Marietti (Antigone) : Ecco come dovrebbero essere riformate le Carceri e l’Amministrazione Penitenziaria


Casa Circondariale 1Leggiamo su L’Espresso di un progetto di riforma della gestione penitenziaria che partirebbe dalla testa stessa di Matteo Renzi e che sarebbe affidato nell’elaborazione concreta alla guida del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri. Non troppe settimane fa Gratteri, proprio alla festa del Fatto Quotidiano, aveva parlato di chiudere il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per risparmiare denari. Quella che avevamo inteso come poco più di una battuta era, pare, una linea riformatrice ben chiara.

Del funzionamento delle nostre carceri concordo che ci sia molto da riformare. Antigone è da sempre parte di tale dibattito. Ma per riformare non basta cambiare l’esistente: bisogna pur guardare in quale direzione si decide di effettuare il cambiamento.

L’articolo de L’Espresso conteneva solamente anticipazioni generiche, dunque aspettiamo di vedere un qualche documento più effettivo e dettagliato per esprimere giudizi di merito precisi. Qualcosa però si può cominciare a notare. Innanzitutto una particolarità di tutti questi dibattiti da spending review: nel valutare se e come si possano risparmiare i troppi stipendi dirigenziali di amministrazioni quali quella penitenziaria, mai si cita la possibilità di abbassare drasticamente l’importo degli stipendi stessi. O si cancella il posto di capo Dap pagato uno sproposito, oppure lo si tiene così com’è (e lo stesso dicasi per i 15 dirigenti generali). Tertium non datur. Portarlo a 3.000 euro – uno stipendio dignitoso, superiore a quel che guadagniamo in tanti, ma certo non sfacciato – sembra inconcepibile.

In secondo luogo: l’amministrazione penitenziaria è un’amministrazione pubblica pachidermica, con decine di migliaia di dipendenti, dalle cui decisioni dipende la sorte di altre decine di migliaia di persone. Il piano di Gratteri che prevede la soppressione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria farà risparmiare, si dice, centinaia di milioni di euro. Posto che, fortunatamente, non si arriverà a misure greche di licenziamento pubblico, quei lavoratori verranno dislocati altrove. Ma se una struttura alternativa al Dap e ben più snella è dunque considerata sufficiente a gestire le prigioni italiane, non si potrebbe già ora snellire il Dipartimento stesso mandando i lavoratori là dove serve e risparmiando lo stesso quei soldi?

Infine, la parte più delicata: si pianifica di eliminare la polizia penitenziaria e farla confluire in un diverso corpo di polizia che abbia compiti di ordine pubblico dentro e fuori dal carcere. Sarebbero esponenti di questo corpo di polizia a dirigere le carceri al posto degli attuali direttori. Su questo si stia davvero attenti. Una riforma in questa direzione potrebbe riportare il sistema indietro di molti decenni, collocandoci al di fuori di ogni prospettiva legata agli organismi internazionali sui diritti umani.

L’amministrazione penitenziaria ha una mission chiara, sancita dalla stessa Carta Costituzionale. Nelle carceri italiane lavorano tantissime persone di grandissimo livello professionale senza le quali non si sarebbe mai passato il tempo della crisi. Ci si dimentica di educatori, assistenti sociali, psicologi che hanno fatto miracoli in assenza di risorse.

Le competenze che servono dentro una prigione non sono quelle che servono per la strada ai tutori dell’ordine. Il direttore di un carcere, così come tutti gli operatori che vi lavorano, deve avere una formazione ampia, legata – oltre che al management – ai diritti umani, alla più alta giurisdizione, alla capacità relazionale.

Da sempre andiamo dicendo che la polizia in carcere non può avere il solo ruolo di aprire e chiudere cancelli. Su questo concordo pienamente con Gratteri. I poliziotti devono avere compiti di responsabilità e impegno nella gestione della pena.

Tutto il lavoro fatto in questi anni sulla cosiddetta sorveglianza dinamica – un modello di custodia che ha dato ottimi risultati anche in termini di abbassamento della recidiva, basato non sulle barriere fisiche quanto piuttosto sulla responsabilizzazione dei detenuti – non era dispendioso e andava nella giusta direzione. Ma non può andarvi una riforma che pensa a risparmiare soldi gestendo un carcere con i soli strumenti dell’ordine pubblico.

Susanna Marietti (Associazione Antigone)

l Fatto Quotidiano, 30 settembre 2014

Carcere e ri-educazione. Tavor e i suoi fratelli. Quando la droga non è consentita


Ostinata Goccia

pillole a cucchiaio

E’ stato difficile, ma sono riuscita ad interpretare la cartella clinica di R. a Parma. Tutto per ricavare il numero esatto degli psicofarmaci che gli davano da prendere (e che lui in parte buttava e in parte mi faceva uscire, a colloquio).

Queste sono le dosi che i medici segnavano sulla cartella clinica:

Mirtazapina: 1 compressa da 30 mg (antidepressivo. Dose max 45 mg)

Zoloft: 2 compresse da 50 mg (antidepressivo. Dose massima 200 mg)

Tavor: 5 compresse da 2.5 mg (sedativo anticonvulsionante. Dose massima in psichiatria, 3/4 compresse da 2.5 mg al giorno)

Xanax: 4 compresse da dosaggio non specificato (ansiolitico. Dose massima,  usare il minimo, per il minore tempo possibile)

Control: 4 compresse da 2.5 mg (trattamento degli stati d’ansia. Dose massima:  usare il minimo, per il minore tempo possibile)

16 compresse, per un totale di 162.5 mg di antidepressivi, al giorno, calcolando il minimo di xanax a…

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Napoli: “la fine di un incubo”, detenuto con tumore ai polmoni potrà essere curato a casa


Carcere Poggioreale NapoliLuigi Moscato era detenuto in attesa di giudizio nel carcere di Poggioreale. Ma è gravemente ammalato: dopo denunce e interviste arrivano i domiciliari.

“Mio marito ha il tumore e sa come lo curano? Con la Tachipirina. Non gli danno nemmeno un cerotto per i dolori”. Luigi Moscato ha 55 anni ed era rinchiuso nel carcere di Poggioreale, a Napoli, in attesa di essere giudicato per un reato che, giura la moglie Lucia, “non ha commesso”: è accusato di essere coinvolto in un giro di ricettazione.

Moscato ha un tumore ai polmoni, con metastasi ormai ovunque. Ma da ieri sera è a casa: gli sono stati concessi gli arresti domiciliari. Tra i giorni di dolore e questa piccola, grande vittoria c’è un bel chiasso. Montato con la denuncia del presidente dell’associazione degli ex detenuti napoletani, Pietro Ioia, che ha convocato una conferenza stampa davanti al carcere partenopeo con l’associazione radicale Per La Grande Napoli rappresentata da Luigi Mazzotta.

Fanpage.it ha raccolto la testimonianza disperata della moglie di Luigi Moscato: “Me lo faranno morire in carcere – diceva ai nostri microfoni – Pensi che sono riuscita vederlo solo dopo due settimane che era lì”. Si è subito attivata la catena di solidarietà. Dopo la denuncia, al caso del povero Luigi si sono interessati l’esponente di Forza Italia Salvatore Ronghi e la Garante dei Detenuti della Campania, Adriana Tocco, che avrebbe dovuto fare visita al detenuto oggi. Ma ieri sera il signor Moscato era a casa. “È stata la fine di un incubo – dice il fratello di Luigi Moscato, Francesco – Siamo ancora in lacrime. Ora potrà curarsi a casa, facendo la chemio in ospedale”.

“Vorrei ringraziare tutti coloro che si sono attivati per questo caso – conclude il presidente dell’associazione ex detenuti – Luigi Mazzotta e Rosa Criscuolo dell’associazione Radicali Per La Grande Napoli, l’attivista Carmela Esposito, l’esponente di Forza Italia Salvatore Ronghi, la Garante dei Detenuti Adriana Tocco. E voglio ringraziare gli stessi familiari, perché hanno avuto il coraggio di metterci la faccia e sollevare il problema anche da un punto di vista mediatico. Come si è visto, è stato importante ai fini del risultato”. Nel carcere di Poggioreale sono oltre 300 gli ammalati reclusi, e la difficoltà di accesso alle cure è un problema drammaticamente diffuso in tutte le carceri italiane: per questo, tantissime persone si trovano ristrette in condizioni disperate, nella negazione dei diritti più elementari.

http://www.fanpage.it, 24 settembre 2014

Parma: il medico del carcere “Assarag, non posso testimoniare… perché mi fanno il c…”


detenuti sbarre cellaI colloqui registrati dal detenuto che ha denunciato pestaggi. La psicologa: “sopporti, non risolve niente”. È un medico di via Burla a parlare. Di fronte a lui, Rachid Assarag. Quando era detenuto a Parma, è riuscito a far entrare un registratore grazie alla moglie.

Ha denunciato di essere stato picchiato: una querela nel gennaio 2011, un’altra il mese dopo e l’ultima a luglio dello stesso anno. Poi (solo mercoledì scorso), il deposito in procura delle trascrizioni dei colloqui registriti in carcere. Parale che, nelle intenzioni del difensore dell’uomo, Fabio Anselmo (l’avvocato dei casi Aldrovandi e Cucchi), squarcerebbero il velo su una grave realtà di violenza tra le mura del carcere.

Oltre cento pagine di conversazioni “catturate” da Assarag nel 2011, quando era ancora rinchiuso a Panna per violenza sessuale. Tutt’altro che uno stinco di santo, uno stupratore se riale e uno che ha sempre creato problemi nei vari penitenziari che ha girato, ma che in via Burla sarebbe stato percosso tre volte: nell’ottobre del 2010. a. dicembre dello stesso anno e il 25 maggio 2011. Fatti raccontati nelle querele.

Ma ora ci sono queste registrazioni. A tratti inquietanti. Per le affermazioni di alcuni uomini della polizia penitenziaria, ma anche per le parole di medici e psicologi della struttura. Nessuno, al momento è stato iscritto nel registro degli indagati, ma il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha avviato un’inchiesta interna. C’è l’agente che spiega ad Assarag come ci si comporta dietro le sbarre per non avere guai. “Ascolta – dice – io c’ho venti anni di galera alle spalle.. e non ho mai toccato uno, mai toccato uno se non se lo è meritato. Mai!”.

“Ah, solo le persone che meritano…”, ribatte Assarag. E l’agente: “No, che meritano no, ma che si comportano male. Così, come se tu, se tu ti comporti male, sai che quella è la conseguenza. È normale, perché certe volte solo quella…”. Fa quelle affermazioni e poco prima si lascia scappare anche altro: “Eh, ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se ci sei anche tu”.

Ma poi Assarag parla con lo stesso agente anche del suo caso personale. Il riferimento è a quando è arrivato in via Burla, alla sua decisione di stare in isolamento e al latto che gli sarebbero stati tolti i soldi. “Quattro persone contro un detenuto?! Mi avete massacrato”, dice Rachid, e l’uomo replica: “Non eravamo in quattro persone… io, il brigadiere e basta!”. A quel punto il detenuto chiede se ci sono le telecamere, e il poliziotto risponde: “Ma non funzionano!”.

Parla – e registra – le dichiarazioni degli uomini della Penitenziaria, Assarag. Ma non si fa problemi a parlare delle violenze che avrebbe subito dietro le sbarre anche con i medici del carcere. “Io ho subito, mi hai visto che io ho subito la violenza”, spiega. E il dottore risponde: “Certo, ho visto… Quello che voglio dire, è che lei deve imparare a… a… abituare… sì, perché non può cambiare lei, come non lo posso cambiare io!”.

Ma Assarag non molla. Insiste. Vuole risposte per capire come muoversi, a chi far presente cosa non funziona. Il medico parla anche delle “protezioni” da parte della magistratura di cui godrebbero gli agenti. E cita il caso di Stefano Cucchi, il giovane arrestato per droga e morto in custodia cautelare una settimana dopo.

Una vicenda per la quale tra pochi giorni è previsto l’avvio del processo d’appello. “Ah, il magistrato è dalla parte di loro?”, chiede Assarag. “Certo… in un caso di morte, in un caso di morte come quello di Cucchi, sono riusciti a salvare gli agenti e hanno inchiappettato i medici!”.

Nel marzo 2011 Rachid incontra anche la psicologa del carcere. Le racconta di altre due aggressioni che avrebbe subito, con piccole lesioni a un dito e a un braccio. E le mostra la mano fasciata. “Queste cose succedono in tutti le carceri… eh, queste cose”, dice la donna. Poi gli consiglia di rassegnarsi. “Non è così facile. Per questo le ho suggerito di rinunciare a combattere. Perché combattere qua dentro comporta usare tantissime energie, sfinirsi e scontrarsi contro dei muri… Non si risolve niente!… Allora è meglio, dal punto di vista personale, aspettare e sopportare. Perché non c’è uscita”.

Violenze vere o romanzate quelle subite da Rachid? Sarà un’inchiesta ad appurarlo. I due agenti che nel 2007 in via Burla pestarono Aldo Cagna, l’assassino di Silvia Mantovani, sono stati condannati in via definitiva al anno e 2 mesi. Un brutto “precedente”. Ma è un’altra storia.

Il Procuratore: nessuna disattenzione, faremo chiarezza

L’ultima denuncia di Assarag contro gli agenti di via Burla? È stata depositata il 27 luglio 2011. Da allora, però, ria denunciato il difensore Fabio Anselmo, non si è mosso nulla in procura. “Quando sono arrivate le tre querele, già erano pervenute le segnalazioni da parte della casa circondariale die prospettavano una realtà molto diversa da quella denunciata dal detenuto – spiega il procuratore Antonio Rustico.

Ma non è vero che questi fascicoli sono rimasti fermi, mentre quelli in cui Assarag è indagato sono andati avanti. Si tratta di procedimenti che erano in carico a un pm trasferito, che poi sono stati riassegnati a un altra sostituto”. Insomma, nessuna corsia “preferenziale” per i casi in cui Rachid è sotto accusa.

Piuttosto ci sono altri procedimenti a suo carico, che nera non hanno nulla a che vedere con gli episodi di violenza (tra il 2010 e il maggio 2011) da lui denunciati, ma sono successivi. “Si tratta di due fatti che sono stati riuniti in un procedimento che è già a dibattimento da tempo: una contestazione di oltraggio nei confronti di agenti di polizia penitenziaria – spiega Rustico – e un’altra per minacce e anche oltraggio, credo.

Per quanto riguarda la prima vicenda, Assarag non ha chiesto nemmeno di essere sentito dono il deposito dell’avviso di conclusione delle indagini, nel secondo caso invece è stato sentito per rogatoria dal pm di Prato, visto che poi è stato trasferito in quel carcere: siamo nel 201Ì, eppure non ha fatto cenno a registrazioni effettuate in carcere, ma ha solo detto che probabilmente quel procedimento era la conseguenza delle sue denunce”.

C’è invece un detenuto che potrebbe creare qualche grattacapo ad Assarag: “Si tratta di una persona che sarebbe stato presente quando oltraggiava l’agente, ma al quale, secondo quanto ha dichiarato nella fase delle indagini, Rachid avrebbe chiesto di testimoniare a suo favore in cambio di denaro o dell’assistenza gratis del suo avvocato – sottolinea Rustico. Questa persona, però, a dibattimento ha detto di non voler parlare se non in presenza del suo avvocato, anche se era testimone”.

Un detenuto con varie vicende in corso, oltre alle accuse di violenza sessuale, Assarag. “Ma ciò non toglie che l’intenzione della procura è quella di fare chiarezza su quanto ha denunciato – assicura Rustico. Non abbiamo ancora i file audio originali, solo le trascrizioni, tuttavia posso assicurare che valuteremo tutto e agiremo se ci saranno delle responsabilità”.

Georgia Azzali

Gazzetta di Parma, 24 settembre 2014

 

Padova: cella troppo piccola, detenuto risarcito con 4.800 euro e sconto di pena


Casa Circondariale di PadovaPrima applicazione del decreto voluto dall’Europa contro la “detenzione inumana”. Ad un carcerato albanese condannato a 6 anni, liquidati 4.808 euro: era stato detenuto 701 giorni in meno di 3 metri.

Risarcimento di 4.808 euro per 601 giorni di detenzione in condizioni inumane di sovraffollamento carcerario, e 10 giorni di detrazione della pena sui residui 100 giorni che ancora gli restavano da scontare: è la prima applicazione a Padova del “rimedio compensativo” introdotto dal decreto legge 92 del 26 giugno per placare Strasburgo ed evitare una raffica di condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei Diritti dell’uomo, che con le sentenze Sulejmanovic il 16 luglio 2009 e Torreggiani l’8 gennaio 2013 aveva indicato in 3 metri quadrati per detenuto lo spazio minimo in cella sotto il quale la detenzione diventa automaticamente “trattamento disumano e degradante”, cioè tortura.

Il decreto legge introduce una riduzione di pena di 1 giorno di detenzione per ogni 10 giorni trascorsi in condizioni inumane, oppure il risarcimento di 8 euro al giorno se la detenzione si è già conclusa. Ad oggi, tuttavia, pur a fronte di parecchie migliaia di richieste già formulate dai detenuti in tutta Italia, molti uffici di Sorveglianza o non hanno ancora maturato un orientamento (come Milano e Napoli, che per priorità lavorano intanto sullo smaltimento delle istanze di “liberazioni anticipata” passibili di determinare l’urgente messa in libertà dei detenuti richiedenti); oppure stanno adottando – come a Vercelli – una linea restrittiva che sfocia in molte dichiarazioni di inammissibilità dei ricorsi.

Diversa l’interpretazione a Padova, e in genere nel distretto di Venezia come pure a Genova. Nel caso esaminato dalla giudice di sorveglianza Linda Arata, un carcerato albanese condannato a 6 anni (per associazione a delinquere, prostituzione minorile, violenza privata e falsa testimonianza) lamentava tutta la propria attuale detenzione nella casa di reclusione di Padova. La giudice ha però circoscritto il titolo di risarcimento al periodo in cui si è ricostruito che il detenuto era stato in cella con altre due persone, situazione che faceva scendere lo spazio disponibile pro capite a 2 metri e 85 centimetri: misura nella quale la giudice, in dissenso dal ministero della Giustizia che ora ha fatto reclamo contro l’ordinanza, ha escluso il bagno “in quanto mero vano accessorio della camera detentiva”, e “gli arredi inamovibili come l’armadio”, conteggiando invece “letto e tavolino e sgabelli in quanto arredi che possono essere spostati”.

Con questi paletti sono risultati 701 i giorni trascorsi in cella dal detenuto albanese in condizioni disumane. Dall’esecuzione della pena residua di 100 giorni la giudice gli ha allora detratto 10 giorni (appunto uno ogni dieci), tolti i quali il detenuto è tornato in libertà il 2 settembre. Per gli altri pregressi “601 giorni di detenzione in condizioni di illegalità”, la giudice ha “applicato il criterio di liquidazione residuale del risarcimento predeterminato dal legislatore” di 8 euro al giorno, per un totale quindi di 4.808 euro.

Luigi Ferrarella

Corriere della Sera, 25 settembre 2014

La Commissione Diritti Umani del Parlamento approva il rapporto sui Cie


Rapporto approvato dalla Commissione il 24 settembre 2014

COMMISSIONE STRAORDINARIA PER LA TUTELA E LA PROMOZIONE DEI DIRITTI UMANI
Presidente MANCONI Luigi Vicepresidenti FALANGA Ciro DONNO Daniela Segretari BILARDI Giovanni DE PIN Paola Membri ALICATA Bruno AMATI Silvana CHIAVAROLI Federica CONTE Franco DE CRISTOFARO Peppe DI BIAGIO Aldo FASANO Enzo FATTORINI Emma FERRARA Elena GOTOR Miguel LO GIUDICE Sergio MAZZONI Riccardo MUNERATO Emanuela PADUA Venera PALERMO Francesco ROMANO Lucio SERRA Manuela SIMEONI Ivana VALENTINI Daniela VICECONTE Guido

PREFAZIONE

La Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani ha svolto nel corso del 2013 e nei primi mesi del 2014 uno studio sistematico sulla situazione dei centri di identificazione ed espulsione (Cie). L’argomento, considerata la natura di questa Commissione, è stato affrontato dal punto di vista del rispetto della dignità e dei diritti della persona. Questo testo costituisce un aggiornamento del lavoro svolto dalla Commissione nella XVI legislatura, in particolare di quella parte dedicata ai Cie del Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia pubblicato nel marzo 2012. Il primo capitolo è una sintesi ragionata della normativa in vigore alla luce delle considerazioni svolte da giuristi, operatori e rappresentanti delle associazioni che si occupano di immigrazione nel corso della discussione in Commissione. Il secondo capitolo fotografa la situazione dei Cie attraverso i dati raccolti nel corso dell’indagine. Nel terzo capitolo, a partire dagli elementi emersi dalle visite della Commissione ai centri, si propongono al governo alcune misure molto concrete, da attuare a breve termine, per assicurare alle persone sottoposte al trattenimento il rispetto delle garanzie previste dalle norme nazionali e internazionali. Tali misure sono state oggetto di una risoluzione approvata dalla Commissione il 5 marzo 2014, riportata in appendice.
Nello stesso tempo la Commissione propone una serie di interventi sulle procedure che regolano il sistema di trattenimento, identificazione ed espulsione con l’obiettivo di rendere il ricorso al trattenimento una misura estrema, del tutto residuale e finalizzata esclusivamente al rimpatrio, e a ridurre al minimo i tempi di permanenza in quelle strutture. Nell’ultima parte vengono raccolti i resoconti delle visite svolte dai membri della Commissione nei Cie e diversi articoli di stampa. In appendice, vengono pubblicati alcuni dei documenti del ministero dell’interno e delle prefetture relativi alla gestione dei Cie (schema di capitolato d’appalto e regolamenti interni).

I. CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE. IL QUADRO NORMATIVO

1. Alcune riflessioni sul quadro normativo in materia di Cie I Centri di identificazione ed espulsione, istituiti dalla legge 6 marzo 1998, n. 40, la cosiddetta legge Turco-Napolitano, e previsti dal testo unico sull’immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998), sono strutture di trattenimento degli stranieri in condizione di irregolarità, destinati all’espulsione. Le strutture di trattenimento per migranti in attesa d’espulsione sono state istituite in tutti i paesi europei alla fine degli anni novanta del secolo scorso.
La legge Turco-Napolitano ha previsto per la prima volta la possibilità di trattenere i destinatari di provvedimenti di espulsione in apposite costruzioni definite Centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA), trasformati nel 2011 in Centri di identificazione ed espulsione (CIE). La restrizione della libertà era prevista solo nei casi di grave pericolo per l’ordine pubblico, con l’intenzione di limitare il fenomeno del trattenimento a pochi casi di irregolari recidivi. I primi cambiamenti apportati al T.U. sono stati introdotti con la legge n. 189 del 30 luglio 2002 (cosiddetta Bossi-Fini) che ha riconsiderato le procedure d’espulsione introducendo forti misure finalizzate a contrastare l’immigrazione irregolare. Altri cambiamenti sono stati introdotti con il «Pacchetto sicurezza» del governo Berlusconi2, che ha previsto restrizioni della condizione giuridica degli stranieri e l’inserimento del reato di immigrazione «clandestina» con l’introduzione dell’art. 10-bis del testo unico immigrazione. Il nuovo reato deve essere giudicato con rito direttissimo ed è di competenza del giudice di pace. Il 2 aprile 2014 è stata approvata definitivamente la legge in materia di pene detentive non carcerarie e di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili (l. n. 67 del 2014), che reca all’articolo 2 una delega al governo per la riforma del sistema sanzionatorio dei reati. Tra i principi e criteri direttivi per l’esercizio della delega, vi è anche l’abrogazione del reato di ingresso e soggiorno illegale, trasformato in illecito amministrativo. Resta il divieto di reingresso dopo l’espulsione, reato penalmente sanzionabile. Quindi, se non è stato adottato alcun provvedimento di allontanamento nei confronti di una persona straniera presente in Italia, l’irregolarità di soggiorno non ha rilievo penale. Se invece un tale provvedimento c’è, il reato non decade. La presenza irregolare sul territorio rimane un illecito amministrativo che incrimina qualunque tipo di ingresso e soggiorno irregolare.

L’articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, così come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, prevede che «quando non sia possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento» alla frontiera, il questore «dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario» presso il Centro di identificazione ed espulsione. La durata del trattenimento, inizialmente di 30 giorni (legge Turco-Napolitano) è via via andata aumentando: dai 60 giorni previsti dalla legge Bossi-Fini nel 2002 ai 180 giorni del «Pacchetto sicurezza» nel 2008. Con il decreto-legge del 23 giugno 2011 n. 89, il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri è arrivato fino a 18 mesi complessivi3.
Attualmente ai 30 giorni iniziali, prorogabili di altri 30, e qualora non sia stato possibile procedere all’identificazione o all’allontanamento, possono aggiungersi ulteriori 60 giorni e ancora altri 60. La misura del trattenimento può arrivare così, attraverso proroghe di 60 giorni ogni volta, a un massimo di 18 mesi. Scaduto questo termine, lo straniero viene rilasciato con un decreto di espulsione che continua comunque a essere attivo.

1.1 Direttiva UE sui rimpatri Il prolungamento della durata del trattenimento è contenuto in una norma che recepisce il comma 6 dell’art. 15 della direttiva UE sui rimpatri5, senza tuttavia adeguarsi pienamente all’intero articolo della disposizione europea. Più in generale le norme italiane non sembrano recepire in pieno lo spirito di quel provvedimento, che si basa sui principi di gradualità nell’adozione delle misure, di proporzionalità e di rispetto dei diritti fondamentali, della dignità e dell’integrità fisica della persona6.
La direttiva rimpatri evidenzia il carattere residuale della detenzione amministrativa. Infatti, solo in casi specifici, e quando misure meno coercitive risultano insufficienti, gli Stati membri possono trattenere il cittadino di un paese terzo sottoposto a procedure di rimpatrio. Il trattenimento è disposto per iscritto dalle autorità amministrative o giudiziarie e deve essere regolarmente sottoposto a un riesame. Il trattenimento ha durata quanto più breve possibile e non può superare i sei mesi. Inoltre viene sottolineato che solamente in particolari circostanze gli Stati membri possono prolungare il trattenimento per un periodo non superiore ad altri dodici mesi. La legge italiana prevede la possibilità di trattenere uno straniero irregolare quando sussistono ragioni concrete che ostacolano l’esecutività immediata dell’espulsione (necessità di assistenza sanitaria dello straniero; necessità di accertare l’identità e la nazionalità del migrante;
mancanza di documenti di viaggio; indisponibilità di mezzi di trasporto o di personale per effettuare l’allontanamento; situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento, formula quest’ultima introdotta con la legge n. 129 del 2011).
Se la disposizione europea lega la possibilità di trattenere un individuo a ragioni dovute alla condotta del singolo, quella italiana ricorre a motivazioni esterne, talvolta estranee al volere dello straniero o a ragioni che non sono predefinite per legge e genericamente indicate come situazioni transitorie. La mancanza di un mezzo di trasporto, di agenti di scorta o dei documenti di viaggio per eseguire l’allontanamento, sono estranei alla volontà del singolo migrante ma spesso determinano la misura coattiva. La direttiva prevede, inoltre, che il trattenimento venga riesaminato a intervalli regolari su richiesta dello straniero interessato ovvero, per i periodi di prolungata restrizione della libertà,
che sia soggetto a controllo dell’autorità giudiziaria7. Questo controllo di natura giurisdizionale della legittimità della concessione della proroga di permanenza nei CIE non è invece previsto dalla legge italiana. La norma nazionale non accoglie inoltre il co. 4 dell’art. 15 della direttiva europea in virtù del quale, quando non sussiste più alcuna motivazione che legittimi l’espulsione, anche il trattenimento risulta ingiustificato e si dispone quindi l’immediato rilascio dello straniero interessato. Tale articolo si basa sul principio del periodico riesame da parte del giudice riguardo alle situazioni e condizioni che legittimano la restrizione della libertà personale prima della scadenza del periodo di trattenimento, facendo in modo che i singoli migranti non siano soggetti alla discrezionalità e capacità dei singoli questori, come avviene nel caso dei trattenuti nelle strutture italiane.

