Prof. Galliani (UniMilano): Non si può essere contrari alla pena di morte e favorevoli all’ergastolo ostativo


L’ergastolo ostativo è equivalente al traino dei battelli controcorrente imposto nel 1778 dall’imperatore austriaco in seguito all’abolizione della pena di morte. Ecco perché. L’imperatore austriaco, nel 1778, abolisce la pena di morte. Per tenere alta la deterrenza, introduce: la detenzione, da trenta a cento anni, con cerchio di ferro al torace, ferri ai piedi, letto di assi, nutrimento a pane e acqua, isolamento; l’incatenazione, con totale impossibilità di movimento, che, una volta all’anno, per pubblico esempio, comprende anche delle bastonate; il traino dei battelli controcorrente sul Danubio.

Questo terzo surrogato della pena capitale era già stato testato. Durante un viaggio, il nostro si accorge della difficoltà di trasportare viveri, merci e armi sul Danubio. La corrente contraria è troppo forte: le navi devono essere trainate da uomini appostati sulla riva, grazie a lunghe corde. Così nasce il traino dei battelli e subito inizia la conta dei morti: informato, il sovrano incolpa le febbri palustri.

Dei 1.173 uomini al traino dei battelli dal 1784 al 1789, nel 1790 ne sopravvivono 452. Per cinque anni, ogni anno muoiono un numero doppio di uomini di quanti erano stati giustiziati negli anni precedenti. Il 17 luglio 1790, un decreto di Pietro Leopoldo, succeduto al fratello, abolisce il traino dei battelli.

Sono passati più di due secoli. Come dirci contrari alla pena di morte e favorevoli al moderno traino dei battelli, l’ergastolo ostativo? Proviamo a spiegare questa pena con un esempio, che non contiene tutti i casi, ma buona parte.

Famiglia e contesto disagiati. Assenza completa dello Stato. Smetti di cercare te stesso. Pensi che realizzarsi non dipenda anche da te, ma solo da altri, che ti cercano e non respingi. Spari e poi ancora spari. Uccidi, quasi senza farci caso. Vuoi essere riconosciuto. Falsi valori, ipocrisia, niente conta: sei finalmente uno di loro. Anche se hai solo venti anni, hai già perso amici, parenti e di lì a poco perderai anche la tua libertà, quella fisica. Inevitabile e giusta, inizia finalmente la detenzione. Capisci però che il carcere a qualcosa serve: hai un attimo per stare con te stesso, finalmente un attimo di libertà, anche se dietro le sbarre.

Lo Stato, prima assente, ora è presente. Non si preoccupa di te. Vuole che tu collabori con la giustizia. Se ti va bene, se i fatti sono tutti accertati, la collaborazione sarà impossibile. Non di meno, è una rarità: tu eri dentro un sistema, la mafia, dove di solito non si uccide per impulso, ma quasi sempre per utilità. Non usa la vendetta, di norma. Usa il calcolo, del quale tu nulla o quasi sapevi: quelli erano la pistola e l’obbiettivo, hai sparato, magari insieme a qualcuno di altro, perché così ti è stato detto di fare da tizio, incaricato da caio, con il via libera di sempronio.

In poche parole, non hai scampo. Certo che puoi fare qualche nome, ma sei sovrastato dalle paure. La fiducia, lo Stato, se la deve meritare e i collaboratori morti ammazzati non sono una rarità. Ci vuole una bella fiducia per fidarsi di questo Stato, che non riesce ad essere più forte della mafia. Non solo. Non vuoi far arrestare tuo fratello o una persona che è uscita dal giro, scontata la pena. Che fare: baratto la sua detenzione con la mia possibilità di libertà?

Qui inizia la storia, anzi finisce. Questo è l’ergastolo ostativo. I motivi che ti hanno spinto a non collaborare non cambiano nel tempo. Ma qualcosa succede. Eri quasi analfabeta, ora leggi romanzi, hai preso un diploma, poi una laurea. Ti sei impegnato in carcere e ora magari sai coltivare un orto. Hai iniziato a riscoprire te stesso: ti sei allontanato dall’uomo del reato. Inizi a capire chi sei. Solo così, riconoscendo te stesso, riconosci gli altri, quindi anche la società. Arriva poi la duplice svolta.

Ripercorri la tua vita, ti ricredi, fai di tutto perché altri non commettano i tuoi stessi errori. La mafia “fa schifo”: lo dici una, due, tre, tante volte. Ovvio che quando parli sei sempre sulla linea di confine tra l’ammettere gli errori, nel senso di ripercorrere ricredendoti la tua esistenza, e il giustificarli. Ma lo dici: non ti stai giustificando, stai solo raccontando la tua storia, sbagliata, ma sempre la tua storia, per quella che è: anche questo è legalità. La seconda svolta. Chiedi scusa, al quartiere dove sei nato, alla comunità e alle persone che hai ferito, ai parenti delle persone che hai ucciso. A volte dici: “se però fossi nato altrove”. Anche questo sembra giustificazione, ma è rivedere criticamente la propria esistenza.

L’uomo del reato, oggi, è cambiato. Ti senti pronto per andare di fronte ad un giudice: il percorso fatto è positivo, oppure manca qualcosa? Tutto qui. Quello che vorresti sarebbe questa possibilità. Senza mai nessuno che ti possa giudicare, ti sembrerebbe di morire, giorno dopo giorno, lentamente. Preferisci la pena di morte. Non sopporti che la tua pericolosità sia desunta e presunta, automatica, per via di quello che hai fatto quando eri ragazzino. Tanto vale farla finita subito: giustiziatemi.

La collaborazione con la giustizia è importante, ma non può essere l’unica cosa da considerare. E se il giudice si convincesse, non ci sarebbe alcun automatismo. Leggerà le relazioni del carcere, le informative della polizia, i pareri della procura antimafia. Se qualcosa non torna, prevale la pericolosità rispetto alla rieducazione. Come il nostro protagonista, ce ne sono circa 1.200, gli ergastolani ostativi italiani. Non possiamo attendere che uno ad uno escano dal carcere nell’unico modo oggi possibile, da morti, come quelli che trainavano i battelli sul Danubio.

