Il Direttore de “Il Giornale” Alessandro Sallusti chiede al Procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri se «Mille arresti ingiustificati all’anno li trova una cifra fisiologica o forse c’è un problema?» e lui risponde «No, non c’è problema. E’ fisiologico, è fisiologico.»
In realtà Sallusti sbaglia: le persone arrestate e poi assolte ogni anno sono circa 7.000. Oltre 1.000, invece, sono quelle che, ogni anno, vengono indennizzate per la ingiusta detenzione subita.
I Magistrati sbagliano tanto. Ma per Gratteri «non c’è problema» che migliaia di innocenti vengano sottoposti a “carcerazione preventiva” (con tutte le conseguenze negative per la vita personale, professionale e familiare, per la salute psichica, etc.) e poi assolti. Niente, si tratta di una «cifra fisiologica». Nessun problema nemmeno per gli indennizzi cioè per tutti i soldi spesi dai cittadini per risarcire le vittime della (Mala)giustizia.
Negli ultimi 27 anni, dal 1992 ad oggi, 27.308 persone sono state arrestate e poi assolte. Errori (ed abusi) dei Magistrati che sono costati ai cittadini italiani ben 790 milioni di euro di indennizzi, circa 30 milioni in media ogni anno.
A guidare la classifica è sempre il Distretto di Catanzaro, quello in cui opera il Procuratore Nicola Gratteri (solo nel 2018 vi sono stati 182 casi di riparazione per ingiusta detenzione con esborso di 10.378.137 euro – oltre il 30% – a fronte di 895 riparazioni a livello nazionale com esborso di 33.373.832 euro).
Custodia Cautelare
Le Carceri italiane costano quasi 2,6 miliardi di euro, record di spesa nell’Unione Europea
Quasi 2,6 mld di euro. Sono questi i soldi che ogni anno la collettività spende per i detenuti nelle carceri italiane. Un totale che deriva dal costo medio giornaliero di ognuno degli oltre 50mila detenuti nei penitenziari nazionali, secondo i dati del 2016. È quanto emerge elaborando i numeri resi noti da Openpolis nel minidossier “Dentro o fuori – Il sistema penitenziario italiano tra vita in carcere e reinserimento sociale”.
Un costo che potrebbe vedere una netta diminuzione in caso si arrivasse a provvedimenti di indulto o amnistia, come quelli nei cassetti della Commissione Giustizia del Senato, dove sono quattro i disegni di legge all’esame.
Per gli “ospiti” dei penitenziari italiani si spendono poco più di 140 euro al giorno (141,80 nel 2014): di questi, meno di 10 euro servono per mantenere i detenuti, mentre oltre 100 euro servono a coprire le spese per il personale. Le spese per beni e servizi comprendono le utenze, la manutenzione ordinaria degli immobili, la formazione del personale, i rimborsi per le trasferte, l’uso dei mezzi di trasporto.
Un costo che, dopo essere salito fino a 190 euro nel 2007, risulta compresso di molto tra 2009 e 2011, sia per i tagli al bilancio sia per l’aumento dei carcerati e nel 2013 si attestava attorno ai 124 euro. Dai dati del 2014, l’Italia risulta il paese dove il costo giornaliero per detenuto è più alto (141,80 euro). Tra i paesi europei, seguono il sistema penitenziario inglese (109,72 euro), quello francese (100,47 euro) e quello spagnolo (52,59 euro per carcerato al giorno).
In Italia, inoltre, c’è il maggior numero di dipendenti dell’amministrazione penitenziaria in rapporto ai detenuti (40.176). Per ogni dipendente dell’amministrazione penitenziaria ci sono 1,4 detenuti, mentre sono 1,5 i carcerati per ogni agente di custodia. Altra caratteristica del sistema penitenziario italiano è che i suoi dipendenti sono in massima parte agenti di custodia (90,1%). In Inghilterra e Spagna il personale ha una formazione più eterogenea, con maggiore presenza di insegnanti, formatori professionali, mediatori culturali, psicologi.
Dopo anni di immobilismo, la politica è intervenuta sulle carceri, evitando gli effetti di condanne internazionali. La situazione è migliorata, ma molto resta ancora da fare. Uno sguardo al sistema penitenziario italiano, dentro e fuori gli istituti, nel nuovo minidossier openpolis.
Le riforme degli ultimi anni. L’obiettivo dei provvedimenti che si sono succeduti dal 2010, sotto governi di diverso colore politico, è sempre stato quello di contenere il sovraffollamento, attraverso una duplice strategia: 1) la costruzione di nuove carceri e l’allargamento di quelle esistenti; 2) l’ampliamento delle misure alternative al carcere. Il primo obiettivo è largamente fallito: appena l’11% del budget previsto dal piano carceri è stato speso, e solo il 37% dei posti aggiuntivi è stato realizzato nei tempi previsti. Gli interventi normativi, invece, hanno prodotto alcuni risultati di rilievo. Le statistiche che ci mettevano agli ultimi posti in Europa per condizioni dei detenuti sono migliorate. Ma restano ancora molti i punti critici da affrontare.
Il sovraffollamento. In passato il sovraffollamento è stato contenuto con provvedimenti di clemenza e altri atti simili, quasi mai risolutivi. Con le riforme degli ultimi anni, è sceso dal 151% del 2010 all’attuale 108%. Nonostante i miglioramenti, però, restiamo il sesto sistema penitenziario più affollato in Europa. E se si guardano i dati dei singoli istituti, 2/3 delle carceri italiane risultano ancora sovraffollate. In alcuni casi i detenuti sono quasi il doppio dei posti letto disponibili.