1.2 Detenzione amministrativa e Costituzione Questo aspetto relativo al controllo giurisdizionale della restrizione della libertà nei confronti dello straniero porta a una riflessione che investe anche la compatibilità con la Costituzione italiana della detenzione amministrativa, questione su cui si è molto dibattuto in questi anni9, da quando la legge Turco-Napolitano nel 1998 la ha introdotta. Una persona può essere privata della libertà anche in assenza di un reato e senza un preventivo provvedimento di un giudice; il controllo dell’autorità giudiziaria viene svolto successivamente all’adozione della misura e viene fatto dal giudice di pace al momento della convalida del provvedimento del trattenimento disposto dal questore (entro 48 ore); la convalida avviene con una procedura semplificata sulla base delle informazioni prodotte dalla questura e del colloquio con lo straniero, affiancato da un interprete e dal proprio legale10.
La natura controversa del trattenimento e i dubbi di incostituzionalità sollevati hanno dato luogo a un dibattito tra i giuristi sulla incidenza della misura sulla libertà personale e il suo rapporto con le garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione italiana. I profili di costituzionalità della detenzione amministrativa presso i Cie sono stati trattati in Commissione nel corso dell’audizione di Andrea Pugiotto, professore ordinario di diritto costituzionale dell’università di Ferrara, il 30 luglio 2014.
Il legislatore ha sempre escluso l’equiparazione del Cie al carcere, come si evince dalla relazione di accompagnamento alla legge Napolitano-Turco del 1998 («I centri di permanenza temporanea sono estranei al circuito penitenziario»), e dalla circolare 20 marzo 1998, n. 11 del ministro degli interni, che raccomanda che «il trattenimento nel centro non potrà in nessun caso assimilarsi alla applicazione di una sanzione detentiva»12. Il trattenimento inciderebbe solo sulla libertà di circolazione e soggiorno dello straniero, senza impattare sulla libertà personale. Tuttavia, lo straniero trattenuto, pur non essendo formalmente un detenuto, non può lasciare il Cie e la questura ha l’obbligo di avvalersi della forza pubblica per vigilare la struttura e «ripristinare senza ritardo la misura nel caso questa venga violata». Quindi in caso di allontanamento dall’edificio, il migrante, pur non commettendo reato di evasione, viene coattivamente ricondotto al centro. L’istituto del trattenimento è di fatto una misura coercitiva che incide sulla libertà personale la cui natura giuridica si sostanzia in una forma di privazione della libertà, sia pure di natura amministrativa. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo è intervenuta per la violazione dell’art. 3 CEDU anche in riferimento alla detenzione amministrativa degli stranieri. E, tra i luoghi di detenzione oggetto del controllo da parte del Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, organo del Consiglio d’Europa16, oltre alle carceri, ai centri di detenzione per minori, ai commissariati di polizia, agli ospedali psichiatrici giudiziari, vi sono anche i centri di trattenimento per stranieri. Inoltre, la recente legge n. 10 del 2014 che istituisce il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (art. 7), lo chiama a esercitare le proprie funzioni (anche) all’interno dei Cie, dove può accedere senza restrizione alcuna in qualunque locale (art. 5, lett. e). Se il trattenimento nei CIE è una restrizione della libertà personale, il suo regime è da ricondursi nel perimetro costituzionale dell’articolo 13 della Costituzione, con tutte le sue garanzie: dalla riserva di giurisdizione alla riserva di legge assoluta, da derogarsi solo in casi eccezionali, dalla durata della misura coercitiva alla tempistica per la sua successiva convalida.
L’articolo 13, comma 2, della Costituzione prescrive che la restrizione della libertà personale è ammessa solo «per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». Deve quindi essere un giudice a stabilire la suddetta restrizione motivando la propria decisione per far in modo che la detenzione non risulti costituzionalmente illegittima. Secondo l’articolo 13 della Costituzione, «non sono ammissibili […] settori della vicenda restrittiva in concreto impermeabili al sindacato del giudice», ma è il questore che dispone direttamente il trattenimento dello straniero ed è il questore a decidere l’eventuale cessazione anticipata della detenzione amministrativa. Inoltre spetta sempre al questore – disponendo in quale centro lo straniero andrà trattenuto – individuare volta per volta il giudice della convalida territorialmente competente, che la Costituzione vorrebbe invece precostituito per legge a garanzia dell’imparzialità del suo sindacato. La Costituzione non esclude, tuttavia, che in casi di necessità e urgenza possano essere adottati anche dall’autorità di pubblica sicurezza provvedimenti provvisori di limitazione della libertà. Quindi solo l’eccezionalità delle circostanze, unita al requisito della tassatività e della non discrezionalità della decisione, possono giustificare la compressione del diritto alla libertà personale quando non viene disposta da un magistrato con atto motivato. In questo quadro è stato sollevato il problema connesso al fatto che l’art. 14 del T. U. sull’immigrazione, rispetto ai requisiti di eccezionalità e di non arbitrarietà della decisione della misura detentiva, prevede il trattenimento come strumento ordinario (e non eccezionale) per eseguire i provvedimenti d’espulsione di stranieri irregolari. Inoltre lascia all’amministrazione un certo margine di discrezionalità, sia nella valutazione della pericolosità sociale sia nella determinazione del rischio di fuga dello straniero per sottrarsi al provvedimento d’espulsione. Infine l’autorità stabilisce la misura limitativa della libertà personale attraverso due atti amministrativi, e cioè il decreto d’espulsione coattiva alla frontiera e il provvedimento del questore per il trattenimento nell’impossibilità di eseguire immediatamente l’allontanamento, senza l’obbligo di supportare dettagliatamente con prove e argomentazioni le ragioni della decisione. Prendendo in considerazione, inoltre, la definizione delle strutture da adibire a Cie, manca una base legislativa che vincoli la discrezionalità dell’amministrazione nell’individuarle. Dal 1998 ad oggi, i Cie sono stati collocati in strutture le più diverse tra loro, accomunate solo dalla dislocazione extraurbana. Prima ancora che insoddisfacente, è un quadro normativo incostituzionale per violazione certa della riserva di legge assoluta imposta dall’articolo 13, comma 2, della Costituzione, laddove chiama esclusivamente la fonte legislativa a disciplinare «i modi» di limitazione della libertà personale. Il Testo Unico sull’immigrazione (articolo 14, comma 1) si limita a designare come Cie «quelli individuati o costituiti con decreto del Ministero dell’interno, di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della
programmazione economica». Indicazione di dettaglio si trovano non nella normativa di fonte regolamentare, ma solo in apposite direttive della Direzione generale dei servizi civili del Ministero dell’interno, risalenti al 2000, poi aggiornate nel 2009. L’assenza di adeguata base legislativa si registra anche con riferimento all’organizzazione interna ai Cie. Il Testo Unico sull’immigrazione (articolo 14, comma 2) si limita a prevedere che il trattenimento si svolga secondo modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della dignità dello straniero; il diritto a ricevere – tradotti il lingua comprensibile – i provvedimenti di ingresso, soggiorno, espulsione; la libertà di corrispondenza anche telefonica con l’esterno. Per tutto il resto il rinvio è alla fonte regolamentare (articoli 20-23, D.P.R. n. 394 del 1999) che, a sua volta, rimanda a fonti sub regolamentari facenti capo, alla fine, al decreto ministeriale del 21 novembre 2008 (titolato «Schema di capitolato di appalto per la gestione dei centri di accoglienza per immigrati»), e cioè a un capitolato d’appalto e alle singole convenzioni stipulate tra le Prefetture e gli enti gestori del servizio nei Cie. Questo capovolgimento dell’ordine gerarchico delle fonti è illegittimo, di nuovo per violazione dell’articolo 13, comma 2, della Costituzione.
Questi sono alcuni dei rilievi sull’attuale legislazione italiana in materia di identificazione, trattenimento ed espulsione dei cittadini stranieri irregolari, dal punto di vista del diritto di libertà personale e del principio di eguaglianza e non discriminazione nel godimento dei diritti fondamentali, emersi dalla riflessione di giuristi e associazioni che si occupano di immigrazione e affrontati nel corso della discussione in Commissione.
Si segnala in conclusione che, nella sent. 105/2001, la Corte costituzionale ha riconosciuto che il trattenimento “è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione”, determinando “anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale”.

II. FOTOGRAFIA DEL SISTEMA CIE (LUGLIO 2014)
2. Alcuni dati
Attualmente, degli 11 Centri di identificazione ed espulsione presenti in Italia (Bari, Bologna, Brindisi, Caltanissetta, Crotone, Gorizia, Milano, Roma, Torino, Trapani e Trapani Milo) solo 5 sono funzionanti (Bari, Caltanissetta, Roma, Torino, Trapani) 21. Sono temporaneamente chiusi, per lavori o perché in attesa della definizione delle procedure di aggiudicazione della gestione, i Cie di Brindisi, Crotone, Gorizia. Il Cie di Trapani-Serraino Vulpitta è in via di riconversione in centro di accoglienza per richiedenti asilo. I centri di Bologna e di Milano dal mese di agosto 2014 sono utilizzati come centri di prima accoglienza. Dai dati del Ministero dell’interno, al 4 febbraio 2014 su una capienza complessiva di 1.791 posti, risulta che la capienza effettiva (posti disponibili) è di 842 posti. Al 13 febbraio 2014 le presenze erano 460, al 4 marzo 469.
A luglio 2014 il Ministro dell’interno, Angelino Alfano, ha dichiarato che i posti disponibili a quella data erano 500.
La maggior parte dei centri che erano operativi in quella data funzionava a scartamento ridotto per ragioni di sicurezza o perché molti settori erano inagibili oppure danneggiati. Tutti i centri visitati dalla Commissione ospitavano un numero di immigrati ben inferiore alla loro effettiva capienza. Numerose proteste si sono succedute negli ultimi mesi su tutto il territorio. La popolazione delle persone trattenute appare eterogenea da un punto di vista sociale, psicologico, sanitario e giuridico, e difficilmente gestibile in centri chiusi verso l’esterno, strutturalmente afflittivi, spesso inadeguati nei servizi offerti e con scarsi mezzi di gestione. Il drastico taglio delle risorse a disposizione degli enti gestori, insieme al prolungamento dei tempi massimi di trattenimento a 18 mesi, hanno contribuito ad accrescere la tensione nei centri e a peggiorare ulteriormente le condizioni di vita dei trattenuti, come risulta dalla più recente indagine Arcipelago CIE realizzata tra febbraio 2012 e febbraio 2013 da Medici per i diritti umani, pubblicata nel maggio 2013.
Il Cie di via Corelli a Milano è stato chiuso per lavori di ristrutturazione dalla fine di dicembre 2013. I Cie di Trapani (Serraino Vulpitta) e quello di Brindisi sono stati chiusi nel giugno 2012; il centro di Lamezia Terme è stato chiuso nel novembre 2012. I Cie dell’Emilia Romagna sono stati chiusi a febbraio (Bologna) e agosto 2013 (Modena) per lavori di (Audizione in Commissione Affari costituzionali del Senato il 2 luglio e in Commissione diritti umani del 9 luglio. 23 Medici per i diritti umani, Arcipelago Cie, 2013: http://www.mediciperidirittiumani.org/pdf/ARCIPELAGOCIEsintesi.pdf) ristrutturazione, dopo che le Prefetture, di fronte a esiti critici relativi alle condizioni di vita dei trattenuti e alla gestione complessiva, avevano revocato gli appalti all’ente che se li era aggiudicati con gare al ribasso. I centri di Bologna e di Milano, come anticipato, dal mese di agosto 2014 sono utilizzati come centri di prima accoglienza temporanei per i profughi sbarcati sulle coste siciliane.
2.1 Gradisca d’Isonzo Il Cie di Gradisca d’Isonzo è stato svuotato al principio di novembre 2013 dopo mesi di rivolte e proteste da parte dei migranti che denunciavano le condizioni inumane di trattenimento. Il 13 agosto 2013, nel corso di un tentativo di fuga di massa avvenuto quella stessa notte, un trattenuto di origini marocchine ha perso l’equilibrio riportando nella caduta gravissime conseguenze. Dopo mesi di coma seguito a un intervento chirurgico, è deceduto il 30 aprile 2014 all’ospedale di Monfalcone. Il 10 settembre 2013 una delegazione della Commissione si è recata in visita al Cie, riscontrando numerose criticità, condizioni di vita inaccettabili e tensione altissima.
L’ultima rivolta è scoppiata il 31 ottobre 2013. Alla luce di questo ennesimo episodio e di quanto riscontrato nel corso della visita, il presidente della Commissione Manconi ha chiesto con un’interpellanza al Ministro dell’interno Angelino Alfano la chiusura del centro di Gradisca25. Il 5 novembre 2013 il Ministero dell’Interno ha svuotato il centro, disponendo il trasferimento delle persone trattenute. Secondo quanto dichiarato dal ministro Alfano26, il centro non dovrebbe essere più riaperto, ma essere destinato all’accoglienza dei richiedenti asilo, come ripetutamente chiesto dagli enti locali e dalla stessa Commissione diritti umani del Senato. Si segnala inoltre che il 26 marzo 2014, il tribunale di Gorizia ha rinviato a giudizio tredici persone a seguito di un’inchiesta sulla gestione del centro. Tra queste i vertici dell’ente gestore Connecting people di Trapani, imputati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa ai danni dello Stato e a inadempienze di pubbliche forniture. e due funzionari della Prefettura di Gorizia accusati di falso materiale e ideologico in atti pubblici. Dalle fatture mostrate alla Prefettura, nelle due strutture di Gradisca sarebbe stato fatto risultare, relativamente al periodo dal 2008 al 2011, un numero di presenze superiore a quelle effettive.
2.2 Bari Il 29 giugno 2013 e il 9 aprile 2014 la Commissione ha visitato il Cie di Bari Palese e ha seguito da vicino l’evoluzione del procedimento di cui il centro è stato oggetto, nato dalla class action proposta dagli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci nel marzo 2011. (Si veda il resoconto della visita nella seconda parte del volume. 25 http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Sindisp&leg=17&id=723191)
Il presidente del tribunale aveva nominato un suo perito chiedendogli di verificare le condizioni all’interno del centro. Il perito aveva quindi individuato una serie di mancanze e, conseguentemente, il giudice aveva ordinato alla Prefettura di effettuare alcuni interventi per metterlo a norma. Nel dicembre 2013 è stata depositata presso il tribunale di Bari una seconda relazione del perito in cui il tecnico sottolineava che i lavori effettuati alla struttura non erano “sufficienti per un significativo miglioramento delle condizioni di vita degli occupanti”. Il tribunale di Bari a gennaio 2014 ha quindi intimato al ministero dell’interno e alla locale Prefettura di eseguire, entro il termine improrogabile di 90 giorni, i seguenti lavori: ampliare e migliorare i servizi igienici, incrementandone il numero; provvedere all’oscuramento, anche parziale, delle finestre della stanze d’alloggio; ampliare la mensa o la “sala benessere”; incrementare le aule per attività didattiche, occupazionali e ricreative, così come le aree adibite alle attività sportive; colmare la carenza di segnaletiche antincendio nei moduli abitativi; provvedere alla manutenzione dei moduli e utilizzare materiali resistenti all’usura e allo strappo. Il tribunale di Bari in seduta collegiale, a maggio 2014, ha respinto il reclamo proposto dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e dal ministro dell’interno contro l’ordinanza del giudice recante l’ordine all’autorità statale di eseguire i lavori volti ad assicurare la conformità del Cie di Bari alle linee guida ministeriali del 2009. Con lo stesso provvedimento il Tribunale ha respinto il ricorso incidentale degli avvocati di Class Action Procedimentale, che chiedevano la chiusura del centro, ritenendo che l’ordine di esecuzione lavori era senz’altro idoneo ad arginare il pregiudizio irreparabile lamentato dagli attori popolari. Il 29 maggio 2014 gli interventi di ristrutturazione non erano ancora terminati, secondo quanto riferito dagli operatori di Medu che hanno visitato il centro quel giorno, riportando che risultavano occupati solo tre moduli su sette, con 74 migranti trattenuti a fronte di una capienza complessiva di 80 posti, al momento della visita, e di totali 112, in base a quanto previsto dalla convenzione per la gestione del centro.
2.3 Modena Va segnalato che il 7 luglio 2013, un mese prima dello svuotamento definitivo, il Cie di Modena è stato oggetto di una accesa protesta. Nove dei trattenuti coinvolti sono stati arrestati. Il gip del tribunale Paola Losavio, nell’ordinanza di convalida dei provvedimenti, ha sottolineato come la violenza degli atti fosse strettamente legata alle condizioni “inumane” di vita nel centro: “È ben vero che le condotte violente scaturirono da una situazione contingente che le occasionò. E cioè le inumane condizioni di vita esistenti all’interno del Cie di Modena che già in questa sede non ci si può esimere dal denunciare alle autorità sanitarie, per l’elevato rischio di epidemie, ed alla Procura della Repubblica per eventuali reati che dovessero ravvisarsi in capo ai gestori di tale struttura. E tale denuncia non scaturisce soltanto dalla disperata ed attendibile voce degli ospiti poi arrestati, i quali tutti unanimemente hanno lamentato il degrado igienico ed ambientale in cui sono costretti a trascorrere i mesi di “detenzione amministrativa”, in patente violazione dell’art. 3 della “Convenzione dei diritti umani” che vieta la sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti, ma dai segni evidenti sui loro corpi di tale degrado”. E ancora: “Il grido di disperazione non può essere soffocato dal pur necessitato provvedimento di arresto e dalla individuazione delle responsabilità penali degli autori della rivolta, ma deve trovare il doveroso ascolto delle istituzioni pubbliche responsabili dei complessivi servizi e garanti del rispetto dei diritti umani inviolabili”.
2.4 Crotone Il Cie di Crotone è stato chiuso ad agosto 2013 dopo la morte di un giovane migrante e la successiva rivolta dei trattenuti. Una precedente rivolta aveva dato luogo a un processo conclusosi con un esito da segnalare. Una indiretta ma evidente denuncia delle condizioni “illegittime” e “al limite della decenza” del centro è emersa, infatti, dalla sentenza del giudice di Crotone del 12 dicembre 2012 che ha assolto dall’accusa di danneggiamento e di resistenza a pubblico ufficiale tre cittadini stranieri, un tunisino, un algerino e un marocchino, protagonisti di una rivolta nel centro di identificazione ed espulsione di Isola Capo Rizzuto nel mese di ottobre. Il giudice, nella lunga e articolata motivazione, finisce per ritenere giustificata la condotta dei trattenuti, stabilendo che essi abbiano agito per difendere i loro diritti fondamentali (alla libertà personale e alla dignità umana) da una iniqua ed ingiusta aggressione29. La violazione della libertà personale e della dignità umana sarebbe avvenuta a causa della piena inosservanza delle norme nazionali e comunitarie che disciplinano il trattenimento dei cittadini stranieri da parte della prefettura e del giudice di pace, cui è rimessa la ampia giurisdizione della materia e della libertà personale delle persone. Il giudice monocratico ha ascoltato i racconti dei trattenuti, ha analizzato i provvedimenti amministrativi e dei giudici di pace, ha esaurientemente richiamato la normativa comunitaria esistente ed ha disposto una ispezione del Cie. Nella sentenza si legge che quella rivolta era una “difesa proporzionata all’offesa”. Innanzitutto perché i provvedimenti di trattenimento “erano privi di motivazione, e dunque illegittimi alla luce dell’articolo 15 della direttiva n. 115 del 2008, così come interpretato dalla Corte di Giustizia europea”. Omettevano infatti “del tutto l’indicazione delle ragioni specifiche in forza delle quali non era stato possibile adottare una misura coercitiva meno afflittiva del trattenimento presso il Cie”. Inoltre, le condizioni di vita nel centro erano inaccettabili, con “materassi luridi, privi di lenzuola e con coperte altrettanto sporche, lavabi e “bagni alla turca” luridi, asciugamani sporchi, pasti in quantità insufficienti e consumati senza sedie né tavoli, condizioni – si legge nella sentenza – “non convenienti alla loro destinazione: che è quella di accogliere essere umani. E, si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale. Lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato a chi magari è abituato a condizioni abitative precarie, ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di razza”. Gli imputati sono stati quindi vittima di “offese ingiuste”, alle quali hanno opposto una “legittima difesa”.
2.5 Rimpatri ed espulsioni Secondo i dati del Ministero dell’interno, gli stranieri trattenuti nei Cie nel corso del 2013 sono stati 6.016 (5.431 uomini e 585 donne), dei quali 2.749 sono stati effettivamente rimpatriati. Nel 2014, al 9 luglio, i trattenuti risultano essere 2.124, di cui 1.036 rimpatriati. Nel 2012 sono stati 7.944 (7.012 uomini e 932 donne) i migranti trattenuti in tutti i Cie e di questi solo la metà (4.015) sono stati rimpatriati. Il tasso di efficacia (rimpatriati su trattenuti) nel 2013 è risultato inferiore del 5% rispetto all’anno precedente (45,7% nel 2013 rispetto al 50,5% nel 2012). Nel 2014 (gennaio-giugno), i tempi medi di permanenza nei vari Cie sono stati i seguenti: • 55 giorni nel Cie di Bari; • 24 giorni nel Cie di Caltanissetta; • 32 giorni nei Cie di Roma e di Torino; • 50 giorni nel Cie di Trapani Milo.
Va considerato un ulteriore dato: il numero complessivo dei migranti rimpatriati attraverso i Cie nel 2013 risulta essere lo 0,9% del totale degli immigrati in condizioni di irregolarità che si stima essere presenti sul territorio italiano (294.000 secondo i dati dell’Istituto
per lo Studio della Multietnicità al primo gennaio 2013)30. Nel 2012, su 326.000 persone irregolari stimate, solo 4.015 sono state rimpatriate dopo un periodo di trattenimento, che corrisponde all’1,2% del totale degli stranieri senza permesso di soggiorno presenti in Italia. Dall’analisi di questi dati, i centri di identificazione ed espulsione, dunque, risultano sempre più sottoutilizzati in quanto a presenze e sempre meno incisivi in termini di espulsioni e rimpatri.
Nella tabella successiva, fornita dal Ministero dell’interno, viene riepilogata la situazione dei cinque Cie attualmente in funzione (Bari, Caltanissetta, Roma, Torino, Trapani), con i dati relativi a trattenimenti, rimpatri e rilasci, dal 2009 al 2013: il numero TRANSITATI indica tutti coloro che hanno fatto ingresso ed hanno circolato in un Cie; il numero RIMPATRIATI indica coloro che sono stati identificati e rimpatriati a seguito di trattenimento; il tempo medio è una media, centro per centro, del tempo di trattenimento (espresso in giorni), strettamente connesso al periodo necessario all’identificazione del trattenuto; il numero “USCITI con Ordine” indica coloro che sono stati dimessi dal Cie a seguito di: a) non convalida del trattenimento; b) decorrenza termini massimi del trattenimento; c) motivi di salute, cui è stato notificato l’ordine del Questore a lasciare il territorio nazionale entro 7 giorni; il numero “USCITI per altri motivi” include coloro che: a) si sono allontanati arbitrariamente dal centro; b) sono stati arrestati durante il periodo di trattenimento; c) sono deceduti in un Cie; il numero “Richiedenti ASILO” indica coloro che, durante il trattenimento, hanno chiesto la protezione internazionale e sono stati dimessi dal Centro.