Davide GallianiProfessore di Diritto Pubblico Università degli Studi di Milano

Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019

Adriano Sofri: L’ergastolo ostativo in Italia è uno scempio ! Una pena di morte centellinata


Adriano-SofriLe armi, Trump, e quel sondaggio sulla pena di morte in America. Un accreditato sondaggio annuale, di cui ho letto sul New York Times, avverte che per la prima volta nella storia la maggioranza dei cittadini degli Stati Uniti si dichiara contraria alla pena di morte. La trovo una formidabile notizia, sostanzialmente e simbolicamente. Verrà il giorno in cui si conoscerà il nome dell’ultimo giustiziato, e forse non è lontano. Nel 1994, poco più di vent’anni fa, era l’80 per cento degli americani a dichiararsi in favore della pena capitale.

Le tendenza opposta non ha fatto che crescere poi, per una serie di cause: lo spaventoso numero di assassinati legali dimostrati poi innocenti, le peripezie dei metodi dell’omicidio legale, i costi finanziari eccetera, ma soprattutto il turbamento crescente per la contraddizione fra quella pratica e una società che si vuole civile. Questo complicato intreccio di cause era riassunto dall’Economist a gennaio (ne trovate un resoconto sul Post.it): è interessante che a quella data si valutasse che i favorevoli alla pena di morte fossero ancora il 60 per cento. Ci sono due ragioni peculiari per congratularsi della notizia sul sondaggio: che viene in un periodo in cui particolarmente calda è la discussione sul “libero” spaccio di armi, e nel periodo in cui tiene metà della scena un personaggio come Trump. La speranza sul progressivo rigetto della schifezza della pena di morte è amareggiata da un suo complemento americano ma non solo americano. Là le voci contrarie alla pena capitale ricorrono spesso all’argomento del carcere inesorabilmente a vita, una pena di morte centellinata.

Non solo americano, perché come si sa, se solo lo si voglia sapere, l’Italia ha introdotto una mostruosa dizione giuridica, l’ergastolo cosiddetto “ostativo”, che cioè non può mai avere fine per quanto tempo trascorra e quali che siano i cambiamenti attraversati dal condannato, salvo che questi “collabori”, cioè denunci altre persone. Condizione ulteriormente mostruosa e caricatura del pentimento beninteso.
L’ergastolo “ostativo” è una micidiale violenza fatta al dettato e allo spirito della Costituzione. Oggi lo denunciano prima di tutto con voci intelligenti e sconvolgenti molti di quegli ergastolani che hanno saputo riscattarsi in carcere e nonostante il carcere, e con loro “i soliti radicali” (anch’io) e un numero crescente di persone che hanno professionalmente a che fare con la giustizia, la galera e i detenuti: giuristi, magistrati, avvocati, dirigenti e personale di carceri. Il Papa, anche, che al suo Stato ha provveduto in fretta. Oggi succede anche che all’ergastolo “ostativo” siano contrari anche i maggiori responsabili dell’amministrazione penitenziaria e del ministero della Giustizia. Bel paradosso, cui contrasta l’estensione progressiva e quasi per inerzia dell’ergastolo “ostativo” a categorie di condannati diverse da quelle che pretesero di giustificarne l’introduzione. Americani e italiani, ancora uno sforzo.

Adriano Sofri

Il Foglio, 5 ottobre 2016

Padova, Natale in carcere, alla ricerca di un po’ di speranza. Lettere degli Ergastolani ostativi


Casa Circondariale di PadovaIl Papa ha deciso che i detenuti passeranno la Porta santa del Giubileo ogni volta che varcheranno la soglia della loro cella, a Padova poi anche la cappella del carcere Due Palazzi è Porta santa. Ma troppe persone in carcere vivono ancora SENZA SPERANZA. Sono i condannati all’ergastolo, una pena che Papa Francesco ha definito “pena di morte nascosta”, e in particolare all’ergastolo ostativo, l’ergastolo cioè che non concede vie d’uscita a meno che la persona condannata non collabori con la Giustizia, ma in tanti non lo vogliono fare per non rovinare la vita dei propri cari.

Assieme alle testimonianze di ergastolani, per aprire uno spiraglio di speranza riportiamo anche le parole di Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dai terroristi nel 1978: “Ogni essere umano è, in quanto tale, titolare di dignità e di diritti; anche se in uno o più momenti della vita ha scelto il male, se è profugo, povero, violento, barbone, straniero, disabile, tossicodipendente, malato, giovane e ribelle. La nostra Repubblica nasce dal rifiuto di ogni totalitarismo per il quale – di destra o di sinistra che sia – le persone non sono niente. Per noi, invece, sono tutto. Ad ognuno di noi, noi che siamo la Repubblica, la responsabilità di non lasciare indietro nessuno”.

Il Mattino di Padova, 29 dicembre 2015

Il mio orologio ha un orario fisso, l’orario dell’ergastolo ostativo

Questa mattina mi sono alzato alle 5, fuori era ancora buio e mi sono messo a pensare alla mia vita passata, a quanto tempo ho trascorso in questi posti e quanto ancora ci dovrò restare. Sono passati tanti anni da quel lontano 1994 e per fortuna gioisco ancora quando, quelle rare volte, il sole riesce a spaccare le giornate gelide dell’inverno di Padova. Vorrei essere anch’io forte come il sole e risorgere ogni giorno, ma da 21 anni l’inverno è entrato nel mio cuore e nel cuore dei miei cari senza mai abbandonarci.

Il tempo si è fermato per sempre, il mio orologio ha un orario fisso, l’orario dell’ERGASTOLO OSTATIVO. I primi tempi sognavo che la mia situazione potesse cambiare, cercavo di farmi forza per lottare e facevo di tutto per essere il sostegno morale della mia famiglia, ma purtroppo quell’orologio mi ha dimostrato di essere più forte di ogni mia volontà, di ogni mio sogno e desiderio. Per tanti anni ho allenato il mio fisico nella speranza vana di contrastare i segni dell’invecchiamento sul mio corpo, ma oggi mi rendo conto che il ciclo della vita è inarrestabile, niente e nessuno può fermare lo scorrere degli anni e l’amarezza di vederli scorrere nel peggiore dei modi.

