevenire genera costrizione e rabbia, la rabbia altra prevenzione, in una spirale che si autoalimenta.

“Il male ha la diabolica capacità di perpetuarsi, producendone dell’altro, e ciò accade anche a livello istituzionale. La sanzione penale non è un’iniquità in sé, certi fatti chiedono una risposta della comunità. Il singolo può essere sollecitato a perdonare secondo il suo livello di moralità, la comunità non credo possa essere richiesta subito di perdonare, nel rispetto del binomio “c’è un tempo del fatto e poi un tempo dell’uomo” che espia e detta la flessibilità, il perdono collettivo e anche istituzionale”.

Un movimento di opinione crescente chiede di ripensare non tanto l’ergastolo in sé ma quello ostativo. Qual è il suo pensiero in proposito?

“È bene alimentare questo movimento di opinione riflessiva che si contrappone al movimento di autodifesa esasperata. Non possiamo dimenticare che avvengono fatti di tale gravita e atrocità che sommuovono il pensiero di uomini e donne comuni, e producono un atteggiamento sintetizzato nell’espressione “bisogna rinchiuderli e buttare via la chiave”. Per fortuna, di fronte a questo movimento di reazione scomposta, si sta incrementando quello che chiede alla pena di essere giusta, per evitare che lo Stato, che è giusto nel momento in cui sanziona, diventi ingiusto”.

Gabriella Brugnara

Corriere della Sera, 8 dicembre 2016

Le Carceri italiane costano quasi 2,6 miliardi di euro, record di spesa nell’Unione Europea


Casa CircondarialeQuasi 2,6 mld di euro. Sono questi i soldi che ogni anno la collettività spende per i detenuti nelle carceri italiane. Un totale che deriva dal costo medio giornaliero di ognuno degli oltre 50mila detenuti nei penitenziari nazionali, secondo i dati del 2016. È quanto emerge elaborando i numeri resi noti da Openpolis nel minidossier “Dentro o fuori – Il sistema penitenziario italiano tra vita in carcere e reinserimento sociale”.

Un costo che potrebbe vedere una netta diminuzione in caso si arrivasse a provvedimenti di indulto o amnistia, come quelli nei cassetti della Commissione Giustizia del Senato, dove sono quattro i disegni di legge all’esame.
Per gli “ospiti” dei penitenziari italiani si spendono poco più di 140 euro al giorno (141,80 nel 2014): di questi, meno di 10 euro servono per mantenere i detenuti, mentre oltre 100 euro servono a coprire le spese per il personale. Le spese per beni e servizi comprendono le utenze, la manutenzione ordinaria degli immobili, la formazione del personale, i rimborsi per le trasferte, l’uso dei mezzi di trasporto.

Un costo che, dopo essere salito fino a 190 euro nel 2007, risulta compresso di molto tra 2009 e 2011, sia per i tagli al bilancio sia per l’aumento dei carcerati e nel 2013 si attestava attorno ai 124 euro. Dai dati del 2014, l’Italia risulta il paese dove il costo giornaliero per detenuto è più alto (141,80 euro). Tra i paesi europei, seguono il sistema penitenziario inglese (109,72 euro), quello francese (100,47 euro) e quello spagnolo (52,59 euro per carcerato al giorno).
In Italia, inoltre, c’è il maggior numero di dipendenti dell’amministrazione penitenziaria in rapporto ai detenuti (40.176). Per ogni dipendente dell’amministrazione penitenziaria ci sono 1,4 detenuti, mentre sono 1,5 i carcerati per ogni agente di custodia. Altra caratteristica del sistema penitenziario italiano è che i suoi dipendenti sono in massima parte agenti di custodia (90,1%). In Inghilterra e Spagna il personale ha una formazione più eterogenea, con maggiore presenza di insegnanti, formatori professionali, mediatori culturali, psicologi.

Dopo anni di immobilismo, la politica è intervenuta sulle carceri, evitando gli effetti di condanne internazionali. La situazione è migliorata, ma molto resta ancora da fare. Uno sguardo al sistema penitenziario italiano, dentro e fuori gli istituti, nel nuovo minidossier openpolis.

