Roma, Gli negano la scarcerazione e si impicca. Al Giudice scrive “Mi hai condannato a morte”


carcere rebibbiaUn marchigiano di Maiolati Spontini, vicino Jesi, si è ucciso nella Casa Circondariale di Roma Rebibbia dove era detenuto per una storia di stupefacenti subito dopo aver saputo del rigetto di una istanza di scarcerazione. L’uomo, che aveva chiesto la sostituzione della misura cautelare (arresti domiciliari anziché in cella), si è impiccato allo spigolo di una armadietto con un nastro di stoffa ricavato dall’accappatoio. Si chiamava Bruno Plutino.

Il dramma – di cui si è avuta notizia solo ieri – risale a sabato mattina intorno a mezzogiorno. Alle 11,15 gli era stato notificato da Genova il rigetto dell’istanza. I soccorsi sono stati immediati e una dottoressa ha praticato per 40 minuti il massaggio cardiaco e le manovre di rianimazione, ma non c’è stato nulla da fare. Plutino, 42 anni, ex concessionario auto, avrebbe lasciato due lettere per il magistrato: una in busta chiusa, nell’altra un messaggio: “Mi hai condannato a morte”. Del dramma si occupa il Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio Avv. Angiolo Marroni. Plutino, condannato in primo grado a 16 anni a 8 mesi, non doveva stare in carcere.

Da tempo era gravemente depresso, rifiutava il cibo tanto da essere malnutrito e aver perso in poco tempo quasi 50 chili (da 102 a 58). Uno scheletro di un metro e 83 di altezza che non ragionava più e rifiutava le cure. Allo psichiatra aveva detto “di sentire negati i propri diritti di detenuto”. Uno stato fisico e mentale che aveva portato la direzione del carcere di Rebibbia a concludere: “Si evidenza che le attuali condizioni di salute risultano gravemente incompatibili con il regime carcerario con elevatissimo rischio della vita”.

La relazione aveva convinto un giudice a sostituire l’ordinanza di custodia cautelare in carcere (emessa per importazione di 670 chili di cocaina) con gli arresti domiciliari in una struttura ospedaliera di Roma, da “individuarsi tempestivamente”. Ma i rifiuti di sottoporsi alle cure nel carcere di Ancona, dove l’uomo era stato la settimana scorsa per essere presente ad atri processi, erano stati presi male e il medico penitenziario aveva scritto che il detenuto si trovava “in condizioni stabili con ripresa del peso corporeo”. Il giorno dopo Plutino si è ucciso a Rebibbia dove era stato riportato.

Roma: detenuto rischia di perdere l’utilizzo delle gambe a causa di mancata fisioterapia in Carcere


regina-coeli-carcereDopo una caduta e un intervento all’Ospedale “Pertini”, avrebbe bisogno di fare la fisioterapia.

Ma a Regina Coeli da cinque mesi gli è negata. Nelle carceri il mancato funzionamento del sistema sanitario nazionale è emergenza quotidiana.

L’ennesima emergenza riguarda questa volta un detenuto che rischia di perdere irrimediabilmente l’utilizzo delle gambe a causa della mancata fisioterapia. Si tratta del caso di Claudio B., un detenuto dì 46 anni ristretto al carcere di Rebibbia.

“Una vicenda surreale – ha commentato il garante dei detenuti Angiolo Marroni – a metà strada fra malasanità ed eccesso di ottusa burocrazia. Ed intanto, secondo i medici, ogni giorno che passa allontana sempre di più la possibilità per Claudio di recuperare il normale uso degli arti. Proprio in queste ore ho inviato un telegramma al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. Quest’uomo deve essere curato al più presto”.

L’odissea è partita da un incidente verificatosi il 21 aprile scorso al carcere di Rebibbia. Claudio cade in carcere e, a causa dei forti dolori alle gambe dovuti dall’impatto, viene ricoverato d’urgenza all’ospedale Pertini con una diagnosi di “plegia arto superiore destro ed arti inferiori bilateralmente associata ad alterazioni del visus e a deficit campo visivo in occhio destro insorte dopo trauma da caduta”.

Al momento della dimissione, i medici raccomandano il trasferimento in una struttura dove si effettuino cicli di fisioterapia e il costante monitoraggio neurologico. Il 13 giugno Claudio viene però trasferito al centro clinico di Regina Coeli dove è

noto che non viene effettuata la fisioterapia. Il 7 luglio, viste la sue condizioni e le reiterate segnalazioni, il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria dispone l’assegnazione dell’uomo nel carcere di Velletri, ma tale trasferimento avviene solo il 20 settembre e solamente dopo il pressante intervento del Garante.