I suicidi. Pochi dati mettono il luce il disagio delle carceri come quello dei suicidi, un dramma che coinvolge sia i detenuti che gli agenti di custodia. Negli anni di massimo sovraffollamento, tra 2009 e 2011, si sono suicidati quasi 60 detenuti ogni anno, nel 2015 sono scesi a 39. Dal 2009, gli istituti con più suicidi sono stati Poggioreale, Sollicciano e Rebibbia. Il metodo di uccisione più frequente è l’impiccamento, registrato nel 77% dei casi.
Carcerazioni preventive. Agli inizi degli anni ‘90, oltre la metà di coloro che stavano in carcere erano imputati, cioè privi di una condanna definitiva (56%). Oggi questa quota è scesa al 34%; di questi, circa la metà (17%) sono persone in attesa del primo giudizio e non hanno ricevuto alcuna condanna. Sono saliti a 2/3 i detenuti che si trovano in carcere con una condanna definitiva.
Le misure alternative. Il tasso di recidiva, ovvero la quota di detenuti che, una volta liberati, tornano a commettere nuovi reati, mostra un calo significativo se il condannato sconta l’ultima parte della pena con misure alternative al carcere. Queste ultime sono state molto potenziate, ma tra i grandi paesi europei il nostro resta l’ultimo per ricorso alle misure alternative: in Italia sono il 45% dei condannati contro oltre il 70% di Germania e Francia e il 64% in Inghilterra e Galles.
Rieducazione in carcere. La quota di detenuti che lavorano rimane molto bassa, inferiore al 30%, e le mansioni offerte difficilmente daranno la possibilità di un reinserimento una volta usciti dal carcere. La partecipazione ai corsi professionali si è dimezzata rispetto ai primi anni ‘90: era all’8% mentre oggi è al 4%. In compenso è aumentato il numero di promossi tra i partecipanti, dal 36% del 1992 a oltre l’80% attuale.
I costi del sistema. Il nostro sistema penitenziario ha un costo giornaliero per detenuto superiore a quello degli altri stati: 141,80 euro contro 100,47 della Francia, 109,72 di Inghilterra e Galles e 52,59 della Spagna. Nel 2013, solo il 7,5% del budget dell’amministrazione penitenziaria è servito al mantenimento dei detenuti, mentre l’82% ha coperto le spese per il personale. In Italia ci sono 1,4 detenuti per ogni dipendente, mentre negli altri paesi considerati il rapporto è di 2,6 a 1. Oltre il 90% del personale nelle carceri italiane è un agente di custodia.
Dentro o Fuori – Dossier di Openpolis sulle Carceri italiane
Fatta la riforma, gabbato il Ministro. Italia resta Paese della carcerazione preventiva
Fin dall’inizio, uno si domanda se la vera vergogna siano i dati in sé, oppure il fatto che appena un tribunale su tre abbia deciso di rispondere al ministero della Giustizia. Perché la richiesta del ministro Andrea Orlando era sacrosanta: Orlando aveva chiesto agli uffici giudiziari di tutta Italia di raccontare come abbia funzionato la custodia cautelare nell’ultimo anno.
Non era una curiosità peregrina. Il ministro voleva sapere quali effetti avesse avuto la legge 47 del 16 aprile 2015, entrata in vigore lo scorso 8 maggio, che ha introdotto significative modifiche al codice di procedura penale rendendo più stringenti le regole che stabiliscono la custodia in carcere. Ed è la stessa legge 47 che prevede l’analisi di funzionamento, perché il governo deve presentare una relazione al Parlamento entro il 31 gennaio di ogni anno. Ebbene, a Orlando hanno (vergognosamente) risposto appena 48 uffici giudiziari su 136: prevalentemente si tratta di tribunali piccoli, l’unica eccezione la fa Napoli. E soltanto sette uffici corrispondono a direzioni distrettuali antimafia.
Passando poi ai dati, la vergogna aumenta. Sulle 12.959 misure cautelari personali disposte da questi 48 tribunali, la custodia cautelare in carcere è stata decisa in 6.016 casi: il 46 per cento del totale. Gli arresti domiciliari sono stati 3.704 (il 29 per cento dei casi), l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria ha riguardato altri 1.430 casi, l’11 per cento. Gli avvocati penalisti, associati nell’Unione delle camere penali, sono più che delusi: “Il risultato dell’indagine – protesta Beniamino Migliucci, che dell’Ucpi è presidente – è così parziale da non consentire, anche per via della natura del tutto casuale della selezione del campione, di conferire a quel dato un significato in qualche modo rappresentativo della realtà”.
Ma i penalisti correttamente lamentano che resta altissimo (nonostante il commento favorevole del ministero), il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Del resto, che anche dopo le restrizioni della legge 47 poco meno della metà del totale delle misure porti un cittadino in cella è statistica letteralmente impensabile per gli altri paesi europei: e questo avviene nonostante il legislatore abbia sempre inteso l’adozione del carcere da parte del giudice come extrema ratio.
E il braccialetto elettronico? A leggere le tabelle del ministero, inoltre, si comprende che tra le oltre 6 mila custodie cautelari disposte in carcere quelle determinate da una condanna definitiva sono state soltanto 845, una su cinque. Quindi i detenuti che in questi ultimi mesi sono andati a occupare una cella sono in stragrande maggioranza imputati in attesa di giudizio: presunti innocenti. E sempre interpretando le tabelle si capisce che in un solo anno (con durate che non è dato conoscere) sono maturate le condizioni per quasi 200 ingiuste detenzioni presso il solo tribunale di Napoli.
