Parma: botte in cella, i nastri che accusano, anche Dap apre inchiesta sul carcere emiliano


Polizia Penitenziaria cella detenutoAl processo le denunce del detenuto Rachid Assarag. “La verità la conoscono Dio e questo registratore”. Rachid Assarag è stato arrestato nel 2008 per aver violentato due donne. Un fatto pesante che ha meritato “un supplemento di pena”, almeno a giudizio degli agenti penitenziari del carcere di via Burla, a Parma, dove l’uomo è stato rinchiuso tra il 2010 e il 2011. Botte, minacce di morte, umiliazioni di vario genere. D’altra parte, là fuori, è questa la legge che si invoca per chi si macchia di reati tanto odiosi come quelli sessuali: la galera non basta, serve qualcosa di più.

Nella mattinata di ieri, il 40enne marocchino si è presentato in aula, a Parma, sventolando una foto di Stefano Cucchi: “Non voglio finire così”, ha detto ai pm, che lo stavano interrogando nell’ambito di un processo che lo vede imputato per oltraggio a pubblico ufficiale. È una storia che va avanti da tempo: lui inoltra esposti alla procura e gli agenti lo denunciano, un modo come un altro per tenerlo dentro. Finché continuerà a subire processi su processi per le motivazioni più svariate, Assarag non potrà usufruire di alcuna misura alternativa al carcere.

Davanti ai pm Assarag ha parlato delle violenze subite, e delle prove che ha a disposizione: nastri magnetici sui quali sono state registrate le voci di alcuni secondini.

Conversazioni che restituiscono un affresco piuttosto nitido della realtà inquietante e violentissima che si vive dietro le sbarre, tra spavalderie poliziottesche (“Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu”), amare confessioni da parte di un medico (“Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero… Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no… Ma quello è morto, ha capito?

È morto per le botte”) e un tremendo dialogo con una guardia: “Va bene assistente – dice Rachid -, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?”. “Sì, ho visto – la risposta -, come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici. Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io…”.

L’uomo si è procurato il registratore grazie all’aiuto di sua moglie, Emanuela D’Arcangeli, che, in un modo o nell’altro, è riuscita a farglielo arrivare in cella. E lui l’ha usato come meglio non poteva fare per cercare di incastrare gli agenti che l’avevano picchiato e che, proprio davanti a lui, non si vergognavano di rivendicare i propri abusi di potere, il conclamato monopolio della violenza, inconsapevoli però che tutto quello che stavano dicendo veniva registrato.

A volerla dire tutta, comunque, le violenze denunciate da Assarag, gli investigatori avrebbero potuto scoprirle diverso tempo fa: per mesi un esposto con gli stessi elementi usciti fuori ieri durante l’interrogatorio è rimasto a prendere polvere in qualche ufficio nella procura di Parma. Adesso, però, le indagini dovrebbero partire sul serio: se ne parlerà alla prossima udienza, il 12 dicembre.

Alla fine dell’udienza, la procura ha deciso di acquisire agli atti non solo le registrazioni clandestine (che saranno sottoposte a perizia), ma anche i diari del detenuto e ha ordinato di perquisirne la cella a Sollicciano, dove adesso è recluso. Intanto, il Dap – senza capo ormai dalla fine di maggio – ha annunciato di aver aperto un’inchiesta interna sulla vicenda di Parma, mentre il clima si fa sempre più teso, in un ambiente che non riesce ad accettare il fatto di non essere più al di sopra di ogni sospetto. Prossimamente, il Dipartimento andrà anche in visita ispettiva in via Burla, ma, assicurano qualora qualcuno avesse dei dubbi: “Non vogliamo in alcun modo interferire con il lavoro della procura”.

Il carcere di Parma è già finito più volte in cronaca per altri casi di maltrattamento (come quello di Aldo Cagna, con gli agenti che sono stati condannati a 14 mesi) o per le condizioni allucinanti dell’infermeria interna, grazie a una battaglia che il Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna continua a portare avanti nel solito, colpevole, clima di indifferenza generale.