Arrivato a Velletri, però, Claudio, non viene accettato dai medici del carcere che non ritengono gestibili le sue problematiche e deve tornare a Regina Coeli. Sono passati cinque mesi e il detenuto ancora non riesce a beneficiare della fisioterapia e rischia di perdere l’utilizzo delle gambe. Il garante Marroni chiede al più presto un provvedimento sanitario adeguato per il detenuto e conclude con una denuncia generale sulle problematicità del sistema penitenziario: “Come dimostra questa vicenda, i problemi del carcere non sono legati solo al sovraffollamento. Errori, eccessi di burocrazia, leggerezze e mancanze di comunicazione possono creare danni ancor più gravi”.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 30 settembre 2014

La quotidiana strage nelle galere italiane ….. e gli italiani in Carcere all’estero


Ascoli 3A. L., italiana, 42 anni, in carcere dal 2011 per una serie di reati comuni ed aveva problemi di dipendenza dalle droghe, negli ultimi tempi, dicono, aveva manifestato un forte disagio tanto da essere, proprio per questo, sottoposta in carcere alle misure previste in questi casi.

L’altro giorno ha deciso di farla finita, si è lasciata andare, non voleva più vivere; e dire che fra qualche mese, il 1 dicembre, sarebbe uscita di galera. Quattro mesi di attesa insopportabili, in quella cella del carcere di Civitavecchia, più insopportabili della morte. Oppure è stato proprio il pensiero che sarebbe dovuta uscire, e che avrebbe dovuto riprendere la vita che l’aveva portata in carcere; e ha così preferito “chiudere”…vai a sapere.

Angiolo Marroni, garante dei detenuti della regione Lazio, commenta: “Una persona che, a poche settimane dal fine pena, decide di negarsi in maniera tanto drammatica ogni speranza per il futuro dovrebbe farci riflettere sulla reale capacità della pena di tutelare i detenuti e di garantirne il pieno recupero”. Ancora un episodio che dovrebbe far riflettere sull’utilità della detenzione per i tossicodipendenti e, più in generale, per tutti coloro che sono affetti da malattie. “Il carcere è un ambiente duro che piega la resistenza dei più forti, figurarsi di quanti vivono una situazione di disagio psicologico”, dice Marroni: “Credo che il carcere non sia la risposta migliore ai problemi delle persone malate e che non basti diminuire le presenze per avere condizioni più umane di detenzione. La differenza sta nella funzione trattamentale e nell’individuare la soluzione più efficace a garantire i diritti dei reclusi, garantendo la continuità di trattamento anche quando finisce la detenzione. Per questi casi, la soluzione migliore può essere il ricorso a misure alternative alla detenzione come il ricovero nelle comunità terapeutiche, che sicuramente hanno maggiori professionalità per accogliere queste persone”.

La “notizia” del suicidio è stata data dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Il segretario Donato Capece, nel darla, ne ha fornito un’altra non meno inquietante: “È purtroppo il quarto caso in pochi anni che si verifica nella sezione femminile del carcere. Un Reparto il cui Ispettore coordinatore (un uomo) è spesso impiegato in altri servizi d’istituto. Questo episodio deve far capire all’Amministrazione penitenziaria l’importanza di avere un coordinatore stabile del settore detentivo femminile, magari destinando in quell’incarico un Ispettore di Polizia Penitenziaria femminile”.

Che al ministero della Giustizia non si batta ciglio di fronte a situazioni di questo tipo, è inquietante. Ma non solo. Si viene a sapere che “negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita ad oltre 17.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 119mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo. Numeri su numeri che raccontano un’emergenza ancora sottovalutata, anche dall’Amministrazione penitenziaria che pensa alla vigilanza dinamica come unica soluzione all’invivibilità della vita nelle celle senza però far lavorare i detenuti o impiegarli in attività socialmente utili”.

