Padova, Natale in carcere, alla ricerca di un po’ di speranza. Lettere degli Ergastolani ostativi


Casa Circondariale di PadovaIl Papa ha deciso che i detenuti passeranno la Porta santa del Giubileo ogni volta che varcheranno la soglia della loro cella, a Padova poi anche la cappella del carcere Due Palazzi è Porta santa. Ma troppe persone in carcere vivono ancora SENZA SPERANZA. Sono i condannati all’ergastolo, una pena che Papa Francesco ha definito “pena di morte nascosta”, e in particolare all’ergastolo ostativo, l’ergastolo cioè che non concede vie d’uscita a meno che la persona condannata non collabori con la Giustizia, ma in tanti non lo vogliono fare per non rovinare la vita dei propri cari.

Assieme alle testimonianze di ergastolani, per aprire uno spiraglio di speranza riportiamo anche le parole di Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dai terroristi nel 1978: “Ogni essere umano è, in quanto tale, titolare di dignità e di diritti; anche se in uno o più momenti della vita ha scelto il male, se è profugo, povero, violento, barbone, straniero, disabile, tossicodipendente, malato, giovane e ribelle. La nostra Repubblica nasce dal rifiuto di ogni totalitarismo per il quale – di destra o di sinistra che sia – le persone non sono niente. Per noi, invece, sono tutto. Ad ognuno di noi, noi che siamo la Repubblica, la responsabilità di non lasciare indietro nessuno”.

Il Mattino di Padova, 29 dicembre 2015

Il mio orologio ha un orario fisso, l’orario dell’ergastolo ostativo

Questa mattina mi sono alzato alle 5, fuori era ancora buio e mi sono messo a pensare alla mia vita passata, a quanto tempo ho trascorso in questi posti e quanto ancora ci dovrò restare. Sono passati tanti anni da quel lontano 1994 e per fortuna gioisco ancora quando, quelle rare volte, il sole riesce a spaccare le giornate gelide dell’inverno di Padova. Vorrei essere anch’io forte come il sole e risorgere ogni giorno, ma da 21 anni l’inverno è entrato nel mio cuore e nel cuore dei miei cari senza mai abbandonarci.

Il tempo si è fermato per sempre, il mio orologio ha un orario fisso, l’orario dell’ERGASTOLO OSTATIVO. I primi tempi sognavo che la mia situazione potesse cambiare, cercavo di farmi forza per lottare e facevo di tutto per essere il sostegno morale della mia famiglia, ma purtroppo quell’orologio mi ha dimostrato di essere più forte di ogni mia volontà, di ogni mio sogno e desiderio. Per tanti anni ho allenato il mio fisico nella speranza vana di contrastare i segni dell’invecchiamento sul mio corpo, ma oggi mi rendo conto che il ciclo della vita è inarrestabile, niente e nessuno può fermare lo scorrere degli anni e l’amarezza di vederli scorrere nel peggiore dei modi.

Oggi mi rendo conto che quello che mi salva da tutto questo orrore è l’amore di mia figlia e di mia moglie, che sono state più forti di tutti questi anni di carcere, anche se per resistere a questo lungo calvario stanno pagando un caro prezzo, visto che hanno scelto di starmi vicino seguendomi nelle varie carceri che mi hanno fatto girare su giù e per l’Italia, come un pacco postale e per motivi che non avevano a che fare con i miei comportamenti. A volte mi chiedo se si sono mai rese veramente conto che dovranno seguirmi per tutta la vita poiché io da qui non uscirò vivo, perché il mio ergastolo ostativo non me lo permetterà, perché chi è condannato a questa pena è ritenuto colpevole per sempre, irrecuperabile.

Vorrei solo trovare la forza e la lucidità di dire a mia moglie e a mia figlia che la speranza non ha nulla di concreto a cui aggrapparsi, ma non vorrei che anche loro smettessero di sognare come ho fatto io. Sicuramente il fatto di non essere mai riuscito a spiegare chiaramente che cos’è l’ergastolo ostativo ai miei cari non mi fa stare bene, ma è anche vero che sono sempre stato convinto che l’ergastolo ostativo fosse una condanna fatta per errore e che uno stato democratico come l’Italia, culla del cristianesimo, non potesse fregiarsi di una pena così disumana, visto che ha sempre lottato in prima linea contro le torture e la pena di morte, quindi pensavo che sarebbe stata rivista e con questa ferma convinzione ho sempre temporeggiato. Comunque, non voglio rassegnarmi a questa pena di morte mascherata così come l’ha definita Papa Francesco e continuo a sperare che al più presto venga rivista, così che non mi sentirò di essere stato un bugiardo nei confronti di mia moglie e di mia figlia, dalle quali traggo ancora oggi la forza necessaria per continuare a lottare.

Gaetano Fiandaca

La mia famiglia vive a 1.800 Km. di distanza e fare colloqui diventa un’impresa

Dopo sei anni di regime duro del 41bis sono stato trasferito nella Casa di reclusione di Padova, nella sezione Alta Sicurezza, adesso sono tre anni che mi trovo in questo istituto. La mia famiglia vive a 1.800 Km. di distanza (Gela) e fare colloqui diventa un’impresa, specialmente per questioni economiche. Tutta la mia famiglia, compresi genitori, fratelli e sorelle, sono persone oneste e lavoratori che vivono di stipendio e non sempre hanno un posto fisso di lavoro, quindi ognuno ha i suoi problemi e non possono certo pensare a me. I sacrifici per me li fanno mia moglie e i miei figli.