Oggi mi rendo conto che quello che mi salva da tutto questo orrore è l’amore di mia figlia e di mia moglie, che sono state più forti di tutti questi anni di carcere, anche se per resistere a questo lungo calvario stanno pagando un caro prezzo, visto che hanno scelto di starmi vicino seguendomi nelle varie carceri che mi hanno fatto girare su giù e per l’Italia, come un pacco postale e per motivi che non avevano a che fare con i miei comportamenti. A volte mi chiedo se si sono mai rese veramente conto che dovranno seguirmi per tutta la vita poiché io da qui non uscirò vivo, perché il mio ergastolo ostativo non me lo permetterà, perché chi è condannato a questa pena è ritenuto colpevole per sempre, irrecuperabile.

Vorrei solo trovare la forza e la lucidità di dire a mia moglie e a mia figlia che la speranza non ha nulla di concreto a cui aggrapparsi, ma non vorrei che anche loro smettessero di sognare come ho fatto io. Sicuramente il fatto di non essere mai riuscito a spiegare chiaramente che cos’è l’ergastolo ostativo ai miei cari non mi fa stare bene, ma è anche vero che sono sempre stato convinto che l’ergastolo ostativo fosse una condanna fatta per errore e che uno stato democratico come l’Italia, culla del cristianesimo, non potesse fregiarsi di una pena così disumana, visto che ha sempre lottato in prima linea contro le torture e la pena di morte, quindi pensavo che sarebbe stata rivista e con questa ferma convinzione ho sempre temporeggiato. Comunque, non voglio rassegnarmi a questa pena di morte mascherata così come l’ha definita Papa Francesco e continuo a sperare che al più presto venga rivista, così che non mi sentirò di essere stato un bugiardo nei confronti di mia moglie e di mia figlia, dalle quali traggo ancora oggi la forza necessaria per continuare a lottare.

Gaetano Fiandaca

La mia famiglia vive a 1.800 Km. di distanza e fare colloqui diventa un’impresa

Dopo sei anni di regime duro del 41bis sono stato trasferito nella Casa di reclusione di Padova, nella sezione Alta Sicurezza, adesso sono tre anni che mi trovo in questo istituto. La mia famiglia vive a 1.800 Km. di distanza (Gela) e fare colloqui diventa un’impresa, specialmente per questioni economiche. Tutta la mia famiglia, compresi genitori, fratelli e sorelle, sono persone oneste e lavoratori che vivono di stipendio e non sempre hanno un posto fisso di lavoro, quindi ognuno ha i suoi problemi e non possono certo pensare a me. I sacrifici per me li fanno mia moglie e i miei figli.

Ho fatto l’ultimo colloquio nel mese di luglio e spero in Dio che sotto le feste di Natale mia moglie e uno dei miei figli riescano a racimolare la somma necessaria per venirmi a trovare. Purtroppo, ogni volta che faccio colloquio non c’è la possibilità che vengano a trovarmi tutti insieme, mia moglie e i miei tre figli, solo per due persone spendono intorno ai 1.500 euro, tra biglietto dell’aereo e albergo, poiché sono obbligati ad arrivare la sera prima del giorno di colloquio. E così, due volte l’anno, al massimo tre, riesco a fare un colloquio di sei ore… ma cosa sono sei ore in confronto a sei mesi che non vedi la tua famiglia? Quelle sei ore passano come se fossero sei minuti. Non vedo la figlia più piccola da oltre un anno. Nessuno può capire il cuore di un padre come si può sentire, solo chi ha i miei stessi problemi mi può capire. Aumentare le ore di colloquio non ucciderebbe nessuno. Io sono stato privato della libertà perché ho commesso un reato, ma la mia famiglia di che colpa si è macchiata? Mia moglie e i miei figli alla fine del colloquio la prima cosa che dicono è: “Sono già passate sei ore?” e vanno via nascondendo le lacrime dietro un sorriso e chiedendosi quando ci rivedremo di nuovo. E che dire delle telefonate? Una a settimana e per la durata di dieci minuti da dividere con mia moglie e i miei tre figli, il tempo di salutarci e domandarci come stai e subito dall’altro lato del telefono ti dicono che la telefonata sta per terminare. Durante questa mia detenzione, ho incontrato una persona che negli anni passati era stata detenuta in Spagna e mi diceva che lì se avevi i soldi ti caricavi la scheda telefonica e potevi chiamare la famiglia ogni volta che volevi nei giorni della settimana e per la durata che volevi. Perché non poterlo fare anche qui in Italia?

Domenico Vullo

Non c’è pena di morte o ergastolo ostativo che possa frenare chi è pieno di odio.

La notizia delle stragi di Parigi mi ha portato a riflettere perché anche io sono padre e nonno. È indiscutibile che i conflitti alimenteranno odio e vendette. Una volta quei paesi geograficamente distanti da noi tenevano per sé anche le loro cose negative, e i conflitti restavano lontani da noi, invece oggi il mondo ha accorciato le distanze, e siamo diventati una miscela esplosiva. Io che sono da ventitré anni in carcere mi accorgo di questa miscela vedendo come è cambiata la popolazione detenuta dai primi anni del mio arresto, oggi in ogni sezione troverai detenuti di etnie diverse. E lo stesso è nelle grandi città del nostro paese e molti di questi stranieri, in particolare i giovani, si sentono ghettizzati, come lo sono i nostri nipoti. Io quando faccio colloquio e vedo il mio nipotino di sette anni fissare gli agenti e nei suoi occhi leggo l’odio, finisco per rimproverare mia figlia, che però mi dice “Papà, mai nessuno di noi si è permesso di parlare male delle istituzioni, ma nella sua scuola la maggior parte dei bambini ha un parente in carcere e sicuramente parleranno di queste cose”. La mia grande paura è che si stia spingendo le nuove generazioni verso l’estremismo e in particolare nella braccia di organizzazioni come ISIS, non c’è pena di morte o ergastolo ostativo che possa frenare chi è pieno di odio. Lo Stato si deve preoccupare di quella generazione dell’età di mio nipotino, di quei bambini che fin da piccoli vengono additati come i figli o nipoti del criminale. Lo Stato vincerà la sua battaglia quando toglierà dallo sguardo di quei bambini l’odio verso le istituzioni. Penso che qualcuno debba riflettere pensando a tutti quei bambini che crescono vedendo il proprio genitore dietro un vetro blindato e che non hanno nessuna speranza di poterlo abbracciare in libertà, anche dopo che ha scontato trent’anni di detenzione, perché condannato all’ergastolo ostativo. Togliere l’odio da quegli occhi innocenti significa costruire un futuro sereno, un primo passo è che lo Stato faccia vedere un volto umano e non implacabile e punitivo.