In tutto questo, viene da domandarsi che fine abbia fatto il mitico “braccialetto elettronico” di cui si favoleggia da decenni. In base alle ultime statistiche, in Italia dovrebbero esisterne 2 mila, ma non si sa se vengano tutti utilizzati, né come. Aveva fatto scalpore, a metà del 2015, il caso di un detenuto: il giudice aveva ordinato di farlo uscire di prigione e dargli gli arresti domiciliari, ma la carenza di braccialetti lo aveva inesorabilmente respinto in cella. In compenso, i braccialetti costano 11 milioni di curo l’anno (5.500 euro l’uno), che vanno a sommarsi ai 110 milioni circa che dal 2001 al 2011 lo Stato aveva versato a Telecom, titolare del servizio, per la “sperimentazione” su 114 braccialetti.
Maurizio Tortorella
Tempi, 9 settembre 2016
L’Unione Camere Penali indaga sulla custodia cautelare. Il Presidente Migliucci scrive a tutte le Camere Penali
Ai Presidenti delle Camere Penali
Loro Sedi
Caro Presidente,
sono lieto di renderTi partecipe – e per Tuo tramite, tutti gli iscritti alla Camera Penale da Te presieduta – di una nuova iniziativa politica che l’Unione ha deliberato di assumere, alla quale io e la Giunta che ho l’onore di presiedere annettiamo grande importanza, e che richiede, per la sua riuscita, la diretta e fattiva partecipazione di tutte le Camere Penali italiane.
E’ infatti giunta l’ora di raccontare – all’ opinione pubblica, alle istituzioni parlamentari, alle forze politiche – la verità sull’uso che quotidianamente viene fatto nel nostro Paese, nella concreta amministrazione della giustizia penale, dell’istituto della custodia cautelare.
E’ una verità che i penalisti italiani, beninteso, conoscono alla perfezione, grazie alla propria quotidiana esperienza professionale; ed è la verità di un abuso ordinario e sistematico di uno strumento che invece legge e Costituzione impongono categoricamente come eccezionale e residuale. Ma, appunto, il problema politico che ci siamo posti è: come la possiamo raccontare, questa verità, in modo che non possa essere liquidata come un punto di vista, fazioso ed interessato, degli avvocati penalisti, ma sia invece disvelata nella sua rigorosa, non controvertibile oggettività?
L’UCPI già raggiunse con successo, nel 2008, un analogo obiettivo politico: la ricerca sull’udienza dibattimentale, realizzata insieme all’Istituto Eurispes con la decisiva collaborazione di un gran numero di Camere Penali, demolì una volta per tutte la menzogna che pretendeva di attribuire ad un supposto eccesso di garanzie difensive la irragionevole durata dei processi penali.
E noi vogliamo – o almeno, questa è la nostra ambizione- esattamente replicare quel successo politico, questa volta in tema di abuso della custodia cautelare, e di malfunzionamento dei meccanismi procedimentali deputati al controllo della legittimità delle misure custodiali.
Per tali ragioni, sin dal suo insediamento questa Giunta ha ritenuto prioritario dotarsi di uno strumento deputato proprio alla raccolta dei dati statistici sul funzionamento e sulla amministrazione della giustizia penale in Italia: l’Osservatorio Dati, affidandone la responsabilità a Gian Domenico Caiazza, che già aveva organizzato e coordinato la “ricerca Eurispes” nel 2007-2008.
Ebbene, in questi mesi i (numerosi) Colleghi componenti di quell’Osservatorio (espressione di tutte le 24 Camere Penali residenti nelle città sede delle Corti di Appello), hanno con grande impegno lavorato alla predisposizione degli strumenti indispensabili per la realizzazione di questa grande indagine nazionale, che si realizzerà mediante due distinti, ma ovviamente convergenti, strumenti di acquisizione dei dati.
Il primo nasce dalla collaborazione tra l’Osservatorio e l’Ufficio Statistica del Ministero di Giustizia, che ha prodotto la condivisa elaborazione di un complesso catalogo di query, cioè di interrogazioni in tema di custodia cautelare e di procedimenti cautelari, che verranno ora poste ai sistemi informatici ed agli uffici statistici degli uffici giudiziari territoriali, prima nelle sedi-pilota di Palermo e Milano, e poi su tutto il territorio nazionale.
Il secondo nasce grazie alla collaborazione scientifica, preziosa ed ovviamente indispensabile, con il Dipartimento di scienze statistiche dell’Università “Sapienza” di Roma, e consiste nella realizzazione di un sofisticato questionario on line, destinato alla interrogazione di un preciso campione statistico di avvocati penalisti italiani.
Il questionario, la cui davvero complessa articolazione ha richiesto molti mesi di lavoro, costituisce ora lo straordinario strumento scientifico attraverso il quale gli avvocati italiani, ricostruendo le vicende cautelari direttamente patrocinate negli anni 2013 e 2014, potranno raccontare non un innocuo punto di vista, ma la deflagrante, oggettiva verità di questo ormai non più tollerabile scandalo della giustizia penale italiana, dal momento della richiesta della misura, alla sua esecuzione, alle esigenze che l’hanno motivata, a tutte le successive vicende procedimentali (Riesame, Appello, Cassazione, istanze di revoca e di sostituzione), fino all’esito (se nel frattempo intervenuto nell’arco di tempo considerato), del giudizio di merito, quantomeno del primo grado.
Come puoi constatare, caro Presidente, si tratta di una autentica impresa, considerata la mole monumentale dei dati che intendiamo raccogliere ed elaborare con rigore scientifico non controvertibile, e poi analizzare politicamente; ed è una impresa le cui possibilità di successo sono interamente nelle nostre mani. Qui, a differenza che nella ricerca Eurispes 2008, la natura dei dati che ci proponiamo di raccogliere non è pubblica, e dunque la raccolta non può che derivare dallo scrutinio accurato e rigoroso dei fascicoli, di studio o di ufficio, relativi alle vicende cautelari da noi patrocinate.