Ho fatto l’ultimo colloquio nel mese di luglio e spero in Dio che sotto le feste di Natale mia moglie e uno dei miei figli riescano a racimolare la somma necessaria per venirmi a trovare. Purtroppo, ogni volta che faccio colloquio non c’è la possibilità che vengano a trovarmi tutti insieme, mia moglie e i miei tre figli, solo per due persone spendono intorno ai 1.500 euro, tra biglietto dell’aereo e albergo, poiché sono obbligati ad arrivare la sera prima del giorno di colloquio. E così, due volte l’anno, al massimo tre, riesco a fare un colloquio di sei ore… ma cosa sono sei ore in confronto a sei mesi che non vedi la tua famiglia? Quelle sei ore passano come se fossero sei minuti. Non vedo la figlia più piccola da oltre un anno. Nessuno può capire il cuore di un padre come si può sentire, solo chi ha i miei stessi problemi mi può capire. Aumentare le ore di colloquio non ucciderebbe nessuno. Io sono stato privato della libertà perché ho commesso un reato, ma la mia famiglia di che colpa si è macchiata? Mia moglie e i miei figli alla fine del colloquio la prima cosa che dicono è: “Sono già passate sei ore?” e vanno via nascondendo le lacrime dietro un sorriso e chiedendosi quando ci rivedremo di nuovo. E che dire delle telefonate? Una a settimana e per la durata di dieci minuti da dividere con mia moglie e i miei tre figli, il tempo di salutarci e domandarci come stai e subito dall’altro lato del telefono ti dicono che la telefonata sta per terminare. Durante questa mia detenzione, ho incontrato una persona che negli anni passati era stata detenuta in Spagna e mi diceva che lì se avevi i soldi ti caricavi la scheda telefonica e potevi chiamare la famiglia ogni volta che volevi nei giorni della settimana e per la durata che volevi. Perché non poterlo fare anche qui in Italia?

Domenico Vullo

Non c’è pena di morte o ergastolo ostativo che possa frenare chi è pieno di odio.

La notizia delle stragi di Parigi mi ha portato a riflettere perché anche io sono padre e nonno. È indiscutibile che i conflitti alimenteranno odio e vendette. Una volta quei paesi geograficamente distanti da noi tenevano per sé anche le loro cose negative, e i conflitti restavano lontani da noi, invece oggi il mondo ha accorciato le distanze, e siamo diventati una miscela esplosiva. Io che sono da ventitré anni in carcere mi accorgo di questa miscela vedendo come è cambiata la popolazione detenuta dai primi anni del mio arresto, oggi in ogni sezione troverai detenuti di etnie diverse. E lo stesso è nelle grandi città del nostro paese e molti di questi stranieri, in particolare i giovani, si sentono ghettizzati, come lo sono i nostri nipoti. Io quando faccio colloquio e vedo il mio nipotino di sette anni fissare gli agenti e nei suoi occhi leggo l’odio, finisco per rimproverare mia figlia, che però mi dice “Papà, mai nessuno di noi si è permesso di parlare male delle istituzioni, ma nella sua scuola la maggior parte dei bambini ha un parente in carcere e sicuramente parleranno di queste cose”. La mia grande paura è che si stia spingendo le nuove generazioni verso l’estremismo e in particolare nella braccia di organizzazioni come ISIS, non c’è pena di morte o ergastolo ostativo che possa frenare chi è pieno di odio. Lo Stato si deve preoccupare di quella generazione dell’età di mio nipotino, di quei bambini che fin da piccoli vengono additati come i figli o nipoti del criminale. Lo Stato vincerà la sua battaglia quando toglierà dallo sguardo di quei bambini l’odio verso le istituzioni. Penso che qualcuno debba riflettere pensando a tutti quei bambini che crescono vedendo il proprio genitore dietro un vetro blindato e che non hanno nessuna speranza di poterlo abbracciare in libertà, anche dopo che ha scontato trent’anni di detenzione, perché condannato all’ergastolo ostativo. Togliere l’odio da quegli occhi innocenti significa costruire un futuro sereno, un primo passo è che lo Stato faccia vedere un volto umano e non implacabile e punitivo.

Tommaso Romeo

Romeo (Ergastolano) : Sono marchiato come cattivo e pericoloso per tutta la vita


Carcere Due Palazzi di PadovaRiflessioni per il Tavolo 2 degli Stati Generali sull’esecuzione della pena.

Un mio compagno di detenzione un paio di anni fa mi ha detto: “Tommaso saremo più sereni e soddisfatti se ci facciamo la galera come al 41bis: aria, cella e nessun tipo di dialogo con le istituzioni”, perché era certo che alle istituzioni non gli interessa niente del nostro percorso di reinserimento. Preciso che quel mio compagno si riferiva a tutti quei detenuti condannati per 416bis e in particolare a chi era stato sottoposto al regime del 41bis e oggi si trova in Alta Sicurezza 1.

Quando ho deciso di impegnare il mio tempo in modo diverso, anche perché l’istituto di Padova a differenza degli altri istituti di pena dava la possibilità anche ai detenuti della sezione AS1 di partecipare ad alcune attività, ho scelto di frequentare la redazione di Ristretti Orizzonti. Due anni di questo mio nuovo modo di farmi il carcere mi hanno dato molte soddisfazioni, in particolare gli incontri con gli studenti delle scuole del Veneto. Questa mia soddisfazione la trasmetto a chi mi sta vicino, in particolare alle mie figlie, in questi due anni la mia mente rimane impegnata in discorsi costruttivi. Arrivo a convincermi di aver smentito il pensiero di quel mio compagno, anche se mia madre ogni tanto mi avvertiva “non illudere le tue figlie”.

Oggi però sto ancora aspettando una decisione sulla mia richiesta di declassificazione, e ho il timore che arrivi un rigetto della mia istanza che, oltre a riportarmi alla carcerazione vecchia maniera cioè “all’ozio forzato”, mi riporterebbe all’amara realtà che chi amministra la giustizia non è interessato al mio percorso di rinserimento. Eppure in questi due anni ho incontrato sia detenuti di media sicurezza, che persone non detenute come studenti, giornalisti, magistrati, ho partecipato a più convegni con centinaia di persone della società esterna, all’ultimo “La Rabbia e la Pazienza” sono anche intervenuto, e mai la mia presunta pericolosità si è manifestata. Ma tutto questo temo che non basti, preciso che con la mia istanza di declassificazione non ho chiesto di varcare il portone del carcere, ma solamente di stare in una sezione di media sicurezza perché solo così potrei continuare il percorso che ho intrapreso.

Questi due anni a Ristretti Orizzonti sono stati belli e costruttivi. Ma questa sarà forse l’ultima illusione che prenderò nella mia carcerazione, perché oggi rischio di dover dare ragione a quel mio compagno che credevo scettico, ma invece forse è solo realista, se davvero succederà che i miei ventitré anni di carcere nei regimi e circuiti speciali non basteranno a farmi finalmente andare in una sezione un po’ più aperta, perché vorrà dire che per le istituzioni sarò “Cattivo e Pericoloso per tutta la vita”.