Le riforme degli ultimi anni. L’obiettivo dei provvedimenti che si sono succeduti dal 2010, sotto governi di diverso colore politico, è sempre stato quello di contenere il sovraffollamento, attraverso una duplice strategia: 1) la costruzione di nuove carceri e l’allargamento di quelle esistenti; 2) l’ampliamento delle misure alternative al carcere. Il primo obiettivo è largamente fallito: appena l’11% del budget previsto dal piano carceri è stato speso, e solo il 37% dei posti aggiuntivi è stato realizzato nei tempi previsti. Gli interventi normativi, invece, hanno prodotto alcuni risultati di rilievo. Le statistiche che ci mettevano agli ultimi posti in Europa per condizioni dei detenuti sono migliorate. Ma restano ancora molti i punti critici da affrontare.

Il sovraffollamento. In passato il sovraffollamento è stato contenuto con provvedimenti di clemenza e altri atti simili, quasi mai risolutivi. Con le riforme degli ultimi anni, è sceso dal 151% del 2010 all’attuale 108%. Nonostante i miglioramenti, però, restiamo il sesto sistema penitenziario più affollato in Europa. E se si guardano i dati dei singoli istituti, 2/3 delle carceri italiane risultano ancora sovraffollate. In alcuni casi i detenuti sono quasi il doppio dei posti letto disponibili.

I suicidi. Pochi dati mettono il luce il disagio delle carceri come quello dei suicidi, un dramma che coinvolge sia i detenuti che gli agenti di custodia. Negli anni di massimo sovraffollamento, tra 2009 e 2011, si sono suicidati quasi 60 detenuti ogni anno, nel 2015 sono scesi a 39. Dal 2009, gli istituti con più suicidi sono stati Poggioreale, Sollicciano e Rebibbia. Il metodo di uccisione più frequente è l’impiccamento, registrato nel 77% dei casi.

Carcerazioni preventive. Agli inizi degli anni ‘90, oltre la metà di coloro che stavano in carcere erano imputati, cioè privi di una condanna definitiva (56%). Oggi questa quota è scesa al 34%; di questi, circa la metà (17%) sono persone in attesa del primo giudizio e non hanno ricevuto alcuna condanna. Sono saliti a 2/3 i detenuti che si trovano in carcere con una condanna definitiva.

Le misure alternative. Il tasso di recidiva, ovvero la quota di detenuti che, una volta liberati, tornano a commettere nuovi reati, mostra un calo significativo se il condannato sconta l’ultima parte della pena con misure alternative al carcere. Queste ultime sono state molto potenziate, ma tra i grandi paesi europei il nostro resta l’ultimo per ricorso alle misure alternative: in Italia sono il 45% dei condannati contro oltre il 70% di Germania e Francia e il 64% in Inghilterra e Galles.

Rieducazione in carcere. La quota di detenuti che lavorano rimane molto bassa, inferiore al 30%, e le mansioni offerte difficilmente daranno la possibilità di un reinserimento una volta usciti dal carcere. La partecipazione ai corsi professionali si è dimezzata rispetto ai primi anni ‘90: era all’8% mentre oggi è al 4%. In compenso è aumentato il numero di promossi tra i partecipanti, dal 36% del 1992 a oltre l’80% attuale.

I costi del sistema. Il nostro sistema penitenziario ha un costo giornaliero per detenuto superiore a quello degli altri stati: 141,80 euro contro 100,47 della Francia, 109,72 di Inghilterra e Galles e 52,59 della Spagna. Nel 2013, solo il 7,5% del budget dell’amministrazione penitenziaria è servito al mantenimento dei detenuti, mentre l’82% ha coperto le spese per il personale. In Italia ci sono 1,4 detenuti per ogni dipendente, mentre negli altri paesi considerati il rapporto è di 2,6 a 1. Oltre il 90% del personale nelle carceri italiane è un agente di custodia.

Dentro o Fuori – Dossier di Openpolis sulle Carceri italiane