La quotidiana strage nelle galere italiane ….. e gli italiani in Carcere all’estero


Ascoli 3A. L., italiana, 42 anni, in carcere dal 2011 per una serie di reati comuni ed aveva problemi di dipendenza dalle droghe, negli ultimi tempi, dicono, aveva manifestato un forte disagio tanto da essere, proprio per questo, sottoposta in carcere alle misure previste in questi casi.

L’altro giorno ha deciso di farla finita, si è lasciata andare, non voleva più vivere; e dire che fra qualche mese, il 1 dicembre, sarebbe uscita di galera. Quattro mesi di attesa insopportabili, in quella cella del carcere di Civitavecchia, più insopportabili della morte. Oppure è stato proprio il pensiero che sarebbe dovuta uscire, e che avrebbe dovuto riprendere la vita che l’aveva portata in carcere; e ha così preferito “chiudere”…vai a sapere.

Angiolo Marroni, garante dei detenuti della regione Lazio, commenta: “Una persona che, a poche settimane dal fine pena, decide di negarsi in maniera tanto drammatica ogni speranza per il futuro dovrebbe farci riflettere sulla reale capacità della pena di tutelare i detenuti e di garantirne il pieno recupero”. Ancora un episodio che dovrebbe far riflettere sull’utilità della detenzione per i tossicodipendenti e, più in generale, per tutti coloro che sono affetti da malattie. “Il carcere è un ambiente duro che piega la resistenza dei più forti, figurarsi di quanti vivono una situazione di disagio psicologico”, dice Marroni: “Credo che il carcere non sia la risposta migliore ai problemi delle persone malate e che non basti diminuire le presenze per avere condizioni più umane di detenzione. La differenza sta nella funzione trattamentale e nell’individuare la soluzione più efficace a garantire i diritti dei reclusi, garantendo la continuità di trattamento anche quando finisce la detenzione. Per questi casi, la soluzione migliore può essere il ricorso a misure alternative alla detenzione come il ricovero nelle comunità terapeutiche, che sicuramente hanno maggiori professionalità per accogliere queste persone”.

La “notizia” del suicidio è stata data dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Il segretario Donato Capece, nel darla, ne ha fornito un’altra non meno inquietante: “È purtroppo il quarto caso in pochi anni che si verifica nella sezione femminile del carcere. Un Reparto il cui Ispettore coordinatore (un uomo) è spesso impiegato in altri servizi d’istituto. Questo episodio deve far capire all’Amministrazione penitenziaria l’importanza di avere un coordinatore stabile del settore detentivo femminile, magari destinando in quell’incarico un Ispettore di Polizia Penitenziaria femminile”.

Che al ministero della Giustizia non si batta ciglio di fronte a situazioni di questo tipo, è inquietante. Ma non solo. Si viene a sapere che “negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita ad oltre 17.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 119mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo. Numeri su numeri che raccontano un’emergenza ancora sottovalutata, anche dall’Amministrazione penitenziaria che pensa alla vigilanza dinamica come unica soluzione all’invivibilità della vita nelle celle senza però far lavorare i detenuti o impiegarli in attività socialmente utili”.

Si può ripetere? 17mila tentativi di suicidio sventati in vent’anni, quasi mille l’anno. 119mila atti di autolesionismo…

La lettera che segue la scrive Carmelo Musumeci, detenuto nel carcere di Padova, uno di quelli del “fine pena mai”. Da sola si commenta: “L’Italia è veramente uno strano paese dove la matematica non è una scienze esatta. E nelle galere italiane si usa la matematica fai da te. A secondo del governo di destra, di centro o di sinistra, e il ministro della giustizia che lo rappresenta, i posti letti in carcere aumentano e diminuiscono come per magia. Fino a poco tempo fa i posti letto erano 38.000 (Fonte: Associazione Antigone, confermati dall’allora Ministra della Giustizia, Annamaria Cancellieri). Dopo qualche mese i posti letto erano diventati 43.000 (Fonte dall’inchiesta di “Reporter” per Rai 3). E con meraviglia l’altro giorno ho letto che i numeri dei posti letto erano di nuovo cambiati: “(…) I dati, aggiornati al 31 luglio, del Ministro della Giustizia indicano nei 204 penitenziari 54.414 detenuti a fronte di 49.402 posti”(Fonte: Il Gazzettino, domenica 3 agosto 2014).

Penso che neppure Gesù riuscirebbe a moltiplicare i posti letto come fanno i funzionari del Dipartimento Amministrativo Penitenziario. Credo che gli italiani siano famosi nel mondo per la loro creatività ma penso che negli ultimi tempi la maggioranza dei posti letto in carcere si siano moltiplicati facendo diventare doppie le celle singole e quintuple quelle triple. Bugie e semplificazioni sul carcere se ne sentono tante e ancora l’altro giorno ho letto “Detenuto suicida con la bombola a gas Il sindacato degli agenti di Polizia ha chiesto che siano vietate”.

Come se uno non si potesse suicidare impiccandosi con le lenzuola, o con le maniche di una camicia. E come proporre di non costruire più automobili perché nelle strade italiane ci sono troppi decessi per incidenti di macchine. Se si levassero i fornellini a gas nelle prigioni come farebbero i detenuti a mangiare? Non lo sa il sindacato degli agenti della Polizia penitenziaria che il cibo che passa l’Amministrazione dell’istituto non basterebbe neppure per i topi che vivono in carcere?