Tommaso Romeo, Ergastolano detenuto Carcere Padova

Ristretti Orizzonti, 27 agosto 2015

Campailla (Ergastolano) : Trattare le persone con maggiore umanità è la strada più efficace per vincere il male


Biagio CampaillaIl carcere duro per chi ha commesso reati nell’ambito della criminalità organizzata viene visto come necessario, e nessuno o quasi ha il coraggio di metterlo in discussione. Noi vogliamo provare a farlo, nella convinzione che uno Stato debba avere la forza di trattare da esseri umani anche i più feroci delinquenti.

Solo così si sconfigge davvero la cultura mafiosa, non “imitando” i metodi dei criminali, ma rifiutandoli e dando ai loro figli la sensazione che le istituzioni sono forti perché rifiutano la violenza, SEMPRE. Quella che segue è la storia di un detenuto che per anni è stato trattato come un animale, e stava diventando realmente un mostro, poi per fortuna qualcosa è cambiato, qualcuno ha capito che trattare le persone con umanità è la strada per vincere il male.

Dalla pena di tortura al reinserimento vero

Durante i 17 anni in cui ho vissuto in carcere in regimi durissimi (41 bis e Alta Sicurezza), ero diventato una persona “animalesca”. Non pensavo ad altro che a come fare sempre del male, soprattutto a certe persone delle istituzioni, volevo solo vendicarmi del male che avevo ricevuto durante la mia detenzione in quei regimi. Il mio cambiamento vero è avvenuto nel momento in cui sono giunto alla Casa di reclusione di Padova. Dopo un paio di mesi circa dal mio trasferimento riesco a entrare a far parte della redazione di Ristretti Orizzonti e mi viene data la possibilità di fare un percorso unico nel suo genere. Dopo qualche mese di attività vengo inserito in uno dei progetti della redazione, “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”.

Un progetto che cambia radicalmente la mia vita. Ascolto i miei compagni mentre si confrontano con gli studenti con tanta sincerità, affronto una riflessione interiore. Inizio a chiedermi se davanti a quei ragazzi dovevo rimanere sempre quel mostro che ero diventato. In quel periodo ero impegnato a capire se ero così cattivo da continuare a mentire di fronte agli studenti e tenermi addosso quella maschera da duro. Ma non è possibile raccontare bugie davanti a quelle persone, non puoi dare dei brutti esempi, e il motivo è semplice, come per i tuoi figli non vuoi correre il rischio che un ragazzo provi ad imitarti. Se lo influenzi negativamente portandolo a sbagliare, porterai sulla coscienza questo tuo atto.

Io non volevo avere ancora degli altri sensi di colpa. Questa è la spinta che mi porta a confrontarmi anch’io con quei ragazzi. Inizio a parlare con sincerità, finché comincio a percepire che stavo bene con me stesso, non ero più nervoso, riuscivo ad avere un approccio alla vita diverso. Poi iniziano le domande complicate degli studenti, dove vogliono delle spiegazioni. È stato il momento più difficile della mia vita, ma non potevo essere disonesto! Allora mi metto in gioco, trovo la forza di raccontare la mia vita, vedo che mi ascoltano con tanta attenzione, vedo nel loro viso trapelare espressioni di comprensione nei miei confronti, mi fanno sentire una persona, ero ancora qualcuno, un essere umano! Si, qualcuno di diverso da prima. Mi sentivo davvero libero, mi sentivo in pace con me stesso. Ho riconquistato il coraggio di parlare in pubblico, non sentendomi colpevole per sempre.

Oggi non mi nascondo più dalla responsabilità del reato che ho commesso. Grazie a questo percorso trovo il coraggio di assumermi le responsabilità dei miei errori davanti alle mie figlie. Grazie a questo percorso ho ritrovato la vita, e con essa la speranza di un futuro. Svolgendo un’azione di volontariato mi sento di poter essere utile in qualcosa. Cerco di “assolvermi” un po’ dentro me stesso del male che ho provocato, mi sento ancora una persona che possa dare aiuto e sostegno a qualcuno.

La differenza di una detenzione diversa

Oggi dopo 17 anni di detenzione sono stato rivalutato da persone competenti, che in quella persona cattiva che ero trovano anche qualcosa di buono. E mi hanno concesso un permesso di necessità per incontrare la mia anziana madre ammalata. Non avrei mai creduto di poter pranzare ancora una volta con la mia famiglia. Mi ero convinto che mia mamma l’avrei rivista solamente al suo funerale. Di conseguenza immaginavo che non avrei mai conosciuto fuori “in libertà” i miei nipotini, men che meno vederli pranzare con me. Gioia immensa è stata rivedere mia figlia Veronica non in carcere, era piccolina l’ultima volta che abbiamo pranzato insieme.

È stato come rinascere di nuovo. Il giorno del permesso arrivo nella Casa di accoglienza “Piccoli passi”, incontro Egidio, il direttore della struttura. Mi offre un caffè in una tazza di porcellana. Sensazione strana bere il caffe in quel modo. Arriva l’ora di pranzo, a vedermi accerchiato da tutta la mia famiglia mi sentivo in un altro mondo. E che strano pranzare con posate di acciaio in piatti di porcellana!

Il rumore delle posate che sbattevano sui piatti, per le mie orecchie erano tutti rumori nuovi.

In questa occasione speciale, agognata da anni, mi sentivo pieno di gioia. Ma, nello stesso tempo, percepivo qualcosa di strano. Mi stavo accorgendo che stavo fingendo. Sembravo un ragazzo che doveva fare il perfettino davanti a delle persone a cui desideravo mostrarmi in una certa maniera, mi sono accorto allora che i miei familiari erano come degli estranei. Tutto questo diventa più evidente nel momento in cui arrivano a pranzare con noi tanti volontari che ho conosciuto in carcere. È allora che inizio a sentirmi veramente felice. Inizio a scherzare, quell’ironia che mi fa essere me stesso. La mia mamma si accorge di questo mio cambiamento e mi dice: “Figlio mio, devi capire che ora come ora hai più confidenza con loro, voi vivete tutti i giorni insieme, il sentimento di affetto ti lega più a loro che a noi”. Nel frattempo mi ricorda un suo modo di dire: “Il genitore non è chi ti concepisce o ti fa nascere, ma chi ti cresce con la convivenza quotidiana. Figlio mio, tu sei cresciuto con loro, adesso devi abituarti a rientrare in un contatto di affetto vero con noi che siamo i tuoi cari”.