Dunque il successo di questa nostra iniziativa politica dipenderà, senza dubbio alcuno, dall’impegno che ciascuna Camera Penale italiana (coordinata, per distretto di Corte di Appello, dal rispettivo componente dell’Osservatorio), saprà assicurare per garantire le risposte al questionario da parte del numero di avvocati che a ciascuna di esse sarà assegnato di raggiungere.
Anche per questa ragione, nel corso del Congresso straordinario che si terrà a Cagliari dal 25 al 27 settembre 2015, effettueremo una presentazione della ricerca ed una dimostrazione delle modalità di compilazione del questionario on line.
Confidiamo dunque molto nel forte impegno della Tua Camera Penale, non solo per il raggiungimento dell’obiettivo politico immediato di questa ricerca, ma ancor più per vedere definitivamente affermata e riconosciuta ai penalisti italiani una ulteriore ragione di forza ed autorevolezza politica, cioè quella –ci auguriamo – di avere finalmente sconfitto il monopolio della Magistratura italiana sulla raccolta e la conoscenza dei dati relativi al funzionamento della giustizia penale italiana.
Gli avvocati penalisti italiani, caro Presidente, sono – letteralmente – seduti su una miniera di dati e di verità sul processo penale: noi vogliamo finalmente portarli alla luce, per costringere politica, istituzioni ed opinione pubblica a conoscerli, ed a misurarsi con essi.
RingraziandoTi per l’attenzione, formulo i miei più cordiali saluti.
Roma, 1 settembre 2015
Beniamino Migliucci
* Presidente Unione Camere Penali Italiane
Giustizia: custodia cautelare, oggi in vigore le novità, meno frequente il ricorso al carcere
Entrano in vigore oggi le nuove norme sulla custodia cautelare della legge 47/2015, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 94 del 23 aprile scorso.
Pur non essendo una vera e propria riforma – ma un intervento sul libro IV del codice di procedura penale oltre a un lieve ritocco alla legge penitenziaria 354 del 1975 – l’impatto sulla gestione della detenzione preventiva sarà verosimilmente importante.
Soprattutto nella fase di adozione delle misure, dove il giudice da oggi dovrà valutare autonomamente – senza più poter riprodurre pedissequamente le richieste del pm – il pericolo di fuga, che non potrà più essere apprezzato solo sulla sola base della gravità del reato per cui si procede. Se questo è il tema portante della revisione – tanto da fare ingresso anche nelle inchieste sulla criminalità mafiosa, dove non c’è più l’automatismo del carcere – non meno importante è il tema della “lieve entità del fatto” – un’armonizzazione con il decreto legislativo sulla improcedibilità delle condotte poco lesive – che fa venir meno anche la misura attenuata dei domiciliari.
Più difficile il ricorso al carcere diventa anche nelle ipotesi in cui si sospetta che un indagato possa commettere gravi delitti “con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”: qui il pericolo dovrà essere non più solo “concreto” ma anche “attuale”, e il giudice dovrà adeguatamente motivare la sua prognosi. La regola di giudizio per la detenzione preventiva è fissata dal comma 3 del nuovo articolo 275 del codice: “La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate”.
Debutta inoltre una disciplina più rigida sulla durata e sulla decadenza delle misure interdittive, che spirano dopo due mesi e possono essere rinnovate solo per effettive esigenze probatorie. Se impugnate al Riesame, le ordinanze perdono efficacia anche solo per violazione dei termini tassativi di trasmissione degli atti (5 giorni) da parte dell’autorità procedente.
L’eventuale rinnovazione, in questi casi, diventa molto difficile perché fondata solo su “eccezionali esigenze cautelari”. Termini perentori, inoltre, per il deposito della motivazione del Riesame: 30 giorni ordinari per l’arrivo in cancelleria, massimo 45 se il numero degli imputati o la gravità dei reati può giustificare il ritardo. Quanto alla legge penitenziaria, l’intervento consente da oggi la visita non solo al capezzale dei congiunti strettissimi in pericolo imminente di vita, ma anche il diritto alla visita al domicilio del figlio, coniuge o convivente “affetto da handicap in situazione di gravità”.
Alessandro Galimberti
Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2015
Carceri, ogni detenuto costa 150 € al giorno, l’83% è speso per gli stipendi del personale
Ogni detenuto è costato allo Stato italiano, nel 2014, 150 euro al giorno, mentre la Polonia ne spende solo 20. Sono i costi non proporzionati alla qualità del sistema il vero problema del sistema carceri: quasi tutto il bilancio dell’amministrazione penitenziaria del paese, circa l’83%, è speso in stipendi del personale motivo per cui restano fermi tutti gli altri interventi di edilizia e manutenzione delle strutture, formazione e lavoro.
Stabile il calo del numero dei detenuti nelle nostre carceri registrato in questi ultimi anni, la flessione che era iniziata nel 2010 con il riconoscimento dello stato di emergenza degli istituti per sovraffollamento carcerario. Dati che preoccupano l’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone che il 17 marzo scorso ha presentato il suo XI Rapporto sulle carceri del paese che l’Osservatorio visita annualmente, autorizzato dal Ministero della giustizia. Ombre ma anche luci di quella che resta ancora “una risposta costosa e inefficace alla delinquenza” nelle parole di Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio indipendente intervenuto a presentare il Rapporto “Oltre tre metri quadri” del 17 marzo scorso.