Mario Di Vito

Il Manifesto, 15 ottobre 2014

Abusi in carcere a San Vittore : «Sei una trans ? Allora fammi un pompino»


Casa Circondariale San Vittore MilanoTestimonianze di abusi sessuali sulle detenute transessuali e di altre vessazioni nel carcere di San Vittore, l’assoluzione degli agenti di Polizia penitenziaria finiti alla sbarra e poi l’inquietante morte di Erica, la trans che aveva avuto il coraggio di denunciare le violenze, e la scomparsa di un detenuto che in una lettera aveva scelto di raccontare quanto accadeva tra le mura dell’istituto milanese.

È il quadro a tinte fosche descritto dai volontari del gruppo Calamandrana, che hanno contattato il Garantista dopo la pubblicazione del nostro reportage: “L’inferno delle detenute transgender”. Nel dicembre del 2008 venne resa pubblica la lettera di un detenuto del raggio dei protetti che raccontava la vergogna degli abusi sessuali praticati da agenti graduati su detenute trans. Tramite questa lettera, i volontari del Gruppo Calamandrana chiedevano che si facesse luce su questi abusi ben conosciuti nell’ambiente ma mai denunciati da nessuno.

“In questo piano protetto dove sono rinchiusi stupratori, pedofili, infami e trans – scriveva il detenuto recluso al carcere di San Vittore – avviene ogni tipo di sopruso: regole che cambiano da un giorno all’altro, a discapito sempre del detenuto, ore di aria ridotte, scarafaggi ovunque, ecc.”.

Poi il detenuto va nello specifico: “Ma la cosa più scandalosa è ciò che subiscono le persone transessuali, cioè dei veri e propri abusi sessuali da parte di alcuni agenti, per lo più graduati, col tacito consenso di tutti gli altri che sanno. La cosa avviene con chiamate serali giustificate da visite mediche, chiamate per ritiro pacchi postali, chiamate di avvocati, chiamate dell’ufficio comando o matricole. Il detenuto di turno si trova poi in una stanza isolata con uno o più agenti, dove l’abuso avviene con ricatto, minacce, negazione dei medicinali, o più semplicemente con la promessa di agevolazioni di vario genere.

Questo abuso – conclude il detenuto del carcere di San Vittore – continua da sempre, e da sempre impunito, anche se confidato ad avvocati o operatori civili, medici e parenti. In un modo o nell’altro ciò che avviene dentro queste mura viene insabbiato prima di riuscire ad avere un efficace intervento”. Dopo la pubblicazione della lettera, il gruppo Calamandrana subisce una sospensione della sua attività all’interno del carcere milanese. E questo provvedimento ha messo in luce la difficoltà dei volontari operanti all’interno delle carceri di denunciare gli abusi e le inefficienze del sistema penitenziario.

“Durante la loro attività in carcere – sottolinea il gruppo Calamandrana – inevitabilmente i volontari possono essere testimoni di fatti gravi compiuti da singoli operatori penitenziari (di cui, tra l’altro, non sono gli unici a sapere): perché non se ne parla? Forse per il timore dì essere segnalati al Giudice di Sorveglianza e di conseguenza non poter più entrare in carcere?

O forse perché, per una sorta di fatalismo si è convinti che la comunicazione alla Direzione comunque non porterebbe a nulla? E se anche ne parlano, in genere non vengono neppure a sapere se in seguito siano stati adottati dei provvedimenti; l’unica notizia è un eventuale trasferimento del detenuto/a coinvolto/a perché non lo/la si vede più. Siamo consapevoli che il mondo carcerario ha al suo interno equilibri molto delicati e che deve essere presa in considerazione sia la tutela del detenuto/a che denuncia sia la tutela del denunciato/a.