Un forte imbarazzo e tanta vergogna a dare spiegazioni ai miei nipotini

Arriva il momento che mia figlia Veronica mi chiede di dare delle spiegazioni ai suoi figli e a suo marito, perché non sono stato mai presente nel loro matrimonio, non ci sono stato quando lei ha dato alla luce i suoi figli, non sono stato presente a un loro compleanno o durante una festa.

Questa volta mi sono messo davanti ai miei occhi quei ragazzi delle scuole a cui tante volte parlo e ho capito che devo affrontare anche questo ostacolo. Ci sediamo intorno a un tavolo, c’erano i miei nipotini, Biagio junior e Domenico, mio genero e mia figlia Veronica. Inizio a spiegare il perché della mia assenza da 17 anni, il motivo per cui mi ritrovavo in carcere, per aver commesso un crimine, Domenico mi chiede che tipo di crimine, la mia risposta è stata che non importa il tipo di crimine, per il motivo che qualunque tipo di crimine si commette non è buono e porta la vita di una persona a deragliare. L’importante è non rimanere incastrato in certe circostanze della vita, non mettere il dio denaro al primo posto. Vedevo che mia figlia Veronica piangeva, ricordava il passato, le sue sofferenze. Allo stesso tempo si era liberata di un peso: quello di dover dare lei delle spiegazioni ai suoi figli e a suo marito. Mio nipote Domenico è andato via facendosi mille domande, ma prima di andarsene mi ha detto: “Nonno, adesso devi fare il bravo in modo che non ti perda ancora l’affetto della famiglia, devi venire per giocare con noi, ci devi accompagnare a scuola in modo che possiamo far vedere ai nostri compagni che nonno giovane abbiamo”.

Ma il contatto con mia mamma è stato il più commovente. La mia mamma è affetta da una grave malattia, la sua patologia principale è il diabete, deve fare di continuo l’insulina per mantenere la glicemia al di sotto di 300. Quel giorno le ero vicino mentre controllava il diabete: era nella media di 120. Così lei mi ha detto: “Sei tu che mi fai stare bene”. Questo mentre me la curavo e la coccolavo come una bambina. Le massaggiavo le gambe che spesso le si gonfiano. Penso sia stato uno dei momenti più felici della sua vita. Poverina, mi è sempre stata vicina in tutti questi anni di detenzione. Sono convinto che il dolore più grande per un genitore è il perdere i propri figli. Mia mamma ne ha persi tre, di cui due deceduti. Oggi ne ritrova uno.

Biagio Campailla – Ergastolano detenuto a Padova

Il Mattino di Padova, 24 agosto 2015

L’Unione delle Camere Penali Italiane: non trasferite i detenuti di Padova


Camere PenaliLa Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, raccoglie il grido di allarme lanciato dalla Redazione di “Ristretti Orizzonti”, in merito al trasferimento di alcuni detenuti dall’Alta Sicurezza di Padova in altri istituti.

Già nell’aprile scorso l’Unione era intervenuta chiedendo un incontro urgente con il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, manifestando forte preoccupazione per le modalità con le quali il Dipartimento stava procedendo, interrompendo irrimediabilmente il percorso educativo di molti detenuti. Da allora, anche e soprattutto per l’intervento della redazione di Ristretti Orizzonti, grazie ad una nuova circolare sulle “declassificazioni”, alcuni trasferimenti sono stati evitati. Ma molti ancora rischiano di vedere vanificato il percorso trattamentale fino ad ora svolto, a causa di valutazioni sulla personalità che si rifanno a episodi ormai di venti o trent’anni addietro.

Si chiede, pertanto, che vada rivista tutta la materia in ordine ai circuiti e che si tenga conto, nell’esprimere giudizi, soprattutto dell’attualità, dando un significato concreto e operativo alle parole “rieducazione” e “trattamento individualizzato”, espressamente riportate dalle norme penitenziarie e più volte invocate dallo stesso Ministro della Giustizia, che proprio nella sezione di Padova hanno trovato attuazione, laddove, nella gran parte degli istituti di pena del nostro Paese altro non sono che lettera morta.

Chiediamo che l’amministrazione penitenziaria ponga immediatamente rimedio alla situazione e salvaguardi la condizione di tutte le persone ospitate nella sezione alta sicurezza del carcere di Padova che hanno in atto positivi percorsi di trattamento.

Avv. Beniamino Migliucci, Presidente dell’Unione camere penali Italiane

Avv. Riccardo Polidoro, Responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi

Cavalieri (Garante Detenuti Parma): “No alla chiusura della Sezione AS1 di Padova”


Carcere Due Palazzi di PadovaMi rivolgo con la presente alle SS.LL. per rappresentare alcune criticità che deriverebbero, qualora confermate, dalle notizie diffuse da alcuni organi di stampa e relative alla chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza nel carcere di Padova e al conseguente trasferimento dei detenuti ivi reclusi. Tali notizie riportano la decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di trasferire parte di questi detenuti presso la sezione AS1 (detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso)del carcere di Parma. Ad oggi risulterebbero essere stati realizzati già due trasferimenti fatto che ha di conseguenza intensificato le preoccupazioni sul degrado delle proprie condizioni di reclusione dei detenuti presenti a Parma.

Come noto presso gli Istituti penitenziari di Parma è presente una sola sezione per detenuti AS1 sulle sei sezioni di Alta sicurezza, le restanti 5 sono per detenuti AS3 (detenuti condannati per reati associativi). A questa “nicchia” di detenuti, per ovvi motivi organizzativi del reparto Alta Sicurezza, restano poche occasioni di partecipazione ad attività che sono da considerarsi marginali rispetto a quelle destinate agli altri detenuti del circuito AS3.

A quanto risulta allo scrivente le attività trattamentali presenti a Parma per i detenuti AS1 sono:

– incontri del progetto Etica e Legalità gestito da alcuni volontari e che terminerà nel corso di quest’anno.