Titolo questo che ci dice che comunque lo spazio per detenuto si allarga un po’ visto che al 28 febbraio 2015 i detenuti restano 53.982 rispetto ai 66.897 della fine del 2011, anno nel quale sono stati presi i primi provvedimenti a scopo deflattivo. Un numero che in tre anni è sceso di 12.915 unità. Tra le luci che filtrano dalle sbarre delle nostre carceri, c’è quella che Scandurra definisce “la normalizzazione delle patologie di cui ha sempre sofferto il nostro sistema carcerario: troppi detenuti stranieri, troppe persone in custodia cautelare in attesa di pena detentiva, troppi detenuti per violazione della legge sulle droghe e troppi in carcere per fatti di lieve entità con condanne inferiori all’anno”.
Oggi ognuna delle tre categorie ha visto diminuire il suo totale visto che il taglio complessivo ha insistito prioritariamente su queste tre categorie. Schermature alle finestre mai rimosse e bagni a vista in oltre 100 istituti, nel solo Lazio water visibili dal corridoio in almeno quattro istituti. È ancora questa la condizione della vita carceraria nonostante il documento di indirizzo formulato nel 2013 dalla commissione ministeriale ad hoc istituita dall’allora ministro Severino dopo la sentenza di condanna europea Torreggiani che avrebbe dovuto rivoluzionare la vita carceraria buttando all’aria prassi stravecchie e sclerotizzate.
E se ormai le celle restano aperte per almeno otto ore durante il giorno, solo 14 istituti delle undici regioni monitorate da Antigone hanno spazi comuni per le attività insieme e in ogni caso si tratta di spazi sempre insufficienti. Su oltre 200, solo quattro istituiti tra Padova, Trieste, Volterra e Piazza Armerina usano Skype per le comunicazioni telefoniche, per tutti gli altri vale ancora una legge del ’75 che prevede solo penna, carta e francobollo come unici mezzi per comunicare con il mondo esterno. Ancora pochissime le cartelle cliniche digitali visto che per ricostruire la storia clinica di ogni paziente in carcere si combatte ancora con faldoni e faldoni di indecifrabili pagine ingiallite dal tempo. L’unica legge sulla libertà religiosa in carcere risale al 1929, sotto il Fascismo.
“La diminuzione del numero dei detenuti avvenuto in Italia nell’ultimo anno e mezzo non è dovuto a un aumento delle misure alternative, in particolare l’affidamento in prova ai servizi sociali che oggi interessa poche migliaia di persone in tutta Italia”. È quanto dichiara Gianni Torrente, coordinatore dell’Osservatorio sulle carceri di Antigone. “Aumentano invece le misure con un intento meramente deflativo come nel caso degli arresti domiciliari: circa 5 mila in più”, segno per Torrente di una retrocessione culturale del paese che tralascia l’intento responsabilizzante e risocializzante della misura a favore di quello meramente deflativo.
Marzia Paolucci
Italia Oggi, 23 marzo 2015
Carceri, “Oltre quei tre metri quadrati”, ecco l’XI Rapporto dell’Associazione Antigone
Numeri e documenti. Casi di suicidi e torture, di successi rieducativi. Viene presentato a Roma l’undicesimo rapporto che l’associazione Antigone dedica al sistema carcerario italiano. Un appuntamento annuale imprescindibile per gli addetti ai lavori e per chi vuole gettare il primo sguardo nelle celle degli istituti penitenziari. Una mappa della marginalità che disegna tutto lo spazio, materiale e immateriale, in cui vive – e più spesso in cui sopravvive – un detenuto.
Tutto quello che si muove dentro e intorno a quei pochi metri quadrati. Dentro e intorno a quello spazio occupato dai 53.982 detenuti che al 21 febbraio 2015 sono censiti nelle carceri italiane. Numeri e documenti. Casi di suicidi e torture, di successi rieducativi. Viene presentato domani a Roma “Oltre i tre metri quadri”, l’undicesimo rapporto che l’associazione Antigone dedica al sistema carcerario italiano. Un appuntamento annuale oramai imprescindibile per gli addetti ai lavori e per chi vuole gettare il primo sguardo nelle celle degli istituti penitenziari. Una mappa della marginalità – accompagnata dal web documentario Inside Carceri – che disegna tutto lo spazio, materiale e immateriale, in cui vive – e più spesso in cui sopravvive – un detenuto.
Più detenuti che posti regolamentari. Quasi 54mila persone al 21 febbraio. Qualche centinaio in più rispetto al 31 dicembre 2014 (erano 53.623) ma circa 8mila in meno rispetto al 2013. I numeri nudi e crudi sono questi. Da inserire all’interno di un contesto che ne segnala. Però, la gravità. Perché i posti regolamentari sono solo 49.943. Ovvero: nelle carceri italiane è presente un sovraffollamento del 108%. Ci sono 108 detenuti per ogni cento posti letto. E si tratta di un dato che non tiene conto delle strutture attualmente chiuse per lavori. In questo caso l’indice di sovraffollamento raggiunge il 122%. Numeri che portano l’Italia ben lontano dalla media europea.
Il nodo della custodia cautelare. I dati confermano, inoltre, che oggi non esiste nessun legame tra tasso di detenzione e tasso di delittuosità. Percentuali che non sono inversamente proporzionate. Il “carceri piene, strade sicure”, insomma è solo uno slogan privo di efficacia. I due numeri calano entrambi. Mentre resta molto alta la percentuale dei detenuti in base a misure di custodia cautelare. In Italia sono il 34,8%. E, ancora, la media europea è molto più bassa: nei paesi dell’Unione ci si attesta intorno al 21%. Un gap che, secondo Antigone, “va recuperato riducendo l’impatto della custodia cautelare che va del tutto residuata”.
