Eusebi (Università Cattolica), ha ragione Papa Francesco, l’Ergastolo è inaccettabile


braccio cella“La risposta al reato non può essere un corrispettivo che ne rifletta i contenuti negativi, ma deve essere un progetto per fare giustizia e non vendetta”. Così, Luciano Eusebi, Ordinario di Diritto Penale all’Università Cattolica di Milano e alla Pontificia Università Lateranense, riassume il senso del discorso rivolto da Papa Francesco all’Associazione Internazionale di diritto penale, il 23 ottobre scorso. Nel testo il vescovo di Roma metteva, tra l’altro in guardia, dal populismo penale, cioè dalla convinzione che “attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali”.

“La funzione della pena deve essere quella di trasformare dei rapporti feriti in rapporti giusti”, spiega Eusebi. “Anche dal punto di vista cristiano fare giustizia, secondo la concezione biblica, significa fare verità sul male ma per la salvezza dell’interlocutore. La giustizia salvifica biblica, per i cristiani, ha la piena realizzazione in Gesù. E Gesù non è Salvatore perché la sua sofferenza compensa il peccato di Adamo, ma perché la sua giustizia, intesa come disponibilità a un progetto di amore dinanzi al male, si rivela in Dio salvifica tramite la Resurrezione”.

“È importante valorizzare questo concetto di giustizia anche in ambito umano soprattutto per realizzare una prevenzione realistica del crimine”, spiega il prof. Eusebi, autore del libro “La Chiesa e il problema della pena” (Editrice La Scuola).

“La prevenzione non dipende dalla minaccia del male: i paesi che applicano la pena di morte hanno un livello di violenza interna superiore agli altri, perché veicolano un modello di rapporto umano basato sulla violenza”.

“La prevenzione – spiega Eusebi – dipende dal coraggio di riconoscersi corresponsabili dei fattori che favoriscono la criminalità. Dal contrasto degli interessi materiali che stanno dietro ai reati. Dalla capacità di ottenere elevati livelli di consenso al rispetto delle norme, anche attraverso percorsi seri di rielaborazione e revisione di vita, da parte del reo, disponibilità alla riparazione e assunzione di responsabilità”.

“Solo una società che sia capace di cogliere i suoi livelli di corresponsabilità nei crimini, invece di costruire capri espiatori o nemici su cui concentrare tutte le caratteristiche minacciose, può contrastare la criminalità, evitando la disfunzione di un diritto penale che prende solo i pesci piccoli e non sa opporsi ai grandi interessi criminali”. “Per questo sono necessarie, come spiega il Papa, nuove forme di risposta al reato, le famose pene alternative, che ridiano al carcere il ruolo di extrema ratio”, aggiunge Eusebi.

“Non è una rinuncia alla prevenzione ma un modo di farla meglio”. “In questo ambito – conclude il docente di diritto penale – s’inserisce l’affermazione del Papa che l’ergastolo è una pena di morte mascherata. Se si toglie la speranza non si stimola alcuna rielaborazione del reato da parte di chi l’ha commesso.

Come ha affermato la Corte europea dei diritti dell’uomo l’ergastolo non può essere il paradigma di una pena che cerca la prevenzione rispettando la dignità della persona. Il compito del diritto penale è infatti costruire sulle fratture, anche le più gravi, e non delineare una serie di ritorsioni”.

Radio Vaticana, 28 ottobre 2014

Oleandri (Antigone) : L’Italia, dopo 26 anni, ancora non riconosce il reato di Tortura


tortura10 dicembre 1984. 3 novembre 1988. 10 dicembre 2004. 5 marzo 2014. 27 ottobre 2014. Cosa hanno in comune tra loro queste cinque date? Molto, per chi conosce la storia della mancata introduzione del reato di tortura nel nostro paese. Era il 10 dicembre 1984 quando l’assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.

All’articolo 1 si definiva tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla por un atto che ossa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso […] qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”.

Quasi quattro anni dopo, il 3 novembre 1988, nei prossimi giorni “festeggeremo” il ventiseiesimo anniversario, l’Italia ratificò questa Convenzione ma, in questi ventisei anni, il nostro paese non è stato in grado di dotare il proprio codice penale di questo reato.

Il 10 dicembre del 2004, a vent’anni dall’approvazione della Convenzione da parte dell’Onu, in un carcere italiano, quello di Asti, accadde un fatto che molto c’entra con la tortura o che molto avrebbe potuto averne a che fare. In quel giorno – e nei giorni successivi -due detenuti, protagonisti di un’aggressione ai danni dì un agente penitenziario, vengono sottoposti a violenze e umiliazioni a scopo ritorsivo.

Il fatto lo riporta Claudio Sarzotti nel n. 3-2013 della rivista di Antigone “Nell’immediatezza dei fatti i due vengono denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri, nonostante il freddo dovuto alla stagione invernale, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello, razionandogli il cibo, impedendogli di dormire, insultandoli, strappandogli, nel caso di R.C., il codino e, in entrambi i casi, sottoponendoli nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo, giungendo anche, almeno per C.A., a schiacciargli la testa con i piedi”.

Il processo parte solo nel luglio del 2011 -non per le denunce di altri che nel carcere lavoravano, ma solo per alcune intercettazioni che, inizialmente, nulla avevano a che fare con il caso – e si chiude in Cassazione il 27 luglio 2012. Secondo Riccardo Crucioli, giudice di primo grado “i fatti potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura”.

Tuttavia, non essendoci il reato, lo stesso viene derubricato. Il 5 marzo 2014 il Senato approva un disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Un testo che differisce dalla convenzione Orni in quanto non prevede la tortura come un reato proprio delle forze dell’ordine, ma lo rende generico con una aggravante per chi faccia parte di un corpo dello stato. Una volta approvato l’atto passa alla Camera dei Deputati dove è tutt’ora fermo.

Il 27 ottobre 2014, il Consiglio delle Nazioni Unite per ì Diritti Umani ha giudicato l’Italia nell’ambito della Revisione Periodica Universale (UPR), Ancora non sono stati pubblicati i risultati di questa revisione, l’auspicio è, ovviamente, quello di una forte presa di posizione internazionale che spinga, finalmente e con ventisei anni di ritardo, il nostro paese a dotarsi di un reato irrinunciabile per qualsiasi democrazia avanzata.