D’altra parte, gli eventuali gravi episodi contrastano nettamente con l’articolo 27 della Costituzione comma terzo (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dì umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e con l’ordinamento penitenziario legge 26 luglio 1975 n° 354 art. 1 comma uno (“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”).

L’attuazione pratica di questi due articoli è stata l’istituzione della Magistratura di Sorveglianza che ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena nel rispetto dei diritti dei detenuti ed ha il potere di intervenire. C’è perfino una sentenza della Corte Costituzionale n. 26 dell’11.02.1999 che prescrive l’adozione di una specifica procedura giurisdizionale in merito ai reclami dei detenuti al Magistrato di Sorveglianza per violazione dei propri diritti”.

Conclude poi il gruppo Calamandrana con un quesito: “Quindi, tornando alla domanda iniziale, se ne aggiunge un’altra, con la speranza che si possa arrivare ad un dibattito per avere chiarezza su quanto abbiamo esposto: quali sono i limiti del silenzio del volontariato (e non solo del volontariato) in carcere?”.

E, di fatto, i volontari del gruppo Calamandrana non si sono imposti limiti nel denunciare ciò che accadeva all’interno del carcere dove operavano, Non solo hanno reso pubblico la testimonianza del detenuto e della trans Erica, ma hanno trascritto e diffuso una parte significativa di un1 intervista radiofonica nei confronti di una trans uscita dal carcere milanese. “Dal mio primo ingresso a San Vittore – spiega la trans nell’intervista – ho dovuto sopportarne di tutti i colori. Se fuori la discriminazione verso i trans è al 100%, dentro il carcere è al 200%, In carcere vieni vista come un animale, E a furia di essere trattati come animali, lo si diventa”.

La trans durante l’intervista spiega nel dettaglio anche le vessazioni subite e il fatto di non essere creduto dalla dal direttore del carcere. “Ero in una situazione così grave – continua la trans -che ho cominciato a riempirmi di psicofarmaci per dormire e non sentire niente. Ho avuto tante colleghe trans arrivare alla pazzia. Alle richieste di prestazioni sessuali da parte degli agenti io reagivo con odio e a uno di questi un giorno non solo l’ho mandato a fanculo, ma gli ho detto: “Un pompino te lo deve fare la tua mamma, non io”.

Questo mi è costato 45 giorni di carcere in più, perché lui mi ha fatto rapporto”. A quel punto la trans spiega che “per 3 anni ho passato questa vita non di merda, ma sotto la merda. Giorno dopo giorno ho ricevuto violenze dagli agenti, violenze anche verbali.

“Puttana di merda, come li facevi i pompini fuori?”. E allora io rispondevo; “Bene, molto bene”. Perché se li mandavo a fanculo avevo altri 45 giorni di pena in più”. Ma la trans durante l’intervista tiene a specificare che “non tutti gli agenti sono così, Ci sono fra loro anche persone bravissime, I veri bravi agenti esistono, ma molti si approfittano della loro posizione, Dagli altri detenuti ho ricevuto molta solidarietà e ho imparato tanto”.

Le denunce delle vessazioni nei confronti delle trans detenute hanno avuto un effetto concreto: dopo circa due mesi dalla diffusione delle testimonianze, nel 2009 la Procura di Milano ha cominciato ad occuparsi della faccenda. È scattato il rinvio a giudizio nei confronti delle due guardie penitenziarie e avviato il processo. Dopo molti rinvii il processo si è concluso il 18 luglio 2013 con l’assoluzione dei due agenti “perché il fatto non sussiste”.