III. MISURE MINIME 3. Per il rispetto della dignità delle persone trattenute
L’articolo 14 del decreto 25 luglio 1998, n. 286, così come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, prevede, al comma 2, che nei centri di identificazione ed espulsione lo straniero sia trattenuto «con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità». Dall’indagine svolta nei mesi scorsi attraverso audizioni e sopralluoghi nei centri di identificazione ed espulsione di Bari, Roma, Gradisca d’Isonzo, Trapani e Torino sono emerse numerose e profonde incongruenze riguardo alle funzioni che essi dovrebbero svolgere, e ciò in ragione di rilevanti insufficienze strutturali, nonché di modalità di trattenimento inadeguate rispetto alla tutela della dignità e dei diritti degli interessati. Una serie di osservazioni erano già presenti nel rapporto redatto dalla Commissione De Mistura, istituita nel 2006 per volere dell’allora Ministro dell’interno Giuliano Amato al fine di valutare il sistema dei Centri per gli immigrati31. Nel 2012 la stessa Commissione diritti umani del Senato, al termine di un’indagine conoscitiva sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri d’accoglienza e trattenimento per migranti in Italia ha pubblicato un rapporto in cui venivano evidenziate alcune criticità del sistema dei Cie32. Infine, nel dicembre 2013, la task-force voluta dal Ministro dell’interno Annamaria Cancellieri e guidata dal sottosegretario Ruperto, dopo aver analizzato la situazione dei Cie sotto un profilo normativo, organizzativo e gestionale, ha formulato una serie di proposte “idonee a migliorarne l’operatività e ad assicurare l’uniformità complessiva” dei centri.
Alla luce dei risultati del lavoro svolto, la Commissione chiede al Governo di intervenire a breve termine attraverso l’attuazione di misure minime in grado di assicurare alle persone sottoposte al trattenimento il rispetto delle garanzie previste dalle norme nazionali e internazionali. Nello stesso tempo la Commissione propone una serie di interventi sulle procedure che regolano il sistema di trattenimento, identificazione ed espulsione con l’obiettivo di rendere il ricorso al trattenimento dello straniero come una misura eccezionale, o comunque del tutto residuale, finalizzata esclusivamente al rimpatrio e a ridurre al minimo i tempi di permanenza in quelle strutture.
3.1 Tempi di trattenimento Come si è detto, nel 2013 sono stati 6.016 (5.431 uomini e 585 donne) i migranti trattenuti in tutti i Centri di identificazione ed espulsione operativi in Italia; meno della metà di essi (2.749) è stata però effettivamente rimpatriata. Nel 2012 sono stati 7.944 (7.012 uomini e 932 donne) i migranti trattenuti in tutti i Cie e di questi solo la metà (4.015) sono stati rimpatriati. Inoltre, il prolungamento del trattenimento dai trenta giorni del 1998 ai diciotto mesi del 2011 non pare abbia migliorato il tasso di espulsioni: rispetto al 2010, il rapporto tra i migranti rimpatriati e il totale dei trattenuti nei Centri di identificazione ed espulsione, nel 2012 è cresciuto di appena il 2,3%; mentre nel 2011 l’incremento del tasso di efficacia nei rimpatri è risultato addirittura irrilevante (+0,3%). Un altro dato va messo in relazione ai tempi di trattenimento: in base a quanto dichiarato dal personale degli uffici immigrazione delle questure con cui la Commissione è entrata in contatto, in media sono sufficienti 45 giorni per identificare un trattenuto. Se non si sono espresse in questo lasso di tempo, le autorità consolari di solito non svolgono ulteriori indagini e non danno risposta. Alla luce di questa prassi generalizzata e riconosciuta come tale dagli uffici di immigrazione, il prolungarsi del trattenimento risulta inutile. In tutti quei casi, il trattenuto attende per mesi una risposta che non arriverà per poi essere rilasciato con un decreto di espulsione, dopo aver trascorso sostanzialmente recluso un tempo indefinito, senza alcuna giustificazione. Dalla questura di Gorizia, ad esempio, viene evidenziato come elemento di forte criticità la scarsa collaborazione offerta dalle autorità consolari di alcuni paesi, specialmente del Nord Africa (ed in particolare il Marocco), le quali ritardano nell’identificare gli stranieri e nel fornire i riscontri richiesti dalle forze di polizia italiane, e ciò anche in presenza di rimpatri volontari. Per tali ragioni il tempo di permanenza medio degli stranieri presso il Cie di Gradisca è stato per il 2013 pari a 175 giorni, mentre se le autorità consolari collaborano nell’attività di identificazione dello straniero, i tempi di permanenza non superano la media dei 60 giorni. La storia di D., che la Commissione ha incontrato nei mesi scorsi a Ponte Galeria, rappresenta un esempio, paradossale ma chiaro, di come siano sufficienti alcune settimane per la procedura del riconoscimento da parte delle autorità consolari le quali, se non intervengono nei primi due mesi, difficilmente potranno aggiungere ulteriori informazioni utili a riconoscere lo straniero nei mesi successivi. D. è nato 23 anni fa ad Aversa, da genitori bosniaci fuggiti in Italia. Da dicembre 2013 è stato portato nel Cie romano di Ponte Galeria, in attesa di essere espulso in Bosnia. Ma la famiglia risiede da decenni a Napoli, dove D. ha frequentato la scuola dell’obbligo e da cui non si è mai allontanato se non una volta, per andare a Milano, come ha raccontato egli stesso. Dopo aver scontato una pena di due anni, D. viene trasferito dal carcere direttamente a Ponte Galeria, con un ordine di espulsione deciso dal tribunale di sorveglianza di Napoli. L’ambasciata bosniaca a Roma, alla richiesta di identificarlo in modo da poter poi procedere con l’espulsione, ha negato che il giovane fosse bosniaco e reso impossibile di conseguenza il rimpatrio. Il giudice di pace ha nel frattempo prorogato più volte il trattenimento. D. è rimasto così nel Cie di Ponte Galeria, privato della libertà, per sei mesi, sottoposto a una seconda pena dopo quella già scontata in carcere, per poi essere rilasciato il 14 giugno con provvedimento del giudice che sospendeva il trattenimento e l’espulsione. È evidente come il prolungarsi del trattenimento non abbia avuto conseguenze sulla definizione della condizione di D.
Questo episodio, come tanti altri, dimostra come lo stesso sistema delle proroghe è opportuno che venga rivisto, per evitare interventi inutilmente afflittivi. Nelle proroghe del trattenimento, infatti, come già sottolineato, il giudice non può stabilire la durata in base alle effettive esigenze dei singoli casi, ma deve convalidare periodi di permanenza nei Cie rigidamente predeterminati per legge. La Commissione chiede al Governo di rivedere la disciplina dei tempi di permanenza all’interno dei Cie riducendo il trattenimento a 30 giorni, come previsto originariamente dalla c.d. legge Turco-Napolitano, con eventuale proroga a 60 giorni. Il ministro Alfano, nel corso dell’audizione presso la Commissione diritti umani, ha annunciato che la riduzione del termine massimo di permanenza a 180 giorni è stata inserita nel disegno di legge europea in corso di approvazione in Parlamento e si è dichiarato disponibile a un ulteriore alleggerimento35. Il 17 settembre 2014, il Senato ha approvato, all’art.3 comma e della Legge europea 2013-bis, accogliendo un emendamento dei senatori Manconi e Lo Giudice, la riduzione del periodo massimo di trattenimento degli stranieri all’interno dei Cie a novanta giorni.
3.2 Identificazione Uno dei nodi centrali da risolvere per velocizzare le procedure di trattenimento ed espulsione degli stranieri irregolari riguarda l’identificazione.
La popolazione che transita all’interno dei Cie è composta per la maggior parte da persone che provengono dal carcere. L’ultima indagine di Medici per i diritti umani (maggio 2013) conferma che quasi il 57% dei 924 stranieri trattenuti nei Cie proveniva dalle carceri.
Finito di scontare la pena, uomini e donne che hanno ricevuto provvedimenti di espulsione amministrativi e/o giudiziari, vengono portati nei centri per essere identificati ed espulsi. Ciò vuol dire che durante la detenzione non è stato possibile procedere all’identificazione. Il meccanismo si inceppa a causa della mancata o scarsa collaborazione del consolato del paese di provenienza dello straniero. Per l’identificazione ai fini dell’espulsione, infatti, è necessario il riconoscimento dello straniero da parte del console e successivamente il rilascio del documento di viaggio necessario per effettuare il rimpatrio. Questa procedura può richiedere molto tempo, nella maggior parte dei casi si tratta di alcuni mesi di trattenimento che vanno a sommarsi a una pena detentiva già scontata, determinando conseguenze di carattere afflittivo per il trattenuto. Proprio per ovviare al problema della «doppia detenzione», il decreto-legge n. 146 del 2013, recante misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria, ha introdotto anche alcune disposizioni in materia di trattenimento degli immigrati. Viene modificata la disciplina dell’espulsione come misura alternativa alla detenzione, ampliando il campo di possibile applicazione della misura; delineando i diversi ruoli per direttore del carcere, questore e magistrato di sorveglianza; e prevedendo una velocizzazione delle procedure di identificazione (art. 6).
Appare tuttavia necessario precisare meglio le modalità della procedura di identificazione. Occorre sia rafforzato il coordinamento fra strutture carcerarie e uffici immigrazione delle questure competenti e che venga data attuazione alla direttiva Amato-Mastella del 2007 sulla identificazione dei migranti in carcere. Allo scopo di realizzare una effettiva condivisione delle informazioni e dei database, si potrebbe procedere al distaccamento di personale degli Uffici Immigrazione presso l’ufficio matricole delle strutture carcerarie ovvero, al contrario, il distaccamento di personale della polizia penitenziaria presso gli Uffici Immigrazione40.
Riguardo alla procedura generale di identificazione per i trattenuti, è imprescindibile che i Cie si trovino geograficamente vicino alle rappresentanze diplomatiche (ambasciate, consolati) deputate al riconoscimento; è assai raro che i dipendenti di tali rappresentanze percorrano centinaia di chilometri per effettuare riconoscimenti che dovrebbero essere frequenti e numerosi (ad esempio, in un Cie come quello di Gradisca, i tempi di trattenimento erano inevitabilmente in media superiori a 12 mesi in quanto non ci sono rappresentanze diplomatiche in quell’area). Nella relazione del sottosegretario agli interni Ruperto del 2013 veniva indicata l’opportunità, nella prospettiva di una revisione della dislocazione dei Cie sul territorio e dell’eventuale creazione di nuove strutture, di concentrarne la presenza soprattutto nelle città in cui si trovano i consolati o le ambasciate dei paesi maggiormente interessati al fenomeno migratorio. La vicinanza geografica facilita infatti la collaborazione, riducendo i tempi di spostamento e semplificando i compiti dei funzionari diplomatici nell’organizzare incontri con gli stranieri da identificare. Occorre inoltre realizzare in tempi brevi protocolli di collaborazione con le autorità diplomatiche, attraverso il pieno coinvolgimento del Ministero degli affari esteri, per velocizzare la procedura di identificazione in carcere e nei Cie ed evitare la prassi diffusa di identificazioni sommarie e superficiali da parte delle autorità consolari. Infine, è necessario incentivare la collaborazione del trattenuto per limitare al minimo il periodo di reclusione nei Cie prevedendo, ad esempio, la cancellazione automatica del divieto di reingresso nel caso di collaborazione all’identificazione dello straniero irregolare. Il ministro dell’interno, intervenendo in Commissione, ha dichiarato che è già attivo un tavolo di coordinamento tra Giustizia e Interno finalizzato a esaminare congiuntamente le principali questioni relative al miglioramento delle procedure per l’identificazione dei detenuti stranieri. Ma permangono alcune criticità sul piano operativo. Una di esse è legata al repentino trasferimento di detenuti, per esigenze dell’amministrazione penitenziaria, che finisce per incidere sulla linearità della procedura identificativa. Per arginare tale inconveniente è stato attivato, dall’agosto del 2012, un sistema finalizzato a tracciare l’iter seguito nell’identificazione del detenuto straniero trasferito. Ma la principale problematicità è data dal fatto che numerosi paesi terzi non dispongono di un efficiente casellario centrale di identità e, comunque, emettono i documenti di espatrio solo dopo che le autorità consolari hanno incontrato i connazionali, peraltro fuori dagli istituti penitenziari per il rifiuto delle autorità medesime ad accedervi.
Riguardo alla collaborazione con i paesi terzi nelle procedure di identificazione e rimpatrio, sono state formalizzate intese con l’Egitto nel 2007 e con la Tunisia nel 2011. Attività di collaborazione sono in corso con la Nigeria e l’Algeria. In particolare, vengono periodicamente organizzate audizioni presso i Cie, finalizzate all’identificazione di persone di presunta nazionalità nigeriana e algerina.
3.3 Le persone trattenute La forte eterogeneità e promiscuità delle persone presenti all’interno dei centri di identificazione ed espulsione provoca situazioni di tensione altissima: vi si trovano, ad esempio, persone che hanno a lungo risieduto legalmente in Italia e che non avendo più rinnovato il permesso di soggiorno per le ragioni più diverse, sono diventate irregolari (cosiddetti overstayer), ex-detenuti che, scontata la pena, sono stati poi trasferiti nei Cie in attesa di identificazione o di rimpatrio e oppure richiedenti asilo che hanno potuto formalizzare la propria domanda solo dopo avere ricevuto un provvedimento di respingimento ed espulsione. La Commissione ha ascoltato in audizione la testimonianza di Ali Abdul Atumane, trattenuto per alcuni mesi presso il Cie di Ponte Galeria e rilasciato dopo aver ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale. Ali Abdul Atumane si è ritrovato in una situazione di privazione di libertà senza aver commesso alcun reato dopo aver vissuto in Italia per molti anni e, soprattutto, senza sapere cosa gli sarebbe successo, con l’ansia di poter essere rimpatriato in Mozambico da un momento all’altro.
L’eterogeneità di presenze nei Cie dipende da una parte dalla scarsa regolamentazione e progettualità propria dell’intero sistema dei centri e, dall’altra, dalla rigidità della normativa italiana in materia di immigrazione, per cui è sufficiente che uno straniero perda il lavoro o non gli venga rinnovato il permesso di soggiorno per più di 12 mesi per diventare irregolare.
All’interno dei centri di identificazione e di espulsione sono trattenute le donne e gli uomini sprovvisti di un valido titolo di soggiorno in Italia. Nello specifico: – persone adulte; – persone che non hanno mai avuto un documento regolare per la permanenza in Italia; – persone che erano in possesso di un documento regolare e non sono riuscite a rinnovarlo; – persone nate in Italia o giunte minorenni, che a diciotto anni non hanno potuto rinnovare il documento per la raggiunta maggiore età; – apolidi che non hanno fatto la richiesta perché gli sia riconosciuto quello status; – richiedenti asilo che non hanno presentato la domanda al momento dell’arrivo in Italia; – ex-detenuti. Come si è rilevato, le persone provenienti dal carcere rappresentano la parte più cospicua della popolazione dei Cie.
Un’altra parte considerevole è costituita da coloro che, in possesso di un documento regolare, non sono riusciti a rinnovarlo, diventando così irregolari. È questo il caso di molte collaboratrici domestiche e, più in generale, dei lavoratori subordinati che al momento del rinnovo del permesso di soggiorno non sono più in possesso dei requisiti richiesti, ad esempio un contratto di lavoro valido. Alla scadenza del permesso di soggiorno, i lavoratori stranieri in quella situazione possono richiedere un permesso per attesa occupazione che dà diritto a rimanere sul territorio italiano per un anno di tempo (sei mesi prorogabili di altri sei), utile a trovare un nuovo lavoro. La storia di David, incontrato dalla Commissione a Ponte Galeria, è emblematica in questo senso. Fermato a Firenze al banco di un mercato in cui lavorava, e trovato con il permesso di soggiorno scaduto ma nel periodo di tempo previsto per l’ “attesa occupazione”, è stato portato al Cie di Ponte Galeria. Una volta trattenuto, è cominciata la trafila per ottenere la sospensiva del provvedimento di espulsione, che è arrivata dopo un mese. Spesso si è riscontrata la presenza nei Cie di immigrati che da molti anni vivono insieme alle loro famiglie in Italia, paese nel quale hanno sede i loro affetti e interessi; tali migranti in molti casi non hanno più alcun legame con i loro paesi di origine. Anche in questo caso il trattenimento risulta spesso inutile, poiché esiste una oggettiva difficoltà a identificarli dopo tanti anni trascorsi lontano dal paese d’origine, e diviene lesivo del diritto all’unità familiare dei migranti e dei loro congiunti. Uno degli aspetti che più affligge i trattenuti nei Cie, infatti, riguarda la presenza dei loro familiari all’esterno. In molti casi si tratta di persone che vivono in Italia da anni e che qui hanno avuto dei figli, a volte con partner italiani. Queste situazioni possono essere sanate e definite in maniera più veloce rispetto alle normali procedure attualmente previste: in virtù della presenza di un figlio minore, ad esempio, sulle esigenze di sicurezza prevale il principio dell’unità familiare e il minore ha il diritto di vivere con il genitore. Tale procedura deve essere attuata previa domanda al tribunale per i minorenni. La risposta, in genere, impiega però molte settimane ad arrivare. E così il genitore si ritrova a trascorrere diversi mesi all’interno del Cie in attesa del parere del tribunale. Un intervento del giudice di pace che non convalidi il trattenimento sarebbe più veloce ed eviterebbe settimane o mesi di privazione della libertà. Dennis, di origine nigeriana, viveva a Napoli con la moglie e tre figli, tutti da lui riconosciuti. Dal carcere è stato direttamente portato al Cie di Ponte Galeria in cui è stato trattenuto per oltre sei mesi in attesa di una risposta dal tribunale dei minori al quale si è dovuto rivolgere per far valere il diritto all’unità familiare. Al Cie di Bari erano numerosi i trattenuti con una famiglia all’esterno e che si trovavano a centinaia, a volte migliaia di chilometri da casa. Lo stesso vale per il Cie di Trapani in cui si trovavano molti uomini provenienti dalle regioni del Nord Italia. Ciò accade innanzitutto perché lo straniero viene trasferito nel centro in cui c’è disponibilità di posto. Inoltre si tende a concentrare nello stesso posto persone della stessa nazionalità per facilitare le operazioni di rimpatrio. Vi sono poi altre numerose situazioni, che sono state riscontrate visitando i centri, che sarebbero sanabili in tempi brevi per la presenza di elementi che rendono effettivamente incompatibile o ineseguibile il trattenimento e la eventuale l’espulsione. Un esempio è quello del coniuge di un cittadino italiano titolare di semplice permesso di soggiorno, una condizione più precaria di quella di un titolare di permesso di soggiorno di lungo periodo (ex carta di soggiorno). Nonostante la posizione sia chiara e facilmente sanabile, il trattenimento è spesso convalidato. Inoltre l’esclusione del trattenimento per i cittadini non comunitari coniugati con cittadini comunitari è prevista dall’articolo 20ter del decreto legislativo 30/2007 e in questo caso la competenza a giudicare le questioni inerenti lo status familiare spetta al tribunale ordinario e non al giudice di pace. È questo il caso di una signora di nazionalità cinese sposata con un italiano incontrata a Ponte Galeria. Il suo permesso di soggiorno era scaduto da oltre due mesi e per questo è stata portata al Cie. Qui è rimasta per 30 giorni perché il trattenimento è stato convalidato. Ma in una situazione come la sua, priva di conflitti con il marito e in cui l’irregolarità era causata dal ritardo nel rinnovo del documento – diritto che, tra l’altro, avrebbe difficilmente perso – il trattenimento era evitabile. Ancora elevato è poi il numero di cittadini comunitari, in particolare di origine rumena, trattenuti per più di quattro giorni, periodo massimo di trattenimento fissato dalla legge in questi casi.
Nel corso delle visite ai Cie effettuate dalla Commissione è stata spesso riscontrata la presenza di alcune persone rom trattenute, possibili titolari dello status di apolide in quanto provenienti dalla ex-Jugoslavia. Il riconoscimento dell’apolidia eviterebbe loro di essere ripetutamente portati al Cie per essere identificati. Nel centro di Ponte Galeria si trovava trattenuta una donna di sessant’anni, madre di nove figli, che viveva in Italia da quaranta. La donna è uscita dopo due mesi perché l’avvocato è riuscito ad ottenere il provvedimento di sospensiva, e perché nel frattempo aveva presentato domanda di apolidia. Si tratta anche in questo caso di situazioni in cui il trattenimento potrebbe essere evitato. Lo stesso vale per i richiedenti asilo che sbarcano sulle coste del Sud dell’Italia. L’informazione che ricevono rispetto ai diritti e alle possibilità di realizzare un percorso in Italia non sono sufficienti a evitare il trattenimento nel Cie. Infatti sin dal 2013 non di rado è stato possibile incontrare nei Cie persone sbarcate da poco, che non conoscevano il posto in cui si trovavano e che hanno poi fatto richiesta d’asilo. È questo il caso dei quindici tunisini che si sono cuciti le labbra in segno di protesta per le condizioni generali del trattenimento nel Cie di Ponte Galeria, a dicembre 2013. Gli stessi, incontrati dalla Commissione, non sapevano della possibilità di chiedere asilo. Il fenomeno davvero grave riscontrato nei centri riguarda i trattenuti nati e cresciuti in Italia. Qui si possono distinguere due situazioni. La prima riguarda chi ha sempre avuto un permesso di soggiorno e al compimento dei diciotto anni non è riuscito a rinnovarlo trovandosi così in una situazione di irregolarità. La seconda comprende chi è nato in Italia ma non è mai stato regolare. Il passaggio alla maggiore età è un momento critico perché il permesso di soggiorno deve essere legato alla frequentazione di un corso di studi oppure alla firma di un contratto di lavoro. Ma non è detto che queste due condizioni ci siano. Non è raro il caso di chi, nonostante sia in Italia da molti anni e qui abbia portato avanti un percorso di formazione e di vita, rischi di essere rimpatriato. La Commissione si è spesso imbattuta in persone trattenute nei centri che si trovavano in condizione di estrema vulnerabilità psicologica e fisica. Il trattenimento di queste persone provoca evidentemente un aggravio della loro condizione psico-fisica (peraltro confermato in molti casi dall’uso, spesso abuso, di psicofarmaci) e si rivela spesso inutile ai fini dell’identificazione. In questi casi è il questore che dovrebbe intervenire, previa certificazione di un medico, con un provvedimento che consente il rilascio immediato per incompatibilità con il trattenimento. Numerose sono inoltre le donne vittime di tratta e di sfruttamento sessuale trattenute, le quali non sempre vengono identificate in quanto tali non avendo così possibilità di accedere ai meccanismi di assistenza e protezione previsti in quei casi. Considerati anche gli obblighi derivanti dal recepimento della direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, sarebbe necessario prevedere percorsi di formazione specifici rivolti al personale di polizia coinvolto nelle procedure di identificazione e promuovere un approccio multidisciplinare che preveda la collaborazione di diverse professionalità provenienti da servizi sociali, organizzazioni non governative, ispettorato del lavoro per garantire la pronta identificazione di trattenuti titolari di particolari diritti, come nel caso delle vittime di tutte le forme di tratta degli esseri umani presunte e accertate, e prevenire casi di “re-vittimizzazione”. La Commissione chiede più in generale, come raccomandato anche dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che venga rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari direttamente dalla questura, senza attivare la procedura della protezione internazionale, per gli stranieri irregolari che sono particolarmente vulnerabili (casi psichiatrici, malati o immigrati che risiedono in Italia da molto tempo) e risultano incompatibili con il trattenimento nei Cie, come previsto all’art. 6 c. 4 della direttiva rimpatri (2008/115/CE), tenendo conto, per ogni decisione riguardante l’espulsione di uno straniero irregolarmente soggiornante, dei principi riguardanti il superiore interesse del minore, il diritto all’unità familiare e il principio di non-refoulement.
Inoltre è necessario adottare iniziative in merito alla formazione specifica delle figure professionali (forze dell’ordine, giudici di pace, operatori) coinvolte nelle procedure di trattenimento, identificazione, espulsione e rimpatrio allo scopo di evitare che il trattenimento diventi prassi automatica e per assicurare un’accurata valutazione di ogni singolo caso. Nei centri più aperti verso l’esterno, dove le associazioni di settore riescono a svolgere la loro attività di informazione e sostegno entrando periodicamente nei centri stessi e seguendo da vicino i singoli trattenuti, è evidente la presenza di un clima meno teso e di un atteggiamento meno aggressivo verso operatori e forze dell’ordine. In questo senso è importante definire protocolli e convenzioni con il Consiglio dell’ordine degli avvocati o con le associazioni forensi per garantire maggiore trasparenza e regolarità nel rapporto tra legale e straniero e una maggiore consapevolezza da parte di quest’ultimo della propria condizione.
3.4 Rimpatrio volontario assistito Il rimpatrio volontario assistito è una delle misure che andrebbero incentivate e promosse in alternativa al trattenimento, come suggerito dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni.
Secondo quanto riferito dal Ministro dell’interno, i rimpatri volontari e assistiti nel 2013 sono stati 1.036, di cui 43 con volo congiunto organizzato con l’Inghilterra, e 612 nel corso del primo semestre del 2014. Tali programmi sono finanziati, al momento, attraverso il Fondo europeo per i rimpatri46.
In base a quanto previsto dalla normativa vigente, infatti, gli stranieri irregolari rintracciati dalle forze dell’ordine, hanno diritto ad accedere alle misure alternative al Cie, eccetto in caso di rischio di fuga (che secondo la legislazione sussiste quando lo straniero non è in grado di esibire un passaporto o altro documento equipollente), e richiedere che, in luogo del trattenimento, gli sia dato un termine per lasciare volontariamente l’Italia (periodo che varia tra i 7 e i 30 giorni). Per accedere al rimpatrio volontario lo straniero deve dimostrare di avere risorse economiche sufficienti e di avere un alloggio ove possa essere agevolmente rintracciato. La Commissione suggerisce che il divieto di reingresso (attualmente dai 3 ai 5 anni) sia revocato in forma automatica per gli stranieri irregolari che – qualora trattenuti nei Cie in quanto non soddisfano i requisiti per accedere alle misure alternative – collaborino alla loro identificazione e al rimpatrio.
3.5 Condizioni di trattenimento nei Cie e gestione delle strutture La Commissione, nel corso delle visite effettuate nei centri, ha riscontrato la presenza di persone che, in presenza di un titolo di trattenimento amministrativo volto all’identificazione, all’espulsione o al rimpatrio, sono state private della libertà per prolungati periodi di tempo, impossibilitate a svolgere alcun tipo di attività ricreativa o formativa, in condizioni di vita precarie da un punto di vista materiale e umano. Il trascorrere di un “tempo vuoto” all’interno dei centri è una delle più forti criticità registrate. La fatiscenza degli alloggi, la carenza di spazi e di attività ricreative, l’insufficienza dei servizi di mediazione culturale e legale, la scarsa chiarezza nel comunicare ai trattenuti il regolamento interno del centro sono elementi riscontrati in tutte le strutture visitate, con poche eccezioni. Gli stessi elementi sono stati oggetto di diversi rapporti pubblicati negli ultimi anni, curati da associazioni indipendenti48 e da organismi istituzionali.
Il 16 aprile 2014 il prefetto Riccardo Compagnucci, vice capo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno, ascoltato in audizione dalla Commissione, nel ricostruire la storia dei centri di identificazione ed espulsione nel nostro Paese, ha spiegato come l’istituzione dei centri sia avvenuta in un momento di emergenza, con una normativa al principio non chiara, che con il tempo si è andata affinando, ma che risente tuttora di quella iniziale incertezza. Nel 1998, i centri istituiti furono addirittura 23, e molti furono rapidamente chiusi, anche perché effettivamente inadeguati rispetto all’accoglienza degli immigrati. L’autorità competente per l’attivazione e la gestione dei centri di permanenza per stranieri, fin dal momento della loro istituzione, è rappresentata dalle Prefetture50, le quali devono provvedere all’amministrazione delle strutture presenti sul territorio con la possibilità di avvalersi, stipulando apposite convenzioni, delle prestazioni di enti locali o di altri soggetti privati o pubblici. Questi ultimi possono, a loro volta, servirsi della collaborazione di altri enti, cooperative, associazioni di volontariato. Sin dall’inizio le Prefetture hanno esternalizzato l’amministrazione dei centri. Tra il 1998 e il 2000, i servizi e ambiti gestionali di quasi tutti i CPTA presenti in Italia sono stati assegnati dai diversi prefetti – attraverso l’affidamento diretto in seguito a trattativa privata – alla Croce Rossa Italiana. Ma l’assenza di parametri fissati a livello nazionale e di indicazioni precise sulle modalità di trattenimento, sull’organizzazione dei centri e sulla gestione della sicurezza all’interno delle strutture, ha comportato anomalie, inefficienze e profonde disparità tra le diverse realtà presenti sul territorio italiano, lasciando spazio a un certo grado di discrezionalità da parte di Prefetture e Questure. Il Ministero dell’interno, per ovviare a questo problema, ha emanato e diffuso nel 2000 una Direttiva Generale in materia di Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza in cui sono state indicate istruzioni generali per l’istituzione, l’attivazione e la gestione delle strutture per migranti, ed è stata fissata la regola del ricorso a procedure concorsuali per la scelta dell’ente gestore, con l’indicazione delle prestazioni e le attività da garantire. Nel 2002 sono state diffuse dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministro dell’interno le linee-guida gestionali dei centri a livello nazionale, redigendo uno schema di convenzione-tipo da usare per l’affidamento delle attività di direzione e di amministrazione delle strutture; indicando in modo dettagliato le singole prestazioni da erogare; rendendo competitiva l’individuazione degli enti gestori; affidando la scelta dell’ente a una gara ufficiosa da rinnovarsi ogni due anni, fondata sull’offerta economicamente più vantaggiosa e l’elevata competenza, professionalità e vocazione statutaria dei diversi enti pubblici o privati. Nel 2008 il Dipartimento delle libertà civili e l’immigrazione ha predisposto un nuovo schema di capitolato d’appalto unico per il funzionamento e la gestione dei diversi tipi di Centri per stranieri51. Il capitolato prevede, tra l’altro, la fornitura del servizio di gestione amministrativa, di sussistenza e manutenzione; di assistenza generica alla persona e di assistenza sanitaria; di pulizia e igiene ambientale. Secondo tale documento, le convenzioni tra Prefettura ed ente gestore sono triennali non rinnovabili e l’ente gestore viene scelto dalla Prefettura solo in seguito a una vera e propria gara d’appalto il cui bando pubblico viene redatto facendo riferimento al capitolato stesso. In sostanza oggi, come nel 1998, spetta al Prefetto valutare in autonomia la qualità complessiva dell’offerta e l’adeguatezza dell’ente e le singole Prefetture sono ancora oggi il soggetto che sceglie l’ente gestore, una delle due controparti della convenzione stipulata con lo stesso ente gestore e l’unica autorità predisposta a controllare la situazione all’interno delle strutture52.
Questi interventi, tuttavia, non hanno risolto tutte le criticità della gestione delle strutture di trattenimento, né hanno ottenuto il rispetto degli standard definiti a livello centrale da parte delle autorità locali, ma hanno lasciato ampia discrezionalità nell’azione dei prefetti e il perpetrarsi di forti disuguaglianze nella gestione delle diverse strutture. Proprio partendo da considerazioni di questo tipo, la task-force voluta dal Ministro dell’interno Annamaria Cancellieri nel 2013 e guidata dal sottosegretario Ruperto ha proposto una riforma del sistema, attraverso l’affidamento della gestione di tutti i centri presenti sul territorio a un ente unico a livello nazionale (eventualmente strutturato nella forma del raggruppamento temporaneo di imprese), da individuarsi attraverso un’unica procedura a evidenza pubblica. Il nuovo sistema, come si legge nel documento, potrebbe consentire all’amministrazione centrale, in primo luogo, di avere un unico interlocutore per tutti i centri, renderebbe più agevole il raggiungimento di standard organizzativi, porterebbe a sicuri risparmi di spesa ed eleverebbe il livello qualitativo degli aspiranti gestori, prevedendo requisiti più stringenti di accesso alla gara. La Commissione diritti umani, nella risoluzione approvata a marzo 2014 sui Cie, ha chiesto al governo di rivedere i criteri di assegnazione della gestione dei Cie, affidando a un ente gestore unico su scala nazionale tutti i centri attraverso un’unica procedura a evidenza pubblica, e di intervenire per modificare i criteri di assegnazione delle gare d’appalto, valutando non solo l’offerta economica e il criterio dell’offerta più bassa, ma tenendo conto dei costi della gestione nel rispetto di quanto previsto dal capitolato d’appalto del 21 novembre 2008, stabilendo al contempo il prezzo dell’appalto non più con un canone pro die/pro capite, ma con un canone annuo (cd sistema “vuoto per pieno”). Ha chiesto inoltre di intervenire sulla disciplina relativa alla gestione per garantire il periodico monitoraggio da parte delle prefetture delle reali condizioni di vita nei centri, verificando la congruenza dei servizi offerti con le convenzioni e i capitolati stipulati. Il ministro Alfano, in audizione54, ha dichiarato recentemente l’intenzione di rivedere il capitolato generale d’appalto al fine di razionalizzare e di migliorare la qualità dei servizi e le condizioni di vivibilità, ma ha anche evidenziato che l’ipotesi dell’affidamento della gestione di tutti i Cie ad un gestore unico, pur presentando aspetti interessanti per le possibili economie di scala e sotto il profilo del controllo della gestione – che ovviamente risulterebbe semplificato – potrebbe richiedere il ricorso a diffuse forme di subappalto, con inevitabili effetti di allungamento della filiera e di incremento complessivo dei costi, a detrimento dei principi di economicità ed efficienza. L’orientamento attuale del Ministero è invece il mantenimento dell’attuale sistema di affidamento, basato sull’espletamento di una gara ad evidenza pubblica ad opera di ciascuna prefettura, laddove la garanzia di uniformità delle regole e della qualità dei servizi è garantita dalla cornice di unicità fornita dallo stesso capitolato d’appalto. Quanto al controllo della gestione, dal 2013 è in corso una collaborazione con i partner del progetto Praesidium (Unhcr, Oim, Save The Children, Croce Rossa Italiana), per l’istituzione di commissioni a composizione mista (rappresentanti di Prefettura, Questura e ciascuna organizzazione partner), con il compito di verificare, con cadenza periodica, il rispetto delle convenzioni stipulate.
3.6 Regolamenti interni In ciascun centro le disposizioni necessarie per regolare la convivenza all’interno, comprese le misure strettamente indispensabili per garantire l’incolumità delle persone, nonché quelle occorrenti per disciplinare le modalità di erogazione dei servizi predisposti per le esigenze fondamentali di cura, assistenza, promozione umana e sociale e le modalità di svolgimento delle visite, sono adottate dal prefetto, sentito il questore, ai sensi dell’art 21 comma 8 del DPR 31 agosto 1999, n. 394. Ciò comporta che ogni centro sia regolato in modo diverso per quanto attiene ad alcuni aspetti fondamentali, quali la possibilità di comunicare con l’esterno (in particolare la possibilità di tenere con sé il proprio telefono cellulare, di accedere ai cortili interni delle strutture, di ricevere le visite dei propri familiari)55.
L’assenza di un regolamento unico che disciplini in modo uniforme e coerente le modalità di trattamento degli stranieri nei centri e le condizioni di vita nei Centri di identificazione ed espulsione che si trovano in Italia così come l’esistenza di singoli regolamenti adottati dalle prefetture determinano un diverso grado di flessibilità nelle attività e nei servizi previsti per i trattenuti, anche sulla base della diversa interpretazione delle cd «ragioni di sicurezza». All’interno di alcuni Cie è stata riscontrata dalla Commissione la difficoltà di introdurre penne, libri, giornali, riviste, racchette per il gioco del ping pong; spesso i televisori non sono presenti in tutti gli spazi abitativi; solo in alcuni centri esiste un campo di calcetto e spesso non è
possibile praticare attività fisica. Alcuni divieti sono previsti in alcuni centri ma non in altri (non
sono permessi gli accendini e solo in alcuni casi si possono usare i fiammiferi; i lacci delle scarpe vengono requisiti all’ingresso nel centro; non sono ammessi telefonini con la fotocamera). Ad esempio, nel regolamento interno del Cie di Gradisca emanato dalla prefettura di Gorizia, all’art. 7 si legge: Non è consentito introdurre ovvero detenere strumenti atti ad offendere, compresi specchi, rasoi, occhiali da sole, accendini, fiammiferi ed infiammabili di sorta, cinture, bretelle, sciarpe ed affini, e quanto altro sia in grado di poter compromettere la generale incolumità e sicurezza delle persone.
Gli effetti personali ed i bagagli non ammessi al Centro saranno custoditi a cura dell’Ente Gestore, salve le generali disposizioni di legge in materia di sequestri giudiziari ed amministrativi. Il personale delle forze di polizia provvede ai controlli sulla persona e su eventuali pacchi ovvero altri effetti personali. La Commissione ritiene che sia necessario evitare difformità spesso non comprensibili agli stessi trattenuti, che avendo fatto esperienza di altri centri sono in grado di valutare la disomogeneità di trattamento. A questo scopo andrebbe adottato un regolamento unico per tutti centri sull’intero territorio nazionale.
3.7 Costi Nel corso dell’audizione del 3 luglio 2013, Grazia Naletto, presidente dell’associazione Lunaria56, ha illustrato i risultati di una ricerca dal titolo Costi disumani. La spesa pubblica per il contrasto dell’immigrazione irregolare. Lo studio presenta i dati relativi alle spese per il contrasto all’immigrazione irregolare dal 2005 al 2011, dati ricavati da fonti ufficiali, quali il rendiconto generale dello Stato, i documenti di programmazione che regolano gli interventi in questo ambito, gli interventi di rappresentanti del governo in Parlamento. Dopo aver sottolineato la carenza di trasparenza e la grande difficoltà incontrata nel reperimento dei dati, in assenza di una pubblicazione periodica da parte delle autorità competenti che tenga conto dei vari aspetti che intervengono nel contrasto all’immigrazione irregolare, Grazia Naletto ha specificato che le spese analizzate nel rapporto si riferiscono al controllo e alla sorveglianza delle frontiere, alla detenzione dei migranti nei Cie e allo sviluppo della cooperazione con i paesi terzi finalizzata al contrasto dell’immigrazione irregolare. Quanto alle spese per centri di identificazione ed espulsione, Naletto ha sottolineato le difficoltà incontrate nello scorporare le risorse allocate per i Cie all’interno del rendiconto generale dello Stato, poiché i costi si riferiscono complessivamente alle varie tipologie di centri previste nel sistema di accoglienza degli immigrati irregolari. Dal 2005 al 2011 lo Stato ha impegnato in media 143,8 milioni di euro l’anno per allestire, gestire, mantenere e ristrutturare i centri nel loro insieme. Dai dati ricavati dagli avvisi pubblici per l’affidamento della gestione dei Cie in base al capitolato unico d’appalto di gara (novembre 2008), si stimano per i soli costi di funzionamento di queste strutture almeno 25,1 milioni di euro l’anno; mentre per la sorveglianza e le operazioni di esecuzione dei rimpatri coatti il costo medio annuale è stimato intorno ai 30 milioni di euro. A questi costi vanno aggiunti quelli relativi al personale delle forze dell’ordine impiegato nelle operazioni di sorveglianza e rimpatrio. A fronte della spesa minima di 55 milioni di euro l’anno relativa ai Cie, i risultati ottenuti in termini di rimpatri effettivi sono stati modesti e lontani dalle aspettative: tra il 1998 e il 2012
su 169.126 persone transitate nei centri, sono state 78.081 (il 46,2 per cento del totale) quelle effettivamente rimpatriate. Inoltre, nel dicembre 2011 sono stati tagliati i costi di funzionamento dei Cie, imponendo una spesa pro capite/pro die pari a 30 euro più IVA, molto bassa e insufficiente a garantire la qualità minima dei servizi e il rispetto delle condizioni minime di tutela della dignità delle persone trattenute.
3.8 Aspetti sanitari Per quanto riguarda gli aspetti sanitari, il 3 luglio 2013 è intervenuto in Commissione Alberto Barbieri, coordinatore generale di Medici per i diritti umani (MEDU) che ha illustrato i risultati dell’indagine Arcipelago CIE.
Si tratta del risultato di un monitoraggio di 11 strutture su 13 e delle condizioni presenti al loro interno, svolto dallo staff di MEDU tra il 2011 e il 201257. È emerso che le strutture di detenzione amministrativa sono inadeguate da un punto di vista strutturale e funzionale e che, oltre all’alto costo umano, l’insieme dei costi economici necessari ad assicurare la gestione, la sorveglianza, il mantenimento e la riparazione di queste strutture non appare commisurato ai modesti risultati conseguiti nell’effettivo contrasto dell’immigrazione irregolare. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria dei trattenuti, Barbieri ha ribadito la difficoltà di rapporti del trattenuto col medico, percepito come custode, e la conseguente mancanza di fiducia da parte del paziente. Spesso le cartelle cliniche di persone trasferite da altri centri non vengono acquisite dai nuovi. Inoltre è emersa un’eccessiva discrezionalità nel rilascio dei trattenuti per motivi sanitari. Sono numerosissimi e frequenti gli episodi di autolesionismo così come è elevato il numero di persone che assumono psicofarmaci, senza avere una adeguata assistenza psichiatrica. Nel documento programmatico del Ministero dell’interno del 2013 sono state formulate alcune proposte in campo sanitario, restate purtroppo sulla carta. Tra queste, la predisposizione di protocolli operativi e stipulazione di accordi con le diverse aziende sanitarie locali di riferimento. Questi strumenti da un lato permetterebbero agli operatori sanitari di garantire un’assistenza medica completa agli ospiti affetti da patologie specifiche, avendo particolare attenzione per quelle misure necessarie per il sostegno nei confronti delle situazioni vulnerabili; dall’altro, consentirebbero al Centro dì avere all’esterno strutture sanitarie di riferimento per visite specialistiche ovvero, in casi di emergenza, di garantire agli ospiti i necessari approfondimenti diagnostico-terapeutici. Il documento del Ministero dell’interno del 2013 suggeriva inoltre l’opportunità di svolgere attività di prevenzione attraverso protocolli con associazioni riconosciute, senza oneri per l’amministrazione. Veniva da ultimo segnalata l’opportunità di una verifica delle dotazioni minime del personale medico previste dal capitolato, per valutare l’attualità dei parametri ivi disposti, eventualmente considerando, alla stregua dei parametri di sostenibilità economica, la possibilità che una modifica dello stesso capitolato di appalto accrescesse il numero delle ore di attività del personale medico e di sostegno psicologico. La Commissione ha chiesto al Governo di definire standard sanitari omogenei assicurando la predisposizione di protocolli operativi e di accordi con le aziende sanitarie del territorio, l’incremento delle misure di sostegno nei confronti delle situazioni vulnerabili, la stipula di convenzioni con associazioni e organizzazioni umanitarie che operano in campo sanitario.
3.9 Accesso alle strutture In occasione delle visite ai centri di identificazione ed espulsione, la delegazione della Commissione ha spesso accolto al suo interno i sindaci delle città che ospitano i Cie o i consiglieri comunali e provinciali, impossibilitati ad entrare autonomamente in quelle strutture se non autorizzati dalla prefettura. L’art. 21 del D.P.R. 394/1999, infatti, elenca una serie di soggetti abilitati ad avere accesso ai centri, oltre al personale addetto alla gestione, elenco evidentemente inadeguato a garantire un appropriato controllo da parte di soggetti terzi in ordine alle condizioni di vita e all’effettività della tutela dei diritti degli stranieri presenti nei centri, nonché della gestione dei
centri stessi. La possibilità di accesso ai rappresentanti degli enti locali, delle organizzazioni umanitarie internazionali e nazionali e delle associazioni che operano nel sociale e ai Garanti per i diritti delle persone private della libertà costituisce un essenziale strumento di garanzia e in tale
contesto appare indispensabile58.
Il 29 ottobre 2013 la Commissione ha approvato una risoluzione con cui si chiede che venga emanata una direttiva ministeriale (e/o un regolamento) che riconosca espressamente il diritto di accesso ai centri destinati all’accoglienza, trattenimento e assistenza degli immigrati, nonché ai centri di accoglienza per richiedenti asilo, ai seguenti soggetti: parlamentari nazionali ed europei; presidente e componenti della giunta regionale; consiglieri regionali; presidente e componenti della giunta provinciale; consiglieri provinciali; sindaci, assessori e consiglieri comunali; garanti dei detenuti o comunque titolari di competenze in materia di tutela dei diritti nella privazione della libertà; garanti dell’infanzia e dell’adolescenza; soggetti del privato sociale
che operano in relazione alle condizioni di vita e all’effettività della garanzia dei diritti degli stranieri; giornalisti e foto cineoperatori, per questi ultimi escludendo la necessità della specifica
autorizzazione prefettizia59.
Va segnalato che il già citato decreto Cancellieri (decreto-legge n. 146 del 2013, recante misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), ha indicato tra le funzioni attribuite al Garante nazionale dei diritti
delle persone detenute o private della libertà personale, istituito dal’articolo 7, anche la verifica del rispetto degli adempimenti connessi ai diritti previsti agli articoli 20 (trattenimento nei centri
di identificazione ed espulsione), 21 (modalità del trattamento), 22 (funzionamento dei centri) e 23 (attività di prima assistenza e soccorso) del regolamento di attuazione del testo unico sull’immigrazione, presso i centri di identificazione e di espulsione previsti dall’articolo 14 del testo unico in materia di immigrazione, con accesso senza restrizione alcuna a qualunque locale. Il ministro Alfano, intervenendo in audizione60, ha precisato che saranno modificate le regole d’accesso ai Cie, illustrando le modalità di svolgimento delle visite e individuando, sulla falsariga di quanto previsto dalla direttiva ministeriale del 24 aprile 2007, le categorie dei soggetti abilitati, tra cui saranno ricompresi anche il Garante nazionale e i garanti regionali per la
tutela dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
3.10 Legge europea 2013-bis
Al testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, sono state apportate alcune modifiche dall’art. 3 del provvedimento “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2013-bis” all’esame del Parlamento, trasmesso il 19 settembre 2014 alla Camera dei deputati, dopo l’approvazione in Senato61.
Oltre alla già citata riduzione dei tempi massimi di trattenimento a 90 giorni, si interviene sull’esecuzione dell’espulsione (art. 14 del Testo unico immigrazione). Una prima modifica concerne le proroghe richiedibili dal questore al giudice di pace, del termine di permanenza dello straniero nel centro di identificazione ed espulsione. Viene meno la previsione che la proroga richiesta dal questore debba essere di 60 giorni, rinnovabile una volta; la proroga o le proroghe sono ora liberamente modulabili dal questore, fermo restando il termine complessivo massimo di trattenimento; peraltro si prevede che il questore possa richiedere la proroga qualora siano emersi elementi concreti che consentano di ritenere probabile l’identificazione ovvero sia necessaria al fine di organizzare le operazioni di rimpatrio. Una seconda modifica consiste nella soppressione della previsione secondo la quale il questore possa chiedere al giudice di pace la proroga del trattenimento, di volta in volta, per periodi non superiori al termine massimo, qualora non sia stato possibile procedere all’allontanamento nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, a causa della mancata cooperazione al rimpatrio del cittadino del Paese terzo interessato o di ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi. Il questore può in ogni caso eseguire l’espulsione e il respingimento anche prima della scadenza del termine prorogato, dandone comunicazione senza ritardo al giudice di pace. Una terza modifica consiste nella introduzione delle previsioni secondo cui il cittadino extracomunitario che sia già stato trattenuto presso le strutture carcerarie per un periodo pari al termine complessivo massimo di trattenimento in un centro di identificazione ed espulsione, possa essere trattenuto presso il centro per un periodo massimo di trenta giorni. Inoltre, nei confronti del cittadino extracomunitario a qualsiasi titolo detenuto, la direzione della struttura penitenziaria richiede al questore del luogo le informazioni sull’identità e
nazionalità. Nei medesimi casi il questore avvia la procedura di identificazione interessando le competenti autorità diplomatiche. Ai soli fini dell’identificazione, l’autorità giudiziaria su richiesta del questore dispone la traduzione del detenuto presso il più vicino posto di polizia, per il tempo strettamente necessario al compimento di tali operazioni. A tal fine il Ministro dell’interno e il Ministro della giustizia adottano i necessari strumenti di coordinamento.
Viene inoltre prevista l’interruzione del trattenimento dello straniero in attesa di espulsione qualora non esista una ragionevole prospettiva che questa sia eseguita. Si tratta di una disposizione espressamente prevista dall’articolo 15, paragrafo 4, della citata direttiva “rimpatri” 2008/115/CE. La disposizione si adegua all’interpretazione che ne ha fornito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 30 novembre 2009 nella causa C-357/09 (Kadzoev contro Bulgaria). Viene infine rimodulata la durata del divieto di reingresso a seguito di condanna per il reato immigrazione irregolare, attualmente di non meno 5 anni, equiparandola a quella del divieto di reingresso per altre ipotesi, ossia da 3 a 5 anni (sentenza CGUE 6 dicembre 2011, C-
430/11).