Andrea Oleandri (Associazione Antigone)

Il Garantista, 28 ottobre 2014

Droghe: Cassazione, incostituzionalità Fini-Giovanardi non incide sulla custodia cautelare


cassazioneL’incostituzionalità della Fini-Giovanardi sotto il profilo della equiparazione tra droghe leggere e droghe pesanti (sentenza 32/2014 della Consulta) non incide sulla rideterminazione della custodia cautelare per i procedimenti in corso e nei quali la fase cautelare sia stata già chiusa. Lo hanno stabilito le Sezioni unite penali della Cassazione (sentenza 44895/14, depositata martedì) respingendo il ricorso di un imputato cagliaritano, impugnazione rimessa dalla Quarta sezione per un conflitto giurisprudenziale sul tema.

L’uomo era finito in custodia cautelare nel giugno del 2013 per detenzione a fini di spaccio di marijuana, in concorso con altre dieci persone. Prima il Gip poi il Riesame avevano più volte respinto la richiesta di sostituzione della misura e/o la sua revoca, anche dopo che la Consulta, nel marzo di quest’anno, aveva dichiarato l’incostituzionalità parziale della Fini-Giovanardi.

Secondo i difensori la custodia cautelare dell’imputato, protrattasi per più di otto mesi – a fronte di un termine massimo di tre mesi alla luce del ripristino delle vecchie e più miti sanzioni – doveva essere dichiarata illegittima “per contagio”, considerata la patologia originaria della norma caduta, con un effetto giuridico “ora per allora”.

La Quarta penale, esaminando il caso, aveva rilevato un precedente simile (Corte costituzionale 253/2004) che, in materia di presofferto all’estero, aveva riaperto il computo dei termini in senso favorevole all’imputato, anche di fronte a una fase procedimentale (la custodia cautelare) già chiusa.

Le Sezioni unite, al termine di una lunghissima ricostruzione storica/giuridica, sono però pervenute a una decisione diversa rispetto al precedente di dieci anni fa, negando l’effetto benefico retroattivo della pronuncia della Consulta sugli arresti del sospetto spacciatore sardo. Questo perché, argomenta il relatore, nonostante lo scrutinio costituzionale “la legittimità di un provvedimento nel momento della sua adozione e fino al momento della cessazione dei suoi effetti era ed è rimasta perfettamente tale; l’atto ha esaurito i suoi effetti indiretti, sulla disciplina delle durata delle fasi della custodia cautelare, all’interno di un quadro di stabilità normativa, senza ulteriori ricadute nella vicenda cautelare; infatti la fase successiva, non ancora conclusa, ha visto l’immediata potenziale applicabilità della nuova disciplina fin dall’inizio della sua vigenza”.

Applicare invece il parametro di calcolo “nuovo “a una fase procedimentale già chiusa e a sua modo “perfetta” darebbe invece luogo a un risultato “illegittimo”. In sostanza, a giudizio delle Sezioni unite, “in questo caso per tutto il periodo di riferimento (la fase cautelare, ndr) il parametro normativo è stato rispettato”. Se successivamente alla fase considerata sono cambiate le regole “non può ritenersi tuttavia che la disciplina del sistema della custodia cautelare che ha trovato applicazione (…) debba essere considerata irragionevole e comporti una violazione dell’articolo 3 della Costituzione”.

Alessandro Galimberti

Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2014

Romanelli (Camere Penali) : Caro Csm, ce lo chiede l’Europa… non parlare di “attacco alla Magistratura”


Avv. Rinaldo RomanelliII Csm, in vista della prossima discussione al Senato del testo di riforma della responsabilità civile dei magistrati, ha lasciato filtrare attraverso la stampa le prime indiscrezioni sulla bozza di parere elaborata dalla sesta commissione, che sarà discussa in plenum oggi.

Vista la generale reazione negativa del mondo politico e di chiunque a vario titolo si occupi di giustizia, all’evidente ed insostenibile difesa corporativa messa in atto da palazzo dei Marescialli, il Vice Presidente Legnini è intervenuto per lamentare letture “un po’ forzate” e ribadire che la posizione ufficiale sarà resa nota solo dopo la riunione del Csm.

C’è da augurarsi che tale posizione si discosti fortemente da quella che è stata fatta filtrare alla stampa, che ha dipinto il ddl sulla responsabilità civile dei magistrati come un grave attacco alla loro indipendenza. Non è in atto alcun attacco all’ordine giudiziario e chi voglia ricondurre in questa fuorviante prospettiva il tema del risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e della responsabilità civile dei magistrati, lo fa per difendere posizioni di privilegio a scapito della tutela dei diritti dei cittadini.

Le giurisprudenza elaborata dalla Corte di Giustizia Ue espressa già a partire dal 2003 e ribadita nel 2011, a seguito della procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea, ha affermato con adamantina chiarezza che l’attività giudiziaria di interpretazione di norme giuridiche e di valutazione di fatti e prove non può essere esclusa dall’alveo della responsabilità civile dello Stato. Data la delicatezza delle funzioni giudiziarie, la violazione di legge determina la risarcibilità del danno solo qualora sia “manifesta” e l’erronea valutazione dei fatti e delle prove solo quando degeneri nel “travisamento”.

Si tratta dell’affermazione di un fondamentale principio di diritto, destinato ad operare in tutta l’Unione Europea. Allo stesso modo, gli alti magistrati europei hanno chiarito che il filtro di ammissibilità dell’azione e l’orientamento estremamente restrittivo espresso dalla Suprema Corte di Cassazione, hanno reso del tutto ineffettiva la vigente disciplina sulla responsabilità civile delle toghe (nel decennio 2005/2014 vi sono state solo nove condanne a carico dello Stato, con una liquidazione media di importi pari a circa 54.000,00 euro). Posto che, col disegno di legge elaborato in materia, il Governo ha avuto cura di tradurre letteralmente nel testo normativo i passaggi fondamentali esposti dalla Corte di Giustizia, pare del tutto fuori luogo ipotizzare che qualcuno voglia attentare all’autonomia della magistratura, salvo che non si vogliano attribuire entrambi gli intendimenti direttamente alla Corte Ue.