Tommaso Romeo

La proposta: “Benefici anche per gli ergastolani che non collaborano”


cella detenuti 1«Anche i detenuti ergastolani ostativi che non collaborano con la giustizia hanno diritto ai benefici e alle misure alternative alla detenzione». È destinata a far discutere la proposta di legge firmata dalla deputata del Pd e membro della Commissione antimafia Enza Bruno Bossio, che in poco più di dieci giorni ha ricevuto l’adesione di 23 parlamentari tra Partito democratico, Partito socialista e Sinistra ecologia e libertà.

L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, introdotto all’inizio degli anni Novanta dopo le stragi di mafia, stabilisce che i condannati per alcuni reati gravi definiti “ostativi” non possano accedere alle misure di rieducazione e reinserimento nella società in caso di mancata collaborazione con la giustizia. «Divieto che, nel caso dei condannati all’ergastolo, si traduce in una “pena di morte occulta”come l’ha definita di recente Papa Francesco», dice Emilio Quintieri, esponente dei Radicali e collaboratore di Enza Bruno Bossio.

A fine 2014 i condannati all’ergastolo in Italia erano 1.584, di cui 86 stranieri, molti dei quali reclusi da oltre 26 anni, altri da più di 30. Tra di loro, i cosiddetti “ostativi”, molti dei quali coinvolti in reati legati all’associazione mafiosa, sono circa un migliaio. «Secondo l’ordinamento penitenziario se l’ergastolano ostativo non collabora, non avrà più accesso ai permessi premio né tantomeno alla detenzione domiciliare, affidamento in prova o libertà condizionale di cui godono invece gli altri ergastolani dopo 26 anni», spiega Quintieri. Se sei condannato per un reato grave che “osta” all’accesso di alcuni benefici, puoi accedere ai benefici, ai percorsi di rieducazione e alle misure alternative al carcere solo se collabori e fai i nomi dei tuoi complici.

Nel 2008 ben 700 ergastolani ostativi chiesero al presidente della Repubblica la sostituzione della loro pena con la pena di morte. Carmelo Musumeci, ergastolano del carcere di Spoleto, la chiama “pena di morte viva”. Oltre ai boss di mafia come Totò Riina e Bernardo Provenzano, tra gli ergastolani c’è chi è in carcere dal 1979, finito dietro le sbarre all’età di 18 anni. «Va detto», ricorda Quintieri, «che molti degli ergastolani ostativi non sono dentro per omicidio. A Catanzaro, ad esempio, Giovanni Farina è recluso da 35 anni per due sequestri di persona, ma non ha mai ucciso nessuno. In molti casi tra l’altro l’associazione mafiosa è presunta, non certa. Molti ergastolani per crimini efferati riescono invece ad accedere ai benefici perché non hanno il 4 bis, anche se sono molto peggio».

La domanda che viene da porsi: perché non collaborare con la giustizia? «Molti rifiutano di collaborare», risponde Quintieri, «perché, come mi ha detto un detenuto, “sarei il mandante dell’omicidio dei miei figli e dei miei familiari”. Il problema è che il diritto al silenzio riconosciuto in fase di procedimento non viene però concesso dopo».

La proposta di legge prevede di modificare l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario allargando i benefici anche in caso di mancata collaborazione purché ci siano i requisiti per accedere ai benefici e “siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”, oltre che l’assenza della pericolosità sociale. «È assolutamente necessario che dopo un lungo periodo di detenzione debbano prevalere le esigenze umanitarie ponendo un limite temporale assoluto alla pena dell’ergastolo che, in caso di reato ostativo ai sensi dell’articolo 4-bis della legge n.354 del 1975, la rende ineluttabilmente perpetua», ha detto Enza Bruno Bossio in aula.

L’8 maggio la proposta di legge è stata assegnata in sede referente alla Commissione Giustizia, dove si sta discutendo il disegno di legge anticorruzione, che contiene anche misure sul sistema penitenziario in linea con quanto chiesto dalla Corte Costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che più volte ha condannato l’Italia. Il testo è approdato anche in Commissione affari costituzionali e affari sociali per un parere.

Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, durante un convegno a Roma, si è dichiarato favorevole. Ma tutto andrà calibrato, soprattutto davanti a una opinione pubblica solitamente giustizialista. «Non può e non deve essere smantellato l’articolo 4 bis dell’ordinamento giudiziario», ha precisato Orlando. «La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella decisione del 25 novembre 2014 sul caso Vasilescu contro il Belgio, ha affermato che, quando manca una prospettiva di liberazione anticipata per l’ergastolano, il trattamento è inumano e viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Se è vero che attualmente l’ordinamento contempla dei correttivi che permettono anche ai condannati all’ergastolo, a determinate condizioni, di poter uscire dal carcere e rientrare nella collettività – quali la semilibertà o la liberazione condizionale – sono moltissimi i casi di detenuti in espiazione della pena dell’ergastolo per reati ostativi; è indispensabile sul punto una adeguata riflessione, che assicuri il raccordo di tutte le istanze complessivamente coinvolte».

Lidia Baratta

http://www.linkiesta.it – 15 Maggio 2015

Giustizia: perché Papa Bergoglio è (anche) contro l’ergastolo


Papa FrancescoNulla è più scomodo e rivoluzionario della verità. Lo sapeva bene Erasmo da Rotterdam, il quale notava come i Principi del suo tempo preferissero la compagnia degli adulatori e dei buffoni a quella dei filosofi, appunto perché soltanto questi avevano il coraggio di dir loro la verità. Oggi, Papa Francesco è fra i pochi che ha questo coraggio, anche a costo di apparire contro corrente, contro lo spirito del tempo.