RESOCONTI DELLE VISITE DELLA COMMISSIONE STRAORDINARIA PER LA TUTELA E LA PROMOZIONE DEI DIRITTI UMANI
AI CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE

Visita di una delegazione della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani al Cie di Bari – 29 giugno 2013 – Sabato 29 giugno 2013 il Presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, Luigi Manconi, si è recato in visita al Centro di identificazione ed espulsione di Bari.Il centro si trova nell’area aeroportuale di Bari Palese. A poche centinaia di metri ha sede un Centro di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati (CARA). La visita è stata preceduta da un incontro con i responsabili del centro durante il quale sono state acquisite alcune informazioni di carattere generale. Erano presenti Rosa Maria Padovano, dirigente della Prefettura di Bari, Ilaria Masi, dirigente dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Bari, e il vice direttore della cooperativa sociale Connecting People (ente gestore). La dottoressa Padovano ha brevemente illustrato la struttura e dato le prime indicazioni sui numeri che si riferiscono al centro. La struttura è stata costruita nel 2006. Un muro di cinta in cemento armato alto 6 metri che, dall’esterno, copre alla vista la struttura del CIE, delimita l’area. C’è poi una barriera in vetro infrangibile alta 3 metri che costituisce la c.d. “area perimetrale d’emergenza” immediatamente a ridosso della struttura detentiva. Su tale area perimetrale affacciano anche i cortili di passeggio, chiusi dal lato esterno da una barriera in ferro alta 5 metri. Le prime sezioni della struttura sono occupate dagli uffici della Prefettura e della Questura e dell’ente gestore. Vi sono poi le sale colloquio per assistenti sociali e psicologi, una grande sala riunioni, l’ufficio del direttore sanitario. Le sezioni si estendono lateralmente a partire da un corridoio centrale composto da 7 moduli abitativi con 7 stanze ciascuno. Il personale passeggia avanti e indietro per il corridoio, rispondendo alle richieste dei trattenuti. Ogni modulo dispone di una sala comune, con tavoli e panche di metallo fissati al suolo, dove i trattenuti consumano i pasti e guardano la televisione. Dalla sala si accede a un piccolo cortile esterno. Per ogni modulo bagni e docce esterni alle stanze. In ogni stanza ci sono 4 posti letto. I quattro letti sono fissati al pavimento e vi sono alcuni ripiani in muratura aperti sul lato frontale in cui gli ospiti possono poggiare i loro effetti personali. La capienza massima del centro è di 112 posti. Non è prevista la presenza di donne. Due moduli sono chiusi per ristrutturazione in seguito a una decisione del tribunale di Bari del 2011 che ha nominato un perito per accertare le condizioni di detenzione nella struttura in seguito a una class action popolare62.
Al momento della visita il centro ospita 106 uomini, prevalentemente nordafricani, irregolari amministrativi trattenuti nel centro per l’identificazione e l’eventuale, successiva espulsione. Vi sono anche alcuni trattenuti provenienti dalla Nigeria, dalla Georgia e dal Bangladesh. Il tempo medio di trattenimento non supera in media i 6 mesi. Molti dei trattenuti provengono dal carcere. I compiti dell’Ufficio immigrazione della Questura riguardano l’identificazione degli ospiti e gli aspetti di sicurezza del centro, mentre la gestione all’interno della struttura è di competenza dell’ente gestore. Sono presenti 17 unità di personale delle forze dell’ordine di varia provenienza. Seguono la delegazione nel corso del sopralluogo diversi agenti di pubblica sicurezza. La cooperativa Connecting People si occupa dell’assistenza sanitaria, della ristorazione, della cura dell’igiene. Il personale impiegato è di 47 unità. Le esigenze mediche vengono coperte da 4 unità di personale medico, uno psicologo e un assistente sociale. Il responsabile, dottor Simone Giuncato, ha spiegato il funzionamento della struttura. Nel centro è presente una infermeria e il personale medico è attivo 24 ore su 24, ma i casi più gravi vengono gestiti nelle strutture ospedaliere attrezzate di Bari San Paolo. Al loro arrivo, i trattenuti vengono visitati per accertarne le condizioni di salute; viene fatto uno screening completo. Nel caso vengano registrate patologie – malattie infettive o altro – vengono interessate le strutture ospedaliere del territorio. Si registra un uso diffuso di ansiolitici e calmanti. Nel mese precedente la visita, ci sono stati due atti di autolesionismo (graffi e tagli sul corpo con oggetti appuntiti). Due trattenuti sono tossicodipendenti e assumono metadone. Da aprile a metà luglio 2013 si sono verificati 7 atti di autolesionismo. Nel corso della visita, il sen. Manconi ha incontrato numerosi trattenuti. Sono emerse situazioni molto critiche. In generale si percepisce nel centro un clima di tensione molto alta e di forte chiusura verso l’esterno. La struttura è opprimente perché permette movimenti minimi all’interno di ciascun modulo. Il tempo che i trattenuti trascorrono al di fuori delle sezioni detentive è ridotto al minimo. Escono dalla sezione solo per andare in infermeria, incontrare l’assistente sociale o sbrigare qualche pratica amministrativa negli uffici della questura. Per qualsiasi esigenza devono comunque fare riferimento al personale che staziona nel corridoio centrale su cui affacciano le porte blindate di accesso alle sezioni. I farmaci, ad esempio, vengono somministrati da una piccola finestra sulla porta blindata. Attraverso quella stessa finestra i trattenuti fanno sporgere le sigaretta perché gli operatori possano accenderle, non essendo ammessi accendini e fiammiferi. I trattenuti sottolineano come vivano nella struttura senza poter svolgere alcuna attività. C’è un campo di calcetto, ma viene utilizzato solo una volta la settimana per un’ora per motivi di sicurezza. Molti di loro passano le giornate a letto o circolando tra saletta di socialità e cortile esterno attiguo alla sezione. Non ci sono associazioni esterne che possono entrare per avviare progetti di formazione, attività ricreative o fornire assistenza di tipo legale. Altro elemento emerso, infatti, è la mancanza di informazioni da parte dei trattenuti sulla propria condizione e sulle regole che determinano i tempi della permanenza nel centro. Alcune storie emerse, sono state segnalate alla Prefettura di Bari in seguito alla visita: – W. di origine tunisina, entrato al Cie di Bari a marzo, nel corso della visita, si presenta evidentemente molto teso e con segni evidenti di taglio (apparentemente ancora freschi) sul braccio. Appeso alla grata della finestra della stanza in cui dorme e che condivide con altre persone, ha appeso un cappio realizzato con materiale lì dentro facilmente reperibile. W. sostiene di avere una compagna italiana che vorrebbe sposare e di essere in Italia da molti anni e chiede di essere rilasciato, non essendoci pericolo di fuga. – C. S. di nazionalità algerina, ha poco più di cinquant’anni, da trenta vive in Italia e ha quattro figli: uno è maggiorenne con passaporto italiano. Ha sempre vissuto ad Aprilia con la famiglia dove lavora come carrozziere. Si presenta molto turbato dalla sua permanenza al Cie proprio per via della presenza di una rete familiare all’esterno a lui molto legata e che dipende dal suo lavoro. – B. A. è di nazionalità marocchina e risiede in Italia da molti anni. Denuncia problemi al cuore che sarebbero stati anche certificati nel corso di una visita ospedaliera e tali da ritenere incompatibile il trattenimento all’interno della struttura. – N. T. marocchino, in Italia dal 1987, ha una moglie e una figlia residenti a Modena e da qualche anno, dopo la scadenza del permesso di soggiorno, è irregolare. Il suo attuale problema è l’assenza di una disponibilità economica tale da permettergli anche solo l’acquisto di marche da bollo, utili per richiedere la documentazione necessaria a regolare la sua posizione giuridica. Questa condizione lo pone in una situazione di disagio psicologico e di frustrazione tale da presentare in maniera evidente i sintomi di un forte stato di stress. Domanda se sia possibile che l’ente gestore gli dia in contanti la somma del pocket money.

DATI TRATTENUTI CIE DI BARI PALESE
Dal 1° gennaio al 31 dicembre 2011 Totale % su totale
Beneficiari di protezione internazionale 11 1,62% Rimpatriati 249 36,56% Dimessi perché non identificati allo scadere dei termini 62 9,10% Allontanatisi arbitrariamente 8 1,17% Trattenimento non convalidato da A.G. 117 17,18% Dimessi dai centri per altri motivi 204 29,96% Arrestati all’interno dei centri 30 4,41% Deceduti all’interno dei centri 0 0,00% Totale generale transitati nei centri 681 Dal 1° gennaio al 31 dicembre 2012 Totale % su totale
Beneficiari di Protezione internazionale 21 2,49% Rimpatriati 310 36,69% Dimessi perché non identificati allo scadere dei termini 63 7,46% Allontanatisi arbitrariamente 3 0,36% Trattenimento non convalidato da A.G. 217 25,68% Dimessi dai centri per altri motivi 221 26,15% Arrestati all’interno dei centri 10 1,18% Deceduti all’interno dei centri 0 0,00% Totale generale transitati nei centri 845
Fonte: Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere Rapporto sui Centri di identificazione ed espulsione

La Repubblica, 01/07/13 IO, ESPULSO DALL’ITALIA DOPO TRENT’ANNI MA ORMAI NON SO PIÙ NEMMENO L’ARABO”
di Giuliano Foschini BARI – «Senato’, m’hanno detto che mi riportano nel mio paese. Benissimo, allora fateme uscire da qui. Perché io sto già nel mio paese». Fuori diluvia, eppure è estate. Ma il cortocircuito di Cherif, l’ italiano clandestino, è un ossimoro ancora più efficace. Cherif ha poco più di cinquant’anni. Da trenta vive in Italia. Ha tre figli nati a Pomezia, dove da sempre lavora come carrozziere: uno è maggiorenne con passaporto e cittadinanza italiana, gli altri due aspettano i documenti al compimenti dei 18 anni, «come El Sharawy e Balotelli, ha presente?». Parla con una marcata cadenza romana: «Me portano li giornali in arabo. E chi lo sa l’arabo, senato’?». Cherif da qualche settimana è rinchiuso nel Cie di Bari, in attesa di espulsione verso il «suo» paese, l’Algeria. Dopo cinque anni in carcere per una storia di droga, il giudice di sorveglianza lo ha bollato come “pericoloso”, ritirandogli il permesso di soggiorno. «Ero a casa mia, con mia moglie e i ragazzi. Sono venuti i carabinieri e m’hanno detto, devi tornare in Algeria. Ma che ci vado a fare? Io ci manco da una vita. Ho sbagliato, questo sì, ho pagato ma non cacciatemi: io sono italiano». Questo signore, la sua tuta di acetato blu, le ciabatte di plastica «è la prova del paradosso e della pericolosità che queste strutture possono produrre» spiega Luigi Manconi, senatore del Pd e presidente della commissione Diritti Umani di Palazzo Madama che sabato ha voluto visitare il Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Bari. Non è un caso che lui (insieme con le sue due assistenti, Valentina Calderone e Valentina Brinis e la funzionaria del Senato Vitaliana Curigliano) abbia scelto proprio questo posto per cominciare un viaggio nei Cie italiani: l’International Herald Tribune e il Die Spiegelnelle scorse settimane avevano denunciato le condizioni «inumane» dei centri, citando Bari tra i casi più eclatanti. «Casi raccapriccianti che non assicurano agli immigrati una necessaria assistenza e il pieno rispetto della loro dignità» aveva scritto il perito del tribunale di Bari un anno fa, costringendo la Prefettura a effettuare nuove opere all’interno della struttura. Alcuni lavori sono conclusi. Altri partiranno a breve. L’ingegnere arriverà presto a controllare lo stato dell’arte in attesa -dopo la class action presentata dall’avvocato Luigi Paccione che il tribunale civile (ma c’è anche un’inchiesta della Procura) si esprima sull’eventuale chiusura della struttura. «Ora le condizioni sono molto migliorate», giurano dalla Prefettura. La capienza è stata ridotta, da 196 a 112. In questi giorni i migranti erano 106, in prevalenza algerini, marocchini, tunisini. Qualche nigeriano. Nessuna donna. Da qualche mese c’è una nuova cooperativa che gestisce il centro: psicologi, assistenti sociali, informazione legale. 1 corridoi sono tirati a lucido, in occasione della visita. Le stanze meno, con le brande sgarrupate e armadi e comodini in cemento armato. «Per evitare che si facciano male» dicono. Ogni mese si verificano almeno due atti di autolesionismo. Gli schizzi di sangue sul muro, e le cronache degli anni scorsi, raccontano di piccole risse e vecchie rivolte. Recentemente un ragazzo georgiano ha provato a scappare. E caduto, hanno ricostruito, e si è fratturato tutto. Lo hanno curato e rimandato a casa. Uno su tre qui dentro fa uso di psicofarmaci. In una delle stanze, a pochi metri dai tappeti e due disegni che dovrebbero fare da moschea del braccio numero cinque, c’è un cappio esposto. Dicono che non sia un simbolo. Ma un’aspirazione. «Dopo il carcere pensavo di tornare libero: poi mi hanno portato qui. Ma io che ci sto a fare qui?» racconta un algerino che ha vissuto anni e anni a Pistoia. Lamenta la schizofrenia di tutti coloro che vivono questi posti. Una schizofrenia anche lessicale: per lo Stato sono «ospiti» e da tutti gli altri invece «trattenuti» o «detenuti». Non sanno perché entrano e non sanno quando
Rapporto sui Centri di identificazione ed espulsione
45 usciranno. Vivono tra le sbarre ma usano i telefonini, non ci sono guardie carcerarie ma le porte quando si chiudono a chiave fanno le stesso rumore delle prigioni. «Si percepisce chiaro – dice Manconi quel senso di tensione, tra i ragazzi, che soltanto chi ha un’esperienza delle carceri conosce. Ma in un posto come questo ci sono delle condizioni, se possibile, ancora più terribili». La noia, l’inattività. A Bari c’è un campo di calcio dove possono andare dieci per volta una volta alla settimana. Un televisore per ogni blocco. E basta. «Basterebbe portare giornali italiani, visto che circolano solo quelli in arabo e l’arabo qui dentro lo parlano pochissimo. Creare una biblioteca o fare entrare le associazioni per attività ludiche. Serve dare un senso alle giornate di queste persone». Manconi chiede due cose subito: «Più informazione legale: molti qui sono trattenuti illegalmente perché non c’è stata una verifica preventiva della legittimità del loro status. E maggiore attenzione ad alcuni casi sanitari». Un ragazzo ha raccontato di essere a letto da una settimana, per problemi alla schiena. Sopra di lui un murales domandava: «Dove va il mio destino?».
Visita di una delegazione della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani al Cie di Bari – 9 aprile 2014 – Mercoledì 9 aprile 2014, il Presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, Luigi Manconi, si è recato nuovamente al Centro di identificazione ed espulsione di Bari. Erano presenti Maria Filomena Dabbicco, dirigente della Prefettura di Bari, Ilaria Masi, dirigente dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Bari, e il vice direttore della cooperativa sociale Connecting People (ente gestore). Nel dicembre 2013 è stata depositata presso il tribunale di Bari una seconda relazione dell’ingegner Francesco Saverio Campanale in un procedimento nato dalla class action proposta dagli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci nel marzo 2011. Il presidente del tribunale, Vito Savino, aveva nominato un suo perito chiedendogli di verificare le condizioni all’interno del centro. L’ingegner Campanale aveva individuato una serie di mancanze e il giudice aveva ordinato ai gestori del centro alcune opere per metterlo a norma. In seguito al nuovo sopralluogo, il tecnico ha sottolineato nella perizia che “i lavori effettuati alla struttura non sono sufficienti per un significativo miglioramento delle condizioni di vita degli occupanti”63.
A gennaio 2014, il tribunale di Bari ha quindi intimato al Ministero dell’interno e alla locale Prefettura di eseguire, entro il termine improrogabile di 90 giorni, i seguenti lavori: ampliare e migliorare i servizi igienici, incrementandone il numero; provvedere all’oscuramento, anche parziale, delle finestre della stanze d’alloggio; ampliare la mensa o la “sala benessere”; incrementare le aule per attività didattiche, occupazionali e ricreative, così come le aree adibite alle attività sportive; colmare la carenza di segnaletiche antincendio nei moduli abitativi; provvedere alla manutenzione dei moduli e utilizzare materiali resistenti all’usura e allo strappo. Martedì 8 aprile 2014 si è tenuta al tribunale di Bari un’udienza del processo per la chiusura del centro. Si è discusso il reclamo presentato dagli avvocati di Class Action Procedimentale contro l’ordinanza del Tribunale di Bari nella parte in cui ordina l’esecuzione di lavori edili anziché la chiusura immediata del Cie di Bari. I lavori di ripristino di condizioni più umane nel Cie avrebbero dovuto concludersi ad aprile 2014 secondo i tempi dettati dal tribunale, pena l’emissione di un’ordinanza di chiusura del centro. Si attende a breve la decisione dei giudici.
Rispetto alla scorsa visita della Commissione (giugno 2013), ci sono alcuni elementi nuovi. È stato costruito un campo di pallacanestro. Tre dei sette moduli sono stati ristrutturati (bagni e docce) e altri tre lo saranno entro la fine di aprile 2014, secondo quanto dichiarato dalla Prefettura. Visitando tali moduli, i lavori non sembrano tuttavia in uno stadio avanzato. La tensione all’interno del centro è ancora molto alta. I trattenuti incontrati si sono lamentati per la scarsezza del cibo e per la condizione di forte isolamento in cui si trovano. Molti i trattenuti che hanno dichiarato di vivere in Italia da molti anni e di avere una famiglia, anche con figli piccoli. La maggior parte non ha rinnovato il permesso di soggiorno una volta scaduto e ha continuato a lavorare in nero. Nel corso della visita è stata raccolta la testimonianza di un trattenuto di origine algerina su un episodio di una certa gravità, qualora fosse confermato. Il trattenuto ha dichiarato di essersi rifiutato di recarsi in ospedale, nel gennaio scorso, per sottoporsi a una risonanza magnetica alla colonna vertebrale perché l’ispettore e gli agenti che avrebbero dovuto scortarlo gli avrebbero imposto una sorta di “guinzaglio” – questa l’espressione usata – per legargli le mani durante lo spostamento. Il trattenuto ha riferito di aver chiesto di essere ammanettato, ma respinta tale richiesta, si è rifiutato di accettare quel tipo di contenzione considerando tale atteggiamento come un tentativo di umiliazione e rinunciando quindi all’esame che pure aspettava da tempo, essendo affetto da numerose ernie. A conclusione della visita il presidente Manconi ha chiesto chiarimenti in merito al medico del centro, il quale ha confermato di non aver assistito all’episodio, ma di aver annullato l’esame dopo aver appreso del rifiuto a recarsi in ospedale del trattenuto e di aver riportato tutto sul diario medico. Al colloquio con il medico erano presenti anche la dott.ssa Dabbicco, dirigente della Prefettura, e la dott.ssa Masi, dirigente dell’ufficio immigrazione della questura di Bari. Quest’ultima ha precisato che oltre alle manette, non esiste altro strumento di sicurezza utilizzato dalle forze di polizia in tali circostanze e che di solito non si ricorre alle manette ma il
trattenuto, se portato all’esterno del centro, viene scortato da tre agenti. Nella circostanza in questione, la dott.ssa Masi conferma che, come risulta dal verbale redatto dagli agenti di polizia coinvolti, al trattenuto sarebbero stati affiancati tre agenti di scorta e non sarebbe stato ammanettato. Il pres. Manconi ha scritto nei giorni successivi al Prefetto di Bari Nunziante per avere ulteriori elementi sull’episodio e fare chiarezza su quanto effettivamente accaduto. Il prefetto Nunziante ha risposto confermando che non è stato usato alcun mezzo di contenzione e che il trattenuto si è rifiutato di essere accompagnato in ospedale scortato da tre agenti. Alla lettera del Prefetto sono stati allegati alla lettera copia del diario medico e del verbale della polizia.

Il fatto quotidiano, 10/04/2014 “IL GUINZAGLIO NO”. UN IMMIGRATO SI RIBELLA AL CIE
IL RAGAZZO ALGERINO, RECLUSO A BARI, DOVEVA ESSERE TRASPORTATO IN UN
OSPEDALE PER UNA VISITA PRENOTATA, MA HA RIFIUTATO PERCHÉ L’AVEVANO LEGATO CON UN LACCIO
di Antonio Massari Bari. – “Ho rinunciato alla cura: volevano portarmi in ospedale con un guinzaglio ai polsi” ci racconta il ragazzo algerino recluso nel suo padiglione. Poi – quando siamo nella stanza del direttore – chiediamo perché l’ammalato non sia stato curato. E il medico del Centro d’identificazione ed espulsione prende la parola: “Scusi senatore, ma il ragazzo le ha detto perché, quella risonanza magnetica alla schiena, non l’ha più fatta? Guardi che noi l’avevamo prenotata”- Pausa “Gliel’ha detto – continua – che é stato lui a rinunciare?”. Già. E infatti il punto è: perché ha rinunciato? “Perché non voleva essere portato in ospedale con una… contenzione alle mani…alle braccia… insomma… questo ci ha raccontato… e questo ho scritto nella cartella clinica”. E così – nella surreale giustificazione – il medico conferma la versione del ragazzo. “Cos’é una contenzione alle mani? Ci spieghi: il ragazzo le ha parlato di manette?”, chiede il Senatore Luigi Manconi (PD), presidente della Commissione parlamentare per i diritti umani in visita ieri al Cie di Bari. “No” risponde il medico. Infatti il ragazzo – durante l’incontro – ci ha parlato di una sorta di guinzaglio. Un lungo legaccio ai polsi. “In quelle condizioni, in ospedale, non volevo andarci – ha detto – piuttosto, ho preferito rinunciare alla risonanza magnetica”. Un “guinzaglio” non è previsto da alcun regolamento. Il ragazzo peraltro non è un carcerato e quindi: non deve sopportare misure di contenzione – manette incluse. La funzionaria della questura, dinanzi a tutti, si dice disponibile a dimostrare, esibendo le comunicazioni interne, che in quell’occasione era prevista “soltanto una scorta di tre persone” per accompagnare il malato in ospedale. Intanto al Cie – che reclude 77 persone – si sente odore di bruciato: due sere fa, per la disperazione, qualcuno ha provato a dar fuoco a una sedia imbullonata. Kharim ha interrotto soltanto ieri, dopo 5 giorni, il suo sciopero della fame. “Lo abbiamo convinto noi a smettere lo sciopero della fame”, dice un amico, “perché ha iniziato a orinare sangue. Abbiamo chiesto ai medici di dargli un’occhiata ma nessuno ci ha ascoltato”. “Ha curato qualcuno, in questi giorni, perché orinava sangue?”, chiediamo al medico. “No, nessuno” risponde. Scortati da un ispettore di Polizia – e non accompagnati dal direttore del centro – visitiamo un reparto in ristrutturazione: se non sarà in regola per la fine d’aprile – ha deciso il tribunale di Bari – il Cie
andrà chiuso. Qui la gestione è affidata alla “Connecting People” di Trapani. È la stessa società accusata di aver frodato, nella gestione del Cie di Gradisca d’Isonzo, milioni di euro. “Il Cie invece va chiuso punto e basta – conclude Manconi – Al di là dei lavori di ristrutturazione non ancora conclusi, questo centro, persino più di altri, richiama un clima carcerario – anche nei rapporti interni e nell’organizzazione gerarchica – mentre, per la legge italiana, non dovrebbe essere un carcere”. Dai 77 prigionieri del Cie si passa ai 1.461 richiedenti asilo del Cara (attesa di circa 6 mesi, ndr), gestito dalla cooperativa Auxilium: “Le dimensioni del Cara – commenta Manconi – sono abnormi rispetto alla possibilità di offrire un’accoglienza minimamente dignitosa”. I bagni sono fatiscenti. Una ragazza, che oggi dovrà presentarsi in tribunale, per la rivolta dello scorso 16 dicembre, sarà difesa da un legale d’ufficio, ma racconta piangendo: “Avevo chiesto di parlare con un avvocato ma nessuno mi ha dato ascolto”. Qui c’è un grande uso di psicofarmaci: “Soltanto sotto prescrizione di uno psichiatra” dice il medico del Cara. “A meno che non si tratti di sedativi per dormire, in quel caso non consultiamo lo psichiatra”, aggiunge un’infermiera. Sedativi di che tipo? “Blandi, tipo Tavor”. E perché per il Tavor non si consulta lo psichiatra? “Perché non è uno psicofarmaco”, risponde l’infermiera, dinanzi al medico, che neanche ribatte.
Visita di una delegazione della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani al Cie di Ponte Galeria (Roma) – 20 luglio 2013 – Sabato 20 luglio 2013 una delegazione della Commissione diritti umani del Senato composta dal presidente Luigi Manconi, dai vicepresidenti Daniela Donno e Ciro Falanga e dai senatori Miguel Gotor, Riccardo Mazzoni e Manuela Serra, si è recata in visita al Cie di Ponte Galeria, alle porte di Roma. La visita è stata preceduta da un incontro con i responsabili del centro durante il quale sono state acquisite alcune informazioni di carattere generale. Erano presenti Sonia Boccia e Clelia Vaccaro, della Prefettura di Roma, Pierluigi Borgioni, dirigente dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma, e Giuseppe Di San Giuliano, direttore della cooperativa Auxilium (ente gestore). Al momento della visita, il centro ospitava 72 uomini e 25 donne, di varie nazionalità, principalmente di provenienza nordafricana. La capienza massima del centro è di circa 350 posti, ma viene riferito che non si è mai arrivati ad ospitarne un numero così alto. Negli ultimi mesi il numero medio di trattenuti si aggira intorno a 90-100. Il tempo medio di trattenimento risulta essere più breve rispetto ad altri centri di identificazione ed espulsione ed è più alta la percentuale di espulsioni eseguite (nel 2012 sono stati espulsi 1.000 trattenuti, il 70% delle persone transitate nel centro). Alcuni dei trattenuti provengono dal carcere. I compiti dell’Ufficio immigrazione della Questura riguardano l’identificazione degli ospiti e gli aspetti di sicurezza del centro, mentre la gestione all’interno della struttura è di competenza dell’ente gestore. La cooperativa Auxilium si occupa dell’assistenza sanitaria, della ristorazione e della cura dell’igiene. Il personale impiegato è di circa 90 unità. Vi sono 8 mediatori culturali di diversa nazionalità. Le esigenze mediche vengono coperte da 10 unità di personale medico. Il dottor Maurizio Lopalco, ha spiegato brevemente che, al loro arrivo, i trattenuti vengono visitati per accertarne le condizioni di salute; viene fatto uno screening completo. Nel caso vengano registrate patologie – malattie infettive o altro – vengono interessate le strutture ospedaliere di Roma. Al momento della visita vi sono alcuni casi di tossicodipendenza in ordine ai quali settimanalmente si attiva il SerT per la somministrazione della necessaria terapia. La richiesta di psicofarmaci è altissima. Al loro arrivo i trattenuti ricevono un kit con vestiti, ciabatte, coperte, lenzuola di carta, biancheria intima (che viene cambiata 2 volte alla settimana). Non è possibile, per motivi di sicurezza, introdurre nel centro penne, pettini, libri con copertina rigida secondo quanto previsto da un regolamento della Prefettura e della Questura di Roma. È consentito avere un cellulare purché privo di telecamera. Da segnalare la presenza di associazioni che operano regolarmente nel centro (Comunità di Sant’Egidio, Centro Astalli). Il Garante dei detenuti del Lazio visita frequentemente il centro. Ogni sabato è attivo uno sportello di assistenza legale tenuto dall’associazione “A buon diritto”. Le donne, spesso vittime di tratta, sono assistite da associazioni antiviolenza (Be Free). La struttura è divisa in due sezioni, maschile e femminile, oltre all’area amministrativa (uffici di questura, ente gestore, sala colloqui, infermeria). Vi sono due mense, divise per uomini e donne. Gli alloggi si trovano ai lati di un cortile esterno assai ampio delimitato da recinzioni in metallo molto alte. Ciascun alloggio è circondato da una gabbia in metallo alta diversi metri, tenuta aperta durante il giorno, chiusa dalla mezzanotte alle cinque del mattino. Gli alloggi consistono in camerate da 6 o da 4 letti, ancorati al suolo, con adiacente un bagno, piuttosto angusto, con due lavandini; separato il wc alla turca con accanto un altro lavandino. Ciascun alloggio è dotato di televisore. La pareti esterne sono spesso scrostate. Nello spazio antistante i dormitori, c’è un tavolo di metallo con delle panche, sempre ancorati al suolo. All’esterno del fabbricato c’è un campo di calcetto. Alcune storie emerse dall’incontro con i trattenuti, sono state segnalate alla Prefettura e alla Questura di Roma: M. M.. Ha lasciato il Senegal da 10 anni. Il suo primo arrivo in Italia risale al 2007 ma è qui già dal 2004. Ha sempre lavorato in nero tra Italia (Roma) e Francia riuscendo a raggiungere una condizione di stabilità economica e di integrazione. Ha due decreti di espulsione precedenti ma è al suo primo trattenimento nel Cie. Non ha mai avuto un permesso di soggiorno. Non ha precedenti penali. Ha un lavoro, una casa (non registrata) e una compagna. Non ha familiari in Italia. M. C. B.. Trattenuto da circa una settimana. Proviene da dalla Guinea (Conakry). Ha tra i 25 e i 30 anni. Non parla con nessuno, non risponde alle domande, ha lo sguardo fisso nel vuoto e comportamenti ossessivi. Di lui non si sa assolutamente nulla. Un compagno si prende cura di lui, controlla che mangi e prova a conversare, ma solo raramente ottiene risultati. È stato accompagnato al pronto soccorso dell’Ospedale San Camillo per consulenza psichiatrica. La diagnosi: “il paziente presenta una sintomatologia compatibile con l’intero spettro dei disturbi psichiatrici, fino alla finzione”. Da allora, non ha effettuato altri controlli. M. I.. Diciannovenne di origine marocchina, è trattenuto da un mese. In passato ha avuto problemi di tossicodipendenza e attualmente assume metadone. Mostra problemi nella verbalizzazione delle proprie esigenze e comportamenti tipici di un soggetto con problemi psichici: ride in continuazione, batte la testa sulle sbarre e ripete cose già dette. Non è a conoscenza del motivo per cui è trattenuto e della sua situazione giuridica.
Ulteriori visite a Ponte Galeria Domenica 22, venerdì 27 dicembre 2013 e mercoledì 1 gennaio 2014, il presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani, Luigi Manconi, si è recato nuovamente nel centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, per incontrare i trattenuti protagonisti, dalla seconda metà di dicembre, di una forte protesta contro il trattenimento che li ha portati a cucirsi la bocca e a fare lo sciopero della fame per diversi giorni. Accompagnati dal direttore del Cie, Vincenzo Lutrelli di Auxilium, il senatore Manconi e il vice sindaco di Roma, Luigi Nieri, hanno incontrato otto degli immigrati coinvolti nella protesta. Alcuni di loro sono profughi molto giovani sbarcati alla fine di novembre sulle coste della Sicilia e trasferiti successivamente a Ponte Galeria. I trattenuti sono stati impegnati per giorni nello sciopero della fame per protestare contro le condizioni di vita all’interno e per una riforma radicale della legge sull’immigrazione che li obbliga a stare chiusi in un Cie dopo aver rischiato la vita in mare. Il 23 dicembre 2014, due degli stranieri trattenuti nel Cie impegnati nello sciopero della fame attraverso la “cucitura della bocca”, identificati precedentemente, sono stati espulsi e rimpatriati. Il 27 dicembre 2014 la protesta era ancora in atto e il presidente Manconi ha incontrato nuovamente, con il deputato Khalid Chaouki, i trattenuti in sciopero, i quali continuavano la protesta, avevano ancora le bocche cucite e dal 25 dicembre dormivano all’aperto, avendo trasportato i materassi nel corridoio centrale. Nel corso della visita del 27 dicembre il presidente Manconi ha incontrato due sposi tunisini, Alì e Aliaa, definiti “Giulietta e Romeo” dai loro compagni, fuggiti in Italia a seguito delle minacce di morte e delle lesioni subite dalla donna da parte dei familiari ostili al matrimonio. I due sposi, di 34 e 29 anni, sono sbarcati in Sicilia il 29 novembre dopo essere scappati dalla famiglia di Alia. Unica strada per la salvezza, affidarsi al Mediterraneo e cercare protezione in Europa. La donna mostrava una ferita profonda sul braccio che le era stata inferta dai fratelli. I due erano stati divisi nei reparti maschile e femminile ed avevano solo qualche ora al giorno da trascorrere insieme nella sala colloqui. A conclusione della visita Manconi ha subito allertato la questura di Roma e il Ministero dell’interno affinché i due lasciassero il centro di identificazione ed espulsione, avendo evidentemente tutte le caratteristiche per poter ottenere una protezione umanitaria.
Il 1 gennaio 2014 il presidente Manconi è tornato al Cie per incontrare i 16 profughi i quali gli hanno consegnato una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nella quale i trattenuti di Ponte Galeria chiedevano di essere ascoltati. Al presidente Manconi è stata consegnata poi un’altra lettera per il Capo dello Stato firmata da 84 immigrati, tutti in quel momento presenti nel Cie (26 donne e 58 uomini).