Rendendo, invece, giustizia alla verità dei fatti, va riconosciuto il merito del Governo nell’avere avviato la riforma organica della disciplina, scelta in parte obbligata dalla procedura di infrazione avviata dalla Commissione (che ad oggi ha maturato una sanzione superiore ai trentasette milioni di euro a carico dell’Italia e costa trentaseimila euro in più ogni giorno che trascorre inutilmente), ma certamente voluta anche sotto il profilo politico. La prima contestazione della Commissione Ue risale al 10 febbraio 2009 e la successiva diffida è del 9 ottobre dello stesso anno; la condanna poi risale al 2011, tre anni orsono. Tre governi si sono succeduti prima dell’attuale senza mettere mano alla spinosa questione.

Nel merito è poi condivisibile l’opzione di rendere obbligatorio l’avvio dell’azione disciplinare in caso di accoglimento della domanda di risarcimento del danno. Questo aspetto andrebbe però ulteriormente meditato, atteso che, come è stato autorevolmente affermato anche dal Presidente della Commissione Giustizia del Senato, nel caso in cui il magistrato venga sanzionato, il provvedimento dovrebbe incidere sull’avanzamento di carriera, poiché diversamente rischierebbe di rimanere privo di effetti pratici.

È il profilo disciplinare, infatti, quello che più propriamente deve svolgere anche una funzione preventiva e rendere i magistrati, che già non lo siano, coscienziosi e responsabili nello svolgimento delle loro funzioni. Il tema dell’azione di rivalsa in sede civile da parte dello Stato nei confronti del magistrato che, con la sua condotta imperita o negligente abbia danneggiato il cittadino, è e deve restare, invece, estraneo ad ogni scopo general-preventivo. La ragione della rivalsa, il cui limite massimo complessivo (anche in caso di più soggetti danneggiati) è stato innalzato dal ddl governativo, con una scelta equilibrata e condivisibile, da un terzo alla metà dello stipendio netto annuo, va ricercata nel principio generale del neminem laedere.

Questo è posto a fondamento della disciplina della responsabilità extracontrattuale ed in base ad esso, chiunque violi il divieto di ledere l’altrui sfera giuridica è chiamato a rispondere del danno che sia conseguenza immediata e diretta della propria condotta. In via ordinaria il danno va risarcito nella sua integralità da chi ne è l’autore, la particolare delicatezza delle funzioni giudiziarie, induce poi ad introdurre eccezionali correttivi, che operino quali adeguate tutele a protezione magistrati.

Tali tutele sono, appunto, il giusto divieto di azione diretta (il danno può essere richiesto dal cittadino solo allo Stato) e l’altrettanto corretto limite nell’azione di rivalsa. Limite che, sia detto una volta per tutte, malgrado le grida di dolore che si alzano da palazzo dei Marescialli e qua e là da parte di qualche togato cui fa, evidentemente, difetto l’onestà intellettuale, è estremamente cautelativo e non comporta, né comporterà, in concreto nessun esborso, perché assicurabile con una somma irrisoria.

Per tradurre in numeri: lo stipendio annuale netto medio di un magistrato è di circa 50.000,00 euro; ciò vuol dire che, qualunque sia l’ammontare del danno che lo Stato sarà chiamato a risarcire (a uno o più persone fisiche e/o giuridiche) in ragione dell’atto o del provvedimento manifestamente erroneo, il limite complessivo dell’azione di rivalsa non potrà mediamente superare la somma 25.000,00 euro. Chiunque può comprendere quanto possa costare assicurarsi contro un rischio così irrisorio nell’ammontare e remoto nel suo verificarsi.

Resta, invece, la pressante necessità di approvare in tempi brevi la riforma della disciplina del risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio di funzioni giudiziarie e la responsabilità civile dei magistrati, sia per evitare l’aggravarsi delle sanzioni Ue, che per dotare il nostro sistema di un corpus normativo adeguato, degno di un paese civile evoluto e democratico.

Che per far ciò sia necessario vincere le resistenze corporative e le indebite pressioni della magistratura è ormai evidente a tutti, non tanto perché i magistrati vedano effettivamente messa in pericolo da questa riforma l’autonomia nell’esercizio della giurisdizione (tesi oggettivamente insostenibile), ma perché una legge che faccia sorgere loro in capo una qualche responsabilità (pur con tutte le cautele ed i correttivi di cui si è detto) è avvertita come oltraggiosa, ancor più perché li coglie in un momento di profonda crisi di identità.

Dopo un ventennio in cui sono stati identificati dall’opinione pubblica come l’unica soluzione possibile a tutti i mali del paese ed in cui, nel vuoto lasciato da un politica screditata hanno recitato, a vario titolo, ruoli che non avrebbero dovuto competergli, si trovano anch’essi messi in discussione ed il loro intoccabile operato addirittura sindacabile quale possibile fonte di danno ingiusto.

Rinaldo Romanelli (Componente Giunta Unione Camere Penali)

Il Garantista, 30 ottobre 2014

XIII Congresso di Radicali Italiani a Chianciano Terme dal 30 ottobre al 2 novembre


radicali-italiani-540x210Care compagne, cari compagni,
il 13° Congresso di Radicali italiani si terrà a Chianciano Terme da giovedì 30 ottobre (inizio ore 16.00) a tutta domenica 2 novembre presso il Centro Congressi Excelsior in piazza Sant’Agnese 6 (piazza Italia).

Voglio innanzi tutto ringraziarti per aver voluto dare, con il tuo sostegno, letteralmente corpo e vita a iniziative e lotte politiche essenziali. Grazie per aver compreso l’importanza e il valore dell’iscrizione, della militanza, in poche parole dell’essere e del fare i radicali. Davvero, grazie per esserci.
È stato un anno, questo che ci stiamo lasciando alle spalle, denso, ricco di iniziative politiche; ed è stato anche uno degli anni più difficili, per il Movimento di Radicali Italiani, ma in generale per tutte le organizzazioni che compongono la “galassia radicale” e che sono i soggetti costituenti del Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transnazionale. È stato un anno pesante per la pervicace e perdurante esclusione dall’accesso ai media. Il diritto a conoscere e ad essere conosciuti è costantemente violato, nonostante sentenze della magistratura e deliberati delle Authority. È una delle questioni che credo debba costituire oggetto della nostra riflessione nei giorni del congresso per l’individuazione di strumenti e iniziative che consentano di ripristinare un minimo di legalità.