Ne ha dato ultima prova, ieri l’altro, scrivendo alla commissione internazionale contro la pena di morte, di essere contrario non solo alla pena capitale, ma anche all’ergastolo e ad ogni pena che sia talmente lunga, come l’ergastolo, da divenire una pena di morte occulta. Qui il Papa non si limita a ribadire la condanna per la pena di morte, ma ne aggiunge una ulteriore a carico di una pena che sia eccessivamente lunga: e dunque non solo l’ergastolo, cioè il carcere a vita, ma anche una pena troppo protratta nel tempo in relazione alle condizioni concrete del soggetto di cui di volta in volta si tratti.

Dietro questa inequivoca presa di posizione del Pontefice, che si pone del resto sulla medesima linea di insegnamento dei suoi predecessori, c’è un intero universo di significati sull’uomo e sulla società che chiede di essere preso in seria considerazione. Innanzitutto, si trova la riaffermazione del primato assoluto dell’essere umano sullo Stato o su qualsiasi altra organizzazione sociale. Prima viene l’uomo concreto, il singolo, sulla irripetibilità del quale tanto insisteva Kierkegaard: dopo, soltanto dopo viene il resto. Ne viene il rifiuto dell’onnipotenza, dell’onniscienza, dell’onnipresenza dello Stato: ed invece l’accoglienza delle ragioni profonde dello Stato di diritto, il quale, se è davvero tale, non può che ripudiare la pena di morte e i suoi occulti equipollenti.

Altro aspetto di non secondaria importanza è la relativizzazione di ogni possibile giudizio sull’uomo e sui suoi comportamenti. Nessun giudizio umano, fosse anche il più perfetto e sagace, potrà mai davvero comprendere ed esaurire in modo completo e definitivo la verità di un essere umano: ciascuno di noi infatti è molto di più e di diverso rispetto ad ogni singolo atto che compie lungo la strada della vita.

Nessun atto, considerato nella sua puntualità temporale, è in grado di contenere ed esprimere la totalità della personalità del suo autore: nessuno di noi può cioè essere ricondotto in modo assoluto e sena residui al suo singolo comportamento. Ecco dunque, fra l’altro, una profonda ragione per ripudiare quelle pene: perché esse, non cogliendo la complessa infinità della persona umana, ne assolutizzano un singolo atto a partire dal quale pretendono di cogliere il tutto e di giudicarlo.

Mai fu commesso errore più grande, mai pene furono più antiumane e perciò da escludere categoricamente dal novero di quelle irrogabili dallo Stato di diritto, che veda al centro la persona umana. Questo ripudio espresso con forza dal Papa non riguarda soltanto la pena di morte, ma anche l’ergastolo: e fin qui, come dire, ci sta. Molti ed articolati sono infatti oggi i movimenti favorevoli all’abolizione dell’ergastolo. Ma il Papa si spinge oltre, fino a stigmatizzare ogni pena che, per eccessiva lunghezza, di fatto si trasformi in una pena di morte occulta e tuttavia di fatto inflitta al condannato.

Fino ad oggi non mi risulta che ciò sia stato proclamato con altrettanta chiarezza e forza. Il Papa ci vuol dire che condannare, per esempio a trent’anni di reclusione, un sessantenne, spesso equivale di fatto a decretarne la morte in stato di detenzione. Insomma, la durata della pena , se rettamente considerata secondo giustizia, andrebbe calibrata non solo – come si fa da sempre – sulla gravità del reato commesso, ma anche tenendo conto della situazione reale di vita del condannato, della sua età, della sua condizione.

Tenere presenti questi dati non significa cedere al crimine, ma soltanto cercare di mantenere la pena nel solco della giustizia, senza farla deviare verso le pericolose sponde dell’iniquità. Insomma, nessuna pena detentiva è legittimata a spegnere definitivamente e fin da principio la speranza di una vita umana, per quanto il reo possa apparire crudele e colpevole di efferati delitti. Perché, se anche questo spietato delinquente, che all’opinione pubblica più ottusa appare meritevole di morte, avesse dimenticato – in forza della sua efferatezza – di essere un uomo, nessuno di noi ha il diritto di fare altrettanto: nessuno di noi ha il diritto di dimenticare che dietro ogni condannato, anche per truci delitti, si cela il volto di un essere umano. Cioè di uno di noi.

Vincenzo Vitale

Il Garantista, 24 marzo 2015

Contro l’ergastolo, le parole di Papa Francesco. Molti Giudici sapranno ascoltarle ?


Papa FrancescoLo spettacolare discorso del Pontefice sui temi della giustizia penale ha il destino segnato. All’inizio echi sui media e plauso generale; poi i primi distinguo e i persistenti silenzi; infine la sua riduzione a profetica testimonianza.

È un dejà vu. Inviato un anno fa, il messaggio del Quirinale sulla condizione carceraria non è stato mai discusso in Senato. La Camera invece, asserendo incredibilmente che non lo si potesse dibattere in Aula, preferì discuterne i contenuti di sponda, dopo cinque mesi e due rinvii, in un emiciclo semivuoto.

Destino comune perché comune è il denominatore dei due documenti: lucidità di diagnosi, rigore nella prognosi, chiarezza nell’indicare i rimedi. Inevitabile, per la politica, la tentazione del fuggi fuggi generale.

Eppure, per la posta in gioco, l’intensa riflessione del Papa chiama all’assunzione di responsabilità tutti: chi plasma il diritto penale (il legislatore), chi gli dà forma di diritto vivente (i giudici e la dottrina giuridica), chi ne controlla la legittimità (la Consulta), chi è chiamato a informare senza cedere alle semplificazioni del populismo penale (i media). Vedremo chi sarà all’altezza della sfida.

Esserne all’altezza significa assumerla integralmente. Soprattutto nel punto di massima contraddizione: il ripudio della pena capitale e dell’ergastolo. In Italia, infatti, non c’è più la pena di morte, mentre sopravvive la pena fino alla morte.