Testo della lettera indirizzata al Presidente della Repubblica dai 16 immigrati con le bocche cucite. “Egregio presidente iniziamo con il ringraziarla per l’interesse che ha rivolto alla nostra situazione qui al Cie di Ponte Galeria. Le chiediamo di aiutarci ad evitare il nostro rimpatrio in Marocco perché sarebbe per noi troppo doloroso, dopo aver affrontato un viaggio così difficile. Noi abbiamo cercato di far arrivare la nostra manifestazione ai mass-media in maniera pacifica e in questo modo finalmente qualcuno si è accorto della nostra problematica. Vorremmo che lei potesse intervenire per velocizzare il cambiamento della legge sull’immigrazione, sappiamo che noi qui dentro, ad oggi, non potremmo usufruirle perché i tempi per il cambiamento della legge sono lunghi. Per cui le chiediamo almeno di aiutarci a regolarizzare la nostra permanenza in Italia. Abbiamo viaggiato dal Marocco in Libia in cerca di una situazione migliore, ma ci siamo trovati nella guerra e nella povertà abbiamo affrontato il viaggio verso l’Italia sperando di trovare fortuna ma abbiamo scampato la morte. Ora ci troviamo qui rinchiusi senza speranze e per questo che le chiediamo di aiutarci ad avere il diritto ad avere una vita normale”. La lettera dei 16 si concludeva con le firme e il percorso fin qui da loro compiuto: Marocco, Libia, Lampedusa, Caltanissetta e Roma. La lettera firmata da tutti gli ospiti del Cie, iniziava con una forte richiesta di non essere trattati come criminali, dal momento in alcun modo potevano essere considerati tali; che i centri rispettassero la dignità delle persone ed avessero standard adeguati di tutela dei diritti e che il periodo di trattenimento fosse drasticamente ridotto. Chiedevano inoltre “l’annullamento della legge Bossi-Fini: una legge che obbliga le persone a rimanere sempre fuori legge, perché qualsiasi extracomunitario che ha avuto problemi con la legge non può usufruire permesso di soggiorno e nessuno oggi assume persone senza permesso di soggiorno”. Il 26 gennaio 2014, il Presidente della Commissione diritti umani è tornato al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria per incontrare un gruppo di trattenuti che il giorno prima ha ripreso la protesa di cucire le labbra iniziando lo sciopero della fame contro la durata del tempo di permanenza nei Cie. Il 7 febbraio 2014, il Presidente della Commissione diritti umani è tornato al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria e ha portato la risposta del Presidente della Repubblica alle due lettere destinate al Capo dello Stato che gli immigrati trattenuti a Ponte Galeria gli avevano consegnato il primo gennaio. “Sarebbe utile e opportuna un’attenta riflessione sui tempi di permanenza nei Cie” ha affermato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella lettera. Nell’esprimere “comprensione per la sofferenza e il dolore di coloro che hanno scritto, così come per le loro richieste e speranze”, il Presidente Napolitano ha sottolineato di non poter entrare nel merito delle istanze, rilevando tuttavia che esse formano “oggetto di dibattito nel Paese e in Parlamento”.

Il Messaggero, 21/07/2013 TRA POLVERE E MURI SCROSTATI LE LACRIME DI CHI VERRÀ ESPULSO
di Mariada Lombardo Pijola
Il Reportage Roma. Alma era qui, il 31 maggio scorso, ed era un’entità imprecisa sospesa in una nebbia, come gli altri. Uomini e donne segregati, storie interrotte, vie che aspettano la grazia di una proroga, creature che appartengono all’attesa. Ponte Galeria, centro accoglienza temporanea per immigrati, terra di mezzo del destino, dove ogni cosa si sperde nell’assenza di sguardi, di progetti, di colori, nel dominio del grigio e delle sue sfumature. I muri scrostati, le sbarre alte cinque metri, l’indeterminatezza del futuro, il caos della promiscuità. E i volti contratti dall’ansia,
le mani inoperose, i passi circolari, i gesti inconcludenti, gli sguardi che annegano in un vuoto gessoso: cemento e polvere e pensieri che ballano come pulviscoli nel nulla, vacui e dolorosi, a ricordare ciò che è stato, a chiedersi cosa sarà. Rimpatrio, espulsione, oppure no? Procedure. Gli artigli della burocrazia. La vita appesa per mesi alla consistenza sottile della carta: i documenti. E intanto gli affetti lontani, e tu che non hai più niente, nemmeno un’identità riconosciuta; tu che non sai nulla di quelli che ti tengono là dentro e di te stesso, tu che talvolta menti a loro e ti menti da solo, il nome falso, oppure il nome vero, ma «non ho fatto niente», e non tornerò all’inferno, e riuscirò a restare qui, vedrete, in compagnia della speranza che mi ci ha portato. La Speranza Forse anche Alma Shalabayeva si è detta «riuscirò a restare», si è detta «non mi deporteranno, sono una donna, ho una bambina», l’ha detto anche al giudice di pace, in una di queste stanze con la scrivania e le sedie di metallo e i muri nudi. Udienza lampo, quasi nessuna garanzia, «chiederemo asilo politico, alle 15 parlerò coi miei avvocati…». Invece a quell’ora, suo malgrado, sarebbe stata in volo verso il Kazakistan. Chissà se, nelle 48 ore in cui è rimasta qui, con altri 80, tra uomini e donne di svariate nazionalità, reclusi per via dei documenti non in regola, dei permessi scaduti o mai ottenuti, sebbene alcuni parlino romanesco e siano nati qui, anche Alma ha udito i gemiti strazianti di qualcuno.
Una donna che piange, emette i lamenti viscerali di un gatto ferito, di un bimbo abbandonato, di una creatura affranta e sola. Noha, giovane algerina, sbarcata due settimane fa a Lampedusa. Il barcone, il buio del mare e della notte, il freddo, la fame, la paura, lei stretta a Fraul, suo marito, e alla speranza che li ha portati lì. Poi li hanno separati. Ora lei grida dov’è, dov’è?, da ore. È il mantra degli affetti frantumati. Gabriella Diac, volontaria, lo ha sentito mille volte. Lo conosce bene. Si attacca al cellulare, riesce a rintracciare Fraul a Lampedusa, lo passa a Noha, lei scarica un fiume di parole, preghiere, invocazioni ma non piange più. «Uomini in gabbia», scuote il capo Miguel Gotor, dopo la visita al Cie con la Commissione diritti umani del Senato, assieme al presidente, Luigi Manconi. Sarà lui a scrivere la relazione sui Centri, a stabilire se quella permanenza forzata violi o no la dignità e i diritti di
uomini e donne. «Centri di infamia estrema», come scrive Erri De Luca? Non è per le strutture degradate, ancora danneggiate dall’incendio che alcuni provocarono per ribellarsi ai maltrattamenti contro uno di loro, che aveva tentato l’evasione e infine si era suicidato. Non è per l’acqua calda che manca, la pasta immangiabile, i bagni alla turca fatiscenti, gli psicofarmaci
Rapporto sui Centri di identificazione ed espulsione
55 forzati, i gesti di autolesionismo, gli stanzoni che sembrano bunker. Non è per la rabbia intrecciata all’infelicità, per la promiscuità che mette assieme etnie e tribù, e la babele di lingue, e musulmani e cristiani, e africani e arabi, e c’è quello che provoca mangiando davanti alla stanza che funge la moschea, e c’è quello che spunta davanti a quella che funge la moschea, e c’è quello che sputa davanti a quella che funge da Chiesa, e insulti, e risse, e botte, e agguati. La disperazione È qualcos’altro. È questo smarrimento che allaga gli occhi di Ahamed, 31 anni, egiziano, già panettiere e muratore e quel che capitava a Napoli, da cinque anni, «e adesso mi vogliono rimpatriare, e la mia compagna e la mia bimba di 4 anni resteranno senza sostegno». Disperazione. Ecco cos’è. «È il trovarsi in una situazione che nulla distingue dalla detenzione – dice Gotor – anche quando non hanno commesso alcun reato, per un periodo che può durare fino a un anno e mezzo». «In realtà, l’80 per cento dei maschi arrivano qui dalle carceri, dopo aver scontato la pena», spiega Abdul, mediatore. E poi ci sono gli altri. Ci sono «contadini o muratori truffati dai loro datori di lavoro, che li hanno fatti pagare per la sanatoria, per poi intascare il danaro senza regolarizzarli». C’è Kelianne, brasiliana, che aspettava di essere sposata dal suo amore italiano, «ma poi lui…». C’è Alissa, bosniaca, che è nata e ha studiato qui, ma i documenti adesso son scaduti, e niente cittadinanza, «anche se mi sento italiana come te». Ci sono tre badanti ucraine. I loro principali non hanno voluto regolarizzarle, e ora, dopo anni, eccole qui. Col futuro alle spalle. Prigioniere.

il manifesto, 28/12/2013 PRIGIONIERI SENZA TEMPO.
UNA COPPIA DI TUNISINI INNAMORATI, UN RAGAZZO NATO IN ITALIA CHE ADESSO RISCHIA DI ESSERE MANDATO IN SERBIA. VITE SOSPESE NEL CIE DI PONTE GALERIA NEL CENTRO ROMANO PROSEGUE LA PROTESTA DEGLI IMMIGRATI, DA SETTE GIORNI IN SCIOPERO DELLA
FAME
di Carlo Lania ROMA. Ormai per tutti sono Giulietta e Romeo. Lei, 29 anni, piccolina, se ne sta nella sua tuta color fucsia incredula, forse, di tanta attenzione attorno a sé. Lui, cinque anni più grande,
sembra un gigante mentre se ne sta seduto accanto alla sua donna sforzandosi di far capire a tutti quanto possa essere assurda la loro storia. Che è la storia di una fuga d’amore da un paese, la Tunisia, in cui la famiglia di lei ha cercato in tutti i modi di impedire che si sposassero, al punto che i fratelli della ragazza sono arrivati ad accoltellarla per punirla dei suoi sentimenti. A guardarli non sembrano proprio due di quei pregiudicati di cui secondo Angelino Alfano, il Ministro dell’interno deciso a difendere la Bossi-Fini, sono pieni i Cie. Giulietta e Romeo, che in realtà si chiamano Alia e Alì, si amano da dieci anni e quando erano in Tunisia avevano anche un lavoro: lui meccanico, lei sarta. Se sono scappati è solo per amore, perché il loro sogno era quello di mettere su famiglia, magari proprio in Italia. Invece Alì e Alia dal 30 novembre scorso sono rinchiusi nel Cie di Ponte Galeria, alla periferia di Roma, e il loro sogno per adesso è rinviato, se non addirittura svanito sotto la minaccia di un rimpatrio. Che sarebbe drammatico per entrambi. «La prima a rischiare è lei», dice Alì stringendo a sé Alia. «La sua famiglia la ucciderebbe e subito dopo toccherebbe a me». Hanno anche provato a chiedere lo status di rifugiati ma la domanda è stata respinta, mente ieri il giudice di pace ha prorogato di un altro mese la loro permanenza nel Cie romano. Due vite sospese. Queste sono le esistenze di Alì e Alia. Sospese come tutte quelle di quanti hanno la sventura di finire in un Centro di identificazione ed espulsione in attesa di essere rispediti a casa come pacchi. Attesa che può durare anche un anno e mezzo. Un’infinità. «Questi sono non-luoghi senza tempo, dove per un immigrato non è prevista la minima attività se non quella prettamente fisiologica di mangiare, andare in bagno e dormire», dice il senatore Luigi Manconi varcando per l’ennesima volta in pochi giorni il grande cancello di ferro del centro accompagnato da Valentina Brinis, ricercatrice di «A buon diritto» e da Vitaliana Curigliano, funzionaria della commissione diritti umani del Senato presieduta dallo stesso Manconi. Una settimana fa alcuni immigrati si sono cuciti le labbra per protestare contro una detenzione di cui proprio non riescono a capire le ragioni. Una forma estrema di lotta rientrata solo ieri mattina, quando anche l’ultimo dei ragazzi ha accettato di farsi liberare le labbra. «Ma la nostra protesta non è finita», assicurano. Quello che colpisce di più entrando a Ponte Galeria è il numero infinito di sbarre che ci sono ovunque, insieme al rumore secco delle chiavi che aprono e chiudono porte di ferro a ogni passaggio. Come in un carcere. L’altezza delle sbarre qui segna come un calendario il continuo inasprimento delle norme sull’immigrazione. Quando il centro venne aperto il tempo massimo di detenzione per un immigrato erano i 30 giorni previsti dalla legge Turco-Napolitano e le sbarre erano alte circa tre metri. Poi, nel 2005, i tempi sono stati raddoppiati e anche le sbarre sono diventate più alte. Infine nel 2010, quando la detenzione venne allungata fino a 18 mesi dal leghista Roberto Maroni, è stato aggiunto l’ultimo pezzo. Il risultato è un lungo rincorrersi di sbarre e cemento a dividere gli oltre venti moduli che compongono le sezioni maschile e femminile del più grande Cie d’Europa. Ogni modulo otto posti letto e un cortiletto per prendere l’aria. Punto e basta, neanche un’aiuola per provare a rendere il tutto un po’ più umano per persone la cui unica colpa, in fondo, è quella di essere state fermate senza un permesso di soggiorno. In uno dei cortili interni una quindicina di tunisini e marocchini ha deciso di proseguire la protesta dormendo all’aperto. Sull’asfalto bagnato hanno steso i materassini verdi in gommapiuma e adesso se ne stanno distesi lì sopra avvolti in coperte e sacchi neri dell’immondizia. Alcuni di loro hanno partecipato alla protesta delle labbra cucite, tutti da sette giorni sono in sciopero della fame e si alimentano solo con acqua e zucchero. Manconi si ferma a parlare con loro e si raccomanda perché vengano seguiti da un medico. Arrivano tutti da Lampedusa, e anche loro non riescono a capire perché una legge li costringa a restare tanto tempo rinchiusi. «Non è vero che abbiamo procedenti, come dicono, Chiediamo solo di essere liberati», spiegano. A un certo punto arriva anche Kaled Chaouki, il deputato del Pd he ha vissuto per alcuni giorni nel centro di Lampedusa. Viene accolto con un applauso: «E’ un fratello», commentano gli immigrati. Si capisce che seguono le vicende italiane, attenti a tutto ciò che potrebbe migliorare la loro condizione. Parlano di Napolitano, dei suoi continui appelli al parlamento per un indulto. «Riguarderà anche noi?» chiedono. A Manconi spetta l’ingrato compito di spiegare che no, non sarà così. Ma c’è spazio anche per qualche speranza.«Ho parlato con il viceministro degli Interni – rassicura il senatore – e mi ha assicurato che il tempo di permanenza nei Cie sarà molto accorciato». Provateci voi a sospendere la vostra vita per 18 mesi senza avere la minima idea di cosa potrà accadervi. O meglio, lo sapete e non vi piace affatto. Come succede a Jovanic Dalibord, che 22 anni fa è nato ad Aversa dove ancora vivono la madre e i fratelli e adesso – dopo aver saldato il suo debito con la giustizia scontando due anni nel carcere di Poggioreale – rischia di essere mandato in Serbia, Paese che non ha mai visto e di cui non parla nemmeno la lingua. «Ma come è possibile? Lì non mi conosce nessuno», chiede guardandoti con gli occhi di chi si sente prigioniero di un incubo. Come è possibile se lo chiede anche Yassin, 19 anni, libico, che se va in giro per il Cie rigirando tra le mani un cappio. «A Capodanno mi impicco, perché io in Libia non ci torno», ripete alla psicologa del centro che non lo perde di vista un attimo. Yassin sa tutto di Nelson Mandela. Sa che è stato in carcere 27 anni e sa anche perché. «Se ce l’ha fatta lui devi farcela anche tu, devi farti forza» gli dice Manconi, che alla fine riesce a farsi consegnare il cappio insieme alla promessa di rivedersi il primo gennaio.
La maggior parte degli irregolari presenti nei Cie italiani non ha precedenti penali e non ci sarebbe nessun motivo per lasciarli mesi e mesi chiusi in queste enormi gabbie.
Il pacchetto giustizia messo a punto dal ministro Cancellieri prevede la possibilità di procedere all’identificazione di chi ha commesso un reato direttamente in carcere, e questo servirà ad alleggerire un po’ la pressione nei centri. Per tutti gli altri da tempo Manconi misure alternative ai Cie, come l’obbligo di firma in commissariato. Provvedimenti che, se applicati, sarebbero sufficienti a chiudere un’esperienza che fino a oggi si è rivelata fallimentare, con appea il 40% degli irregolari identificati. Soluzioni come quelle che gli immigrati di Ponte Galeria adesso hanno deciso di chiedere direttamente al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con una lettera. «E quando l’avranno scritta – promette Manconi – la porterò personalmente al capo dello Stato». il manifesto,

2/1/2014 IMMIGRAZIONE: DAL CIE DI PONTE GALERIA DUE LETTERE AL QUIRINALE, CONSEGNATE A MANCONI
Due lettere per sollecitare il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a intervenire perché cambi la legge sull’immigrazione. A scriverle sono stati gli immigrati reclusi nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Roma, che ieri l’hanno affidata al senatore Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani del Senato che la prossima settimana le consegnerà al capo dello Stato. Nella prima lettera, firmata dai 16 immigrati marocchini provenienti da Lampedusa che nei giorni scorsi si sono resi protagonisti di una forma di protesta clamorosa cucendosi le labbra. “Egregio presidente, le scriviamo per evitare il rimpatrio in Marocco che sarebbe per noi troppo difficile dopo aver fatto un viaggio così doloroso” per arrivare i Italia, dicono i migranti. Nel testo si sollecita il capo dello Stato a intervenire per cambiare la legge Bossi-Fini sull’immigrazione anche se, prosegue il gruppo di marocchini, “ci rendiamo conto che i tempi del parlamento non ci permetterebbero di usufruire delle eventuali modifiche”. “Eppure abbiamo diritto a vivere una vita normale”, scrivono i migranti che spiegano anche come, dopo essere partiti dal loro Paese d’origine, siano arrivati in Libia per poi sbarcare a Lampedusa ed essere trasferiti prima a Caltanissetta e infine al Cie di Ponte Galeria dove sono tuttora rinchiusi. E dal quale sperano di uscire grazie a un intervento di Napolitano che possa regolarizzare la loro posizione. Analoghi i contenuti della seconda lettera, scritta questa volta dai restanti 70 immigrati di varie nazionalità presenti nel Cie romano.

La Repubblica, 08/02/2014 NAPOLITANO SUI CIE: RIVEDERE I TEMPI DI RECLUSIONE
LETTERA AL SENATORE MANCONI PER I MIGRANTI DI PONTE GALERIA. BUBBICO: RIFORMA NON RINVIABILE
di Vladimiro Polchi ROMA — «Sarebbe utile e opportuna un’attenta riflessione sui tempi di permanenza nei Cie». Lo chiede il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in una lettera inviata agli immigrati rinchiusi a Ponte Galeria a Roma, che gli avevano scritto il primo gennaio. Il Quirinale torna così ad accendere i riflettori su quei centri d’espulsione, dentro i quali i migranti possono restare fino a 18 mesi. A fare da messaggero, il senatore Pd Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani del Senato, che ieri è entrato nel Cie romano, assieme a Elena Stancanelli, Christian Raimo e Ricky Tognazzi. In quello stesso centro dove negli ultimi mesi alcuni reclusi si erano cuciti la bocca per protesta. Nella loro lettera, scritta a gennaio al capo dello Stato, i migranti chiedevano un cambiamento delle norme sull’immigrazione. Napolitano risponde, esprimendo «comprensione per la sofferenza e il dolore di coloro che hanno scritto, così come per le loro richieste e speranze», ma precisa di non poter entrare nel merito delle istanze, «oggetto di dibattito nel Paese e in Parlamento». Poi a conclusione del suo messaggio auspica «un’attenta riflessione sui tempi di permanenza nei Cie». Il trattenimento infatti è stato portato a 18 mesi (dai precedenti sei), con un decreto del 2011 dell’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Dal recente rapporto della commissione diritti umani del Senato a quello del commissario europeo Thomas Hammarberg, i Cie sono da anni al centro delle polemiche. Il loro scopo dichiarato è di rimpatriare gli irregolari. Ma nel 2012 solo la metà dei circa 8mila trattenuti è stata espulsa: l’1% dei 326mila irregolari stimati dall’Ismu al primo gennaio 2012. Scarsi risultati a fronte di alti costi, se si pensa che per tutti i centri per immigrati, l’Italia spende oltre un milione 800mila euro al giorno. «Il presidente ha evocato la riduzione dei tempi di permanenza nei Cie – sostiene Luigi Manconi – che secondo noi vanno portati dagli attuali 18 mesi a 2 mesi». Del resto lo stesso viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico, dichiara che «la drastica riduzione del tempo di permanenza nei Cie rappresenta un impegno fondamentale, non prorogabile». La riforma in discussione porterebbe a 2 i mesi di trattenimento, ma il testo elaborato già a ottobre scorso da Bubbico, col ministro Cecile Kyenge e il sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione, resta ancora solo una bozza.