Questa violazione di un diritto umano fondamentale ha avuto ed ha come logica conseguenza risvolti concreti nella nostra vita quotidiana. È infatti vero che RI ha dovuto vivere con una struttura operativa quasi inesistente e che il Partito Radicale ha dovuto chiudere il call center e licenziare le otto persone che da anni vi lavoravano; Partito che, nonostante i tagli, registra, ad oggi, un indebitamento pari all’intero autofinanziamento dello scorso anno.

È una questione di stretta attualità, rispetto alla quale noi – come movimento – non abbiamo dimostrato di essere, individualmente e collettivamente, non solo adeguati, ma neanche del tutto consapevoli. Intendo consapevoli del fatto che, dopo sessant’anni, il connotato di “democrazia reale” – l’opposto a Stato di Diritto, democratico, laico e federalista – del regime italiano è divenuto un dato strutturale, tecnicamente e formalmente ciò che si definisce un Regime, non fosse per il fatto che, anche in questo caso, vale la massima: “la durata è la forma delle cose”. Un sistema di comportamenti reiterati e trasmessi per un tempo così lungo nei confronti del popolo italiano è difficile da mutare a meno che non si operi un salto di qualità nella nostra lotta politica, nella nostra consapevolezza e intenzionalità, nell’esercizio e nella disciplina di analisi, idee e obiettivi a cui si dà corpo e che abbiano la forza della durata e della durezza delle cose che si fanno, le quali – ne sono convinta – durano solo se sono dure.

Per questo e in tal senso, dobbiamo ringraziare, intanto, lo studio legale del Prof. Andrea Saccucci per la collaborazione che ci ha permesso di depositare un nostro primo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo proprio riguardo al diritto fondamentale negato al popolo italiano di conoscere per poter scegliere e deliberare: l’esempio, certificato, della nostra esclusione dai media sta lì a dimostrarlo. A partire da questo esempio, occorre estendere, perfezionare e aggravare i nostri ricorsi alle giurisdizioni sovranazionali contro lo Stato-canaglia detto Italia, che non merita di essere annoverato nella lista dei Paesi democratici, lista che già lo vede agli ultimi posti per molti altri aspetti che riguardino il Diritto e la Legge.
Come documentato fino a poco tempo fa dal Centro di Ascolto, nonostante le grandi difficoltà che lo hanno portato alla chiusura (e anche questo è un segno dei tempi della “democrazia reale” in cui vive il Paese), esiste e si aggrava una scientifica espulsione dei radicali da ogni spazio informativo, pubblico o privato che sia; l’ostracismo nei confronti delle iniziative del movimento radicale e dei suoi leader Emma Bonino e Marco Pannella; ed esiste, clamoroso, un vero e proprio “caso Pannella”, deliberatamente, sistematicamente cancellato, abrogato.

Ciò nonostante, grazie a tutti voi, al vostro impegno e alla vostra consapevolezza, siamo riusciti negli anni a inscrivere nell’agenda politica di questo Paese molti dei temi da noi individuati come prioritari ed essenziali. Grazie a una durissima lotta nonviolenta, condotta in prima persona da Pannella, e con l’adesione importantissima di tanti radicali, e di tantissimi appartenenti alla comunità penitenziaria e cittadini, abbiamo conseguito significativi risultati per quel che riguarda il diritto alla Giustizia e l’Amnistia per la Repubblica. Non era scontato il messaggio solenne del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alle Camere; quel messaggio, un vero e proprio documento radicale, pur se finora vergognosamente e volgarmente ignorato dai partiti del regime, costituisce un punto fermo destinato a incidere; e ha già inciso, come hanno inciso gli strumenti da noi individuati del ricorso alle giurisdizioni nazionali e internazionali che sempre più confermano e fortificano la nostra analisi.

Sono indubitabili conquiste e successi radicali le sentenze delle corti di giustizia europee, della Corte Costituzionale, e persino le prese di posizione di Papa Francesco, il quale non solo ha abrogato la pena dell’ergastolo e introdotto nell’ordinamento Vaticano il reato di tortura, ma ha voluto anche incoraggiare, mentre da ogni parte gli si chiedeva di “mollare”, con due telefonate, l’azione nonviolenta di Marco Pannella. Non solo: una delegazione di esperti dell’ONU sulla detenzione arbitraria che ha visitato le carceri italiane dal 7 al 9 luglio ha avanzato raccomandazioni e proposte puntuali analoghe a quelle formulate dal Presidente Napolitano nel messaggio alle Camere volte a interrompere lo stato di illegalità in cui versa l’amministrazione della giustizia e la sua appendice carceraria nel nostro Paese, incluse le proposte in materia di Amnistia e indulto, che sono “quanto mai urgenti per garantire la conformità al diritto internazionale”.

È stato l’anno in cui le giurisdizioni hanno emesso sentenze letteralmente rivoluzionarie che hanno recepito diritti umani fondamentali, obiettivi storici delle lotte per il movimento radicale: dall’abrogazione per incostituzionalità delle parti più proibizioniste della legge Fini-Giovanardi sugli stupefacenti, alla demolizione di molti degli aspetti più odiosamente restrittivi dell’accesso alla procreazione medicalmente assistita ottenuti, questi ultimi, grazie al perseverante impegno dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà della ricerca. La via del ricorso alle giurisdizioni si rivela uno strumento imprescindibile di lotta per affermare lo Stato di diritto, democratico, federalista in una realtà in cui la degenerazione partitocratica e corporativa ha fatto precipitare l’Italia agli ultimi posti delle classifiche mondiali riguardo all’amministrazione della giustizia, alla libertà di impresa, all’inarrestabile formazione del debito pubblico.