– una attività con cadenza settimanale di produzione di prodotti da forno per la locale mensa per i poveri del Frati Francescani.

– un corso di formazione professionale, se finanziato, della durata di 300 ore per anno (pari a 4 mesi di attività).

– una attività sportiva strutturata di ginnastica con cadenza settimanale.

Non è presente alcuna attività lavorativa significativa e solo ed unicamente, quando presente, ristretta ai lavori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria per porta-vitto e poco più. Sotto il profilo dello studio questo è in gran parte rappresentato dalla autonoma iniziativa di alcuni detenuti che sono iscritti a percorsi universitari.

Sotto il profilo della collocazione nelle celle questa è in parte soddisfatta in termini di assegnazione in cella singola, molto spesso sostenuta e obbligata anche da esigenze di salute, patologie psichiatriche e di studio dei detenuti.

Ora, non entrando nel merito delle motivazioni che hanno orientato il Dipartimento verso la chiusura della sezione Alta Sicurezza del carcere di Padova, non posso non segnalare che il trasferimento di questi detenuti presso il carcere di Parma rappresenta una scelta non condivisibile sotto diversi profili che illustro di seguito:

– l’offerta trattamentale presente nel carcere di Parma non è in alcun modo paragonabile a quella presente nel penitenziario di Padova e pertanto si penalizzerebbero in modo profondo le scelte, anche intraprese da anni, da parte di questi detenuti che qui a Parma non troverebbero altro che poche attività di trattamento spesso senza disponibilità di posti e con una erogazione assai rarefatta nel corso della settimana;

il carico sanitario presente nel carcere di Parma, conseguente alla detenzione di persone con serie e complesse problematiche di salute e bisognose di prestazioni che spesso sono carenti sotto il profilo della tempestività di erogazione, si aggraverebbe con una ricaduta negativa per tutti i detenuti oltre che per il personale sia sanitario che dell’amministrazione penitenziaria;

– le condizioni di vita dei detenuti AS1 sarebbero compromesse dovendo collocare due detenuti per cella con ricadute negative sia sul piano delle relazioni che della qualità psico-fisica della vita detentiva (in particolare per gli studenti e per i detenuti con problematiche sanitarie);

– i detenuti del circuito AS1 e reclusi a Parma non hanno prospettive di sviluppo trattamentale e di partecipazione ad attività le quali, anche se proposte dal volontariato o dalla Comunità esterna, non sono realizzabili per problematiche organizzative legate ai divieti di incontro con i detenuti AS3, alla mancanza di spazi idonei e alle note questioni di disponibilità di personale addetto alla sorveglianza che possa permettere una “apertura” alle attività che vada oltre al normale, e ristretto, orario attuale che va dalle 9.00 alle 15.00 con un’ora di pausa.

Solo a titolo di esempio rispetto a quanto esposto si vuole ricordare che ad oggi risulta essere non rispettata l’ordinanza di ottemperanza N. 2014-4127 Sius – N. 2014/1743 Ord emessa in data 15 luglio 2014 dal competente Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia a seguito di reclamo presentato da un detenuto, ancora presente a Parma, ai sensi dell’art. 35 della legge 26 luglio 1975. In tale ordinanza il Magistrato concedeva al detenuto di potere studiare in una sala dedicata e fornita di PC personale per un numero di ore discreto oltre alle ore di aria previste dal R.E.

Per quanto illustrato si chiede alle SS.VV. di volere scongiurare il piano di trasferimento di detenuti AS1 presso il penitenziario di Parma al fine di garantire il livello attuale dei diritti dei detenuti anche se non del tutto soddisfacente e non sempre conforme ai dettami normativi.

Roberto Cavalieri (Garante dei detenuti di Parma)

Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2015

Padova, detenuto calabrese morì in cella. Il Pm chiede l’archiviazione del caso


Casa Circondariale di Padova“Errori innegabili dei medici, ma non hanno inciso sul decesso del paziente”. Innegabili gli errori di 5 medici in servizio nel carcere Due Palazzi, secondo la procura di Padova. Ma, comunque, tali errori non hanno condizionato la perforazione dell’intestino destinata a innescare una setticemia mortale. Ecco perché il pm Francesco Tonon, titolare dell’inchiesta, ha sollecitato l’archiviazione del procedimento penale avviato a carico dei sanitari per la morte di Francesco Amoruso, originario di Crotone, detenuto nel carcere di Padova, ucciso a 45 anni da una peritonite stercoracea, una perforazione di un tratto dell’intestino con infiammazione del peritoneo, dovuta alla fuoriuscita di feci e batteri.

L’uomo – che stava scontando una condanna per rapina, omicidio e reati legati allo spaccio di droga, fine pena il 15 luglio 2023 – aveva cominciato a stare male il 6 marzo 2014: cinque visite nell’arco di 24 ore e dolori sempre più forti curati con Buscopan, un antidolorifico. Troppo tardi. Ricovero il 7 marzo, poi la morte l’indomani. “Non sono emersi elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio nei confronti dei sanitari della casa di reclusione che hanno avuto in cura il paziente…” si legge nella richiesta di archiviazione trasmessa all’ufficio gip, richiamando le conclusioni dei due consulenti tecnici della procura, il dottor Matteo Corradin di Bologna e il professor Massimo Montisci di Padova. Entrambi gli specialisti hanno escluso che gli errori – sia diagnostici (non è stato approfondito il quadro clinico) sia per quanto riguarda l’evoluzione della patologia (non sono stati ordinati esami) – abbiano inciso nella perforazione che ha scatenato l’infezione dovuta a un’ulcerazione dell’intestino in seguito a costipazione cronica. Perforazione che sarebbe avvenuta nelle 24 ore successive al primo sanguinamento. E se Amoruso fosse stato subito trasferito in ospedale? La colonscopia non sarebbe stata eseguita che tra le 12 e le 48 ore successive perché, prima che la situazione precipitasse, c’era un quadro clinico non di emergenza.

Cristina Genesin

Il Mattino di Padova, 8 maggio 2015

Padova: droga e telefonini in carcere, arrestati altri Agenti di Polizia Penitenziaria


Carcere di PadovaAccusate di corruzione e spaccio: avrebbero rifornito i detenuti di Sim card, cellulari e sostanze stupefacenti. Un’altra bufera si è abbattuta sulla Casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Dopo gli arresti di luglio, quando sono stati coinvolti cinque agenti penitenziari e una decina di detenuti, ieri all’alba la Squadra mobile ha stretto le manette ai polsi a due secondini. Altri due invece sono stati denunciati a piede libero.