Ha ragione Francesco: “L’ergastolo è una pena di morte nascosta”. Quanti sanno, infatti, che in Italia esistono non uno ma più ergastoli (comune, con isolamento diurno, ostativo)? Quanti sanno che, oggi, gli ergastolani sono 1.576? Molti reclusi da oltre 26 anni, senza liberazione condizionale; altri da più di 30 anni, durata massima per le pene detentive. Quanto a quelli ostativi (1.162, la stragrande maggioranza), sono ergastolani senza scampo: per essi le porte del carcere non si apriranno mai.

Dobbiamo forse attenderne la morte, per riconoscere che tutte queste persone scontano una pena senza fine? Nel frattempo, su di loro ci si accanisce. Leggi recenti negano agli ergastolani il beneficio della liberazione anticipata speciale, la durata massima dell’internamento in ospedale psichiatrico giudiziario, finanche il rimedio risarcitorio per detenzione inumana. Come se la loro colpa fosse uno stigma irredimibile, quando invece per Costituzione tutte le pene “devono tendere” alla risocializzazione del reo.

La pena di morte, “in tutte le sue forme” viene collegata dal Papa “con l’ergastolo”, entrambe abolite in Vaticano nel 2013. Altrettanta coerenza è pretesa dalla Costituzione. Il suo art. 27, 4° comma, rifiuta sanzioni irrimediabili: la pena di morte è vietata perché condannare un innocente è sempre possibile. L’ergastolo, al contrario, è un atto di fede cieca verso un’infallibilità giudiziaria che la Costituzione esclude.

La fallacia normativistica di un ordinamento a prova di errore si spinge, con l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, al paradosso kafkiano: se condannati all’ergastolo ostativo, auguratevi di essere davvero colpevoli, perché solo il colpevole può utilmente collaborare con la giustizia (guadagnando così una possibile libertà). Ma se malauguratamente foste innocenti, peggio per voi: dovrete rassegnarvi a morire murati vivi.

Quarant’anni fa la Consulta liquidò il problema della costituzionalità dell’ergastolo con una motivazione più breve di questo articolo. Da allora mai più un tribunale ha risollevato la questione. Molti giudici, commossi e ammirati, avranno letto le parole del Papa contro il “fine pena mai”. Sapranno anche ascoltarle?

Andrea Pugiotto

Il Manifesto, 29 ottobre 2014

La vicinanza della pena al delitto ? Per Beccaria un caposaldo, per noi pura utopia


giustizia-500x375Non c’è solo il rifiuto della pena di morte e l’avversione alla tortura, nel celebre dei Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. C’è anche la precisa definizione di quello che deve essere la pena, la sanzione, che deve possedere alcuni requisiti: a) la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al delitto; b) l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta sanzionatoria da parte delle autorità; c) la proporzionalità con il reato (difficile da realizzare ma auspicabile); d) la pubblica esemplarità: destinataria della sanzione è la collettività, che constata la non convenienza all’infrazione.

In breve: il fine della sanzione non è quello di affliggere, piuttosto di impedire al reo di compiere altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri. A 250 anni esatti dalla prima pubblicazione, a Livorno, dei Delitti e delle pene, non si può proprio dire che si sia fatto tesoro di quegli “ammonimenti”. Un primo esempio ci viene dal racconto di un magistrato da sempre schierato e impegnato sul fronte progressista, Giovanni Palombarini: “Pare proprio che sia impossibile per l’Italia adeguarsi ai principi europei (e della civiltà) in materia di trattamento da riservare alle persone arrestate o fermate dalla polizia. Ci sono anche le sentenze delle Corti internazionali a ricordarci la situazione”.

“Nel giro di una settimana – continua – infatti, l’Italia ha riportato due condanne dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia)”, Non si tratta, spiega, di sentenze che stabiliscono nuovi principi di diritto: entrambe, costituiscono semplici conferme della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (articolo 3 della Convenzione).

Sentenze che meritano attenzione: ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni, Al riguardo il caso Saba, è esemplare: “I fatti risalgono all’aprile del 2000, quando alcuni detenuti del carcere di Sassari denunciarono le violenze di ogni genere subite da parte della polizia penitenziaria in occasione di una perquisizione della struttura (agenti di altri stabilimenti vennero inviati a Sassari per rafforzare la guarnigione locale)”.

Non mancano i tentativi di insabbiare e minimizzare, ma grazie a un magistrato ostinato, il pm Mariano Brianda, le indagini vanno avanti, e alla fine arriva la richiesta di rinvio a giudizio per novanta persone tra agenti ed altri membri dell’amministrazione penitenziaria; l’ipotesi di reato è di violenza privata, lesioni personali aggravate, abuso d’ufficio, commessi nei confronti di un centinaio di detenuti. E qui comincia un avvilente carnevale: 61 imputati scelgono il rito abbreviato, in 12 vengono condannati, da quattro mesi a un anno e mezzo di reclusione, condanne sospese. In appello le condanne definitive diventano solo nove.

E veniamo agli altri 29 imputati: nove sono rinviati a giudizio, per venti la sentenza è di non luogo a procedere. Nel corso dei processi si accerta che si sono verificati episodi di violenza inumana e gratuita, detenuti costretti a denudarsi, insultati, minacciati e picchiati, Ma il tribunale comunque proscioglie tutti gli imputati: due per carenza di prove, gli altri per sopravvenuta prescrizione. Le misure disciplinari che seguono le condanne sono altrettanto simboliche. Ciò induce a pensare, ne ricava Palombarini, che in molti ambienti siano forti i sentimenti di solidarietà verso coloro che violano le regole a danno delle persone detenute: “Infatti sono trascorsi più di dieci armi dai fatti di Sassari, ma la situazione, anche normativa, non si è modificata”.

Altro caso significativo: devono rispondere di sequestro di persona a scopo d’estorsione e rapina. È il 15 gennaio del 2000 quando nel carcere di Panna scoppia una rivolta, e un agente viene rinchiuso in una cella per ore; poi la resa, dopo una lunga trattativa.