È anche stato l’anno in cui ho posto in essere, con la presidente Laura Arconti e Marco Pannella un rilancio dell’iniziativa nonviolenta di disobbedienza civile in merito all’uso terapeutico della cannabis e volto alla legalizzazione delle sostanze stupefacenti a partire dalla marijuana.
Il Congresso deve essere l’occasione per dibattere e riflettere di tutto questo e di altro ancora, per confermare e rafforzare l’impegno sulle iniziative in corso, e decidere quelle che ci vedranno impegnati nel prossimo anno. Dovremo inoltre assumere decisioni urgenti e importanti rispetto al futuro e alle prospettive del Movimento, il reperimento di risorse, come far fronte a una situazione economico-finanziaria che rischia di collassare e pregiudicare le future iniziative, l’esistenza stessa di Radicali Italiani; e, non ultimo, l’apporto che saremo in grado di assicurare al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito.

Il prossimo anno il Partito Radicale compirà 60 anni. Nella nostra storia abbiamo spesso attraversato lunghi periodi di resistenza che hanno poi consentito all’Italia di realizzare grandi conquiste nel campo dei diritti umani, sociali e civili e di rallentare il processo di desertificazione della democrazia perseguito con sempre maggiore violenza dal regime partitocratico nelle sue diverse manifestazioni. Un processo che ha prodotto un “deserto” che è soprattutto di idee e si manifesta nella forma della supremazia della ragione di Stato sullo Stato di diritto democratico, federalista e laico. L’obiettivo primario è e resta la fuoriuscita del nostro Stato dalla condizione indiscutibile e indiscussa di flagranza criminale per la sua reiterata, ultradecennale violazione di diritti umani fondamentali sanciti dalla Costituzione italiana e tutelati dalla Convenzione Europea sui diritti umani relativi al divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti e all’irragionevole durata dei processi.

La vera e propria débâcle della democrazia ha prodotto quella della giustizia e dell’economia. Chi si ricorda di quando Marco Pannella ammoniva che il formarsi del debito pubblico italiano era un macigno sulle spalle di ogni cittadino, neonati compresi, un macigno che avrebbe ipotecato il futuro? Chi rammenta i referendum vinti, negati, ostracizzati, sull’economia, sulla giustizia, sui diritti civili, sulle riforme istituzionali e sull’ambiente? Non solo “prese di posizione”, che lasciano il tempo che trovano, ma lotte concrete, vissute spesso sui marciapiedi e mai nei salotti televisivi abitati da sempre -e sempre di più- da voraci maggioranze e opposizioni di regime. Nel solco di questa nostra alterità va considerato l’esposto per danno erariale recentemente presentato alla Corte dei Conti a causa dell’inaccettabile costo che lo Stato ha fatto e sta facendo pagare al popolo italiano per decenni di violazioni di diritti umani nel campo dell’amministrazione della giustizia e delle carceri.

Molto è stato conquistato e incardinato, molto resta da conquistare e incardinare; e non ho accennato alle importanti iniziative poste in essere sul fronte del dissesto ambientale e idrogeologico, il “caso Vesuvio e “campi Flegrei”, il disastro ecologico combattuto dai radicali -sul campo- in alcune regioni del nostro Paese.

Con pochissimi giorni a disposizione e davvero tanta “carne al fuoco”, affido a questo scritto il mio caloroso invito a partecipare in tanti al congresso sin dal primo giorno. È importante. Un abbraccio

Rita Bernardini 

Cassazione, sotto i 3 anni di condanna (prevedibile) no alla custodia cautelare in carcere


Corte di cassazione1Sotto i 3 anni di condanna (prevedibile) non si giustifica di norma la custodia cautelare in carcere. Va perciò annullata l’ordinanza che ha respinto la richiesta di applicazione di una misura meno grave presenta da parte di un cittadino extracomunitario accusato di furto aggravato in abitazione. Lo precisa la Corte di cassazione con la sentenza n. 44789 della Sezione penale feriale depositata ieri.

La Corte d’appello di Roma aveva confermato la custodia cautelare in carcere non tenendo conto della richiesta della difesa di commutare la misura negli arresti domiciliari e dando anche disponibilità all’utilizzo del braccialetto elettronico.

Il giudizio della Corte d’appello era però stato emesso prima dell’entrata in vigore del decreto n. 92 del 26 giugno 2014 con il quale è stata previ-sto come ulteriore caso in cui non può essere applicata 0 mantenuta la misura della custodia cautelare in carcere, quello in cui il giudice ritiene che con la sentenza di condanna, pronunciata all’esito del giudizio, la pena da infliggere non sarà superiore a 3 anni. Inevitabile allora l’annullamento e inevitabile anche il rinvio per una nuova valutazione alla luce del nuovo quadro normativo introdotto da pochi mesi.

Giovanni Negri

Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2014

Contro l’ergastolo, le parole di Papa Francesco. Molti Giudici sapranno ascoltarle ?


Papa FrancescoLo spettacolare discorso del Pontefice sui temi della giustizia penale ha il destino segnato. All’inizio echi sui media e plauso generale; poi i primi distinguo e i persistenti silenzi; infine la sua riduzione a profetica testimonianza.

È un dejà vu. Inviato un anno fa, il messaggio del Quirinale sulla condizione carceraria non è stato mai discusso in Senato. La Camera invece, asserendo incredibilmente che non lo si potesse dibattere in Aula, preferì discuterne i contenuti di sponda, dopo cinque mesi e due rinvii, in un emiciclo semivuoto.

Destino comune perché comune è il denominatore dei due documenti: lucidità di diagnosi, rigore nella prognosi, chiarezza nell’indicare i rimedi. Inevitabile, per la politica, la tentazione del fuggi fuggi generale.

Eppure, per la posta in gioco, l’intensa riflessione del Papa chiama all’assunzione di responsabilità tutti: chi plasma il diritto penale (il legislatore), chi gli dà forma di diritto vivente (i giudici e la dottrina giuridica), chi ne controlla la legittimità (la Consulta), chi è chiamato a informare senza cedere alle semplificazioni del populismo penale (i media). Vedremo chi sarà all’altezza della sfida.

Esserne all’altezza significa assumerla integralmente. Soprattutto nel punto di massima contraddizione: il ripudio della pena capitale e dell’ergastolo. In Italia, infatti, non c’è più la pena di morte, mentre sopravvive la pena fino alla morte.