La Repubblica, 08/02/2014 DENTRO UNA GABBIA DI FERRO ASPETTANDO GODOT CON LE SCARPE SENZA LACCI
I CENTRI COME UN LIMBO PSICOTICO DOVE I “TRATTENUTI” GUARDANO LA TV INVECE DI VIVERE E LAVORARE “NIENTE INFERMIERI MAROCCHINI COSÌ L’OSPEDALE FUNZIONA”
di Elena Stancanelli LORO dicono che è anche peggio del carcere, perché è insensato. Finire in un Centro di identificazione ed espulsione (Cie) come quello di Ponte Galeria a Roma (erano undici, ne sono rimasti a pieno regime cinque in tutta Italia) significa precipitare in un mondo kafkiano, indecifrabile e insensato. Un universo concentrazionario, un non-luogo, il crocevia dove Vladimiro ed Estragone aspettano Godot. Arrivando in questo fabbricato sinistro, percorrendo i corridoi nati decrepiti, sedendo su panche inchiavardate sul cemento, si ha la sensazione di trovarsi in un luogo che la letteratura aveva previsto. Ecco quello che temevamo, il paesaggio partorito dal nostro novecentesco disagio. Ed ecco il rimosso, lo scarto di irrazionalità che le nostre società producono. Stavo lavorando, ci spiega uno dei ragazzi che incontriamo, stavo vendendo il pesce al porto di Pescara, e mi hanno portato via. Perché il mio permesso di soggiorno era scaduto. Non si arriva qui perché si è rubato, o ucciso, o spacciato, ma perché si è clandestini. Fino a oggi è un reato, nel nostro Paese, ma da domani potrebbe essere una vocazione, un destino avventuroso. Lo è stato, lo è ancora in altri Paesi. Ti portano in un Centro ti tolgono i vestiti e ti consegnano una tuta da ginnastica, un paio di ciabatte o di scarpe senza lacci, ma ti lasciano il cellulare. Anche le regole dentro i Centri, rispetto al carcere, rispondono a criteri misteriosi. Non si possono tenere penne né libri, è consentito usare i fiammiferi ma non gli accendini, si possono incontrare i visitatori come noi senza il diaframma delle sbarre ma la struttura architettonica è formata da un sistema concentrico di sbarre di ferro. Si entra in una gabbia, che contiene un’altra gabbia, che contiene un’altra gabbia… Una matrioska di disperazione, la chiama il senatore Luigi Manconi che ci accompagna e che ha il compito, tra gli altri, di recapitare ai “trattenuti” una lettera del presidente Napolitano in risposta
alle loro richieste. Trattenuti. I Centri sono luoghi nei quali persino parole e cose si scollano. Si è
detenuti ma non incarcerati, nell’eventualità che uno dovesse riuscire a fuggire non potrebbe essere perseguito per evasione, ma guardie e militari li sorvegliano esattamente come se stessero scontando una pena. Si mangia, ma non ci sono cucine. Il cibo entra nel Centro grazie a un catering garantito dalla società che ha in appalto la gestione. A differenza di quanto avviene nella carceri, non si può cucinare da soli. I fornelletti sono vietati, ma in cambio, con un buono da sette euro al giorno, è possibile comprare ricariche per il telefonino, caffè, patatine e dolcetti nel
distributori automatici. Alle tre apre lo spaccio, a quell’ora le donne possono andare a rintracciare i loro oggetti personali, darsi un po’ di profumo per esempio, ma poi li devono restituire. I ragazzi, circa cinquanta uomini e venti donne, ci tengono a mostrare che parlano bene la nostra lingua. Uno di loro, originario della Tunisia, è in Italia da vent’anni. Stavo andando a fare la spesa, racconta, quando mi hanno fermato e portato qui. Due mesi fa. Due, tre dieci, fino a diciotto mesi secondo quando ha stabilito l’Unione europea come tetto massimo. Un tempo che dovrebbe servire soltanto a identificare le persone trattenute. Questo è lo scopo dei Cie: dare un nome alle persone. Attraverso consolati, relazioni coi paesi di origine che non collaborano, incroci di informazioni. Per farlo, ripeto, ci mettiamo anche un anno e mezzo. Il tempo di permanenza nel Centro è imprevedibile e quindi non può essere comunicato. I trattenuti stanno lì, in questo limbo psicotico, a non fare niente. Non sono previste attività, come avviene invece in un carcere. Un ragazzo marocchino, sbarcato a Lampedusa su un nave scampata al naufragio — l’altra, quella che viaggiava insieme alla sua, è affondata — non parla l’italiano. Era in Libia, lavorava come macellaio, ma è dovuto scappare dall’inferno di un paese a pezzi. L’italiano non lo imparerà, perché nessuno glielo insegna. Non è previsto un suo reinserimento, a differenza di quanto avviene, almeno in teoria, in un carcere: sta lì in attesa di essere rimpatriato.
E costa allo Stato una cinquantina di euro al giorno. Peccato che solo il 40% del trattenuti nel Centri finirà davvero sugli aerei che li riportano nel luogo dal quale sono scappati. Affrontando, come sappiamo, viaggi che sono vere ordalìe. Un ragazzo algerino di ventotto anni racconta il suo: avevo tredici anni, e nessuna speranza. Mi sono attaccato sotto un camion, a Casablanca. Sono rimasto nascosto là sotto per sette giorni, fin quando non abbiamo raggiunto il confine tra la Spagna e la Francia (qui ha chiamato un numero di telefono, qualcuno gli ha dato un po’ di soldi ed è riuscito ad arrivare a Torino). Sono stato in una casa famiglia, sono scappato, mi hanno portato in un Centro, poi in un altro, e in un altro. Sono palline di un flipper demente. Ognuno di loro è stato sballottato su è giù per l’Italia, è entrato e uscito da un Centro, ha perso anni e anni in balia di una giustizia incomprensibile. Anni in cui avrebbe potuto lavorare, fare figli, pagare le tasse. Invece non fanno altro che dormire, nelle camerate da otto letti c’è un televisore acceso a volume basso. Le ragazze guardano Masterchef, e hanno tappezzato le pareti con le pagine di una rivista. Gli uomini, ogni tanto, giocano a calcio. Perché, ci chiedono. Già, perché?
il Fatto quotidiano, 08/02/2014 NAPOLITANO SCRIVE AGLI IMMIGRATI DI PONTE GALERIA: RIDURRE A 2 MESI LA PERMANENZA NEI CIE
La lettera, consegnata dal Senatore Luigi Manconi, con cui ieri Giorgio Napolitano ha risposto alla missiva inviatagli a Capodanno dagli immigrati rinchiusi nel Cie di Ponte Galeria – uno di quelli in cui le settimane scorse si sono avute le più dure manifestazioni di protesta – potrebbe segnare un punto di svolta nella legislazione italiana in materia di immigrazione. Il progetto del governo Letta di rivedere la Bossi-Fini si è infatti fino a questo momento infranta sulla contrarietà del lato destro delle “strette intese”, capitanato dal ministro dell’Interno
(e vicepremier) Angelino Alfano. Ora, però, che il Quirinale se schierato con tutto il suo peso sulla questione, la situazione potrebbe sbloccarsi: “La drastica riduzione del tempo di permanenza nel Cie rappresenta un impegno fondamentale, non prorogabile”, ha infatti spiegato il viceministro di Alfano, Filippo Bubbico (Pd). Il progetto, in sostanza, prevede di portare il tempo massimo di detenzione negli 11 Centri di identificazione ed espulsione dai 18 mesi (indicati già nella legge Turco-Napolitano degli anni Novanta) attuali a 60 giorni: l’esperienza ha, infatti, dimostrato che se l’immigrato clandestino non viene identificato nei primi due mesi, difficilmente lo sarà in seguito. Senza contare che gran parte della popolazione del Cie non ha commesso alcun reato ad eccezione dell’ingresso illegale in Italia – che non prevede l’arresto – e dunque una detenzione di un anno e mezzo (e a volte di più) è chiaramente in contrasto con l’articolo 13 della Costituzione che tutela la libertà personale. Tradotto: non si può mettere in galera – anche se si chiama Cie – per 18 mesi uno che non ha commesso reati. Se la soglia massima dei due mesi potrebbe arrivare presto in Consiglio dei ministri, c’è però un altro punto indicato dal viceministro Bubbico che ancora non incontra il consenso necessario dentro la maggioranza: “Puntiamo ad un prolungamento dei tempi di scadenza del permesso di soggiorno. Con la crisi economica molte persone che hanno lavorato in Italia rischiano di finire in clandestinità solo perché hanno perso il lavoro”. Buon senso, ovviamente, che però non pare aver contagiato Alfano, che continua a porre il veto su questa norma. Il democratico Manconi, che è anche fondatore dell’associazione “A buon diritto”, la mette in maniera più diplomatica: “In questi mesi abbiamo riscontrato un orientamento ampio del governo e del Parlamento a favore della riduzione dei tempi di permanenza, ma gli effetti pratici tardano a venire”.
Visita di una delegazione della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani al Cie di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) – 10 settembre 2013 – Martedì 10 settembre una delegazione della Commissione diritti umani del Senato composta dal presidente Luigi Manconi e dalle senatrici Manuela Serra e Paola De Pin, si è recata in visita al CIE di Gradisca d’Isonzo (Gorizia)67.
La visita è stata preceduta da un incontro con i responsabili del centro durante il quale sono state acquisite alcune informazioni di carattere generale. Erano presenti Giuseppe Donadio, della Prefettura di Gorizia, Luigi Di Ruscio, dirigente dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Gorizia, e Giuseppe Cusumano, direttore della cooperativa sociale Connecting People (ente gestore). Nel corso della visita la delegazione è stata raggiunta dal prefetto Maria Augusta Marrosu e dal questore Pier Riccardo Piovesana. La struttura è stata costruita nel 2006 e si trova a pochi chilometri da Gorizia. Un muro di cinta in cemento armato molto alto, dall’esterno, copre alla vista il fabbricato. All’interno, attraverso l’area riservata agli uffici amministrativi si accede ai settori detentivi divisi in tre aree (rossa, blu e verde), di cui solo la rossa è aperta, mentre il resto della struttura è chiusa per lavori di ristrutturazione dal 2011. L’area rossa è suddivisa in moduli abitativi, ciascuno con uno spazio esterno antistante con pavimento in cemento. Ogni modulo è recintato da alte pareti di plexiglas e coperto da reti metalliche ed è composto da 8 stanze con 8 posti letto ciascuno. Le stanze hanno le finestre sigillate e non permettono il ricambio d’aria, né c’è un impianto di aria condizionata. Anche i bagni sono ciechi e appaiono in condizioni igieniche precarie (ristagno d’acqua). L’unico arredo è costituito dal letto, fissato a terra. Nel blocco centrale c’è un’area con i telefoni pubblici, un distributore di snack e uno sportello da cui si ritirano i farmaci. Si può accedere a questa area a turni di 4, scortati da un certo numero di agenti delle forze dell’ordine e di operatori dell’ente gestore. I pasti vengono 67 Il 13 agosto 2013 in seguito alla protesta di una ventina di immigrati saliti sul tetto del Cie per denunciare condizioni di vita disumane, due immigrati erano rimasti feriti, di cui uno gravemente. Il presidente Manconi in quell’occasione aveva chiesto al ministro degli interni Alfano un’ispezione, svoltasi nei primi giorni di settembre, di cui è stata inviata copia alla Commissione.
Rapporto sui Centri di identificazione ed espulsione
64 consumati all’interno dei moduli, perché la mensa è stata chiusa per motivi di sicurezza. Per lo stesso motivo non si può accedere al campo di calcio. Su una capienza di 240 posti, ne sono disponibili 64 nell’area rossa. Al momento della visita erano presenti 44 trattenuti, tutti uomini, provenienti per la maggior parte da Tunisia, Marocco e Algeria. Un terzo circa era giunto al Cie dal carcere. Dai dati forniti alla Commissione dalla Questura risulta che da settembre 2012 a settembre 2013 sono transitati dal Cie 366 stranieri. Nello stesso periodo 216 stranieri sono stati rimpatriati, 195 espulsi con accompagnamento alla frontiera, 27 rilasciati per scadenza dei termini e 187 rilasciati per vari motivi. Il tempo medio di trattenimento tra il 2012 e il 2013 è stato di 45 giorni, ma nel corso della visita è emerso che alcuni trattenuti si trovavano nel centro da più di 12 mesi. Sempre nello stesso periodo, dai dati forniti, risultano essersi verificati 61 casi
di autolesionismo, un numero molto più alto rispetto ad altri Cie. Risulta inoltre la presenza giornaliera di 32 operatori delle forze dell’ordine e 80 militari dell’esercito, numeri che appaiono anche in questo caso molto più alti rispetto ad altri centri visitati. La cooperativa Connecting People si occupa dell’assistenza sanitaria, della ristorazione, della cura dell’igiene. Le esigenze mediche vengono coperte da 5-6 unità di personale medico, con turnazione. Si registra un uso diffuso di ansiolitici e calmanti. Nell’ultimo anno si sono verificati 61 casi di autolesionismo. Nel corso della visita, i senatori hanno incontrato numerosi trattenuti, riscontrando numerose criticità. Erano presenti diversi agenti di pubblica sicurezza e militari dell’esercito. Il clima all’interno del centro è molto teso e si è registrato un profondo malessere nei trattenuti e di forte chiusura verso l’esterno (nessuna associazione opera all’interno del centro). Nel centro è vietato l’uso di cellulari. Non sono ammessi giornali, libri, penne. La possibilità di movimento è ridotta al minimo e i trattenuti possono muoversi esclusivamente tra le stanze e i cortili antistanti. Veniva riferito che fino a poche settimane prima della visita, le stesse stanze erano chiuse a chiave e si poteva accedere al cortile esterno, recintato, solo per un paio d’ore al giorno (una tabella distribuita dall’ente gestore mostrava gli orari di apertura delle porte delle stanze). Il numero altissimo di casi di autolesionismo è indice della tensione e del malessere presenti tra i trattenuti. Alcune storie emerse, sono state segnalate alla Prefettura di Gorizia in seguito alla visita. Tra queste L. K., proveniente dall’India, il quale presenta difficoltà a comunicare, probabilmente a causa di un forte stress e che appare incompatibile con la condizione di trattenimento.

Aggiornamento Il 31 ottobre 2013 nuovi disordini si sono verificati al Centro di Identificazione e di espulsione di Gradisca d’Isonzo, dove alcune persone trattenute sono salite sul tetto dell’edificio mentre altre hanno bruciato materassi e danneggiato le stanze per protestare contro le condizioni di vita all’interno della struttura. Erano 66 gli stranieri presenti nel centro, tutti concentrati nella c.d. “zona rossa”, essendo il resto della struttura inagibile per lavori di ristrutturazione. Alla luce
di questo ennesimo episodio e di quanto riscontrato nella visita della Commissione a settembre, il presidente Manconi ha chiesto con un’interpellanza al Ministro dell’interno Angelino Alfano la chiusura del centro di Gradisca. Il 5 novembre 2013 il Ministero dell’Interno ha svuotato il centro, disponendo il trasferimento delle persone trattenute.

CIE DI GRADISCA D’ISONZO (GO) 10 SETTEMBRE 2012 – 10 SETTEMBRE 2013
TOTALE STRANIERI 366 ESPULSI 195 RILASCIATI PER SCADENZA 27 RILASCIATI PER ALTRI MOTIVI
TRASFERITO 86 ARRESTATO 4
ALLONTANAMENTO ARBITRARIO 47 DIMESSO MUNITO DI INVITO 15 T.U.L.P.S. 25 DIMESSO PER DECISIONE DEL GIUDICE DI PACE 15 DIMESSO CAUSA ESPULSIONE ANNULLATA 3
DIMESSO CAUSA ESPULSIONE SOSPESA 4
DIMESSO PER MINORE ETÀ ACCERTATA 2
DIMESSO PER MOTIVI DI SALUTE 1
OSPITI PROVENIENTI DAL CARCERE 102 CASI DI AUTOLESIONISMO 61 10 SETTEMBRE 2012 – 10 SETTEMBRE 2013
TOTALE STRANIERI 366 PERMANENZA MEDIA PER SINGOLO TRATTENUTO
45,7186 TOTALE RIMPATRI EFFETTUATI 216

Interpellanza presentata in merito al Cie di Gradisca d’Isonzo (2-00091) MANCONI – Al Ministro dell’interno – Premesso che: già nel settembre 2013 una delegazione della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato si era recata in visita al Centro di identificazione e di espulsione (CIE) di
Gradisca d’Isonzo (Gorizia), riscontrando numerose criticità, condizioni di vita disumane e tensione altissima; negli ultimi giorni nuovi disordini si sono verificati nel Centro. La notte tra il 30 e il 31 ottobre alcune persone trattenute sono salite sul tetto dell’edificio, mentre altri provocavano gravi danni alla struttura. Episodi che si sono ripetuti nelle notti successive, fino a quella tra il 2 e il 3 novembre; per disposizione del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno, il
Centro di identificazione ed espulsione di Gradisca d’Isonzo è stato svuotato, con il trasferimento delle persone trattenute, e temporaneamente chiuso, come ripetutamente chiesto negli ultimi mesi anche da parte di parlamentari e amministratori di quel territorio; gli spazi inadatti e inagibili del CIE sarebbero viceversa utili all’ampliamento del limitrofo Centro di accoglienza per richiedenti asilo bisognoso di posti e di spazi per una migliore gestione e una più adeguata accoglienza per gli ospiti; nei giorni scorsi sono giunte alla Commissione numerose segnalazioni da parte degli amministratori degli enti locali che insistono sul territorio di Gradisca circa la difficoltà di avere notizie precise su quanto stesse accadendo nel Centro poiché impossibilitati ad entrare senza l’autorizzazione da parte della Prefettura; il 22 ottobre 2013 la Commissione ha proceduto ad approvare una risoluzione con cui si chiede di assicurare uniformi condizioni di accesso da parte di soggetti terzi ai centri di accoglienza e trattenimento dei migranti, a garanzia di un controllo esterno sulle modalità e le condizioni di trattenimento, nonché sul rispetto dei diritti fondamentali e della dignità degli stranieri ivi presenti, si chiede di sapere: se il Ministro in indirizzo non ritenga che il CIE di Gradisca debba essere chiuso definitivamente e che quegli spazi e quei locali, una volta ristrutturati, possano essere utilizzati per ampliare il centro di accoglienza per richiedenti asilo situato nei pressi; se non valuti necessario intervenire sulla regolamentazione dell’accesso ai centri, dando attuazione al più presto al dispositivo della risoluzione della Commissione stessa, in particolare prevedendo l’accesso a tali strutture a parlamentari nazionali ed europei, presidente e componenti della Giunta regionale, consiglieri regionali, presidente e componenti della Giunta provinciale, consiglieri provinciali, sindaci, assessori e consiglieri comunali, garanti dei detenuti o comunque titolari di competenze in materia di tutela dei diritti nella privazione della libertà, garanti dell’infanzia e dell’adolescenza, soggetti del privato sociale che operano in relazione alle condizioni di vita e all’effettività della garanzia dei diritti degli stranieri, giornalisti e foto-cineoperatori, per questi ultimi escludendo la necessità della specifica autorizzazione prefettizia; se, alla luce di questo ennesimo episodio, e del fatto che ormai è stato adottato un provvedimento temporaneo o definitivo di chiusura per la metà dei Centri di identificazione ed espulsione esistenti, non ritenga che sia opportuno affrontare con urgenza e alla radice la questione dei CIE in Italia.

Corriere della sera, 15/09/2013 «NOI, UOMINI-IMPRONTA DIGITALE»
RINCHIUSI FINO A UN ANNO E MEZZO PERCHÉ PER LO STATO NON HANNO UN NOME
di Giovanni Bianconi
GRADISCA D’ISONZO – Lui dice di chiamarsi Tawfik Assad, ma appena lo vedi pensi a Fabrizio Corona per via dei tatuaggi, i muscoli tesi, i capelli curati, orecchini e braccialetti, gli occhiali a specchio inforcati a dispetto delle nuvole. Ha 25 anni, viene dal Marocco. È un ex detenuto che ha scontato la pena «per rapina e lesioni», assicura con l’aria di voler sminuire il reato, ma forse era qualcosa di più pesante. Dopo la scarcerazione ha attraversato un paio di Centri di identificazione ed espulsione, poi è tornato libero e ha preso la strada dell’Olanda, ma in Francia l’hanno fermato e rispedito in Italia. Da due mesi Tawfik è rinchiuso nel Cie di Gradisca, dove in agosto è stato un protagonista della rivolta che ha portato all’occupazione dei tetti, ingenti danneggiamenti, intervento massiccio delle forze dell’ordine con manganelli e lacrimogeni, dodici evasioni (sebbene tecnicamente non possano definirsi tali, giacché gli «ospiti» non sono detenuti) e un aspirante fuggiasco in coma dopo un volo da qualche metro d’altezza. È stata quella faccia da Corona a condurre la trattativa con la deputata di Sel Serena Pellegrino, per far cessare la protesta. I ribelli hanno ottenuto la riconsegna dei telefonini sottratti all’ingresso, nonostante non fossero vietati da alcuna norma, e la promessa di riapertura della mensa e del campo di calcio. Ma adesso Tawfik chiede altro: «Io voglio uscire e tornare in Marocco dalla mia famiglia», dice alla delegazione della commissione Diritti umani del Senato, guidata da Luigi Manconi, impegnata a verificare le condizioni di vita nei sette Cie attualmente in funzione, dove complessivamente sono custodite 550 persone. Il problema è che il Marocco sembra non volerne sapere di riprendersi questo ex galeotto, né risponde alle richieste delle autorità italiane. «Se mi fanno uscire vado io a parlare col console», insiste Tawfik, e si può immaginare che il console non sia ansioso di incontrarlo. Così il simil-
Corona resta uno degli uomini-impronta chiusi qui dentro, riconosciuti e riconoscibili solo dalle impronte digitali, al pari degli altri 43 che vivono da prigionieri senza esserlo. Si tratta di condannati trasferiti direttamente dalla cella a pena esaurita, in attesa dell’identificazione e del rimpatrio (volontario o forzoso che sia) dovuto alla pericolosità sociale o altri motivi; oppure clandestini arrivati dalla strada, dopo un controllo di polizia che ha svelato impronte e precedenti penali, di solito droga o reati contro il patrimonio: l’unico dato certo, finché non si accertano nome e provenienza. «Io sono stato fermato a Brescia senza documenti – racconta Jallo, dalla pelle color nero Senegal – dopo sei anni che stavo in Italia». Dice di avere una sorella e un fratello che vivono regolarmente a Parma e Brescia, ma chissà. E chissà se è vera la storia riferita da Morad Samud, tunisino che s’è visto negare la richiesta di asilo. Sostiene di essere approdato a Pantelleria, unico
superstite di un equipaggio di quattro: «Gli altri tre sono annegati, nel mio Paese mi accusano di essere lo scafista di quel viaggio e dunque non posso rientrare». Abdel Aziz Nazik è un sedicente algerino di quarant’anni che vive in Italia da diciotto, clandestino. Dal Cie di Torino è stato trasferito qui, oltre un anno fa. Ufficialmente è un senza patria: «L’Algeria ha risposto che non gli risulto, e così Marocco e Tunisia». Conseguenza, non si sa dove rispedirlo. Tra qualche mese – scaduto l’anno e mezzo che la legge prevede come limite massimo al trattenimento per gli uomini-impronta – tornerà libero con l’ordine di lasciare il Paese. Che verosimilmente non rispetterà, in attesa del fermo successivo. Un presunto connazionale di Nazik aspetta da diciassette mesi, per lui le porte si apriranno prima. A meno che non riaccada quel che è successo quando il Marocco ha accettato di riprendersi un «trattenuto» il giorno prima che scoccasse il diciottesimo mese. La scarsa o nulla collaborazione delle autorità consolari – soprattutto dei Paesi del Maghreb, da cui proviene la maggioranza dei trattenuti – è uno dei principali ostacoli segnalati all’unisono da questore, prefetto e responsabili del Cie. Un altro è la mancata imposizione dell’identificazione delle persone in carcere. Nelle nostre prigioni gli uomini-impronta trascorrono la detenzione con nome e nazionalità virtuali, e solo quando escono comincia la trafila burocratica dell’identificazione. Di qui i trattenimenti che, secondo le statistiche di Gradisca, nel 60 per cento
dei casi durano meno di sei mesi. Gli altri, quasi tutti di provenienza maghrebina, restano in media fino a un anno, qualcuno di più. Vivono in quella che, a vederla, è una galera a tutti gli effetti: camerate da otto letti e gabinetti in condizioni igieniche appena accettabili (ma dipende dagli standard di ognuno), protette da cancelli che adesso sono chiusi solo di notte mentre fino a poco tempo fa restavano serrati anche di giorno, con turni di apertura di 45 minuti ogni dodici ore, prestabiliti per ogni stanza. Ora invece, da mattina a sera, hanno libera circolazione nelle cosiddette «vasche», cortili recintati da sbarre e chiusi sopra le teste da reti metalliche, come per i mafiosi rinchiusi al «41 bis». Gabbie. Tutti sostengono che nelle carceri vere si sta meglio, «lì il cibo è buono, qui fa schifo». Il tunisino Aymen Zini rimpiange la playstation del penitenziario svizzero dove era detenuto prima di essere mandato in Italia, perché qui gli avevano preso le prime impronte digitali. Mohamed Zeroki, algerino quasi cinquantenne, ha portato il suo materasso fuori dalla camera coi graffiti inneggianti Allah e contro gli «sbirri», dorme lì per via dell’asma. È stato condannato per «tentato furto», afferma esibendo il provvedimento dei giudici di Bologna che hanno annullato l’ordine di espulsione perché nel suo Paese «è praticata la tortura, come indicato da affidabili organizzazioni internazionali». Scontata la pena è approdato qui: «Dicono che per restare devo trovare un lavoro, ma se mi tengono qui come lo cerco?». Siccome al momento la mensa è inagibile, come il campo sportivo, i pasti vengono distribuiti nelle camerate, dove vecchi televisori trasmettono immagini e parole inutili. Non c’è niente da fare, si aspetta solo che passi il tempo, in attesa di nulla. Un limbo blindato. In infermeria la dottoressa di turno spiega che quasi tutti gli «ospiti» chiedono psicofarmaci pesanti, che lei cerca di somministrare con parsimonia, e ogni tanto le portano qualcuno che s’è tagliato o ha ingoiato chissà che. «Atti di autolesionismo tipici dei luoghi di trattenimento coatto – dice il senatore Manconi, da sempre attento ai diritti dei reclusi -. In queste condizioni il Cie di Gradisca va chiuso». Il 20 agosto la deputata Pellegrino ha presentato un’interpellanza per chiedere ai ministri dell’Interno e dell’Integrazione «se non si intenda provvedere a una revisione della legge sull’immigrazione», nonché «verificare con regolarità che nel Cie di Gradisca vengano rispettati i livelli minimi di dignità umana e di rispetto della persona imposti dalla legge».
Visita di una delegazione della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani al Cie di Trapani Milo
– 13 dicembre 2013 – Venerdì 13 dicembre 2013, una delegazione della Commissione diritti umani, composta dalle senatrici Padua e Serra, si è recata in visita al Centro di Identificazione ed Espulsione di Trapani Milo. Era presente anche il senatore Santangelo. Il centro si trova fuori dal centro abitato. La visita è stata preceduta da un incontro con i responsabili del centro durante il quale sono state acquisite alcune informazioni di carattere generale. Erano presenti Concetta Caruso, Vicario del Prefetto, Tommaso Mondello, dirigente della Prefettura, Rita Montagnani, dirigente dell’Ufficio Immigrazione della Questura. L’ente gestore del centro al momento della visita era il consorzio “L’Oasi” di Siracusa. In realtà, nell’agosto 2013 si è tenuta una gara per un nuovo affidamento con procedura negoziata poiché al consorzio “L’Oasi” di Siracusa il prefetto Leopoldo Falco ha revocato la concessione per una serie di gravi inadempienze e carenze gestionali. La Prefettura di Trapani ha affidato alla cooperativa “Glicine”, cooperativa sociale con sede a Palermo, la gestione del Cie di contrada Milo. L’ente si è aggiudicato la gara con un ribasso del 15 per cento pari a 25,50 euro al giorno per migrante rispetto a un importo a base d’asta di 30 euro. Al momento della visita, tuttavia, il Cie era ancora gestito da “L’Oasi” perché le procedure della nuova gara si sono concluse a novembre 2013 ed era in corso una trattativa sindacale con gli operatori del centro (vi sono impiegate 62 persone). La Prefettura ha chiesto al Ministero dell’interno di consentire l’entrata in servizio immediata della cooperativa Glicine. In questa situazione di passaggio, con difficoltà economiche e di personale, l’ente gestore non è più in grado di assicurare tutti i servizi previsti dal capitolato e la Prefettura si è fatta carica di intervenire per garantire i servizi essenziali ai trattenuti69.
69 La cooperativa Glicine ha successivamente rinunciato ad assumere la gestione del centro. È in corso la procedura presso la Prefettura di Trapani per la nuova gestione del centro (gara indetta a marzo 2013). La cifra fissata come base d’asta è 40 euro al giorno per ciascuno dei reclusi ospitati all’interno della struttura, dieci in più rispetto al bando precedente. Il nuovo contratto avrà una durata di tre anni. Il centro è al momento in ristrutturazione. A fronte
Rapporto sui Centri di identificazione ed espulsione
71 Al momento della visita, il centro ospita 136 uomini, prevalentemente nordafricani. La capienza massima del centro è di 204 posti. Secondo i dati forniti dalla Questura, il tempo medio di trattenimento nel 2013 è stato di 26 giorni, nel 2012 tra i 50 e i 90 giorni. Nel 2013 sono state trattenute nel centro circa 1300 persone e sono stati effettuati 162 rimpatri, di cui 25 cittadini comunitari. Sono stati organizzati 65 voli diretti principalmente verso il Nord Africa. Numerose le fughe dei trattenuti dal centro: nel 2013 si sono verificate 800 fughe (quasi il 60%), a fronte di 162 migranti rimpatriati (il 12%). I dirigenti della questura sottolineano come i tempi di organizzazione dei rimpatri siano lunghi a causa della mancanza di fondi e di personale di scorta. La struttura è circondata da mura alte 2,5 metri, sormontate da filo spinato. All’interno è suddivisa in 6 moduli abitativi, ciascuno composto da alcune camerate che possono ospitare in tutto 35-40 persone, con uno spazio esterno antistante. In ogni camerata ci sono bagni e docce. Ogni modulo è recintato con gabbie metalliche. Presidiano il centro 12 militari dell’Esercito e vi sono impiegati 20 agenti delle forze dell’ordine. La delegazione, durante il sopralluogo, è stata scortata da un numero cospicuo di agenti. Durante la visita sono state riscontrate gravi carenze riguardanti l’erogazione di alcuni servizi essenziali (cibo, coperte, kit) e le condizioni materiali dei moduli sono apparse critiche (strutture fatiscenti, servizi igienici sporchi, coperte e asciugamani insufficienti, fornitura di acqua e corrente elettrica non sempre garantita). I membri della Commissione hanno incontrato numerosi trattenuti, i quali si sono lamentati per i tempi lunghi del trattenimento, l’incertezza sul loro destino e la totale mancanza di attività durante le ore del giorno. Le possibilità di movimento all’interno della struttura sono limitate esclusivamente all’interno del modulo abitativo. Non è permesso svolgere alcuno sport (non ci sono campi da calcio o altri spazi per attività fisiche). Molti dei trattenuti hanno dichiarato di assumere psicofarmaci. Sono stati riscontrati casi vulnerabili e di grave disagio. Alcune delle storie emerse sono state segnalate alla Prefettura: D. A. trasferito dal centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria a ottobre 2013, chiede di essere rimpatriato in Senegal quanto prima. Tale richiesta era stata in precedenza presentata agli operatori del centro di Ponte Galeria dove appariva già molto depresso70.
R. K. è cittadino croato. È stato segnalato che secondo la normativa che regola la presenza dei cittadini comunitari in Italia, un cittadino comunitario destinatario di un provvedimento di allontanamento può essere trattenuto presso un Cie esclusivamente nel corso della procedura di convalida dell’allontanamento, vale a dire non oltre 4 giorni dal suo ingresso. Convalidato il decreto di allontanamento, lo stesso diventa efficace e il cittadino comunitario deve essere accompagnato alla frontiera, senza possibilità di estensione del trattenimento.
Sono stati ascoltati trattenuti che per i legami familiari e il livello di integrazione non dovrebbero presentare rischi in ordine ad un allontanamento definitivo dalla struttura e potrebbero attendere altrove l’esito del procedimento amministrativo: F. B., nato in Senegal, risulta residente nel comune di Varese da diversi anni dove vive con la fidanzata italiana e la sua famiglia proveniente dal Senegal. O. B. cittadino marocchino residente a Firenze da molti anni, ha una compagna italiana incinta al terzo mese. M. C., residente a Milano da molti anni, con due figli. E. O. T. nato in Senegal, nel corso della visita, ha dimostrato una certa fragilità psicologica e chiedeva ripetutamente di essere rimpatriato. I numerosi tentativi di fuga provano la sua determinazione. J. A. R. in Italia dal 1998, ha 4 figli, una compagna e i suoi genitori. Cura il padre che ha dei problemi di salute, vive con la famiglia in provincia di Varese. Dopo un controllo dei suoi documenti da parte dei vigili, è stato portato in questura, dove ha aspettato per 5 ore. È stato poi trasferito a Trapani, portando con sé al Cie ciò che aveva con sé nel momento in cui è stato fermato. Non ha precedenti penali. S. S., nato in Marocco. In Italia da 14 anni, lavora (in nero) come giardiniere, dopo aver perso il suo posto precedente di lavoro. È a Trapani da 2 mesi. Ha una compagna italiana con la quale stava per sposarsi. R. M., cittadino albanese, ha chiesto di essere rimpatriato. Ha con sé il documento di riconoscimento.

ANNO 2012 ANNO 2013 ESPULSI 836 814 RILASCIATI PER SCADENZA Nessun cittadino è stato ospitato fino alla scadenza dei termini di trattenimento (540 gg) RILASCIATI PER ALTRI MOTIVI 86 216 PROVENIENTI DAL CARCERE 128 89 PERIODO MEDIO DI PERMANENZA 50,90 gg 26 gg CAPIENZA MASSIMA DA CONVENZIONE
204 posti attualmente ridotti a 193 per chiusura unità abitativa PRESENTI AL 12.12.2013 141 SPESE C.I.E. DI TRAPANI (MILO)
Costo pro-capite pro-die (a carico della Prefettura) € 27,00 Spese di manutenzione ordinaria anno 2012 € 502.868,12 Spese di manutenzione straordinaria anno 2012 € 148.663,42 Spese di manutenzione ordinaria anno 2013 € 459.424,97 Spese di manutenzione straordinaria anno 2013 € 742.062,21
Fonte: Prefettura di Trapani – Ufficio Territoriale del Governo
Rapporto sui Centri di identificazione ed espulsione

Visita di una delegazione della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani al Cie di Torino – 9 febbraio 2014- Domenica 9 febbraio 2014, una delegazione della Commissione diritti umani, composta dal presidente Luigi Manconi e dal senatore Miguel Gotor, si è recata in visita al Centro di Identificazione ed Espulsione di Torino. Era presente anche il senatore Stefano Esposito. Il centro si trova in corso Brunelleschi. La visita è stata preceduta da un incontro con i responsabili del centro durante il quale sono state acquisite alcune informazioni di carattere generale. Erano presenti Valeria Sabatino, dirigente della Prefettura, Rosanna Lavezzaro e Raffaella Fassone, dell’Ufficio Immigrazione della Questura, e il direttore dell’ente gestore (Croce rossa). Al momento della visita, il centro ospita 39 uomini, prevalentemente nordafricani, e 11 donne, provenienti dalla Nigeria e dall’Europa dell’Est. Metà dei trattenuti proviene dal carcere. Il funzionario di Polizia ha spiegato che la Questura procede nei trattenimenti dando priorità alle persone con precedenti penali. La capienza massima del centro è di 210 posti, ma attualmente sono 77 i posti disponibili (42 per gli uomini, 35 per le donne): alcuni dei moduli sono chiusi perché danneggiati a seguito delle rivolte dei mesi scorsi e gran parte delle aree sono bruciate e inutilizzabili. Il tempo medio di trattenimento è di 34 giorni. Il centro di Torino è in funzione dal 1999. L’ampliamento della struttura nel 2010 è costato 11 milioni di euro. La struttura è stata raddoppiata. I moduli abitativi sono distribuiti su due aree, maschile e femminile. Ogni area è recintata con gabbie metalliche alte sei metri, al cui interno si trova un modulo con cinque camerate da sei posti, con annessi due bagni e una doccia. La struttura è circondato da mura alte 2,5 metri, sormontate da filo spinato. C’è poi un’area riservata, isolata rispetto alle altre due, con moduli abitativi più piccoli che ospitano una sola persona, dove vengono sistemati – secondo quanto riportato dai funzionari presenti alla visita – i trattenuti che non vogliono vivere insieme agli altri per paura di essere aggrediti o derubati. Numerosi gli agenti delle forze dell’ordine e i militari dell’esercito impiegati all’interno della struttura. All’interno del muro di cinta, su tre lati dell’area dove sorgono i moduli, sono disposte garitte presidiate da militari. La Croce Rossa si occupa della gestione del centro fin dalla sua creazione: dalla ristorazione alla pulizia, dall’assistenza sanitaria alla consulenza psicologica, dalla mediazione alla consulenza legale. L’ente gestore rilascia 3,5 euro al giorno a ospite. Più di un terzo dei trattenuti assume psicofarmaci. Il centro di Torino è stato teatro negli anni recenti di numerosi e frequenti episodi di vandalismo e autolesionismo (ingestione di corpi estranei e ferite da taglio). Inoltre si sono verificate diverse rivolte sfociate in scontri tra i trattenuti e le forze dell’ordine. Anche i tentativi di fuga sono frequenti. Nel corso della visita, i senatori hanno incontrato numerosi trattenuti. Si è potuto percepire un clima di forte tensione tra trattenuti e forze dell’ordine. La stessa delegazione è stata
scortata da un numero cospicuo di agenti. Le condizioni di trattenimento sono apparse particolarmente afflittive. Le possibilità di movimento dei trattenuti all’interno della struttura sono limitate esclusivamente all’interno del piazzale antistante il modulo abitativo. Alcuni trattenuti si sono lamentati riguardo ai pasti che vengono serviti freddi (perché cucinati presso una mensa a Settimo). Molti hanno denunciato l’impossibilità di avere informazioni circa la propria situazione giuridica, la difficoltà di avere colloqui con gli addetti della questura e una più generale mancanza di servizi di mediazione e consulenza legale. Ancora, un numero significativo di trattenuti ha riferito di essere stato oggetto di violenze da parte degli agenti di pubblica sicurezza. I funzionari della questura presenti hanno dichiarato che non ci sono state denunce o segnalazioni di violenze ma si sono impegnati a indagare e fare chiarezza. Nel corso della visita i Senatori hanno raccolto alcune storie personali. Eccone una. A., nigeriano di 40 anni, ha una moglie e due figli a Lecco. Vive in Italia da molti anni. Ha lavorato per nove anni alla Fiera di Milano. È finito in carcere per un reato di droga e scontata la pena, è stato portato al Cie di Torino. Dichiara che alla fiera di Milano sarebbero disposti ad assumerlo.