Ma la conclusione di questa storia è molto più amara e inquietante. Gabriella Sacchetti, volontaria del gruppo Calamandrana, spiega al Garantista che “due protagonisti importanti di questa brutta storia sono spariti subito dopo il processo o poco prima. Di Erica, una delle trans che aveva denunciato gli abusi, è corsa voce che sia stata uccisa, ma non siamo riusciti a sapere dove, come e quando. Il detenuto della lettera di denuncia che abbiamo pubblicato è sparito dalla circolazione dopo che ha finito di scontare la pena. E questo ci è molto dispiaciuto e ci ha inquietato, anche perché – conclude amaramente Gabriella Sacchetti – li avevamo conosciuti durante il nostro volontariato ed eravamo rimasti in contatto epistolare fino a poco prima della sentenza”.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 14 ottobre 2014

Parma: abusi dietro le sbarre, una svolta nelle indagini dopo la denuncia de l’Espresso


CC Parma DAPIl tribunale di Parma acquisisce le carte sui presunti pestaggi denunciati dal detenuto che in carcere aveva registrato le confessioni di alcuni agenti. Ora gli audio, rivelati in esclusiva dalla nostra testata, sono agli atti del processo contro il carcerato accusato di oltraggio da un gruppo di guardie penitenziarie.

Il tribunale di Parma ha acquisito le registrazioni audio dei presunti pestaggi subiti in carcere da Rachid Assarag rivelate in esclusiva da “l’Espresso”. Il detenuto marocchino, che sta scontando una condanna per violenza sessuale, ha registrato, tra il 2010 e il 2011, le confessioni di alcuni agenti all’interno del penitenziario emiliano.

Le sue denunce però sono rimaste ferme in Procura, mentre la querela presentata da un gruppo di agenti contro di lui per oltraggio si è rapidamente trasformata in processo. Così la strategia dell’avvocato Fabio Anselmo (difensore della famiglia di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi) è di sfruttare questo giudizio per ribaltare la situazione. E oggi ha incassato un primo risultato.

Nell’ultima udienza, il giudice, dopo aver interrogato Assarag, ha deciso far entrare nel processo i documenti della difesa, incluse le conversazioni rubate all’interno del penitenziario emiliano. Non solo. È stata anche disposta la perquisizione urgente della sua cella del carcere di Sollicciano, a Firenze, dove attualmente è recluso. La polizia giudiziaria dovrà recuperare i suoi diari scritti in arabo. Insomma, quello che sembrava un processo dall’esito scontato, si arricchisce di nuovi colpi di scena. La prossima udienza è fissata per il 12 dicembre.

Le trascrizioni degli audio raccolti all’interno del super carcere – affidate a una società specializzata che lavora anche per l’autorità giudiziaria – sono impressionanti: presentano uno spaccato di violenza e omertà. Viene proclamata un’unica legge: “Se ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male”, spiega un agente.

E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: “Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata… non credo che lei abbia il potere di cambiare niente”.

“Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu”. Così parlava ai microfoni nascosti del detenuto un poliziotto della penitenziaria. E il medico della stessa struttura è ancora più esplicito: “Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero… Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no… Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte”.

Il direttore dell’epoca, Silvio Di Gregorio, ora responsabile dell’ufficio del personale della polizia penitenziaria, contattato da “l’Espresso”, aveva preferito non rilasciare dichiarazioni. Mentre il rappresentante del Sappe aveva detto di nutrire forti perplessità sul metodo utilizzato dal detenuto nel ricercare le prove: “Mi sembra strano che possa aver registrato, nel carcere non è possibile avere niente di elettrico, non ci sono telefoni.

La denuncia la può fare comunque, si vedrà chi ha ragione e chi ha torto. Poi per carità c’è qualche collega che può sbagliare e il detenuto può denunciare, ma mi sembra strano che si possa registrare” è stata la replica di Enrico Maiorisi responsabile sindacale della struttura emiliana.

Giovanni Tizian

L’Espresso, 14 ottobre 2014

Parma: il medico del carcere “Assarag, non posso testimoniare… perché mi fanno il c…”


detenuti sbarre cellaI colloqui registrati dal detenuto che ha denunciato pestaggi. La psicologa: “sopporti, non risolve niente”. È un medico di via Burla a parlare. Di fronte a lui, Rachid Assarag. Quando era detenuto a Parma, è riuscito a far entrare un registratore grazie alla moglie.