Ha ragione Francesco: “L’ergastolo è una pena di morte nascosta”. Quanti sanno, infatti, che in Italia esistono non uno ma più ergastoli (comune, con isolamento diurno, ostativo)? Quanti sanno che, oggi, gli ergastolani sono 1.576? Molti reclusi da oltre 26 anni, senza liberazione condizionale; altri da più di 30 anni, durata massima per le pene detentive. Quanto a quelli ostativi (1.162, la stragrande maggioranza), sono ergastolani senza scampo: per essi le porte del carcere non si apriranno mai.

Dobbiamo forse attenderne la morte, per riconoscere che tutte queste persone scontano una pena senza fine? Nel frattempo, su di loro ci si accanisce. Leggi recenti negano agli ergastolani il beneficio della liberazione anticipata speciale, la durata massima dell’internamento in ospedale psichiatrico giudiziario, finanche il rimedio risarcitorio per detenzione inumana. Come se la loro colpa fosse uno stigma irredimibile, quando invece per Costituzione tutte le pene “devono tendere” alla risocializzazione del reo.

La pena di morte, “in tutte le sue forme” viene collegata dal Papa “con l’ergastolo”, entrambe abolite in Vaticano nel 2013. Altrettanta coerenza è pretesa dalla Costituzione. Il suo art. 27, 4° comma, rifiuta sanzioni irrimediabili: la pena di morte è vietata perché condannare un innocente è sempre possibile. L’ergastolo, al contrario, è un atto di fede cieca verso un’infallibilità giudiziaria che la Costituzione esclude.

La fallacia normativistica di un ordinamento a prova di errore si spinge, con l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, al paradosso kafkiano: se condannati all’ergastolo ostativo, auguratevi di essere davvero colpevoli, perché solo il colpevole può utilmente collaborare con la giustizia (guadagnando così una possibile libertà). Ma se malauguratamente foste innocenti, peggio per voi: dovrete rassegnarvi a morire murati vivi.

Quarant’anni fa la Consulta liquidò il problema della costituzionalità dell’ergastolo con una motivazione più breve di questo articolo. Da allora mai più un tribunale ha risollevato la questione. Molti giudici, commossi e ammirati, avranno letto le parole del Papa contro il “fine pena mai”. Sapranno anche ascoltarle?

Andrea Pugiotto

Il Manifesto, 29 ottobre 2014

Giustizia : il 1992 fu un anno di giustizia sommaria… come fanno a dimenticarsene ?


Giustizia 2E proprio una storia di patacche e pataccari quella del circo equestre giudiziario che, imbarcatosi a Palermo, si è spinto fino alle stanze del Quirinale a celebrare il trionfo degli storiografi della “trattativa Stato-mafia”. Ma per fare gli storiografi bisogna conoscere la storia, o perché la si è vissuta o perché la si è studiata. Se si è invece spacciatori di patacche, si vendono solo fandonie, addomesticando la realtà a proprio piacimento.

Il succo della patacca “trattativa Stato-mafia” racconta che nel biennio 1992-93 i vertici dello Stato (presidente della Repubblica, ministri degli Interni e della Giustizia, presidenti di Camera e Senato) minacciati di morte e ricattati dalla mafia, decisero di salvare la propria vita e di sacrificare quella di magistrati e di cittadini innocenti. La mafia avrebbe così cambiato la direzione degli attentati, spostandoli dai palazzi del potere ad altri obiettivi.

E in che modo i vertici dello Stato avrebbero “pagato” il pizzo alla mafia? Eliminando dagli incarichi di potere i “duri”, i repressori della criminalità organizzata, sostituendoli con persone più morbide e disponibili nei confronti della criminalità organizzata. Fino a non prorogare il provvedimento di carcere duro per un notevole gruppo di mafiosi.

Qualunque testimone dell’epoca dovrebbe essere in grado di smentire la Grande Patacca, se tanta smemoratezza non avesse colpito i protagonisti del tempo. Spremiamo allora un po’ le meningi. Di garantisti ne circolavano ben pochi, in quegli anni, stretti come erano governi e parlamento tra il massacro (giudiziario e carcerario) di tangentopoli e quello cruento delle stragi di mafia. Tanto che provvedimenti spesso incostituzionali (come il decreto Scotti-Martelli) o autolesionistici (come l’abrogazione dell’immunità parlamentare) venivano votati a grande maggioranza e alla velocità delle luce.

Così anche un ministro socialista come il guardasigilli Claudio Martelli divenne protagonista di leggi speciali e fautore del regime di 41-bis che introdusse un regime di vera tortura nei confronti di persone in attesa di giudizio (di cui la metà verrà assolta) nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Gli aspiranti storiografi pataccari hanno persino detto che Martelli a un certo punto si dimise (o addirittura fu fatto dimettere) per lasciare il posto al duttile Conso, più propenso a trattare con la mafia.

Allora va precisato prima di tutto che il ministro socialista si dimise il 10 febbraio 1993 in seguito a una telefonata del procuratore capo di Milano Saverio Borrelli il quale gli comunicava di aver emesso nei suoi confronti un avviso di garanzia. In secondo luogo che il suo successore Conso non fu affatto più “morbido”.

Basterebbe agli apprendisti storiografi andare a leggere il resoconto dell’audizione del ministro alla commissione giustizia della Camera il 3 novembre del 1993, quando sostenne con forza l’uso indiscriminato dell’articolo 41-bis proprio perché, diceva, attraverso questa forma di repressione si otteneva più facilmente che i mafiosi “si pentissero”.

Certo, gli fu obiettato, sappiamo tutti che basta torturare per far parlare le persone. Che importa se magari inventano?

L’altra Grande Patacca degli apprendisti storiografi è quella della sostituzione al vertice del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) del presidente Nicolò Amato, nel giugno 1993, con la coppia Capriotti-Di Maggio. Il dottor Amato fa torto a se stesso e alla propria storia di vero garantista dicendo di esser stato cacciato dalla mafia che avrebbe preferito Di Maggio perché più “morbido”.