La Repubblica, 10/02/2014 ISPEZIONE STAMANI AL CENTRO DI CORSO BRUNELLESCHI DA PARTE DELLA COMMISSIONE DIRITTI UMANI DEL SENATO. IL PRESIDENTE: “RIFERIAMO COSA CI HANNO RACCONTATO GLI IMMIGRATI”
IL SENATO FRA I “TRATTENUTI” DEL CIE. “CI HANNO DENUNCIATO VIOLENZE”
di Paolo Griseri In fondo alla stanza, otto letti e una bibbia in inglese abbandonata tra le coperte, Mohammed incontra la Commissione diritti umani del Senato. «Buongiorno. Come va? Vi danno il sapone?». «A me non interessa del sapone, voglio la libertà». «Quella certamente è la cosa più importante. Ma mentre siete qui come vi trovate?». «Io voglio la libertà, voglio uscire». Mohammed è uno dei 39 uomini presenti al Cie di corso Brunelleschi in questa domenica mattina di sole. Uno stridente contrasto: reti alte per dividere i diversi blocchi, addirittura garitte
con i militari messi nei punti strategici e privi della tradizionale targhetta di identificazione. Sulle loro mimetiche c’è scritto semplicemente “Esercito”. «Scene che sono molto diverse da quelle che ci si dovrebbe attendere in un luogo in cui non ci sono detenuti», sottolinea Manconi che a fine visita riporterà la denuncia «di diversi ospiti sul fatto che nei mesi scorsi sono stati vittime di violenze in questa struttura». Frase che provocherà nel pomeriggio la durissima reazione del sindacato di polizia Siap. In teoria gli uomini come Mohammed non sono carcerati. Li chiamano ufficialmente e con pudore “trattenuti”. Ma fanno la vita delle galline rinchiuse nel pollaio. A meno di trent’anni Mohammed ha attraversato Marocco, Algeria, Tunisia, in Libia ha pagato mille euro a uno scafista, è arrivato a Lampedusa. E adesso è qui, in mezzo ai jersey, a guardare il cielo blu. «Perché sei qui?». «Mi hanno trovato senza documenti». «Quasi sempre – sostengono al contrario i funzionari di polizia – chi arriva qui ha precedenti penali». Luigi Manconi, presidente della Commissione del Senato sui diritti umani, è accompagnato nell’ispezione, dal senatore torinese Stefano Esposito e dal suo collega del Pd Miguel Gotor. Perché questa visita? «Stiamo cercando di capire che cosa sono realmente diventati questi centri, quali sono le condizioni di vita dei loro ospiti». Basta entrare in uno dei tanti cortili inventati dalla disposizione delle reti metalliche per aver la fila degli ospiti disposti a raccontare la loro storia. Aghyang è un nigeriano quarantenne che si trova in Italia da molti anni. «Ho una moglie e due figli a Lecco». Aghyang ha lavorato per nove anni alla Fiera di Milano: «Mi occupavo di sicurezza. Sono stato in carcere per un reato legato alla droga. Ho espiato totalmente la mia pena. Ma quando sono uscito di prigione sono stato mandato qui. Mi vogliono espellere ma io non ho nulla da fare in Marocco mentre alla Fiera di Milano mi riprenderebbero domani mattina». «Quella cui assistiamo – commenta Manconi – è una situazione assurda. In base alla legge chi viene condannato anche per reati minori quando ha saldato il suo conto con la giustizia esce dal carcere e viene obbligatoriamente espulso». In fondo al cortile, lungo il lato di via Monginevro, c’è uno strano reparto. Lo chiamano «l’ospedaletto». Sono celle singole «dove volontariamente vanno a rinchiudersi ospiti che non intendono vivere insieme agli altri», dicono i funzionari di polizia. E aggiungono che «in alcuni casi lo fanno per paura dei litigi, in altri casi per evitare discriminazioni sessuali. C’è chi preferisce l’isolamento temendo furti». Al termine della mattinata la Commissione tira le fila. Manconi parla dei Cie come di «un non luogo che, a differenza del carcere, non ha regole codificate nel tempo. Oltre la metà di coloro che vengono trattenuti sono mandati in questi centri perché hanno finito di scontare la pena in carcere. Un’assurdità». Ma l’aspetto più inquietante è quello che Manconi racconta nella conferenza stampa finale. Lo fa con grande prudenza e dopo aver più volte elogiato «la grande disponibilità mostrata dai responsabili del centro in occasione della nostra visita». Il senatore parla di «diversi episodi di violenza che un numero significativo di ospiti ci ha raccontato questa mattina». Maltrattamenti che sarebbero all’origine della rivolta delle scorse settimane, quando alcuni ospiti hanno dato fuoco alle strutture del Cie. Nel reparto donne, riferiscono le cronache di fine anno, le ospiti avrebbero protestato e le forze dell’ordine avrebbero reagito duramente. I funzionari della Prefettura presenti alla visita non hanno voluto commentare la denuncia di Manconi. Parla invece nel pomeriggio il sindacato di polizia Siap che accusa Manconi di essere un irresponsabile: «Si è fatto portavoce di denunce non dimostrate e strumentalizzabili».

La Stampa, 10/02/2014 “VIOLENZE CONTRO GLI STRANIERI RECLUSI”
LE ACCUSE DEL SENATORE PD LUIGI MANCONI DOPO UNA VISITA AL CIE DI CORSO BRUNELLESCHI. LA QUESTURA: “MAI NESSUNA SEGNALAZIONE”
di Massimo Numa In queste celle sono rinchiusi gli stranieri che soffrono di malattie infettive o che, per ragioni religiose o personali, hanno chiesto di non condividere la prigionia con gli altri ospiti, di etnie diverse, hanno un’assistenza medica continua e accesso a tutti i servizi. Violenze contro i reclusi del Cie? Lo denuncia il senatore Pd Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, ieri in visita nel centro che ospita 37 uomini e 11 donne. Gli replica Rosanna Lavezzaro, dirigente dell’Ufficio stranieri: «Non ci sono state segnalazioni di violenze da parte delle forze dell’ordine. Ma approfondiremo quanto denunciato dal senatore. Gli esiti dell’indagine saranno trasmessi alla procura, come è stato sempre fatto in questi casi». Moduli devastati I «trattenuti» nel Cie di Torino sono quasi tutti maghrebini o centroafricani. Tutti (o quasi) pregiudicati anche per gravi reati. I posti, nel complesso ristrutturato nel 2010 (costo 11 milioni di euro) sarebbero in teoria 200 ma le ultime devastazioni ne hanno dimezzato la capienza. I fabbricati incendiati sono chiusi, porte e finestre sigillate. «Sanzioni ingiuste» Con Manconi, anche i senatori pd Stefano Esposito e Miguel Gotor. «Il dato fondamentale è che i tempi di permanenza sono intorno ai 34 giorni. La legge prevede 18 mesi al massimo, mentre i tempi di espulsione nei Cie sono tra i 34 e i 45 giorni. Ci sono almeno 16 mesi totalmente inutili rispetto allo scopo per il quale è stato realizzato il Cie, sono una pena assolutamente superflua, totalmente inutile che nessun tribunale ha inflitto e che viene comminata a persone che non sono responsabili di un reato per quella pena, sarebbe una sanzione ingiusta, perchè alcuni ospiti i reati, tra l’altro, li hanno già scontati con la detenzione in carcere». Ancora: «Il Cie è insensato, questi 16 mesi che richiedono enormi energie di enormi spese e di enormi sofferenze imposte alle persone».
Manconi non parla di chiusura ma almeno di riduzione a due mesi, al massimo, di permanenza dei «sans papiers » all’interno dei centri italiani. Su undici ne restano aperti solo cinque. Le violenze sarebbero durante le rivolte del 2013. Manconi: «Naturalmente noi riferiamo quel che ci dicono gli ospiti di questa struttura. Racconti che sono una parte della verità, non necessariamente la verità. Un numero significativo di “trattenuti” ci ha riferito come, in passato, si siano verificati atti di violenza nei loro confronti». Lo fa davanti ai dirigenti dell’Ufficio stranieri della questura, ai funzionari della prefettura e della Croce Rossa. Un «non» carcere Pietro Di Lorenzo, Siap: «Da chi ha un ruolo istituzionale ci aspetteremmo più senso di responsabilità e più cautela nel farsi portavoce di denunce così pesanti e prive di qualsiasi riscontro. Getta un marchio di infamia sulle forze dell’ordine che operano tra mille difficoltà».
Rapporto sui Centri di identificazione ed espulsione
79 Il resto è un triste viaggio in una struttura che non è un carcere ma che di fatto lo è. Alte recinzioni, forte presenza di militari, poliziotti, carabinieri e finanzieri. Secondo Manconi non va bene. Alimenterebbero «la tensione a causa di un «militarizzazione soffocante». Gli replica il Sap, altro sindacato di polizia: «Senza il presidio, il Cie di Torino sarebbe stato già distrutto. Le posizioni di Manconi – dice il consigliere nazionale Sap Massimo Montebove – non tengono conto della realtà». Rabbia e disperazione I «trattenuti» raccontano le loro storie, spesso drammatiche. Complicatissime e quasi sempre senza speranza. Gente disperata, che stringe fra le mani fogli spiegazzati, documenti di ogni Paese, foto di donne e bimbi. Grandi tragedie e piccoli problemi. Come il cibo passato dalle mense di Settimo. «Arriva freddo e non è gradevole», dicono molti. Osservano i responsabili della Cri: «Certo non sono ricette da Masterchef ma è cibo di qualità e rispetta le usanze religiose. È anche sui nostri tavoli. Lo stesso».

SIGLE ASGI Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione CARA Centro di accoglienza per i richiedenti asilo CEDU Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali CGUE Corte di giustizia dell’Unione europea CIE Centro di identificazione ed espulsione CPSA Centro di primo soccorso e accoglienza CPT Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e trattamenti inumani e degradanti ISMU Iniziative e studi sulla multietnicità IOM/OIM International Organization for Migration/Organizzazione internazionale per le migrazioni SPRAR Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati UNHCR United Nations High Commissioner for Refugees (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati)

SCHEMA DI CAPITOLATO DI APPALTO PER LA GESTIONE DEI CENTRI DI
ACCOGLIENZA PER IMMIGRATI

Definizioni Per ‘Centri accoglienza’ si intendono: 1) Centri di primo soccorso ed assistenza (CSPA) – strutture localizzate in prossimità dei luoghi di sbarco destinate all’accoglienza degli immigrati per il tempo strettamente occorrente al loro trasferimento presso altri centri (indicativamente 24/48 ore); 2) Centri di accoglienza (CDA) – strutture destinate all’accoglienza degli immigrati per il periodo necessario alla definizione dei provvedimenti amministrativi relativi alla posizione degli stessi sul territorio nazionale (Legge 29 dicembre 1995 n. 563 – c.d. Legge Puglia); 3) Centri di accoglienza per Richiedenti asilo (CARA) – strutture destinate all’accoglienza dei richiedenti asilo per il periodo necessario alla loro identificazione o all’esame della domanda d’asilo da parte della Commissione territoriale (Decreto Lg.vo 28 gennaio 2008 n. 25); 4) Centri di identificazione ed espulsione (CIE) – strutture (così denominate ai sensi del Decreto legge 23 maggio 2008 n. 92) destinate al trattenimento dell’’immigrato irregolare per il tempo necessario alle forze dell’ordine per eseguire il provvedimento di espulsione (Legge 6 marzo 1998 n. 40)

Oggetto dell’appalto L’appalto ha per oggetto la fornitura dei servizi, di seguito elencati, relativi al funzionamento e alla gestione dei centri di accoglienza sopra specificati e più precisamente: 1) Servizio di gestione amministrativa e di minuta sussistenza e manutenzione consistente in: a) Registrazione ospiti (rilevazione dei: dati anagrafici, estremi dei documenti di ammissione, dati del provvedimento di dimissione, tempi di permanenza) secondo le direttive impartite dall’Amministrazione, e custodia di effetti e risparmi personali dei medesimi; b) Registrazione dei visitatori, con annotazione degli estremi del provvedimento autorizzativi; c) Tenuta del magazzino, con relativi registri di carico, scarico, rimanenze e insussistenze, sia dei materiali acquistati dal gestore, sia di quelli eventualmente affidati dalla Prefettura; d) Controllo e verifica delle utenze telefoniche, elettriche, idriche, gas e combustibile per riscaldamento (controllo degli importi fatturati in bolletta e trasmissione delle stesse alla Prefettura per la liquidazione, con attestazione che i consumi si riferiscono all’attività del centro). e) Forniture economato (beni di facile consumo, cancelleria ecc.) e servizio di provvista, all’esterno della struttura, di beni per le esigenze degli ospiti ed a loro spese. f) Tenuta di un’apposita scheda su supporto informatico dei dati relativi ai richiedenti asilo (solo per i Centri di accoglienza per richiedenti asilo).
Tali dati devono riferirsi almeno a: nazionalità sesso e età titolo di studio e/o professionale nucleo familiare, occupazione g) Registrazione, in un apposito registro, delle entrate e uscite giornaliere degli ospiti i quali devono essere dotati di un apposito tesserino contenente i dati anagrafici e la foto del titolare (solo per i Centri di accoglienza per Richiedenti asilo);
Nel corso di durata del contratto di appalto, ogni qual volta se ne presenti la necessità, il gestore, previa autorizzazione della Prefettura, provvede anche all’acquisto di accessori e complementi d’arredo, nonché all’esecuzione di lavori di piccola manutenzione sempre che il valore del singolo acquisto o del singolo intervento di manutenzione non superi il valore di € 1.000,00. 2) Servizio di assistenza generica alla persona, consistente in: a) Mediazione linguistica/culturale; b) Servizio di informazione sulla normativa concernente l’immigrazione, i diritti e doveri e la condizione dello straniero; c) Orientamento generale sulle regole comportamentali all’interno della struttura nonché sull’organizzazione del centro; d) Distribuzione, conservazione e controllo dei pasti; e) Servizio di barberia; f) Servizio di lavanderia; g) Assistenza, ove necessario, ai bambini e ai neonati; h) Altri servizi di assistenza generica alla persona propri di ciascuno delle elencate tipologie di centri così come indicate nelle specifiche tecniche 3) Servizio di assistenza sanitaria consistente in:
a) Screening medico d’ingresso e conseguente compilazione di una scheda sanitaria per ciascun ospite. Una copia della scheda deve essere consegnata all’ospite stesso e un’altra se del caso al responsabile della scorta d’accompagnamento al centro di destinazione. Lo screening è anche finalizzato ad una valutazione immediata del profilo psico-sociale, per individuare i soggetti particolarmente vulnerabili ( minori stranieri non accompagnati, portatori di handicap, vittime di violenza fisica e psicologica ecc.) b) Primo soccorso sanitario, espletato in apposito presidio medico, allestito all’interno della struttura, adeguatamente fornito di quanto necessario per le cure ambulatoriali urgenti ed organizzato con la presenza di personale medico e paramedico che garantisce l’assistenza fino all’eventuale ricovero presso strutture del servizio sanitario nazionale. A richiesta della Prefettura il primo soccorso viene prestato anche sui luoghi di sbarco. c) Eventuali trasferimenti presso strutture ospedaliere saranno effettuati secondo quanto previsto ex art. 34 del d. Lgv. 25 luglio 1998, n. 286. 4) Servizio di pulizia e igiene ambientale:
a) Pulizia dei locali diurni e notturni, uffici ed aree comuni. b) Disinfezione, disinfestazione, derattizzazione e deblattizzazione delle superfici. c) Raccolta e smaltimento rifiuti speciali. d) Raccolta di liquami proveniente dalla rete fognaria interna non collegata alla rete comunale. e) Cura aree verdi. 5) La fornitura dei seguenti beni:
a) Pasti. b) Effetti letterecci, c) Prodotti per l’igiene personale. d) Vestiario. e) Generi di conforto. Articolo 2 Specifiche tecniche integrative
Le modalità dei servizi nonchè il contenuto e le caratteristiche delle forniture che formano oggetto dell’appalto ai sensi dell’art.1, per quanto non già previsto nelle precedenti disposizioni, sono riportati nelle specifiche tecniche di cui all’allegato 1 D. Articolo 3 Clausole particolari In relazione alla fornitura dei pasti, l’Ente gestore consegnerà settimanalmente alla Prefettura UTG, che ne rilascerà ricevuta, un rendiconto dei pasti consumati per eventuali riscontri. L’Amministrazione si riserva il diritto, in qualunque momento, di far sottoporre i generi alimentari usati e distribuiti dall’Ente al controllo delle autorità sanitarie competenti. Tutte le derrate alimentari saranno acquisite direttamente dall’Ente gestore (o dai terzi sub appaltanti) e nessun obbligo sorgerà in capo all’Amministrazione dell’Interno nei confronti dei fornitori di derrate. I pasti e gli altri servizi saranno forniti e distribuiti, in via esclusiva ed a totale cura del personale dell’Ente gestore. Art. 4 Disponibilità ed utilizzo dei locali In caso di allestimento del Centro in immobile di proprietà dell’Amministrazione dell’interno, lo stesso è concesso in comodato d’uso per la durata del contratto, senza oneri a carico dell’Ente gestore. Le utenze restano a carico dell’Amministrazione concedente. La consegna e riconsegna dell’immobile all’Ente gestore è preceduta dalla redazione dello stato di consistenza dell’immobile e dalla inventariazione dei beni e delle attrezzature esistenti. Art. 5 Risorse strumentali e personale
Il responsabile della gestione del centro ed il personale nello stesso impiegato, operano assicurando il rispetto delle finalità della missione istituzionale, così come risultano definite anche dalle condizioni e dalle modalità dell’ospitalità stabilite dalla legge e concordate nel presente contratto. L’inosservanza della precedente clausola costituisce inadempimento contrattuale ai sensi e per gli effetti degli artt. 1453 e seguenti c.c. I servizi di cui all’art. 1 nn. 1, 2, 3 e 4 devono essere assicurati nell’arco delle 24 ore giornaliere articolate nel servizio diurno, che va dalle ore 08,00 alle ore 20,00 e in quello notturno, che va dalle ore 20,00 alle ore 08,00. Per ogni turno di lavoro l’Ente gestore deve garantire l’impiego del personale necessario all’ espletamento di tutti i servizi.
A tal fine, la dotazione minima di personale da destinare ai vari servizi ed il relativo tempo d’impiego, deve essere conforme ai parametri base indicati nell’Allegato 3. Nei casi in cui in base alle specifiche tecniche di cui all’art. 2, la natura delle prestazioni oggetto del servizio da rendere lo richiedano, l’Ente gestore deve garantire l’impiego di figure professionali i cui profili professionali siano adeguati ai relativi compiti. A tal fine può farsi riferimento alla disciplina di cui all’art 12 della legge 8.11.2000, n. 328 e alla correlata normativa regionale. Nessun rapporto d’impiego e, comunque, di dipendenza a qualsiasi titolo, potrà instaurarsi tra il predetto personale ed il Ministero dell’Interno. Sia per il proprio personale che per quello delle ditte di cui dovesse avvalersi, l’Ente gestore garantisce per sé ed accerta per gli altri la regolarità dei versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali. L’Ente gestore garantisce, altresì, l’osservanza delle disposizioni in tema di trattamento giuridico ed economico del personale, dettate dai rispettivi CC.CC.N.L. anche per quel che eventualmente riguarda la posizione del personale impiegato dalla ditta cessante l’appalto in corso. La Prefettura-U.T.G. si riserva il diritto di motivata richiesta all’Ente gestore, di sostituzione del personale ritenuto non idoneo o inadatto, senza che ciò possa costituire motivo di maggiori oneri. L’Ente gestore deve dotarsi di un autoveicolo per trasporto di persone al fine di provvedere alle necessità di spostamento degli ospiti, anche su richiesta della Prefettura-
U.T.G.. Art. 6 Tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro
Il Gestore, a mezzo di proprio personale, dovrà assicurare, anche sulla base delle linee guida del 25 febbraio 2005, diramati con direttiva del Ministro dell’Interno in data 11 maggio 2005, gli adempimenti ed i servizi di cui al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 – che ha abrogato il decreto legislativo del 19 settembre 1994, n. 626, e successive modifiche – in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro ( con particolare riferimento alla nomina dei responsabili della sicurezza e degli addetti al primo soccorso e al servizio antincendio, che saranno provvisti della necessaria qualifica). Art. 7
Aggiudicazione dell’appalto
Gli appalti oggetto del presente capitolato appartengono a quelli compresi nell’allegato IIB della Direttiva 2004/18/CE e del corrispondente allegato IIB del Codice dei contratti pubblici ( D.Lgs. n. 163/2006) e sono soggetti a detta disciplina solo per le norme inerenti le specifiche tecniche e gli avvisi post-aggiudicazione. L’appalto è aggiudicato ex art. 27 del codice dei Contratti pubblici, previo avviso pubblico, a favore del soggetto che presenti il prezzo più basso. Art. 8 Durata dell’appalto
La durata dell’appalto è di anni tre non rinnovabili e decorrerà dalla data di stipula del contratto una volta approvato da parte degli organi competenti. Art. 9 Determinazione dell’importo dell’appalto
L’importo complessivo dell’appalto è determinato dal prezzo della fornitura dei beni e 90 servizi di cui all’art. 1 del presente schema di capitolato, rapportato alla capienza della struttura, pari a n. 132 posti letto, calcolato su base annua, moltiplicato per tre annualità. L’importo dell’appalto costituisce il limite massimo del prezzo per l’intera erogazione di tutti i servizi e forniture previsti, fermo restando che la liquidazione del corrispettivo è ragguagliata all’effettiva prestazione resa. Art. 10 Liquidazione del corrispettivo e clausola di revisione Il corrispettivo per la fornitura dei beni e servizi che formano oggetto dell’appalto, è liquidato in sei rate bimestrali posticipate, secondo i criteri di rendicontazione stabiliti nella convenzione. Allo scadere di ogni semestre le parti verificano la fornitura dei beni e dei servizi effettivamente erogati. La verifica dei servizi è condotta rilevando il numero complessivo delle presenze degli ospiti durante il semestre decorso e calcolando, conseguentemente, in termini assoluti e percentuali, l’effettivo utilizzo della capienza di cui all’art. 9. Qualora dalla verifica effettuata si rilevi che le presenze all’interno della struttura di accoglienza siano state tali da determinare una variazione, in termini percentuali, del corrispettivo contenuto entro il dieci per cento, in più o in meno, del prezzo convenuto, l’importo dell’appalto rimane immutato. Nel caso in cui la diminuzione del corrispettivo sia superiore alla predetta misura si procede alla revisione del corrispettivo che è ridotto nella misura percentuale pari a quella eccedente il dieci per cento convenuto. Art. 11 Sospensione degli effetti del contratto
Qualora per un periodo superiore a trenta giorni, le presenze all’interno del centro si riducano nella misura inferiore al 50% della capienza teorica, l’Ente gestore ha facoltà di chiedere la sospensione degli effetti del contratto.
La Prefettura – U.T.G. nel termine non superiore a trenta giorni successivi alla comunicazione della richiesta di sospensione degli effetti del contratto, provvede alla sistemazione presso altre strutture di accoglienza degli ospiti presenti e liquida all’Ente gestore il corrispettivo spettante, calcolato secondo i criteri di cui all’art. 10, oltre un indennizzo commisurato alle spese sostenute prima della richiesta di sospensione, e relative esclusivamente all’acquisto di beni deperibili. Le spese devono essere documentate da evidenze contabili fiscalmente in regola e sono liquidate, nella misura del 30% all’inizio del periodo di sospensione e per il rimanente saldo al termine del periodo di sospensione, verificando le rimanenze. Per il periodo di cui al comma 2, necessario alla Prefettura-UTG per provvedere alla diversa sistemazione degli ospiti del centro, l’Ente gestore è tenuto a garantire la fornitura dei beni e servizi secondo il regolamento contrattuale. Ferma restando la facoltà di recesso ex art. 1671 c.c. da parte della Prefettura-U.T.G. , la sospensione degli effetti della convenzione non può eccedere la durata convenzionale dello stesso. Nel caso in cui la Prefettura-U.T.G. ritenga di non aderire alla richiesta di sospensione, al Gestore compete, comunque, il compenso corrispondente al 50% della capienza teorica commisurata al canone annuo. Se nel corso dell’esecuzione dell’appalto dovessero ripetersi le condizioni di cui al comma del presente articolo che legittimano la richiesta di sospensione, l’Ente gestore ha facoltà di chiedere lo scioglimento del contratto ex art. 1672 c.c. Art. 12 Riattivazione degli effetti del contratto
Qualora si configurino le iniziali condizioni del contratto la sospensione cessa con la richiesta da parte della Prefettura-U.T.G., con congruo preavviso compatibile con l’urgenza del caso, della ripresa della fornitura dei beni e servizi all’Ente gestore che vi è tenuto nel termine indicato nella richiesta, pena la risoluzione della convenzione per grave inadempimento. Fermo restando quanto previsto dall’art. 14, ove ne ricorrano i presupposti, nessuna modifica dei patti e delle condizioni già stipulate conseguono alla riattivazione del servizio. Art. 13 Estensione degli effetti dell’appalto
Qualora per imprevedibili esigenze sopravvenute, si renda necessario estendere le prestazioni di servizi e forniture di cui all’art. 1 ad un numero di ospiti eccedente la capienza di cui all’art. 9, l’Ente gestore, su richiesta della Prefettura-U.T.G., si impegna a garantire le medesime prestazioni a favore degli ospiti eccedenti. Al fine di garantire le stesse caratteristiche di qualità e quantità delle prestazioni oggetto dell’appalto, l’Ente gestore adegua le risorse di personale e strumentali alle nuove maggiori esigenze, sulla base di un congruo criterio di proporzionalità tra le risorse riferite alla capienza ordinaria della struttura e quelle rese necessarie dall’incremento delle presenze. Le predette misure Pag.12 di 19 di adeguamento sono comunicate alla Prefettura-U.T.G. che ne valuta la congruità ed eventualmente concorda le necessarie rettifiche. Per ogni nuovo ospite la Prefettura-U.T.G. corrisponde il prezzo pro-die/pro capite pari ad 1/365° del canone annuo, diviso per la capienza della struttura. Art. 14 Cauzione
L’Ente gestore, all’atto della stipula del contratto, è tenuto a prestare apposita cauzione definitiva mediante costituzione di garanzia fideiussoria secondo le modalità e nei termini stabiliti dall’art. 113 del “codice dei contratti pubblici” ed alla luce dei criteri precisati nella determinazione n. 7/2007 del Consiglio dell’Autorità per la vigilanza dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (G.U. 25.9.2007, n. 223). Art. 15 Direttore del centro
L’Ente gestore si obbliga a nominare un Direttore responsabile del centro come unico referente nei confronti della Prefettura-U.T.G. Il Direttore del centro deve essere preferibilmente in possesso di diploma di assistente sociale, rilasciato dalle scuole dirette a fini speciali, o diploma universitario di assistente sociale unitamente all’abilitazione per l’esercizio della professione, con esperienza lavorativa di almeno un triennio nel settore dell’assistenza agli immigrati o nell’assistenza sociale; laurea in servizio sociale, unitamente all’abilitazione per l’esercizio della professione; laurea specialistica in scienze del servizio sociale unitamente all’abilitazione per l’esercizio della professione; laurea in psicologia unitamente all’abilitazione per l’esercizio della professione e con esperienza lavorativa per almeno un biennio nel settore dell’assistenza agli immigrati o nell’assistenza sociale. Art. 16 Penali
Ove si verifichino disservizi (mancata o inesatta esecuzione di uno dei servizi oggetto di contratto) rilevati in sede di attività ispettiva, di controllo o di monitoraggio, ovvero lamentati, dagli utenti e, previa contestazione al Gestore, riscontrati fondati, è applicata per ciascun disservizio una penale pari ad almeno il 3% del corrispettivo mensile, fatto salvo il risarcimento di ogni eventuale maggior danno. La penale è applicata dietro semplice comunicazione al Gestore, con provvedimento immediatamente esecutivo e trattenuta dal corrispettivo periodico o mediante incameramento della cauzione, con obbligo di immediato reintegro della stessa. Art. 17 Subappalto
E’ ammesso il subappalto per le forniture del materiale previsto per i “kit per gli ospiti”, per la fornitura ed il servizio pasti, per il servizio di pulizia ed igiene ambientale e per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, compresi quelli speciali e la raccolta dei liquami, con l’osservanza delle disposizioni contenute nell’art. 118 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 recante il codice dei contratti pubblici, così come modificato dagli artt. 2 e 3 del D.Lgs. 31.7.2007, n. 113 e dall’art. 2 –c.1 – lett. aa, n. 4 del D.Lgs. 11.9.2008, n.152. In ogni caso l’Ente gestore resta unico responsabile del servizio subappaltato nei confronti dell’Amministrazione in dipendenza di manchevolezze o di trascuratezza nell’esecuzione degli adempimenti assunti con l’Ente gestore. Al pagamento delle prestazioni subappaltate provvede l’affidatario del contratto, fermo 95 restando l’obbligo di documentazione dei pagamenti effettuati ai sensi di quanto previsto dall’art. 118 – comma 3 – del D.Lgs. 163/2006. Il Ministero dell’Interno e la Prefettura-U.T.G. sono esclusi da qualsiasi responsabilità civile e penale per ciò che concerne i rapporti contrattuali tra l’Ente gestore e le ditte o società terze e l’Ente gestore si obbliga a manlevare il Ministero dell’Interno e la Prefettura-U.T.G. da ogni richiesta che possa essere loro rivolta dai succitati terzi. Art. 18
Adeguamento prezzi
La revisione dei prezzi, ove ne ricorrano i presupposti, è operata ai sensi e nei limiti di cui all’art. 115 del Decreto Legislativo 12 aprile 2006, n. 163 e successive modifiche ed integrazioni. Art. 19 Risoluzione del contratto
Ai sensi e per gli effetti dell’art. 1456 del codice civile la Prefettura ha la facoltà di procedere alla risoluzione del contratto per grave inadempienza, previo semplice preavviso di 30 (trenta) giorni da comunicarsi con lettera raccomandata A.R. e senza obbligo di preventiva messa in mora. Costituiscono grave inadempienza l’essere incorso per più di tre volte nell’applicazione delle penali di cui all’art 16; l’aver consentito l’ingresso nel centro di persone non autorizzate dalla Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo; l’aver consentito o favorito l’allontanamento arbitrario degli ospiti dal centro; l’omessa segnalazione di fatti e circostanze, anche indipendenti dalla propria volontà, dai quali siano derivati danni alle persone; l’omessa segnalazione di fatti e circostanze, anche indipendenti dalla propria volontà, che abbiano provocato grave danno alla struttura o alle apparecchiature. La risoluzione del contratto per grave inadempienza comporterà l’incameramento della cauzione. Art. 20 Esecuzione in danno
Qualora l’Ente gestore non dia corso alla esecuzione delle prestazioni oggetto del presente capitolato, anche dopo l’assegnazione di un termine perentorio commisurato all’urgenza del servizio stesso, la Prefettura ha il diritto di procedere direttamente alla sua esecuzione utilizzando, a tal fine, la propria organizzazione o quella di terzi. I maggiori oneri che la Prefettura dovesse eventualmente sopportare rispetto a quelli derivanti dalla applicazione del contratto, sono a totale carico dell’Ente gestore. Art. 21 Recesso dal contratto La Prefettura si riserva il diritto, ai sensi dell’art. 1671 del codice civile, di recedere dalla convenzione/contratto. Ove all’atto del recesso l’ammontare delle spese liquidate fino a quel momento per le prestazioni in argomento, sia inferiore ai quattro quinti del valore contrattuale annuo – art. 12 – sarà corrisposto all’Ente gestore, a titolo di indennizzo per mancato guadagno, un compenso pari al 10% della loro differenza. In caso contrario nulla sarà dovuto all’Ente gestore. Art. 22
Monitoraggio e controllo
La Prefettura-U.T.G. svolge attività di controllo e monitoraggio sulla gestione dei Centri diretta a verificare il rispetto delle modalità di erogazione dei servizi di cui all’art. 1, così come individuati nelle specifiche tecniche, nonché la garanzia della qualità, della quantità e delle caratteristiche dei beni forniti in esecuzione della presente convenzione, anche questi come individuati nelle specifiche tecniche. I risultati del controllo e del monitoraggio sono finalizzati anche a rappresentare gli elementi di conoscenza utili a migliorare le condizioni di efficacia, efficienza ed economicità dell’attività amministrativa relativa all’accoglienza e all’assistenza degli immigrati irregolari. Art. 23 Standard di gestione
Gli standard in base ai quali è condotto il controllo sulla gestione sono: a) Completezza dell’accoglienza e del primo soccorso, con particolare riferimento all’organizzazione predisposta per la registrazione e la prima sistemazione degli ospiti e per una adeguata conoscenza, in tale contesto, di eventuali particolari esigenze degli ospiti stessi all’atto dell’accettazione all’ingresso nel centro , finalizzata ad individuare situazioni meritevoli di attenzione differenziata. b) Regolarità e puntualità delle prestazioni oggetto dei servizi, con specifico riferimento al rispetto degli impegni contrattuali assunti circa le unità di personale da impiegare nei vari turni di servizio e delle qualificazioni professionali degli operatori incaricati di compiti che ne presuppongono il possesso. c) Capillarità del servizio di assistenza generica alla persona con particolare riferimento alla qualità del servizio di mediazione linguistico-culturale e di assistenza sociale e psicologica, nonché alla diffusione della conoscenza delle regole comportamentali all’interno della struttura e dell’organizzazione del centro. d) Adeguatezza del presidio sanitario e delle risorse per l’emergenza con particolare riferimento alla puntuale copertura del servizio per il tempo previsto secondo contratto, nonché alla concreta organizzazione predisposta per fronteggiare le esigenze di immediato soccorso e per avviare le urgenze sanitarie presso le strutture sanitarie del luogo. e) Accessibilità e fruibilità dei servizi, con riferimento alla necessità di rendere i servizi oggetto del contratto, in maniera costantemente adeguata, in termini di risorse umane e strumentali, alle esigenze contingenti del centro, eliminando quelle situazione di disagio che possono originarsi da inopportune concentrazione degli orari dei servizi. f) Pulizia degli ambienti, con riferimento alle frequenze contrattualmente stabilite dell’espletamento del servizio. g) Congruità, qualitativa e quantitativa, alle specifiche tecniche dei beni forniti Art. 24 Monitoraggio e Reports periodici
Ai fini della verifica periodica degli standard, la Prefettura-U.T.G. organizza il monitoraggio delle prestazioni affidate in appalto. Al predetto scopo il gestore ha l’obbligo di trasmettere alla Prefettura-U.T.G., ogni due mesi, un report sui servizi effettivamente erogati, in cui saranno indicate anche le criticità e, in particolare, gli effetti determinati dall’andamento dei flussi delle presenze in relazione ad eventuali situazioni di emergenza. Il report deve comprendere: La quantità delle prestazioni sanitarie effettuate e le urgenze sanitarie cui si è provveduto; Una scheda riassuntiva delle prestazioni di assistenza generica alla persona, indicando le ore utilizzate per le specifiche attività di cui all’art. 1 – comma 1 – n. 2, lettere a), b), c), g) e h); Il numero delle presenze effettive di personale proprio destinato ai compiti di assistenza generica alla persona, di assistenza sanitaria e servizio di pulizia ed igiene ambientale registrate nel periodo oggetto del report; L’analisi dei costi del personale utilizzato per tutti i servizi, anche in comparazione con i precedenti report, per quelli successivi al primo; La quantità dei beni acquistati ed oggetto di tutte le forniture contrattuali. Art. 25 Attività e modalità del controllo
L’Ente gestore consente all’attività di controllo da parte della Prefettura-U.T.G. che a tal fine acquisisce documentazione e notizie sui servizi erogati, valuta reclami, istanze e segnalazioni degli utenti. La Prefettura U.T.G. vigila sulla gestione del Centro oltre che attraverso l’esame dei report bimestrali anche eseguendo, per mezzo di propri incaricati, controlli mirati all’accertamento del rispetto degli standard operativi, nonché sulle regolari movimentazioni di magazzino. L’Ente gestore mette a disposizione i dati richiesti ed assicura la collaborazione necessaria per l’efficacia dei compiti di controllo della Prefettura-U.T.G.. La Prefettura-U-T-G. ove lo ritenga utile ai fini del controllo, predispone e trasmette all’Ente gestore, moduli di rilevazione del grado di soddisfazione dell’utenza che saranno compilati con l’ausilio dei mediatori culturali. Detti moduli sono predisposti in modo da consentire una valutazione quantitativa e qualitativa dei servizi prestati. Art. 26 Norma di rinvio
Per quanto qui non previsto si osservano le disposizioni contenute nelle “linee guida” per l’affidamento della gestione dei centri di accoglienza, approvate con decreto del Ministro dell’Interno in data 12 novembre 2002, in quanto siano compatibili e non siano modificate dalle clausole del presente contratto. Allegati
I seguenti allegati costituiscono parte integrante del presente capitolato d’appalto: 1) Specifiche tecniche integrative (1D) 2) Dotazione minima del personale ai sensi dell’art 5 del Capitolato 101