Dopo sei interminabili ore l’allora procuratore Giovanni Panebianco annuncia: “Abbiamo accolto le loro richieste dì trasferimento”. Ora, a quattordici anni di distanza, quella rivolta entra in un’aula di giustizia, Il procedimento, dopo essere rimasto a Parma per alcuni anni, è stato trasferito alla Dda di Bologna. Se ne parlerà il 30 settembre prossimo in Corte d’assise.

Il rinvio a giudizio del Gup Bruno Gian-giacomo risale al giugno 2013, e la prima udienza era stata fissata per lo scorso gennaio, ma problemi di notifiche agli imputati hanno fatto slittare ulteriormente il “vero” inizio del processo al prossimo autunno. Per riassumere: una rivolta in carcere, sei ore di grande tensione, una trattativa che alla fine scongiura un epilogo che poteva essere tragico, la resa e il ritorno alla “normalità”.

Quattordici anni dopo, il processo. Neppure concluso: inizia. Con tanti saluti a Cesare Beccaria, al suo Dei delitti e delle pene, alla certezza della sanzione e del diritto. Ed è pur significativo che a opporsi a questo stato di cose siano solo Marco Pannella, Rita Bernardini e un pugno di radicali da giorni in digiuno per ottenere che lo Stato rispetti quelle leggi che si è dato ed esca finalmente dalla situazione tecnica di criminalità organizzata in cui è sprofondato.

Valter Vecellio

Il Garantista, 27 luglio 2014

Morire tutti i giorni non è da paese civile: la battaglia per abolire l’ergastolo


Carcere interno “Si muore tutti i giorni per poi morire ancora/una lenta agonia senza rimedio/ che rende innocente chi è stato colpevole/ morire tutti i giorni/ esserne consapevole”. Questi versi sono stati scritti da Carmelo Musumeci per il brano “Morire tutti i giorni” dei 99 Posse. Ma cosa significa morire tutti i giorni? Solo un ergastolano lo sa, solo le persone alle quali è stato tolto il bene più prezioso toccano questa sensazione: “pena di morte viva”, così la chiamano.  Carmelo Musumeci è un ergastolano ostativo, “un uomo ombra”, come sempre si definisce. Uno dei 1.600 uomini ombra che sono sepolti vivi in Italia. Ma è uno che non si è arreso, non ha ceduto alla morsa infernale del morire o del lasciarsi morire. E’ un ergastolano ma è fondamentalmente uno scrittore e poeta che si batte in una battaglia difficile: abolire l’ergastolo.

Abolire l’ergastolo è una battaglia di civiltà. Perché la pena deve essere rieducativa, lo dice anche la Costituzione. Perché il carcere non può essere tortura, lo ha detto anche la Corte Europea dei Diritti Umani, che ha condannato l’Italia per trattamenti disumani e degradanti concedendo al nostro Paese un anno di tempo per rimediare, e nei prossimi giorni dovrà decidere se l’Italia  dovrà pagare tra i 60 e i 100 miliardi di euro di multe. Perché non è solo una questione di spazi, come se i detenuti fossero polli d’allevamento: spesso si ripete che i detenuti vivono in meno di 3 metri quadrati a testa, in condizioni senza dubbio disumane. Ma no, non è solo quello: in molte carceri italiane manca la rieducazione, manca l’assistenza sanitaria, in carcere ci si ammala di più di epatiti e Aids, in carcere ci si suicida, fioccano le denunce per maltrattamenti. Nel carcere di Poggioreale è scattata l’inchiesta sull’esistenza di una presunta “cella zero”, cella o celle nelle quali si consumerebbero violenze ai danni dei reclusi. C’è poi la carcerazione preventiva: un detenuto su cinque è in carcere senza un processo, 10.389 detenuti in queste condizioni, il 17 per cento dei 59.693 ristretti. E poi c’è l’aspetto del carcere a vita: i condannati all’ergastolo sono circa 1.600, di cui circa la metà sono ergastolani ostativi, una misura particolarmente restrittiva che si applica ai detenuti condannati per appartenenza alla criminalità organizzata di tipo mafioso: ciò vuol dire, tra le altre cose, che molto probabilmente moriranno dietro le sbarre. E se lo stato pensava di sconfiggere la mafia con queste misure piuttosto che nei suoi rapporti con il potere economico e politico, il tempo ha dato ragione alle mafie, per il momento. Al contrario per molti, il “fine pena mai” equivale soltanto ad essere sepolti vivi: lo spiega bene Musumeci nei suoi libri e nelle sue poesie.

Su questo tema ci sarà un importante evento, il 6 Giugno prossimo, a partire dalle 9.30, nella casa di reclusione di Padova: sarà dato spazio alle testimonianze degli uomini ombra, e tra essi anche Carmelo Musumeci, che diversi mesi fa ha lanciato una proposta di legge popolare per l’abolizione del carcere a vita. L’iniziativa ha per titolo “Senza ergastoli. Per una società non vendicativa”, e vede coinvolte una serie di realtà: le università, la casa di reclusione di Padova, l’osservatorio Ristretti Orizzonti, personalità del mondo politico e istituzionale come Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, Maurizio Turco e Rita Bernardini dei Radicali e poi detenuti, famiglie, studenti a confronto. Sarà dato spazio anche alle famiglie degli ergastolani, che vivono un grandissimo lutto: “E’ una pena che si infligge a tutta la famiglia – spiega Elton Kalica, giornalista della redazione di Ristretti Orizzonti – Queste persone vengono cancellate dalla vita. Non solo la loro vita, ma vengono cancellati dai propri cari, che vivono con l’idea che non li riavranno mai più”.

Ma una persona cambia nel tempo, si trasforma, ed Elton ci racconta questo aneddoto: “Un ergastolano ostativo mi disse che l’unica cosa bella di tutta la sua vita era che la sua famiglia si era trasferita, rifatta una vita fuori da quel contesto in cui temeva che sarebbero vissuti anche i suoi cari. Questo mi ha colpito molto, perché in quel modo questa persona aveva certificato la sua uscita, il rifiuto di quella mentalità, il suo distacco, pur non avendo scelto di collaborare. E la sua rassegnazione, essendo consapevole che questo distacco non avrebbe potuto influire in alcun modo sul suo futuro”.  Si tratta comunque di reati molto gravi.  A descrivere bene l’aspetto umano è anche Yvonne, una volontaria e attivista: ci mostra una lettera di un ergastolano. “Scrive della speranza che loro non hanno più – racconta Yvonne – Ma anche dell’importanza di chi sta loro vicino nonostante tutto. Per loro siamo delle piccole rondini”. E ci mostra il disegno realizzato dall’ergastolano.