Bisognerebbe chiederlo ai detenuti dell’epoca se ci fu morbidezza nel colloqui investigativi, inventati e santificati proprio da Di Maggio, che divennero il pentitificio e crearono mostri come Domenico Scarantino, il falso pentito dell’omicidio Borsellino. La verità è il contrario di quella raccontata da pataccari e travaglini.

Amato non voleva i trasferimenti dei detenuti alle isole e aveva chiesto la revoca dei provvedimenti di 41-bis addirittura in un documento del 6 marzo 1993. Fu il presidente Scalfaro in persona a sollecitarne l’allontanamento per far spazio a quel Francesco Di Maggio che creò pentiti e patacche. Questi sono pezzetti di storia vissuta, cari apprendisti storiografi.

Tiziana Maiolo

Il Garantista, 30 ottobre 2014

Il Governo chiede l’ennesima proroga per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari


opgÈ irrealistico pensare di chiudere gli Ospedali Psichiatrici giudiziari entro il 15 marzo 2015, come previsto dal decreto legge approvato nel marzo scorso. Servirà quindi un’ulteriore proroga. A lanciare l’allarme è la relazione sul Programma di superamento degli Opg trasmessa al Parlamento dai ministri della Salute, Beatrice Lorenzin, e della Giustizia, Andrea Orlando, aggiornata al 30 settembre.

“Nonostante il differimento al 31 marzo 2015 del termine per la chiusura degli Opg, sulla base dei dati in possesso del ministero della Salute – si legge nel documento – appare non realistico che le Regioni riescano a realizzare e riconvertire le strutture entro la predetta data.

In caso di mancato rispetto dell’anzidetta data, ovvero in caso di mancato completamento delle strutture nel termine previsto dai programmi regionali, è ferma intenzione dei ministri attivare la procedura che consente al governo di provvedere in via sostitutiva. È quindi di nuovo auspicabile un ulteriore differimento del termine di chiusura degli Opg”.

Già l’ultima proroga decisa aveva sollevato reazioni, in particolare quella del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel firmare il decreto legge aveva espresso “estremo rammarico, per non essere state in grado le Regioni di dare attuazione concreta a quella norma ispirata a elementari criteri di civiltà e di rispetto della dignità di persone deboli”.

Il Capo dello Stato aveva comunque “accolto con sollievo interventi previsti nel decreto legge per evitare ulteriori slittamenti e inadempienze, nonché per mantenere il ricovero in ospedale giudiziario soltanto quando non sia possibile assicurare altrimenti cure adeguate alla persona internata e fare fronte alla sua pericolosità sociale”.

Il decreto legge del marzo scorso, infatti, prescrive che “il giudice disponga nei confronti dell’infermo o del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dal ricovero in Opg o in una casa di cura e di custodia, ad eccezione dei casi in cui emergano elementi dai quali risulti che, ogni altra misura diversa dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario non sia idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale”.

La nuova proroga che secondo la relazione ministeriale si renderà necessaria, “tuttavia dovrebbe essere accompagnata dalla previsione di misure normative finalizzate a consentire la realizzazione e riconversione delle anzidette strutture entro tempi certi; a tal fine si ritengono tuttora valide le proposte formulate nella precedente Relazione inviata al Parlamento: misure normative volte a semplificare e razionalizzare le procedure amministrative; possibilità di avvalersi del silenzio-assenso per le autorizzazioni amministrative richieste a livello locale”.

“Le misure normative di semplificazione appaiono necessarie in quanto l’iter procedurale richiesto per la progettazione e la realizzazione delle strutture si distanzia notevolmente dai termini previsti dalle precedenti proroghe”.

“Fermi restando i profili di sicurezza, il presupposto sostanziale perché questo percorso politico e amministrativo prosegua – sottolinea ancora la relazione ministeriale – è la maturazione di una nuova cultura, un nuovo modo di guardare alla chiusura degli Opg e delle problematiche connesse, una attenzione qualificata degli attori politici e dei mezzi di informazione. Si cercherà di lavorare con interventi volti a contrastare il pregiudizio nei confronti dei soggetti affetti da malattia mentale, pur se autori di fatti costituenti gravi reati”.

Dopo l’approvazione del decreto del marzo scorso, spiega ancora la relazione trasmessa al Parlamento, “si è rilevata una leggera ma costante diminuzione delle presenze” negli Opg, “che alla data del 9 settembre 2014 vede 793 internati presenti a fronte degli 880 alla data del 31 gennaio 2014. Questo dato va comparato con quello dei flussi degli ingressi che nell’arco di un trimestre si è valutato attestarsi mediamente intorno a circa 10 pazienti per ciascun Opg, per un totale di 67 persone a trimestre”. Nel periodo che va dal primo giugno 2014 (dopo la conversione in legge del decreto), al 9 settembre 2014 si è avuto l’ingresso di 84 persone”. Attualmente gli ospedali psichiatrici giudiziari sono 6: Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo fiorentino, Napoli, Reggio Emilia.

– LEGGI LA RELAZIONE AL PARLAMENTO (PDF)

Rossano, i Radicali difendono l’On. Bruno Bossio dalle accuse dei Cinque Stelle


Bruno-Bossio-e-Guccione-visita-carcere-RossanoDopo aver letto le farneticanti, vergognose e sorprendenti dichiarazioni degli “Amici di Beppe Grillo, Rossano in Movimento” nei confronti dell’On. Enza Bruno Bossio, Deputato del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia, per quanto riguarda la sua attività di Sindacato Ispettivo Parlamentare effettuata, tra l’altro, in perfetta sinergia con il Partito Radicale (unica Forza Politica che si occupa da decenni del “Pianeta Carceri”) e che ha interessato anche la Casa di Reclusione di Rossano (Cosenza), non posso esimermi dal fare alcune, doverose, precisazioni a seguito della lectio magistralis di diritto penitenziario fatta dagli sconosciuti grillini e ripresa anche dagli organi di stampa.