Quali reati? E cambia anche la qualità dei reati. Quelli contro il patrimonio ascritti alla popolazione detenuta sono stati, nel 2014, 30.287, ovvero il 24,1% del totale. Poi i reati contro la persona pari a 22.167 ovvero il 17,7%. Quelli in violazione della legge sulle droghe sono pari a 18.946 ossia il 15,1% del totale. Questi ultimi erano 26.160 nel 2012 e 28.199 nel 2010. In quattro anni, insomma, c’è stato un calo di ben 9.253 imputazioni per motivi di droga. “Ciò è esito della abrogazione della legge Fini-Giovanardi da parte della Corte Costituzionale”, il commento dell’associazione.
Gli stranieri. Tra la popolazione carceraria, la percentuale di stranieri è del 32%. In Europa ci si ferma al 14%. Secondo Antigone, quindi, “non sono giustificati gli eccessivi allarmismi e le conseguenti spinte xenofobe che pure sono presenti in molti paesi Ue”. E le nazionalità più rappresentate sono il Marocco, la Romania, l’Albania, la Tunisia, la Nigeria, l’Egitto, l’Algeria, il Senegal, la Cina, l’Ecuador. Poi le donne, che rappresentano il 4,3% della popolazione detenuta. Tra i nati in Italia, invece, la maggior parte proviene dalla Campania (19,01%), dalla Sicilia (13,08%), dalla Calabria e dalla Puglia (entrambe 6,96%). Le regioni meno rappresentate sono la Valle d’Aosta (0,02%), il Molise (0,17%) e il Trentino Alto Adige (0,18%).
I minorenni. Altro capitolo, quello che riguarda i minori. I detenuti presenti negli Istituti Penali per Minorenni al 28 febbraio 2015 sono 407, di cui 168 (il 41,3%) stranieri. Tra i detenuti presenti, 175 non avevano una sentenza definitiva, vale a dire circa il 43% del totale. Solo 24 le donne. Roma (58 presenze), Catania (50), Milano (48) e Nisida (45) gli istituti per minori più popolosi. Potenza e Quartucciu (Cagliari), entrambi con 7 detenuti, i meno popolosi. Unico istituto interamente femminile è Pontremoli, con 11 ragazze presenti al 28 febbraio.
Carcere duro. Il numero dei detenuti sottoposti al 41 bis è pari a 725. Le donne sono otto. Solo uno è straniero. Sono ristretti in 12 Istituti, e il carcere di L’Aquila è completamente dedicato a questo regime. 648 sono stati condannati per associazione di tipo mafioso mentre 414 sono in attesa di giudizio. Gli affiliati a cosa nostra sono 210, quelli della camorra 294, 135 quelli della ‘ndrangheta. Ventidue quelli della sacra corona unita. I detenuti ritenuti esponenti di associazioni di tipo terroristico sono tre.
La chiusura degli O.P.G. Tra le scadenze, quella del 31 marzo prossimo. In quel giorno, infatti, scade il termine per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.). Ovvero di quelle strutture che il presidente Napolitano, valutando il lavoro della Commissione d’Inchiesta per l’Efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario nazionale definì “estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi paese appena civile”. E non è ancora chiaro se la chiusura sarà graduale o meno.
I suicidi. E se nel rapporto di Antigone grande spazio è dedicato alle misure alternative al carcere, non mancano, purtroppo, i numeri dell’orrore. Perché quella dei suicidi in carcere “rimane una delle principali patologie del sistema penitenziario italiano”.
Dall’incapacità di intercettare la disperazione fino alla scarsa attivazione di programmi di prevenzione del rischio. Dall’inizio del 2015, i suicidi sono stati nove. E nel 2014 sono stati 44 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri italiane. Dunque la media di suicidi ogni 10 mila detenuti è pari al 7,7%. Una percentuale superiore alla media europea che è invece del 5,4%. Ma ben inferiore al 14,4% della Francia, alle percentuali superiori al 10% di Svezia e Norvegia, all’8,2% della Germania.
Carmine Saviano
La Repubblica, 17 marzo 2015
Reggio Calabria, Caso Jerinò : Bruno Bossio (PD) chiede spiegazioni al Governo sulla morte del detenuto
Una Interrogazione Parlamentare a risposta in Commissione ai Ministri della Giustizia e della Salute, Andrea Orlando e Beatrice Lorenzin, è stata presentata dall’Onorevole Enza Bruno Bossio, Deputato del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia. La Parlamentare calabrese, che da tempo si occupa anche della tutela dei diritti umani fondamentali all’interno degli stabilimenti penitenziari, su sollecitazione di Emilio Quintieri, esponente del Partito Radicale, ha chiesto al Governo di chiarire le circostanze della morte del detenuto Roberto Jerinò, deceduto lo scorso 23 dicembre 2014 presso l’Ospedale Riuniti di Reggio Calabria. Il 60enne, di Gioiosa Ionica, Comune della Provincia di Reggio Calabria, si trovava in custodia cautelare presso la Casa Circondariale “Arghillà” di Reggio Calabria, dopo essere stato ristretto per un qualche tempo presso la Casa Circondariale di Paola, in Provincia di Cosenza.