Ha denunciato di essere stato picchiato: una querela nel gennaio 2011, un’altra il mese dopo e l’ultima a luglio dello stesso anno. Poi (solo mercoledì scorso), il deposito in procura delle trascrizioni dei colloqui registriti in carcere. Parale che, nelle intenzioni del difensore dell’uomo, Fabio Anselmo (l’avvocato dei casi Aldrovandi e Cucchi), squarcerebbero il velo su una grave realtà di violenza tra le mura del carcere.

Oltre cento pagine di conversazioni “catturate” da Assarag nel 2011, quando era ancora rinchiuso a Panna per violenza sessuale. Tutt’altro che uno stinco di santo, uno stupratore se riale e uno che ha sempre creato problemi nei vari penitenziari che ha girato, ma che in via Burla sarebbe stato percosso tre volte: nell’ottobre del 2010. a. dicembre dello stesso anno e il 25 maggio 2011. Fatti raccontati nelle querele.

Ma ora ci sono queste registrazioni. A tratti inquietanti. Per le affermazioni di alcuni uomini della polizia penitenziaria, ma anche per le parole di medici e psicologi della struttura. Nessuno, al momento è stato iscritto nel registro degli indagati, ma il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha avviato un’inchiesta interna. C’è l’agente che spiega ad Assarag come ci si comporta dietro le sbarre per non avere guai. “Ascolta – dice – io c’ho venti anni di galera alle spalle.. e non ho mai toccato uno, mai toccato uno se non se lo è meritato. Mai!”.

“Ah, solo le persone che meritano…”, ribatte Assarag. E l’agente: “No, che meritano no, ma che si comportano male. Così, come se tu, se tu ti comporti male, sai che quella è la conseguenza. È normale, perché certe volte solo quella…”. Fa quelle affermazioni e poco prima si lascia scappare anche altro: “Eh, ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se ci sei anche tu”.

Ma poi Assarag parla con lo stesso agente anche del suo caso personale. Il riferimento è a quando è arrivato in via Burla, alla sua decisione di stare in isolamento e al latto che gli sarebbero stati tolti i soldi. “Quattro persone contro un detenuto?! Mi avete massacrato”, dice Rachid, e l’uomo replica: “Non eravamo in quattro persone… io, il brigadiere e basta!”. A quel punto il detenuto chiede se ci sono le telecamere, e il poliziotto risponde: “Ma non funzionano!”.

Parla – e registra – le dichiarazioni degli uomini della Penitenziaria, Assarag. Ma non si fa problemi a parlare delle violenze che avrebbe subito dietro le sbarre anche con i medici del carcere. “Io ho subito, mi hai visto che io ho subito la violenza”, spiega. E il dottore risponde: “Certo, ho visto… Quello che voglio dire, è che lei deve imparare a… a… abituare… sì, perché non può cambiare lei, come non lo posso cambiare io!”.

Ma Assarag non molla. Insiste. Vuole risposte per capire come muoversi, a chi far presente cosa non funziona. Il medico parla anche delle “protezioni” da parte della magistratura di cui godrebbero gli agenti. E cita il caso di Stefano Cucchi, il giovane arrestato per droga e morto in custodia cautelare una settimana dopo.

Una vicenda per la quale tra pochi giorni è previsto l’avvio del processo d’appello. “Ah, il magistrato è dalla parte di loro?”, chiede Assarag. “Certo… in un caso di morte, in un caso di morte come quello di Cucchi, sono riusciti a salvare gli agenti e hanno inchiappettato i medici!”.

Nel marzo 2011 Rachid incontra anche la psicologa del carcere. Le racconta di altre due aggressioni che avrebbe subito, con piccole lesioni a un dito e a un braccio. E le mostra la mano fasciata. “Queste cose succedono in tutti le carceri… eh, queste cose”, dice la donna. Poi gli consiglia di rassegnarsi. “Non è così facile. Per questo le ho suggerito di rinunciare a combattere. Perché combattere qua dentro comporta usare tantissime energie, sfinirsi e scontrarsi contro dei muri… Non si risolve niente!… Allora è meglio, dal punto di vista personale, aspettare e sopportare. Perché non c’è uscita”.