Si può ripetere? 17mila tentativi di suicidio sventati in vent’anni, quasi mille l’anno. 119mila atti di autolesionismo…

La lettera che segue la scrive Carmelo Musumeci, detenuto nel carcere di Padova, uno di quelli del “fine pena mai”. Da sola si commenta: “L’Italia è veramente uno strano paese dove la matematica non è una scienze esatta. E nelle galere italiane si usa la matematica fai da te. A secondo del governo di destra, di centro o di sinistra, e il ministro della giustizia che lo rappresenta, i posti letti in carcere aumentano e diminuiscono come per magia. Fino a poco tempo fa i posti letto erano 38.000 (Fonte: Associazione Antigone, confermati dall’allora Ministra della Giustizia, Annamaria Cancellieri). Dopo qualche mese i posti letto erano diventati 43.000 (Fonte dall’inchiesta di “Reporter” per Rai 3). E con meraviglia l’altro giorno ho letto che i numeri dei posti letto erano di nuovo cambiati: “(…) I dati, aggiornati al 31 luglio, del Ministro della Giustizia indicano nei 204 penitenziari 54.414 detenuti a fronte di 49.402 posti”(Fonte: Il Gazzettino, domenica 3 agosto 2014).

Penso che neppure Gesù riuscirebbe a moltiplicare i posti letto come fanno i funzionari del Dipartimento Amministrativo Penitenziario. Credo che gli italiani siano famosi nel mondo per la loro creatività ma penso che negli ultimi tempi la maggioranza dei posti letto in carcere si siano moltiplicati facendo diventare doppie le celle singole e quintuple quelle triple. Bugie e semplificazioni sul carcere se ne sentono tante e ancora l’altro giorno ho letto “Detenuto suicida con la bombola a gas Il sindacato degli agenti di Polizia ha chiesto che siano vietate”.

Come se uno non si potesse suicidare impiccandosi con le lenzuola, o con le maniche di una camicia. E come proporre di non costruire più automobili perché nelle strade italiane ci sono troppi decessi per incidenti di macchine. Se si levassero i fornellini a gas nelle prigioni come farebbero i detenuti a mangiare? Non lo sa il sindacato degli agenti della Polizia penitenziaria che il cibo che passa l’Amministrazione dell’istituto non basterebbe neppure per i topi che vivono in carcere?

Quante cose inesatte si dicono e si leggono sul carcere, ma è normale perché parlano tutti fuorché i carcerati. Sempre l’altro giorno sull’ultimo suicidio che è accaduto nel carcere di Padova, ho letto che il segretario generale del sindacato autonomo di Polizia penitenziaria denuncia carenze negli organici: “Come può un solo agente controllare 80 o 100 detenuti?”. A parte che sono i detenuti che controllano la Polizia penitenziaria – perché non potrebbe essere altrimenti – come farebbe un solo agente da solo a controllare ottanta o cento detenuti senza l’aiuto e il consenso degli stessi prigionieri?

Se le carceri non scoppiano, e i detenuti preferiscono ammazzarsi piuttosto che spaccare tutto come facevano nel passato, è merito della crescita interiore dei detenuti, o forse della loro rassegnazione, o, quasi certamente, della quantità di psicofarmaci e tranquillanti che vengono erogati. E trovo di pessimo gusto approfittare dei morti ammazzati di carcere per chiedere miglioramenti sindacali di organico e finanziari.

Noi non abbiamo bisogno di agenti penitenziari piuttosto abbiamo necessità di educatori, psicologi, magistrati di sorveglianza e di pene alternative. Ricordo a proposito che per i detenuti che scontano l’intera pena la recidiva sale al 70%, invece per chi sconta pene alternative al carcere la recidiva non supera il 12%. Solo così aumenterebbero realmente i posti letto e diminuirebbero i detenuti nelle carceri italiane, non certo con la matematica fai da te”.

Si può chiudere con un libro. Un libro che fa male leggere, ti sprofonda in realtà di cui poco si parla e di conosce. Si ignorano, infatti (o si preferisce ignorare), la condizione cui sono costretti a vivere i circa tremila italiani attualmente detenuti all’estero, talvolta in spregio al diritto internazionale e nell’inadempienza dei nostri consolati.

Pochi, probabilmente sanno che “l’American Dream” per un italiano si può trasformare in un incubo vissuto per anni dietro le sbarre, con il rischio di finire su una sedia elettrica o ucciso da un’iniezione; o che dietro il miraggio delle spiagge di Santo Domingo può nascondersi un “imprevisto” fatale. Oppure che il fascino di Paesi come India e Thailandia può celare aspetti oscuri e brutali.

“Le voci del silenzio. Storie di italiani detenuti all’estero” di Fabio Polese e Federico Cenci (Eclettica Edizioni, prefazione di Roberta Bruzzone), racconta le condizioni che affliggono circa 3mila italiani nel mondo, per lo più sconosciuti.