Tutti e quattro, di un’età compresa tra i 35 e i 38 anni, sono stati accusati di corruzione e spaccio di sostanza stupefacente all’interno del carcere. Dei due arrestati uno è finito agli arresti domiciliari, mentre per l’altro il provvedimento restrittivo è stato poi modificato nel divieto di dimora a Padova e provincia. I quattro, secondo l’accusa, rifornivano i detenuti di Sim card, telefoni cellulari e droga. Il direttore del carcere Salvatore Pirruccio ha così commentato: “Ancora non ho letto nessun atto e quindi non posso esprimere alcun giudizio sulla vicenda”.

Il primo filone di indagini è partito a luglio, dove gli inquirenti hanno indicato come il numero uno dell’organizzazione criminale nella casa di reclusione l’agente Pietro Rega, detto “Capo” o “Uomo brutto”, molto vicino al pericoloso detenuto albanese Adriano Patosi. Il secondino, già arrestato per fatti analoghi nel 2001 dalla Dda di Napoli quando lavorava nel carcere di Avellino, si procurava la droga assieme a un collega contattando spacciatori nordafricani.

Lo stupefacente finiva nelle mani dell’albanese che gestiva poi le ulteriori cessioni all’interno del Due Palazzi. Le due guardie trattenevano per sé un quantitativo di droga come guadagno per la loro attività di spaccio. Gli altri canali di rifornimento per lo stupefacente, i telefoni cellulari e le Sim card facevano invece capo a due esponenti della malavita organizzata che si dividevano i profitti. Si tratta di Gaetano Bocchetti esponente del clan camorristico di Secondigliano e di Sigismondo Strisciuglio della Sacra Corona Unita.

I due boss rifornivano di soldi gli agenti penitenziari ottenendo in cambio hashish, eroina, ma anche chiavette Usb, computer e telefoni cellulari, con cui poter mantenere senza difficoltà i contatti con le rispettive organizzazioni criminali. Adesso queste ulteriori indagini condotte dal pubblico ministero Sergio Dini sono scaturire da una costola della precedente inchiesta, ma potrebbero svelare una nuova inquietante realtà all’interno del carcere Due Palazzi di Padova.

Marco Aldighieri

Il Gazzettino, 5 marzo 2015

Padova: cella troppo piccola, detenuto risarcito con 4.800 euro e sconto di pena


Casa Circondariale di PadovaPrima applicazione del decreto voluto dall’Europa contro la “detenzione inumana”. Ad un carcerato albanese condannato a 6 anni, liquidati 4.808 euro: era stato detenuto 701 giorni in meno di 3 metri.

Risarcimento di 4.808 euro per 601 giorni di detenzione in condizioni inumane di sovraffollamento carcerario, e 10 giorni di detrazione della pena sui residui 100 giorni che ancora gli restavano da scontare: è la prima applicazione a Padova del “rimedio compensativo” introdotto dal decreto legge 92 del 26 giugno per placare Strasburgo ed evitare una raffica di condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei Diritti dell’uomo, che con le sentenze Sulejmanovic il 16 luglio 2009 e Torreggiani l’8 gennaio 2013 aveva indicato in 3 metri quadrati per detenuto lo spazio minimo in cella sotto il quale la detenzione diventa automaticamente “trattamento disumano e degradante”, cioè tortura.

Il decreto legge introduce una riduzione di pena di 1 giorno di detenzione per ogni 10 giorni trascorsi in condizioni inumane, oppure il risarcimento di 8 euro al giorno se la detenzione si è già conclusa. Ad oggi, tuttavia, pur a fronte di parecchie migliaia di richieste già formulate dai detenuti in tutta Italia, molti uffici di Sorveglianza o non hanno ancora maturato un orientamento (come Milano e Napoli, che per priorità lavorano intanto sullo smaltimento delle istanze di “liberazioni anticipata” passibili di determinare l’urgente messa in libertà dei detenuti richiedenti); oppure stanno adottando – come a Vercelli – una linea restrittiva che sfocia in molte dichiarazioni di inammissibilità dei ricorsi.

Diversa l’interpretazione a Padova, e in genere nel distretto di Venezia come pure a Genova. Nel caso esaminato dalla giudice di sorveglianza Linda Arata, un carcerato albanese condannato a 6 anni (per associazione a delinquere, prostituzione minorile, violenza privata e falsa testimonianza) lamentava tutta la propria attuale detenzione nella casa di reclusione di Padova. La giudice ha però circoscritto il titolo di risarcimento al periodo in cui si è ricostruito che il detenuto era stato in cella con altre due persone, situazione che faceva scendere lo spazio disponibile pro capite a 2 metri e 85 centimetri: misura nella quale la giudice, in dissenso dal ministero della Giustizia che ora ha fatto reclamo contro l’ordinanza, ha escluso il bagno “in quanto mero vano accessorio della camera detentiva”, e “gli arredi inamovibili come l’armadio”, conteggiando invece “letto e tavolino e sgabelli in quanto arredi che possono essere spostati”.

Con questi paletti sono risultati 701 i giorni trascorsi in cella dal detenuto albanese in condizioni disumane. Dall’esecuzione della pena residua di 100 giorni la giudice gli ha allora detratto 10 giorni (appunto uno ogni dieci), tolti i quali il detenuto è tornato in libertà il 2 settembre. Per gli altri pregressi “601 giorni di detenzione in condizioni di illegalità”, la giudice ha “applicato il criterio di liquidazione residuale del risarcimento predeterminato dal legislatore” di 8 euro al giorno, per un totale quindi di 4.808 euro.

Luigi Ferrarella

Corriere della Sera, 25 settembre 2014

La quotidiana strage nelle galere italiane ….. e gli italiani in Carcere all’estero


Ascoli 3A. L., italiana, 42 anni, in carcere dal 2011 per una serie di reati comuni ed aveva problemi di dipendenza dalle droghe, negli ultimi tempi, dicono, aveva manifestato un forte disagio tanto da essere, proprio per questo, sottoposta in carcere alle misure previste in questi casi.