L’On. Bruno Bossio, nella sua interrogazione (la nr. 5/04649 del 05/02/2014), riferisce quanto trapelato in merito agli ultimi momenti di vita del detenuto e narrato su “Il Garantista” lo scorso 6 gennaio 2015 ritenendo che “a giudizio dell’interrogante, i fatti esposti nel presente atto di sindacato ispettivo richiedono doverosi accertamenti dal momento che il signor Roberto Jerinò era affidato alla custodia dello Stato”. In merito, c’è da dire, che a seguito di una denuncia dei familiari dell’uomo, il Sostituto Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Dott. Giovanni Calamita, ha aperto un fascicolo attualmente contro ignoti per accertare se ci siano eventuali responsabilità da parte del personale dell’Amministrazione Penitenziaria che lo aveva in custodia o dei Sanitari Penitenziari ed Ospedalieri che lo avevano in cura. Sul corpo di Jerinò, su disposizione del Magistrato, è stata eseguito anche l’esame necroscopico. Nei prossimi giorni, secondo quanto riferisce il radicale Quintieri, i congiunti del defunto che sono rappresentati e difesi dall’Avvocato Caterina Fuda del Foro di Reggio Calabria, saranno sentiti come persone informate sui fatti, presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria.
L’Onorevole Enza Bruno Bossio, nello specifico, ha chiesto ai Ministri della Giustizia e della Salute, se e di quali informazioni disponga il Governo in ordine ai fatti descritti; se e quali problemi di salute presentasse il detenuto Roberto Jerinò all’atto della visita obbligatoria di primo ingresso presso la Casa Circondariale di Paola e poi presso quella di “Arghillà” di Reggio Calabria ricavabili dal suo diario clinico e quali motivi abbiano determinato il trasferimento dello stesso dallo stabilimento penitenziario di Paola a quello di “Arghillà” di Reggio Calabria; se e come sia stata prestata l’assistenza sanitaria al detenuto durante la sua restrizione carceraria chiarendo cosa gli era stato diagnosticato ed a quali trattamenti terapeutici fosse sottoposto visto che, in pochissimo tempo, le sue condizioni si sono irrimediabilmente compromesse; quando, da chi e per quali ragioni il detenuto sia stato trasferito presso l’Ospedale Riuniti di Reggio Calabria specificando se il ricovero, in considerazione della gravità del quadro patologico, avrebbe potuto effettuarsi prima che le condizioni del signor Jerinò peggiorassero in modo fatale come è avvenuto; se siano noti i motivi per i quali sia stato negao al detenuto, da parte dell’Autorità Giudiziaria competente, di ottenere la concessione degli arresti domiciliari presso la propria abitazione e di quali elementi disponga il Governo circa la dinamica del decesso e le relative cause e se siano state ravvisate eventuali responsabilità del personale operante presso l’Amministrazione Penitenziaria. Inoltre, l’attenzione della Deputata democratica, si è focalizzata anche sulla struttura carceraria. Ed infatti, sono state chieste delucidazioni, su quali fossero le condizioni della Casa Circondariale “Arghillà” di Reggio Calabria all’epoca dei fatti (Dicembre 2014) facendo riferimento alla capienza regolamentare, a quanti detenuti vi fossero ristretti, quanti tra questi fossero tossicodipendenti e quanti affetti da gravi disturbi mentali o altri gravi patologie e se si fosse in grado di riuscire a garantire, in maniera sufficiente ed adeguata, non soltanto la sorveglianza dei detenuti ma anche l’assistenza sanitaria ed il sostegno educativo e psicologico nei loro confronti; se alla data odierna, si trovino ristretti in detto Istituto in custodia cautelare o in espiazione di pena detenuti con gravi problemi di salute e se risulti se siano state presentate dagli stessi alle Autorità Giudiziarie competenti istanze di concessione degli arresti domiciliari o di sospensione o differimento della esecuzione della pena ed, in caso affermativo, quali siano gli esiti delle stesse; se il predetto Istituto Penitenziario sia stato ispezionato dalla competente Azienda Sanitaria Provinciale ed, in caso affermativo, a quando risalgano le visite e cosa sia scritto nelle rispettive relazioni inoltrate ai Ministri interrogati, agli uffici regionali ed al Magistrato di Sorveglianza in merito allo stato igienico sanitario dell’istituto, all’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive disposte dal servizio sanitario penitenziario ed alle condizioni igieniche e sanitarie dei detenuti ai sensi dell’articolo 11 commi 12 e 13 dell’Ordinamento penitenziario approvato con legge n. 354 del 1975 ed infine, se e con che frequenza il Magistrato di Sorveglianza competente abbia visitato, negli ultimi anni, i locali dove si trovano ristretti i detenuti ai sensi dell’articolo 75, comma 1, del regolamento di esecuzione penitenziaria approvato con decreto del Presidente della Repubblica n. 230/2000 e se abbia mai prospettato al Ministro della Giustizia eventuali problemi, disservizi o violazioni dei diritti dei detenuti nell’ambito della sua attività di vigilanza ai sensi dell’articolo 69 del citato Ordinamento Penitenziario.
Interrogazione a risposta in Commissione n. 5-04649
Emilio Quintieri
Giustizia: Gonnella (Antigone) a Mattarella “rimetta in piedi l’istituto della Grazia”
A lanciare l’appello al neoeletto presidente della Repubblica è Patrizio Gonnella. “Nei prossimi giorni la chiederemo per un detenuto pakistano, condannato a 9 anni e 4 mesi per droga dopo un processo di 19 anni durante i quali si è comportato in modo irreprensibile”.
“Il presidente Mattarella rimetta in piedi l’istituto della grazia, negli ultimi tempi un po’ dimenticato. Nei prossimi giorni la chiederemo per un detenuto pakistano, condannato a 9 anni e 4 mesi per droga dopo un processo di 19 anni durante i quali si è comportato in modo irreprensibile”. A lanciare l’appello e probabilmente la prima richiesta di grazia al neoeletto presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel giorno del suo insediamento al Quirinale è Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che oggi ha presentato un libro dal titolo “Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti”.