Violenze vere o romanzate quelle subite da Rachid? Sarà un’inchiesta ad appurarlo. I due agenti che nel 2007 in via Burla pestarono Aldo Cagna, l’assassino di Silvia Mantovani, sono stati condannati in via definitiva al anno e 2 mesi. Un brutto “precedente”. Ma è un’altra storia.

Il Procuratore: nessuna disattenzione, faremo chiarezza

L’ultima denuncia di Assarag contro gli agenti di via Burla? È stata depositata il 27 luglio 2011. Da allora, però, ria denunciato il difensore Fabio Anselmo, non si è mosso nulla in procura. “Quando sono arrivate le tre querele, già erano pervenute le segnalazioni da parte della casa circondariale die prospettavano una realtà molto diversa da quella denunciata dal detenuto – spiega il procuratore Antonio Rustico.

Ma non è vero che questi fascicoli sono rimasti fermi, mentre quelli in cui Assarag è indagato sono andati avanti. Si tratta di procedimenti che erano in carico a un pm trasferito, che poi sono stati riassegnati a un altra sostituto”. Insomma, nessuna corsia “preferenziale” per i casi in cui Rachid è sotto accusa.

Piuttosto ci sono altri procedimenti a suo carico, che nera non hanno nulla a che vedere con gli episodi di violenza (tra il 2010 e il maggio 2011) da lui denunciati, ma sono successivi. “Si tratta di due fatti che sono stati riuniti in un procedimento che è già a dibattimento da tempo: una contestazione di oltraggio nei confronti di agenti di polizia penitenziaria – spiega Rustico – e un’altra per minacce e anche oltraggio, credo.

Per quanto riguarda la prima vicenda, Assarag non ha chiesto nemmeno di essere sentito dono il deposito dell’avviso di conclusione delle indagini, nel secondo caso invece è stato sentito per rogatoria dal pm di Prato, visto che poi è stato trasferito in quel carcere: siamo nel 201Ì, eppure non ha fatto cenno a registrazioni effettuate in carcere, ma ha solo detto che probabilmente quel procedimento era la conseguenza delle sue denunce”.

C’è invece un detenuto che potrebbe creare qualche grattacapo ad Assarag: “Si tratta di una persona che sarebbe stato presente quando oltraggiava l’agente, ma al quale, secondo quanto ha dichiarato nella fase delle indagini, Rachid avrebbe chiesto di testimoniare a suo favore in cambio di denaro o dell’assistenza gratis del suo avvocato – sottolinea Rustico. Questa persona, però, a dibattimento ha detto di non voler parlare se non in presenza del suo avvocato, anche se era testimone”.

Un detenuto con varie vicende in corso, oltre alle accuse di violenza sessuale, Assarag. “Ma ciò non toglie che l’intenzione della procura è quella di fare chiarezza su quanto ha denunciato – assicura Rustico. Non abbiamo ancora i file audio originali, solo le trascrizioni, tuttavia posso assicurare che valuteremo tutto e agiremo se ci saranno delle responsabilità”.

Georgia Azzali

Gazzetta di Parma, 24 settembre 2014

 

Antigone : introdurre subito il delitto di tortura nel Codice Penale


Cella carcerePer la seconda volta in pochi giorni l’Italia viene condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la violazione dell’art. 3 della Convezione per le violenze delle forze dell’ordine su persone fermate o arrestate.

Dopo il caso di Dimitri Alberti, stavolta la corte riconosce le violenze subite da Valentino Saba il 3 aprile 2000 all’interno del carcere di Sassari dove era detenuto. Ma stavolta la Corte Europea va oltre il riconoscimento delle violenze, condannando l’Italia anche per non aver pienamente soddisfatto il requisito di un’indagine approfondita ed efficace, come stabilito nella propria giurisprudenza, arrivando così alla prescrizione per molti degli imputati.