Relativamente al fatto che “in quella particolare ala del Carcere di Rossano vengono rinchiuse determinate tipologie di soggetti che danno segni di elevata irrequietezza ovvero che vengono monitorati costantemente dallo Psichiatra della Casa di detenzione in attesa di un eventuale trasferimento nelle apposite strutture” evidenzio che, tale trattamento riservato ai detenuti ristretti nell’Istituto di Rossano, è contrario alla Costituzione ed alla Legge Penitenziaria. Infatti, nel Reparto di Isolamento (attualmente in fase di ristrutturazione dopo l’attività ispettiva dell’On. Bruno Bossio), possono essere “rinchiuse” soltanto quelle persone nei casi tassativi stabiliti dal legislatore (Art. 33 O.P.). Non vi è alcuna disposizione di legge che consentiva alla Direzione della Casa di Reclusione di Rossano di allocare i detenuti che davano “segni di elevata irrequietezza” o per essere “monitorati costantemente dallo Psichiatra” all’interno di quel Reparto. Anzi, vi è di più. Proprio per rafforzare l’eccezionalità della disciplina, il legislatore, ha stabilito il divieto per l’Amministrazione Penitenziaria, di utilizzare sezioni o reparti di isolamento per casi diversi da quelli previsti dalla Legge. (Art. 73 c. 8 Reg. Es. O.P.). Principi poi richiamati anche dalla Circolare Dipartimentale n. 500422 del 02/05/2011. L’isolamento del detenuto rappresenta una situazione del tutto eccezionale in quanto idoena ad incidere negativamente sul diritto alla salute ed al benessere individuale della persona e poiché, di norma, il detenuto, deve vivere insieme agli altri perché la vita in comune è un elemento basilare del trattamento penitenziario. Il Medico può prescrivere l’isolamento per ragioni sanitarie e, più precisamente, solo in caso di malattia contagiosa, da eseguirsi in appositi locali dell’infermeria o in un reparto clinico (Art. 73 c. 1 Reg. Es. O.P.). A tal proposito, sono già numerosi, i Medici (ed altri dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria) condannati dall’Autorità Giudiziaria competente, per omicidio colposo proprio per aver cagionato il suicidio di detenuti, specie quelli con disturbi psichiatrici conclamati, mettendoli in isolamento, misura prevista in casi eccezionali e tassativamente elencati, in violazione dell’Ordinamento e del Regolamento di Esecuzione Penitenziaria.

Quanto, invece, alle “celle” di questa “particolare ala del Carcere”, ribadisco la illegittimità del collocamento dei detenuti nelle “celle lisce” cioè prive dell’arredo ministeriale poiché, anche durante l’esecuzione dell’isolamento, i detenuti debbono essere alloggiati in camere ordinarie pur se il loro comportamento sia tale da arrecare disturbo o da costituire pregiudizio per l’ordine e la disciplina. (Art. 73 c. 2 Reg. Es. O.P.). Anche per questa particolare “prassi generalizzata” sono già state diverse le sentenze di condanna pronunciate nei confronti del personale dipendente dell’Amministrazione Penitenziaria. Le sanzioni disciplinari, infatti, devo essere “eseguite nel rispetto della personalità” (Art. 38 c. 4 O.P.) in ossequio al principio costituzionale di cui all’Art. 27 c. 3 secondo cui le pene devono essere conformi ad umanità. E “rinchiudere” delle persone in cella, senza vestiti, senza alcun mobilio o suppellettile non può considerarsi sicuramente rispettoso della dignità umana !

Per quanto riguarda tutto il resto delle critiche rivolte dagli “Amici di Beppe Grillo di Rossano” all’On. Bruno Bossio, le stesse, sono destituite di fondamento e, pertanto, vanno rispedite al mittente o, piuttosto, indirizzate ai propri rappresentanti in Parlamento che mai, sino ad ora, si sono seriamente occupati delle problematiche penitenziarie. Nell’Interrogazione Parlamentare nr. 5-03339 del 16/09/2014 presentata dalla Deputata democratica ai Ministri della Giustizia, della Salute e del Lavoro e delle Politiche Sociali non vi sono assolutamente riportate “mezze verità” come invece sostenuto dai “grillini”. E’ stato espressamente sollecitato il Governo ad attivarsi, con urgenza, sia per incrementare l’organico della Polizia Penitenziaria e degli Educatori in modo da migliorare le condizioni lavorative del personale e rendere lo stesso adeguato alle esigenze della popolazione detenuta e sia per aumentare l’organico degli esperti psicologi o, comunque, assicurare l’incremento delle ore di lavoro di quelli attualmente assegnati per migliorare l’efficacia degli interventi trattamentali nei confronti dei detenuti. Infine, è stato chiesto ai Ministri, se non ritengano di implementare l’attività trattamentale dei detenuti, sia essa di studio e/o di formazione e lavoro, di avviare immediatamente un corso di formazione professionale affinchè i detenuti possano lavorare in cucina e, se non ritengano opportuno intervenire con urgenza, per riavviare il laboratorio di falegnameria denominato “Dedalo” di cui è dotato l’Istituto in modo da ampliare i posti di lavoro intramurario. L’On. Bruno Bossio non si è mai adoperata per favorire l’allontanamento del Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria. Il trasferimento del Vice Commissario Elisabetta Ciambriello è stato disposto dall’Ufficio del Personale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria perche, evidentemente, ve ne erano i presupposti.

Venendo al “piano carceri razionale e degno di tal nome, come quello proposto dal M5S alla Camera”, bene ha fatto l’On. Bruno Bossio (e, contestualmente, il Parlamento ed il Governo) a non sostenerlo, poiché si trattava di un autentica accozzaglia di dati scollegati tra loro, anche non aggiornati, che non risolveva assolutamente la questione di prepotente urgenza, sempre più prepotentemente urgente, delle Carceri italiane, pluricondannate dalla giurisdizione europea. Francamente non capisco come si faccia ancora a parlare di “piano carceri” poiché si trattava di tre misere paginette accompagnate da una sola nota, con dati non aggiornati, risalenti addirittura al 2010. Il “piano carceri” dei grillini, all’epoca dei fatti, venne sonoramente bocciato da tutti, persino dalle Organizzazioni Sindacali della Polizia Penitenziaria.

Gli “Amici di Beppe Grillo di Rossano” quindi, a mio avviso, avrebbero fatto bene a continuare a tacere invece di improvvisarsi “professori” su qualcosa come la “comunità penitenziaria” che non conoscono e che ignorano completamente.

Emilio Enzo Quintieri