Carmelo Musumeci ha scritto anche al Papa: “Nel carcere di Padova ci sarà un convegno sull’abolizione dell’ergastolo – si legge nella sua lettera –  Lo so non potrai essere presente, ma ti chiediamo un pensiero, una preghiera, un messaggio, un cenno per darci un po’ della tua voce e della tua luce. Francesco, devi sapere che da quando hai abolito la “Pena di Morte Viva” (come chiamiamo noi la pena dell’ergastolo) non c’è un uomo ombra (così si chiamano fra loro gli ergastolani) che non vorrebbe essere prigioniero nel carcere della Città del Vaticano perché qui viviamo nel nulla di nulla, destinati a marcire in una cella per tutta la vita. Francesco, devi sapere che l’ergastolano non vive, pensa di sopravvivere, ma in realtà non fa neppure quello, perché questa crudele pena ci tiene solo in vita, mentre una pena giusta dovrebbe avere un inizio e una fine”.

A chi crede che l’ergastolo sia il solo modo di ottenere giustizia, risponde Agnese Moro, figlia di Aldo Moro: “Solitamente, si sente parlare di ergastolo quando qualche fatto di cronaca, per la sua stessa natura oppure per una costruzione mediatica, fa inorridire l’opinione pubblica a tal punto, che la condanna è accolta con soddisfazione solo se cala sulla testa del colpevole la spada del carcere a vita. Ci domandiamo allora che cosa è la giustizia: “ottenere giustizia” può essere davvero una questione di anni di galera comminati?”

Ecco la bellissima filastrocca scritta da un detenuto del carcere di Padova, sulla speranza-rondine e sulla libertà volata via per sempre: “La mia rondinina che vola e guarisce, facendo domande il mio cuore stupisce/Un giorno volando sul petto posò/ Quel giorno fu festa, v’era speranza, oggi quel dì è andato in vacanza/ Rimane un ricordo, fugace e remoto/ Quando chi spera arde nel fuoco/ Son lenti i giorni e lunga è la notte/ il cuore batte con tocchi e rintocchi/ Cercando che cosa? Ah sì! La speranza/ Quella vigliacca che è andata in vacanza/ Stai pure tranquilla, rondine mia/ Son certo ritorna, è lei che comanda/Senza l’infame (speranza, ndr) non si vive abbastanza”.

di Gaia Bozza

http://www.fanpage.it, 04 Giugno 2014

Papa Francesco… ti chiediamo un pensiero e un messaggio per gli “uomini ombra”


OLYMPUS DIGITAL CAMERA“Dio, lo so, non ti dovrei scrivere perché non sono credente, ma ho scritto un po’ a tutti e nessuno mi ha mai risposto e ho pensato di rivolgermi anche a te”. (Frase trovata scritta sulla parere di una cella di un ergastolano).

Francesco, venerdì, sei giugno 2014, qui nel carcere di Padova ci sarà un convegno sull’abolizione dell’ergastolo. Lo so non potrai essere presente, ma ti chiediamo un pensiero, una preghiera, un messaggio, un cenno per darci un po’ della tua voce e della tua luce. Francesco, devi sapere che da quando hai abolito la “Pena di Morte Viva” (come chiamiamo noi la pena dell’ergastolo) non c’è un uomo ombra (così si chiamano fra loro gli ergastolani) che non vorrebbe essere prigioniero nel carcere della Città del Vaticano perché qui viviamo nel nulla di nulla, destinati a marcire in una cella per tutta la vita. Francesco, devi sapere che l’ergastolano non vive, pensa di sopravvivere, ma in realtà non fa neppure quello, perché questa crudele pena ci tiene solo in vita, mentre una pena giusta dovrebbe avere un inizio e una fine.

Francesco, nessun essere umano o disumano meriterebbe di vivere con una punizione senza fine, tutti dovrebbero avere diritto di sapere quando finisce la propria condanna. La pena dovrebbe essere buona e non cattiva. E dovrebbe risarcire e non vendicare. Una pena che ti prende il futuro per sempre ti leva il rimorso per qualsiasi male che uno abbia commesso. Una volta un mio compagno di cella mi ha raccontato che il più grande dolore non è stato la sofferenza della condanna alla pena dell’ergastolo, ma il momento del perdono che ha ricevuto dalla vittima del suo reato. Nessun’altra specie vivente tiene un animale dentro una gabbia per tutta la vita, una pena che non finisce mai non ha nulla di umano e ti fa passare la voglia di vivere. Come fa a rieducare una pena che non finisce mai? Molti ergastolani, dopo venti anni di carcere, camminano, respirano e sembrano vivi ma in realtà sono morti.

Francesco, diglielo tu ai “buoni” che gli ergastolani non hanno paura della morte perché la loro vita non è poi cosa diversa dalla morte. Diglielo tu ai “buoni” che nelle carceri italiane ci sono uomini che sono ombre che vedono scorrere il tempo senza di loro e che vivono aspettando di morire. Diglielo tu ai “buoni” che solo il perdono fa nascere ai cattivi il senso di colpa mentre le punizioni crudeli e senza futuro fanno sentire innocenti anche i peggiori criminali. Diglielo tu ai “buoni” che la migliore difesa contro l’odio è 1’amore e la migliore vendetta è il perdono. Diglielo tu ai “buoni” che dopo tanti anni di carcere non si punisce più quella persona che ha commesso un crimine, ma si punisce un’altra persona che con quel crimine non c’entra più nulla. Diglielo tu ai “buoni” che 1’ergastolo ostativo è una vera e proprio tortura che umilia la vita e il suo creatore. Gli uomini ombra ti mandano un sorriso fra le sbarre.

di Carmelo Musumeci (detenuto ergastolano nel Carcere di Padova)

Ristretti Orizzonti, 3 giugno 2014