L’altro giorno ha deciso di farla finita, si è lasciata andare, non voleva più vivere; e dire che fra qualche mese, il 1 dicembre, sarebbe uscita di galera. Quattro mesi di attesa insopportabili, in quella cella del carcere di Civitavecchia, più insopportabili della morte. Oppure è stato proprio il pensiero che sarebbe dovuta uscire, e che avrebbe dovuto riprendere la vita che l’aveva portata in carcere; e ha così preferito “chiudere”…vai a sapere.

Angiolo Marroni, garante dei detenuti della regione Lazio, commenta: “Una persona che, a poche settimane dal fine pena, decide di negarsi in maniera tanto drammatica ogni speranza per il futuro dovrebbe farci riflettere sulla reale capacità della pena di tutelare i detenuti e di garantirne il pieno recupero”. Ancora un episodio che dovrebbe far riflettere sull’utilità della detenzione per i tossicodipendenti e, più in generale, per tutti coloro che sono affetti da malattie. “Il carcere è un ambiente duro che piega la resistenza dei più forti, figurarsi di quanti vivono una situazione di disagio psicologico”, dice Marroni: “Credo che il carcere non sia la risposta migliore ai problemi delle persone malate e che non basti diminuire le presenze per avere condizioni più umane di detenzione. La differenza sta nella funzione trattamentale e nell’individuare la soluzione più efficace a garantire i diritti dei reclusi, garantendo la continuità di trattamento anche quando finisce la detenzione. Per questi casi, la soluzione migliore può essere il ricorso a misure alternative alla detenzione come il ricovero nelle comunità terapeutiche, che sicuramente hanno maggiori professionalità per accogliere queste persone”.

La “notizia” del suicidio è stata data dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Il segretario Donato Capece, nel darla, ne ha fornito un’altra non meno inquietante: “È purtroppo il quarto caso in pochi anni che si verifica nella sezione femminile del carcere. Un Reparto il cui Ispettore coordinatore (un uomo) è spesso impiegato in altri servizi d’istituto. Questo episodio deve far capire all’Amministrazione penitenziaria l’importanza di avere un coordinatore stabile del settore detentivo femminile, magari destinando in quell’incarico un Ispettore di Polizia Penitenziaria femminile”.

Che al ministero della Giustizia non si batta ciglio di fronte a situazioni di questo tipo, è inquietante. Ma non solo. Si viene a sapere che “negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita ad oltre 17.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 119mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo. Numeri su numeri che raccontano un’emergenza ancora sottovalutata, anche dall’Amministrazione penitenziaria che pensa alla vigilanza dinamica come unica soluzione all’invivibilità della vita nelle celle senza però far lavorare i detenuti o impiegarli in attività socialmente utili”.

Si può ripetere? 17mila tentativi di suicidio sventati in vent’anni, quasi mille l’anno. 119mila atti di autolesionismo…

La lettera che segue la scrive Carmelo Musumeci, detenuto nel carcere di Padova, uno di quelli del “fine pena mai”. Da sola si commenta: “L’Italia è veramente uno strano paese dove la matematica non è una scienze esatta. E nelle galere italiane si usa la matematica fai da te. A secondo del governo di destra, di centro o di sinistra, e il ministro della giustizia che lo rappresenta, i posti letti in carcere aumentano e diminuiscono come per magia. Fino a poco tempo fa i posti letto erano 38.000 (Fonte: Associazione Antigone, confermati dall’allora Ministra della Giustizia, Annamaria Cancellieri). Dopo qualche mese i posti letto erano diventati 43.000 (Fonte dall’inchiesta di “Reporter” per Rai 3). E con meraviglia l’altro giorno ho letto che i numeri dei posti letto erano di nuovo cambiati: “(…) I dati, aggiornati al 31 luglio, del Ministro della Giustizia indicano nei 204 penitenziari 54.414 detenuti a fronte di 49.402 posti”(Fonte: Il Gazzettino, domenica 3 agosto 2014).

Penso che neppure Gesù riuscirebbe a moltiplicare i posti letto come fanno i funzionari del Dipartimento Amministrativo Penitenziario. Credo che gli italiani siano famosi nel mondo per la loro creatività ma penso che negli ultimi tempi la maggioranza dei posti letto in carcere si siano moltiplicati facendo diventare doppie le celle singole e quintuple quelle triple. Bugie e semplificazioni sul carcere se ne sentono tante e ancora l’altro giorno ho letto “Detenuto suicida con la bombola a gas Il sindacato degli agenti di Polizia ha chiesto che siano vietate”.

Come se uno non si potesse suicidare impiccandosi con le lenzuola, o con le maniche di una camicia. E come proporre di non costruire più automobili perché nelle strade italiane ci sono troppi decessi per incidenti di macchine. Se si levassero i fornellini a gas nelle prigioni come farebbero i detenuti a mangiare? Non lo sa il sindacato degli agenti della Polizia penitenziaria che il cibo che passa l’Amministrazione dell’istituto non basterebbe neppure per i topi che vivono in carcere?

Quante cose inesatte si dicono e si leggono sul carcere, ma è normale perché parlano tutti fuorché i carcerati. Sempre l’altro giorno sull’ultimo suicidio che è accaduto nel carcere di Padova, ho letto che il segretario generale del sindacato autonomo di Polizia penitenziaria denuncia carenze negli organici: “Come può un solo agente controllare 80 o 100 detenuti?”. A parte che sono i detenuti che controllano la Polizia penitenziaria – perché non potrebbe essere altrimenti – come farebbe un solo agente da solo a controllare ottanta o cento detenuti senza l’aiuto e il consenso degli stessi prigionieri?

Se le carceri non scoppiano, e i detenuti preferiscono ammazzarsi piuttosto che spaccare tutto come facevano nel passato, è merito della crescita interiore dei detenuti, o forse della loro rassegnazione, o, quasi certamente, della quantità di psicofarmaci e tranquillanti che vengono erogati. E trovo di pessimo gusto approfittare dei morti ammazzati di carcere per chiedere miglioramenti sindacali di organico e finanziari.