“Finalmente, dopo 14 anni – dichiara Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone – giustizia viene fatta ma, ancora una volta, per arrivarci è stato necessario l’intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Riteniamo indegne per un per un paese civile come l’Italia – che dovrebbe riconoscere a tutti un trattamento rispettoso e degno della persona umana – queste continue condanne. Ed è altresì grave che, quando violazioni dell’articolo 3 avvengono, il nostro sistema giudiziario non riesca a ripristinare situazioni di giustizia. Questo anche perché in Italia non esiste il delitto di tortura. Se ci fosse stato i tempi di prescrizione non sarebbero stati così brevi”.

“Per questo – prosegue Gonnella – riteniamo non più rinviabile la convocazione di un tavolo politico che dia risposte ferme su alcuni temi per i quali la discussione non è più rinviabile: l’inserimento del reato di tortura nel codice penale; l’impunità per chi commette atti di violenze verso persone che si hanno in custodia; meccanismi di educazione e formazione adeguati per il personale delle forze dell’ordine”.

Si ricorda che fu proprio Antigone a sollevare il caso delle violenze nel carcere di Sassari quando fu avviata la più grande inchiesta continentali mai avvenuta nella storia per la violenza nelle carceri. In questo caso si trattava di detenuti comuni. Furono coinvolti con arresti quasi 100 fra poliziotti e operatori.

Di seguito un estratto del terzo rapporto sulle condizioni di detenzione “Antigone in carcere” nella quale si parlava del caso.

“Il 27 marzo 2000 i detenuti del carcere San Sebastiano di Sassari iniziarono una protesta pacifica rumoreggiando con le sbarre della cella a mezzanotte meno un quarto. Colpirono con le posate sulle grate, danno fuoco alle lenzuola, fecero esplodere le bombolette di gas. Alla loro protesta seguì quella dei direttori. A causa del loro sciopero, infatti, i detenuti furono lasciati senza viveri del “sopravvitto” e senza sigarette. Il 3 aprile 2000 venne organizzato uno sfollamento generale dei detenuti da trasferire in altri istituti dell’isola.

Durante la traduzione una trentina di detenuti vennero brutalmente picchiati. I parenti protestarono. Scattarono le prime denunce, l’associazione Antigone il 18 aprile 2000 incontrò i vertici dell’Amministrazione penitenziaria. Il 20 aprile le madri dei giovani detenuti picchiati organizzarono una fiaccolata. Il 3 maggio 2000 la Procura emise 82 provvedimenti di custodia cautelare, di cui 22 in carcere e 60 agli arresti domiciliari. Vennero coinvolti il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, la direttrice, il comandante del reparto”.

[…] “Gavino P., cella 75, gli dà il cambio. Quel giorno, al momento dell’incursione era nella fossa dei leoni, un cortile a cui si accede passando attraverso un tunnel. Stesso percorso, braccia dietro la schiena, fino alle sale colloqui.

“Quel giorno, da quando mi hanno messo le manette mi sono come spento. Ricordo che mi hanno denudato, che qualcuno mi ha detto che così mi stancavo di fare il boss. Ho fatto anche finta di svenire, con la speranza che mi mollassero, ma loro mi picchiavano anche a terra. Nella sala colloqui ho visto uno di noi tutto sporco, se l’era fatta addosso. […]

“Il comandante mi aveva afferrato l’orecchio, cercava di strapparmi l’orecchino – dice un altro detenuto, Massimo D. – Una guardia era intervenuta per difendermi. “Con te facciamo i conti dopo”, gli aveva detto il comandante. Costantino C. chiude la lista testimoniale. “Così la finisci di fare il galletto”, gli avevano detto. Fra le immagini più terribili quella di un compagno, con la testa immersa in un secchio d’acqua”.