Quante cose inesatte si dicono e si leggono sul carcere, ma è normale perché parlano tutti fuorché i carcerati. Sempre l’altro giorno sull’ultimo suicidio che è accaduto nel carcere di Padova, ho letto che il segretario generale del sindacato autonomo di Polizia penitenziaria denuncia carenze negli organici: “Come può un solo agente controllare 80 o 100 detenuti?”. A parte che sono i detenuti che controllano la Polizia penitenziaria – perché non potrebbe essere altrimenti – come farebbe un solo agente da solo a controllare ottanta o cento detenuti senza l’aiuto e il consenso degli stessi prigionieri?

Se le carceri non scoppiano, e i detenuti preferiscono ammazzarsi piuttosto che spaccare tutto come facevano nel passato, è merito della crescita interiore dei detenuti, o forse della loro rassegnazione, o, quasi certamente, della quantità di psicofarmaci e tranquillanti che vengono erogati. E trovo di pessimo gusto approfittare dei morti ammazzati di carcere per chiedere miglioramenti sindacali di organico e finanziari.

Noi non abbiamo bisogno di agenti penitenziari piuttosto abbiamo necessità di educatori, psicologi, magistrati di sorveglianza e di pene alternative. Ricordo a proposito che per i detenuti che scontano l’intera pena la recidiva sale al 70%, invece per chi sconta pene alternative al carcere la recidiva non supera il 12%. Solo così aumenterebbero realmente i posti letto e diminuirebbero i detenuti nelle carceri italiane, non certo con la matematica fai da te”.

Si può chiudere con un libro. Un libro che fa male leggere, ti sprofonda in realtà di cui poco si parla e di conosce. Si ignorano, infatti (o si preferisce ignorare), la condizione cui sono costretti a vivere i circa tremila italiani attualmente detenuti all’estero, talvolta in spregio al diritto internazionale e nell’inadempienza dei nostri consolati.

Pochi, probabilmente sanno che “l’American Dream” per un italiano si può trasformare in un incubo vissuto per anni dietro le sbarre, con il rischio di finire su una sedia elettrica o ucciso da un’iniezione; o che dietro il miraggio delle spiagge di Santo Domingo può nascondersi un “imprevisto” fatale. Oppure che il fascino di Paesi come India e Thailandia può celare aspetti oscuri e brutali.

“Le voci del silenzio. Storie di italiani detenuti all’estero” di Fabio Polese e Federico Cenci (Eclettica Edizioni, prefazione di Roberta Bruzzone), racconta le condizioni che affliggono circa 3mila italiani nel mondo, per lo più sconosciuti.

“Ci siamo accorti”, spiegano Polese e Cenci, “che ad alcune disavventure giudiziarie, in cui erano incappati nostri connazionali all’estero, non veniva dedicato nessun spazio rilevante, né da parte dei media, né da parte delle nostre istituzioni. E così abbiamo provato a colmare noi questo vuoto, iniziandoci ad occupare del tema, cercando storie e testimonianze” Ed ecco, pagina dopo pagina, sfilare sotto i nostri occhi i casi e le vicende di Carlo Parlanti, Enrico Forti, Derek Rocco Barnabei, Mariano Pasqualin, Fernando Nardini, Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni con interviste dirette agli involontari protagonisti o ai loro familiari… Parlanti, per esempio, è rientrato in Italia dopo aver scontato quasi tutta la sua pena negli Stati Uniti; Nardini anche lui è rientrato nel nostro Paese dopo essere stato finalmente dichiarato innocente nel terzo grado di giudizio thailandese…

Un lavoro non ha la presunzione di fungere da giudice e dichiarare l’innocenza a spada tratta degli italiani detenuti all’estero, ma intende dar voce a chi non ce l’ha: “Crediamo sia un atto doveroso nei confronti di chi è rinchiuso in pochi metri quadri di cemento armato in qualche angolo sperduto del mondo. Ogni storia tra quelle che abbiamo trattato possiede aspetti toccanti.

Tuttavia la storia di Mariano Pasqualin, un giovane ragazzo di Vicenza arrestato per traffico di stupefacenti a Santo Domingo, è quella che ci è rimasta più impressa. In una galera del posto, dopo pochi giorni dal suo arresto, ha trovato la morte in circostanze molto dubbie.

Nonostante la richiesta della famiglia di far rientrare la salma in Italia per effettuare un’autopsia che ne svelasse le cause del decesso, le autorità della Repubblica Dominicana hanno, senza autorizzazione, deciso di cremare il corpo e spedire in Italia le ceneri. Sua sorella Ornella ci ha trasmesso una grande forza d’animo, ma anche il dolore lacerante che ha colpito tutta la loro famiglia”.

L’Annuario statistico 2013 pubblicato dalla Farnesina “censisce” in 3.103 gli italiani detenuti oltre confine. In particolare 2.323 italiani sono imprigionati nei Paesi dell’Unione europea, 129 nei Paesi extra-Ue, 494 nelle Americhe, 64 nella regione mediterranea e in Medio Oriente, 17 nell’Africa sub-sahariana e 76 in Asia e Oceania.

In Europa il record degli italiani detenuti se lo aggiudicano le carceri tedesche che ospitano 1.115 nostri connazionali, segue la Spagna con 524. Nel resto del mondo, il maggior numero di detenuti italiani si trova in Venezuela con 81 persone recluse nelle carceri amministrate dal governo di Caracas. “Purtroppo la nostra diplomazia”, dicono Polese e Cenci, “in tutte le parti del mondo, anche secondo le testimonianze che abbiamo raccolto per la stesura del libro, è spesso assente e in alcuni casi impreparata ad affrontare certe situazioni”.

Valter Vecellio

http://www.lindro.it, 30 agosto 2014