Noi non abbiamo bisogno di agenti penitenziari piuttosto abbiamo necessità di educatori, psicologi, magistrati di sorveglianza e di pene alternative. Ricordo a proposito che per i detenuti che scontano l’intera pena la recidiva sale al 70%, invece per chi sconta pene alternative al carcere la recidiva non supera il 12%. Solo così aumenterebbero realmente i posti letto e diminuirebbero i detenuti nelle carceri italiane, non certo con la matematica fai da te”.

Si può chiudere con un libro. Un libro che fa male leggere, ti sprofonda in realtà di cui poco si parla e di conosce. Si ignorano, infatti (o si preferisce ignorare), la condizione cui sono costretti a vivere i circa tremila italiani attualmente detenuti all’estero, talvolta in spregio al diritto internazionale e nell’inadempienza dei nostri consolati.

Pochi, probabilmente sanno che “l’American Dream” per un italiano si può trasformare in un incubo vissuto per anni dietro le sbarre, con il rischio di finire su una sedia elettrica o ucciso da un’iniezione; o che dietro il miraggio delle spiagge di Santo Domingo può nascondersi un “imprevisto” fatale. Oppure che il fascino di Paesi come India e Thailandia può celare aspetti oscuri e brutali.

“Le voci del silenzio. Storie di italiani detenuti all’estero” di Fabio Polese e Federico Cenci (Eclettica Edizioni, prefazione di Roberta Bruzzone), racconta le condizioni che affliggono circa 3mila italiani nel mondo, per lo più sconosciuti.

“Ci siamo accorti”, spiegano Polese e Cenci, “che ad alcune disavventure giudiziarie, in cui erano incappati nostri connazionali all’estero, non veniva dedicato nessun spazio rilevante, né da parte dei media, né da parte delle nostre istituzioni. E così abbiamo provato a colmare noi questo vuoto, iniziandoci ad occupare del tema, cercando storie e testimonianze” Ed ecco, pagina dopo pagina, sfilare sotto i nostri occhi i casi e le vicende di Carlo Parlanti, Enrico Forti, Derek Rocco Barnabei, Mariano Pasqualin, Fernando Nardini, Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni con interviste dirette agli involontari protagonisti o ai loro familiari… Parlanti, per esempio, è rientrato in Italia dopo aver scontato quasi tutta la sua pena negli Stati Uniti; Nardini anche lui è rientrato nel nostro Paese dopo essere stato finalmente dichiarato innocente nel terzo grado di giudizio thailandese…

Un lavoro non ha la presunzione di fungere da giudice e dichiarare l’innocenza a spada tratta degli italiani detenuti all’estero, ma intende dar voce a chi non ce l’ha: “Crediamo sia un atto doveroso nei confronti di chi è rinchiuso in pochi metri quadri di cemento armato in qualche angolo sperduto del mondo. Ogni storia tra quelle che abbiamo trattato possiede aspetti toccanti.

Tuttavia la storia di Mariano Pasqualin, un giovane ragazzo di Vicenza arrestato per traffico di stupefacenti a Santo Domingo, è quella che ci è rimasta più impressa. In una galera del posto, dopo pochi giorni dal suo arresto, ha trovato la morte in circostanze molto dubbie.

Nonostante la richiesta della famiglia di far rientrare la salma in Italia per effettuare un’autopsia che ne svelasse le cause del decesso, le autorità della Repubblica Dominicana hanno, senza autorizzazione, deciso di cremare il corpo e spedire in Italia le ceneri. Sua sorella Ornella ci ha trasmesso una grande forza d’animo, ma anche il dolore lacerante che ha colpito tutta la loro famiglia”.

L’Annuario statistico 2013 pubblicato dalla Farnesina “censisce” in 3.103 gli italiani detenuti oltre confine. In particolare 2.323 italiani sono imprigionati nei Paesi dell’Unione europea, 129 nei Paesi extra-Ue, 494 nelle Americhe, 64 nella regione mediterranea e in Medio Oriente, 17 nell’Africa sub-sahariana e 76 in Asia e Oceania.

In Europa il record degli italiani detenuti se lo aggiudicano le carceri tedesche che ospitano 1.115 nostri connazionali, segue la Spagna con 524. Nel resto del mondo, il maggior numero di detenuti italiani si trova in Venezuela con 81 persone recluse nelle carceri amministrate dal governo di Caracas. “Purtroppo la nostra diplomazia”, dicono Polese e Cenci, “in tutte le parti del mondo, anche secondo le testimonianze che abbiamo raccolto per la stesura del libro, è spesso assente e in alcuni casi impreparata ad affrontare certe situazioni”.

Valter Vecellio

http://www.lindro.it, 30 agosto 2014

Padova: il detenuto suicida fu picchiato da altri carcerati su ordine degli Agenti Penitenziari


Cella Carcere ItaliaIl 44enne leccese si era impiccato nella sua cella di Padova lo scorso 25 luglio, dopo aver riferito agli inquirenti di essere stato aggredito da altri carcerati su mandato degli agenti coinvolti nel giro di droga. Avrebbe voluto uscire dal “giro” di droga che avveniva all’interno del carcere Due Palazzi di Padova in cui rivestiva il ruolo di consegnare lo stupefacente agli altri detenuti. Un’intenzione che gli sarebbe costata, come punizione, il pestaggio da parte di alcuni carcerati su ordine degli agenti di polizia penitenziaria coinvolti nell’illecito business.

La presunta violenta aggressione era stata riferita dalla stessa vittima – un 44enne leccese condannato a più di 20 anni per omicidio e sequestro di persona – agli inquirenti nel suo ultimo interrogatorio, dopo il quale lo scorso 25 luglio si era suicidato impiccandosi all’interno della sua cella. Una rivelazione che aggiunge un nuovo tassello e nuove accuse nell’ambito dell’inchiesta che l’8 luglio scorso aveva portato all’arresto di un avvocato e 6 guardie penitenziarie in servizio nella struttura padovana. La Procura ha iscritto nel registro degli indagati sei detenuti e due guardie – queste ultime già indagate per il giro di droga – con l’accusa di concussione in concorso. Lo scorso 11 agosto si era suicidato, tagliandosi le vene, anche un altro degli indagati, una guardia 40enne, nella stanza del carcere dove si trovava agli arresti domiciliari.

http://www.padovaoggi.it, 19 agosto 2014