SPECIFICHE TECNICHE INTEGRATIVE DEL CAPITOLATO, RELATIVE ALL’APPALTO DI SERVIZI E FORNITURE PER LA GESTIONE DEI CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE

Il contenuto dei servizi e le caratteristiche delle forniture che formano oggetto dell’appalto ai sensi dell’art. 1 dello schema di capitolato, salvo quanto già previsto nella descrizione delle prestazioni ivi contenute, sono riportati nelle specifiche tecniche che seguono.

1) SERVIZIO DI ASSISTENZA GENERICA ALLA PERSONA;
a) mediazione linguistica culturale:
il servizio deve garantire le elementari esigenze di comunicazione ed interrelazione con gli ospiti.
Il servizio deve essere assicurato in modo di affiancare gli operatori dei servizi elencati di seguito al fine di facilitare la fruibilità degli stessi da parte dei beneficiari e di non impedire l’erogazione simultanea di più servizi.
Particolare riguardo deve essere prestato a tutte le situazioni che richiedono interventi
specialistici come quelli che possono essere necessari nel caso di vittime di tortura, vittime di violenza/abusi, portatori di handicap, portatori di disagio mentale ecc.. In particolare, deve essere previsto l’impiego di mediatori linguistico culturali di sesso femminile nel caso di ospiti donne, specialmente se appartenenti a categorie vulnerabili.
b) informazione sulla normativa concernente l’immigrazione, i diritti e doveri e la condizione dello straniero nonché sulle regole comportamentali del Centro:
Il servizio dovrà garantire un’informazione di base sulla normativa italiana ed europea in materia di immigrazione e asilo nonché su eventuali programmi di rimpatrio.
Il servizio deve altresì fornire un’informazione sui principali diritti e doveri dell’ospite durante il suo soggiorno nel Centro, un’informazione sui servizi (socio-sanitario, legale ecc.) di cui è possibile usufruire dal momento dell’inserimento nel centro (ivi comprese le modalità e i tempi per accedervi con l’indicazione degli orari e spazi adibiti). L’informazione riguarderà, inoltre, il ruolo dei diversi operatori all’interno del centro in riferimento ai servizi offerti nonché l’esplicazione del ruolo dei diversi enti (ACNUR, Organizzazioni non governative, enti di tutela ecc.) eventualmente presenti nel centro.
c) sostegno socio – psicologico:
il servizio in oggetto deve garantire un sostegno psico-sociale in base alle specifiche esigenze dei singoli ospiti con particolare attenzione a persone appartenenti a categorie vulnerabili quali:
– vittime di violenza/abusi
– portatori di handicap fisici
– persone con disagio mentale.
Il servizio è finalizzato altresì a prevenire l’insorgere dei conflitti determinati dalla permanenza prolungata degli ospiti nel centro.
Al momento dell’ingresso nel centro, il servizio deve garantire una valutazione immediata delle diverse situazioni individuali in modo da garantire la necessaria presa in carico specialistica nonché impostare eventuali percorsi riabilitativi.
Ai fini dell’organizzazione del servizio, all’interno del centro, deve essere garantito pertanto uno spazio fisico adeguato come luogo di riferimento per l’espletamento dello stesso.
Sarà infine necessario stabilire un coordinamento con i servizi specialistici offerti sul territorio nel caso si rendano necessarie prese in carico da specialisti in strutture esterne.
d) organizzazione del tempo libero:
Il servizio provvede all’organizzazione delle attività di animazione socio culturale mediante la partecipazione attiva dei beneficiari (eventi di carattere culturale, sportivo, sociale ecc.), nonché quelle dedicate all’espletamento delle funzioni religiose.
Ai fini dell’espletamento del servizio, è necessario garantire uno spazio fisico adeguato come luogo di riferimento tenendo conto in particolare delle categorie vulnerabili.

2) SERVIZIO DI ASSISTENZA SANITARIA;
Oltre alle prestazioni individuate nell’art. 1 del capitolato, l’ assistenza sanitaria deve garantire anche l’assistente infermieristica consistente in :
a) somministrazione dei farmaci prescritti dal medico avendo cura di comunicare agli operatori i nominativi e gli orari della somministrazione in infermeria;
b) in caso di infortunio, nel provvedere alle cure di primo soccorso e, se necessario, all’accompagnamento dell’infortunato in ospedale, annotando l’infortunio nel registro di infermeria;
c) nel tenere costantemente aggiornato il registro di infermeria (dovranno risultare indicati tutti gli interventi sui singoli ospiti) ed inoltre custodire tutti i documenti e le certificazioni di carattere medico;
d) nell’informare il medico di ogni mutazione dello stato fisico del malato, senza prendere iniziative non pertinenti alla professionalità;
e) nel prenotare, presso centri pubblici, le visite specialistiche e gli esami diagnostici disposti dal medico e nell’accompagnare ed assistere, se necessario, gli ospiti alle visite mediche specialistiche e in caso di ricovero in ospedale;
f) nell’assistere i pazienti presenti al momento nell’ infermeria, provvedendo anche al servizio dei pasti (se d’orario).

3) SERVIZIO DI PULIZIA ED IGIENE AMBIENTALE;
Per servizio di pulizia e di igiene ambientale si intendono tutte quelle attività che assicurano il confort igienico-ambientale delle unità abitative, degli uffici e dei locali di servizio, all’interno ed all’esterno degli immobili, in modo da garantire lo svolgimento delle attività previste nel centro.
Il servizio di pulizia consiste nella pulizia giornaliera e periodica dei locali e degli arredi da effettuarsi secondo le disposizioni e le frequenze indicate nella tabella più innanzi riportata.
Detto servizio dovrà tener conto, altresì, degli accordi sindacali nazionali relativi al personale dipendente delle Imprese di Pulizia e osservare le normative vigenti per l’utilizzo di attrezzature, macchinari e materiali previsti in ambito UÈ.
Tutti i prodotti chimici impiegati devono rispondere alle normative vigenti in Italia e nell’UE relativamente a “biodegradabilità”, “dosaggi” e “avvertenze di pericolosità”.
Tutte le macchine utilizzate per la pulizia devono essere certificate e conformi alle prescrizioni antinfortunistiche vigenti e tutti gli aspiratori per polveri devono essere provvisti di meccanismi di filtraggio dell’aria in uscita secondo le disposizioni di legge.
L’Ente gestore deve garantire un servizio che consiste nell’erogazione di tutte le prestazioni e le somministrazioni occorrenti al soddisfacimento del servizio in epigrafe, in conformità alle prescrizioni della legge 25 gennaio 1994, n. 82 e successive modifiche ed integrazioni.
Tutti gli interventi dovranno essere effettuati accuratamente ed a regola d’arte con l’impiego di mezzi e materiali idonei in modo da non danneggiare i pavimenti, le vernici, gli arredi e quant’altro presente negli ambiente oggetto degli interventi.

Simone Sapienza

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Parma: il boss Belforte tenta il suicidio, è detenuto da 16 anni in regime 41 bis


Cella 41 bis OPIl 57enne prova a impiccarsi ma la corda non regge: intervengono gli agenti. Sabato notte si è legato il cappio al collo e si è lasciato cadere giù, abbandonandosi al destino che si era scelto, ma suicidarsi in carcere è mille volte più difficile che fuori, da liberi.

La corda che gli reggeva il corpo, legata alle sbarre della cella, ha ceduto e il tonfo ha richiamato l’attenzione degli agenti della penitenziaria: “Belforte, Belforte risponda”, ha gridato l’agente che lo ha soccorso per primo. Ma il boss dì Marcianise, Domenico Belforte, l’uomo che aveva creato la diabolica associazione mafiosa alle porte della città dì Caserta, aveva la schiuma alla bocca e gli occhi rotolati verso l’alto.

Quando il 118 è giunto nel carcere dì massima sicurezza dì Parma, dov’è rinchiuso anche l’ultimo capo dei Casalesi, Michele Zagaria di Casapesenna, hanno tentato in tutti ì modi dì rianimarlo. All’ospedale della città ducale, Mimi Belforte è stato ricoverato nel reparto di Rianimazione; solo ieri ha aperto gli occhi e ha ripreso conoscenza. È rimasto sedato per tre giorni, in attesa che rispondesse bene alla terapia. Piantonato notte e giorno dalla polizia, il clapoclan ha chiesto dei familiari. Dal 1998 Domenico è rinchiuso al 41 bis, il carcere duro previsto per i detenuti pericolosi. Anche alla moglie, Maria Buttone, è stato applicato lo stesso regime detentivo in una casa circondariale dì Roma. La Dda scoprì che reggeva le sortì del clan in maniera magistrale dopo l’arresto del consorte. Fuori, liberi, i due figli della coppia.

Il motivo del gesto estremo del boss sarebbe legato alla situazione detentiva. Domenico Belforte, ormai 57enne, non avrebbe retto alle regole ferree del carcere. O forse, voleva denunciare dei presunti soprusi. Le sue istanze sono state inviate, nel corso di questi 20 anni di reclusione, alle varie procure d’Italia. Il boss è uno a cui piace prendere carta e penna e scrivere per far sentire la sua voce. Accusato di aver preso parte all’atto di nascita del clan egemone a Marcianise e dintorni, assieme al fratello Salvatore, è stato condannato per associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsioni e riciclaggio, Dal tribunale di Milano era stato, inoltre, condannato a 18 anni di reclusione per traffico di droga. Per i tre omicidi contestati – l’ultimo è quello di Alessandro Menditti, ucciso a Recale 13 anni fa – il tribunale del Riesame di Napoli ha annullato tutte le misure, dopo l’emissione delle ordinanze.

Nel 2007 venne addirittura assolto dal reato di omicidio, così come nel processo sui rifiuti e veleni trasportati dal Nord verso il Sud Italia. Ma è ancora troppo presto per mettere la parola fine sui fatti di sangue. Se ieri, è pur vero, è stata annullata anche la custodia cautelare nei confronti di Vittorio Musone e Pasquale Cirillo, difesi dall’avvocato Angelo Raucci, è vero anche che le indagini sono nella fase iniziale, curate dalla Dda. A difendere Belforte Domenico, c’è l’avvocato Massimo Trigari. A Marcianise non si parla d’altro, del boss che voleva togliersi la vita perché non vuole restare a Parma, dove nel 2001 denunciò il direttore della casa circondariale per abuso d’ufficio. In sostanza, Belforte aveva spiegato che la polizia penitenziaria gli inondò la cella per spegnere un presunto incendio. Possibili vessazioni era state tutte denunciate alle autorità. Dopo l’evento del 2001, Domenico Belforte venne trasferito a Milano, ma ritornò poi a Parma. Dove non voleva restare. Piuttosto avrebbe abbracciato la morte.

Marilù Musto

Il Mattino, 25 settembre 2014

Carcere e abusi, registrazione shock inchioda Agenti di Polizia Penitenziaria


carcere-620x264La moglie del detenuto che ha registrato di nascosto le guardie che parlano di pestaggi nel carcere di Parma, decide di rivelarsi al Garantista (ASCOLTA LA REGISTRAZIONE).

LA REGISTRAZIONE

Nella registrazione la guardia carceraria si lascia andare: “Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu“. Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: “Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero. Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok?

Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no… Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte.

NE PICCHIAMO TANTI, QUI COMANDIAMO NOI

Da questa registrazione, resa pubblica attraverso i mass media, è partita un’ispezione interna da parte dell’Amministrazione penitenziaria e l’apertura di un’inchiesta da parte della Procura. Sono intervenuti, in merito alla vicenda, Desi Bruno e Roberto Cavalieri, rispettivamente Garante regionale e Garante del Comune di Parma dei detenuti, esprimendo “preoccupazione circa il contenuto delle registrazioni diffuse dalla stampa e realizzate, per come viene riferito, all’interno del penitenziario di Parma da parte di un detenuto”.

Proseguono ancora i garanti: “Tali contenuti qualora confermati nella loro veridicità e completezza, farebbero emergere che all’epoca dei fatti, e cioè negli anni 2010-2011, si sarebbe verificata una situazione di subordinazione delle questioni di salute e incolumità dei detenuti alle pratiche della custodia anche quando queste si sono manifestate, secondo le accuse, in modo illegittimo attraverso l’uso della violenza”Il detenuto che ha registrato la conversazione si chiama Rachid e attualmente è rinchiuso nel carcere di Sollicciano.

La moglie ha inviato una lettera al direttore del carcere affinché gli garantisca protezione da eventuali ritorsioni. Emanuela D’Arcangeli -questo è il suo nome- tramite il suo blog “Carcere e Verità” sta intraprendendo una battaglia per combattere la situazione infernale del sistema penitenziario. La sua lettera indirizzata al Garantista è un invito ad intraprendere una battaglia che non sia una lotta tra detenuti e guardie “cattive”, ma una lotta creando un fronte comune composto da familiari, detenuti, operatori e le stesse guardie penitenziarie che credono nel loro lavoro. In altre registrazioni, sempre messe a disposizione sul canale Youtube “Carcere e Verità“, ci sono colloqui con altre guardie carcerarie le quali ammettono che non testimonieranno mai contro i loro colleghi. Quello che avviene in carcere resta chiuso tra quattro mura; una sola parola vige tra gli operatori penitenziari: omertà. L’invito di Emanuela è quello di combatterla.

– Damiano Aliprandi

LA LETTERA

Io ero una persona cattiva. Chiedo scusa se gioco con le parole che usai nella mia precedente lettera, due mesi fa, sempre su questo giornale. A Luglio ero un’anonima testimonianza, che se da un lato aveva tanto da dire, dall’altro doveva frenarsi, perché la verità più scomoda, era anche quella che doveva tacere. Ma ora è diverso.

La sera del 18 Settembre, nell’edizione delle 20 del TG1, è andato in onda un servizio su un detenuto di Parma, che servendosi di alcuni registratori vocali, era riuscito a documentare una lunga serie di colloqui con le guardie del carcere. Quello che ne è venuto fuori si può sintetizzare

in due parole: violenza e omertà. Quel detenuto incosciente e coraggioso è l’uomo che ho avuto la fortuna di sposare. E’ la persona che ha preso i miei limiti e negli anni li ha spinti sempre un po’ più avanti, fino a farli arrivare vicino ai suoi.

Ma come spesso accade, il coraggio viene dalla disperazione e noi non siamo diversi. Nella memoria, l’anno passato a Parma rimane il peggiore di tutta la detenzione di Rachid. Mi bastano solo poche parole, per far capire il mio stato d’animo, dall’Ottobre del 2010, all’Ottobre dell’ anno seguente: Rachid lo stavano consumando piano e ad ogni colloquio mi mostrava i segni di questa o quella violenza. Tanto che arrivai a domandarmi se alla fine sarebbe rimasto ancora qualcosa da picchiare.

Il pestaggio di cui parla la traccia andata in onda al TG, documenta uno degli eventi, ma non l’unico.

Appena entrato ha subito violenza. Dopo due mesi, avvenne l’aggressione di cui parla la traccia del telegiornale. Poi il braccio chiuso inavvertitamente nel blindato; il dito incastrato inavvertitamente nella ruota della carrozzina, che usava per deambulare. Due scioperi della fame, che lo fecero arrivare a pesare 36 kili. Le manciate di psicofarmaci che gli davano e che lui faceva uscire a colloquio.

Senza parlare delle cose più piccole (ma in carcere niente è “piccolo”): l’acqua corrente, sospesa per tre giorni; i generi alimentari acquistati con i suoi soldi, requisiti e restituiti dopo alcune settimane, marci; il suo Corano buttato a terra senza rispetto, durante una perquisizione; le foto della sua famiglia richieste per mesi e per mesi negate, perché ritenute di un formato non consentito, salvo poi scoprire che invece erano consentite. Le voci false di pedofilia, diffuse per screditarlo agli occhi degli altri detenuti.

Se queste cose non avessero trovato riscontro, non saremmo mai riusciti a dimostrarle, perché tutte insieme sembrano troppo assurde, per essere vere. Ma lo sono.

Due mesi fa, dovevo essere cattiva, perché avevo un ideale da portare avanti, contro poteri più forti di me.

Oggi posso dire che non ho solo un ideale, ma ho anche le prove. In questi giorni il DAP e la Procura, si sono limitati a commentare l’accaduto, gettando dei dubbi

sull’autenticità di queste registrazioni. Me lo aspettavo, ma la prevedibilità della reazione, non mi consola, anzi.

Al DAP, alla Procura, ma anche alle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria e ad ogni singolo agente, impegnato nelle carceri italiane, voglio dire che ripetere che non è possibile fare entrare dei registratori in carcere, significa perdere tempo inutilmente.Le registrazioni sono autentiche, parlano di luoghi, date, eventi e la voce è quella di Rachid, che dal Giugno del 2008 è detenuto dallo Stato. Non ci sono stati permessi, domiciliari, lavoro all’esterno.

Non sono accuse generiche. Non ha senso mantenere una posizione. Non ha senso dubitare o addirittura negare.

Piuttosto occorre fare fronte comune: i detenuti, i familiari, insieme agli agenti che credono nel loro lavoro e lo vorrebbero fare al meglio; contro quelle che una volta erano le mele marce, ma che oggi hanno infettato il sistema. Ho detto che la realtà delineata da quelle tracce si compone di violenza, ma anche di omertà.

Le carceri sono piene di lavoratori onesti, che non alzerebbero mai le mani, che non sono naturalmente portati alla violenza, ma tacciono. Il silenzio non lascia traccia sulla pelle, ma è complice della violenza.

Parole come “Io non denuncero’mai un collega” fanno male, quanto un cazzotto sullo stomaco o un calcio alla schiena.

Solo parlando, solo denunciando, le violenze possono venire fuori. La lotta per farle uscire, non è la guerra dei detenuti, contro la polizia. Piuttosto e’ la lotta di tutti

quelli che in carcere vivono, o lavorano, al fine di ottenere condizioni più umane e anche più stimolanti, che liberino il carcere dalla certezza di essere un luogo inutile.

Voglio terminare con una domanda agli agenti. Il ruolo che il sistema carcere vi attribuisce, al momento, resta sospeso tra due compiti: quello del portinaio e quello del maggiordomo.

Ma se vi preparasse, affinché possiate diventare soggetti veramente attivi nel recupero del detenuto, formandovi e incrementando le vostre competenze, non ricavereste un piacere maggiore dal vostro lavoro?

– Emanuela D’Arcangeli, Carcere Verità

Parma, dopo le registrazioni delle torture si indaga, ma deve cadere un muro di omertà


CC Parma DAPRachid, marito di Emanuela D’Arcangeli, ha registrato le voci di medici e agenti che ammettono le violenze. Si sta indagando, ma deve cadere un muro di omertà. La moglie del detenuto che ha registrato di nascosto le guardie che parlano di pestaggi nel carcere di Parma, decide di rivelarsi al Garantista. Nella registrazione la guardia carceraria si lascia andare: “Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu”.

Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: “Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero. Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredite l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no. Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte. Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi”.

Da questa registrazione, resa pubblica attraverso i mass media, è partita un’ispezione interna da parte dell’Amministrazione penitenziaria e l’apertura di un’inchiesta da parte della Procura. Sono intervenuti, in merito alla vicenda, Desi Bruno e Roberto Cavalieri, rispettivamente Garante regionale e Garante del comune di Parma dei detenuti, esprimendo “preoccupazione circa il contenuto delle registrazioni diffuse dalla stampa e realizzate, per come viene riferito, all’interno del penitenziario di Parma da parte di un detenuto”.

Proseguono ancora i Garanti: “Tali contenuti qualora confermati nella loro veridicità e completezza, farebbero emergere che all’epoca dei fatti, e cioè negli anni 2010-2011, si sarebbe verificata una situazione di subordinazione delle questioni di salute e incolumità dei detenuti alle pratiche della custodia anche quando queste si sono manifestate, secondo le accuse, in modo illegittimo attraverso l’uso della violenza”.

Il detenuto che ha registrato la conversazione si chiama Rachid e attualmente è rinchiuso nel carcere di Sollicciano. La moglie ha inviato una lettera al direttore del carcere affinché gli garantisca protezione da eventuali ritorsioni. Emanuela D’Arcangeli – questo è il suo nome – tramite il suo Blog “Carcere e Verità” sta intraprendendo una battaglia per combattere la situazione infernale del sistema penitenziario.

La sua lettera indirizzata al Garantista è un invito ad intraprendere una battaglia che non sia una lotta tra detenuti e guardie “cattive” ma una lotta creando un fronte comune composto da familiari detenuti, operatori e le stesse guardie penitenziarie che credono nel loro lavoro. In altre registrazioni, sempre messe a disposizione sul canale Youtube “Carcere e Verità”, ci sono colloqui con altre guardie carcerarie le quali ammettono che non testimonieranno mai contro i loro colleghi. Quello che avviene in carcere resta chiuso tra quattro mura; una sola parola vige tra gli operatori penitenziari: omertà. L’invito di Emanuela è quello di combatterla.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 25 settembre 2014

Le Camere Penali : “il diritto non è un lusso, ci battiamo anche per Provenzano”


Camere PenaliIl Presidente dell’Unione delle Camere Penali, Valerio Spigarelli, chiede la revoca del 41 bis al boss, la platea risponde con un applauso scrosciante. Una battaglia per tentare di ripristinare la separazione tra toghe e politica. il confronto con il ministro Orlando.

Sentono aria di svolta, gli avvocati penalisti riuniti a Venezia. Comprendono che il tornante della riforma proposta dal governo sulla giustizia è decisivo. E nelle linee guida del ministro Orlando intravedono scelte meno subordinate ai diktat delle toghe.

Ma anche su questo c’è più di un distinguo tra i due candidati che si contenderanno oggi la presidenza dell’Unione camere penali, Beniamino Migliucci e Salvatore Scuto. Il quindicesimo congresso dell’Ucpi, in corso a Venezia Lido da venerdì, è chiamato a scegliere tra loro due.

Le operazioni di voto sono iniziate nel tardo pomeriggio di ieri e ricominciano stamattina alle 11, nel giro di un paio d’ore ci sarà la proclamazione degli eletti. E si conoscerà dunque anche il nome del nuovo presidente, che subentra a Valerio Spigarelli.

Negli appelli al voto di ieri mattina sia Migliucci che Sento hanno fatto ricorso a toni forti. Il primo, presidente della Camera penale di Bolzano, si è scagliato contro alcune distorsioni del sistema giudiziario, in particolare contro i paradossi del patrocinio di Stato: “Con un compenso di cento euro si vuol far capire a tutti che quella funzione è un orpello, senza importanza per nessuno”, è la denuncia di Migliucci, “lo Stato si deve vergognare di se stesso nel momento in cui umilia la funzione difensiva, non l’avvocato”.

Scuto dà una lettura meno pessimista sulla condizione generale della giustizia, e in particolare sulla subordinazione della politica alle toghe: ma, avverte, “proprio alla politica dobbiamo cercare di dare strumenti per liberarsi dall’abbraccio mortale con la magistratura”.

Un congresso pieno di analisi sulla riforma, con il clou del confronto pubblico tra Spigarelli e Orlando di venerdì sera, ina anche di fiammate improvvise, come quella con cui proprio il presidente uscente si è rivolto alla platea nella sua relazione introduttiva: “Noi siamo quelli che si battono per i diritti degli ultimi, di Provenzano… sì, anche di Provenzano, non cambia la nostra difesa del diritto”. E giù un applauso impressionante.

Un segno forte che l’intera platea dei 460 delegati ha offerto, questo sulla battaglia per la revoca del 41 bis al boss delia mafia, le cui condizioni di salute non sono più compatibili con la detenzione. Un’indicazione chiara che si è ripetuta pochi minuti dopo, quando il segretario di Radicali italiani Rita Bernardini si è chiesta: “Che cosa è quella riservata a Provenzano se non una tortura? Non sarà stata introdotta nel nostro ordinamento come reato, ma in un caso del genere noi assistiamo a una tortura imposta nello Stato di diritto”.

Molto vivace anche lo scambio di opinioni avvenuto dinante il dibattito di ieri, che ha visto sfilare sul palco decine di delegati. In particolare sul significato da dare alla “visita” del Guardasigilli: Giandomenico Caiazza dice di non emozionarsi: “Non me ne fotte che viene qua, conta quello che c’è nei ddl”. È Riccardo Cattarmi a controbattere e a. sostenere che l’intervento dì Orlando ha raccolto un “consenso unanime”. Cosa che, a sentire i commenti nel foyer del Palazzo del Cinema di Venezia Lido, è molto vicina ai vero.

Errico Novi

Il Garantista, 21 settembre 2014