Al nuovo presidente, Gonnella chiede “un’attenzione alla questione della giustizia e del carcere che non sia l’attenzione che alcuni interlocutori gli chiedono di fare il vigile contro Berlusconi – ha aggiunto. A noi di Berlusconi non ce ne frega nulla. Deve essere il guardiano della Costituzione e automaticamente metterà al centro gli articoli 13 e 27 che vietano le violenze e che indicano quale deve essere la funzione della pena. Speriamo che dia un messaggio alle Camere e orienti l’opinione pubblica e le forze politiche intorno ad un’idea che ci riporti a Beccaria, cioè che il diritto penale è stato pensato non per vessare, ma per limitare il potere di chi aveva il potere di punire”.
Al nuovo presidente della Repubblica, però, l’associazione Antigone chiede subito un intervento urgente. Una grazia per un detenuto pakistano di 57 anni, oggi nel carcere di Rebibbia a Roma. “Stiamo costruendo la domanda di grazia per Iqbal Muhammad – ha detto Gonnella -. È un detenuto pakistano arrestato nel 1994 per traffico di droga. Si è fatto 11 mesi di custodia cautelare, 4 mesi di arresti domiciliari, dopo di che nei successivi 19 anni è tornato libero, ha lavorato, ha cresciuto una famiglia, oggi ha una figlia di 26 anni, ha fatto il volontario nelle parrocchie. Si è comportato come si deve comportare un cittadino ordinario”.
Nel frattempo il processo è andato avanti e qualche mese fa è arrivata la sentenza di condanna: 9 anni e 4 mesi per droga. “Negli ultimi 19 anni si è comportato in modo irreprensibile – ha aggiunto Gonnella. Questa non è giustizia, ma vendetta e pena senza senso. Per questo chiederemo insieme a lui la grazia. Speriamo che questo capo dello Stato rimetta in piedi l’istituto della grazia, perché la grazia è stata un po’ dimenticate negli ultimi anni. Sono state usate un po’ come se fosse una grazia politica, invece noi vorremmo che ritornasse ad avere quel suo ruolo che è quello di mettere una toppa dove la giustizia non ha funzionato”.
Giovanni Augello
Redattore Sociale, 4 febbraio 2015
Droghe: Cassazione, incostituzionalità Fini-Giovanardi non incide sulla custodia cautelare
L’incostituzionalità della Fini-Giovanardi sotto il profilo della equiparazione tra droghe leggere e droghe pesanti (sentenza 32/2014 della Consulta) non incide sulla rideterminazione della custodia cautelare per i procedimenti in corso e nei quali la fase cautelare sia stata già chiusa. Lo hanno stabilito le Sezioni unite penali della Cassazione (sentenza 44895/14, depositata martedì) respingendo il ricorso di un imputato cagliaritano, impugnazione rimessa dalla Quarta sezione per un conflitto giurisprudenziale sul tema.
L’uomo era finito in custodia cautelare nel giugno del 2013 per detenzione a fini di spaccio di marijuana, in concorso con altre dieci persone. Prima il Gip poi il Riesame avevano più volte respinto la richiesta di sostituzione della misura e/o la sua revoca, anche dopo che la Consulta, nel marzo di quest’anno, aveva dichiarato l’incostituzionalità parziale della Fini-Giovanardi.
Secondo i difensori la custodia cautelare dell’imputato, protrattasi per più di otto mesi – a fronte di un termine massimo di tre mesi alla luce del ripristino delle vecchie e più miti sanzioni – doveva essere dichiarata illegittima “per contagio”, considerata la patologia originaria della norma caduta, con un effetto giuridico “ora per allora”.
La Quarta penale, esaminando il caso, aveva rilevato un precedente simile (Corte costituzionale 253/2004) che, in materia di presofferto all’estero, aveva riaperto il computo dei termini in senso favorevole all’imputato, anche di fronte a una fase procedimentale (la custodia cautelare) già chiusa.
Le Sezioni unite, al termine di una lunghissima ricostruzione storica/giuridica, sono però pervenute a una decisione diversa rispetto al precedente di dieci anni fa, negando l’effetto benefico retroattivo della pronuncia della Consulta sugli arresti del sospetto spacciatore sardo. Questo perché, argomenta il relatore, nonostante lo scrutinio costituzionale “la legittimità di un provvedimento nel momento della sua adozione e fino al momento della cessazione dei suoi effetti era ed è rimasta perfettamente tale; l’atto ha esaurito i suoi effetti indiretti, sulla disciplina delle durata delle fasi della custodia cautelare, all’interno di un quadro di stabilità normativa, senza ulteriori ricadute nella vicenda cautelare; infatti la fase successiva, non ancora conclusa, ha visto l’immediata potenziale applicabilità della nuova disciplina fin dall’inizio della sua vigenza”.
Applicare invece il parametro di calcolo “nuovo “a una fase procedimentale già chiusa e a sua modo “perfetta” darebbe invece luogo a un risultato “illegittimo”. In sostanza, a giudizio delle Sezioni unite, “in questo caso per tutto il periodo di riferimento (la fase cautelare, ndr) il parametro normativo è stato rispettato”. Se successivamente alla fase considerata sono cambiate le regole “non può ritenersi tuttavia che la disciplina del sistema della custodia cautelare che ha trovato applicazione (…) debba essere considerata irragionevole e comporti una violazione dell’articolo 3 della Costituzione”.
Alessandro Galimberti
Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2014