“Ci siamo accorti”, spiegano Polese e Cenci, “che ad alcune disavventure giudiziarie, in cui erano incappati nostri connazionali all’estero, non veniva dedicato nessun spazio rilevante, né da parte dei media, né da parte delle nostre istituzioni. E così abbiamo provato a colmare noi questo vuoto, iniziandoci ad occupare del tema, cercando storie e testimonianze” Ed ecco, pagina dopo pagina, sfilare sotto i nostri occhi i casi e le vicende di Carlo Parlanti, Enrico Forti, Derek Rocco Barnabei, Mariano Pasqualin, Fernando Nardini, Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni con interviste dirette agli involontari protagonisti o ai loro familiari… Parlanti, per esempio, è rientrato in Italia dopo aver scontato quasi tutta la sua pena negli Stati Uniti; Nardini anche lui è rientrato nel nostro Paese dopo essere stato finalmente dichiarato innocente nel terzo grado di giudizio thailandese…

Un lavoro non ha la presunzione di fungere da giudice e dichiarare l’innocenza a spada tratta degli italiani detenuti all’estero, ma intende dar voce a chi non ce l’ha: “Crediamo sia un atto doveroso nei confronti di chi è rinchiuso in pochi metri quadri di cemento armato in qualche angolo sperduto del mondo. Ogni storia tra quelle che abbiamo trattato possiede aspetti toccanti.

Tuttavia la storia di Mariano Pasqualin, un giovane ragazzo di Vicenza arrestato per traffico di stupefacenti a Santo Domingo, è quella che ci è rimasta più impressa. In una galera del posto, dopo pochi giorni dal suo arresto, ha trovato la morte in circostanze molto dubbie.

Nonostante la richiesta della famiglia di far rientrare la salma in Italia per effettuare un’autopsia che ne svelasse le cause del decesso, le autorità della Repubblica Dominicana hanno, senza autorizzazione, deciso di cremare il corpo e spedire in Italia le ceneri. Sua sorella Ornella ci ha trasmesso una grande forza d’animo, ma anche il dolore lacerante che ha colpito tutta la loro famiglia”.

L’Annuario statistico 2013 pubblicato dalla Farnesina “censisce” in 3.103 gli italiani detenuti oltre confine. In particolare 2.323 italiani sono imprigionati nei Paesi dell’Unione europea, 129 nei Paesi extra-Ue, 494 nelle Americhe, 64 nella regione mediterranea e in Medio Oriente, 17 nell’Africa sub-sahariana e 76 in Asia e Oceania.

In Europa il record degli italiani detenuti se lo aggiudicano le carceri tedesche che ospitano 1.115 nostri connazionali, segue la Spagna con 524. Nel resto del mondo, il maggior numero di detenuti italiani si trova in Venezuela con 81 persone recluse nelle carceri amministrate dal governo di Caracas. “Purtroppo la nostra diplomazia”, dicono Polese e Cenci, “in tutte le parti del mondo, anche secondo le testimonianze che abbiamo raccolto per la stesura del libro, è spesso assente e in alcuni casi impreparata ad affrontare certe situazioni”.

Valter Vecellio

http://www.lindro.it, 30 agosto 2014

Civitavecchia, Donna muore suicida in Carcere. Aveva 42 anni e avrebbe terminato la pena tra 4 mesi


281778_203223483069863_6404471_nUna detenuta 42enne si è suicidata, sabato sera, nella sua cella del carcere di Civitavecchia. Ne da notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe.

“Nella notte di sabato, nella Casa circondariale di Civitavecchia si è tolta la vita una detenuta di nazionalità italiana di anni 42: è purtroppo il quarto caso in pochi anni che si verifica nella sezione femminile del carcere. Un Reparto il cui Ispettore coordinatore (un uomo) è spesso impiegato in altri servizi d’istituto. Questo episodio deve far capire all’Amministrazione penitenziaria l’importanza di avere un coordinatore stabile del settore detentivo femminile, magari destinando in quell’incarico un Ispettore di Polizia Penitenziaria femminile”, sottolinea il segretario generale del Sappe Donato Capece.

“Quel che mi preme mettere in luce” aggiunge Capece “è la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistingue l’operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative come il sovraffollamento, le gravi carenze di organico di poliziotti, le strutture spesso inadeguate. Siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso – conclude il leader dei poliziotti penitenziari.

“Negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita ad oltre 17.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 119mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo. Numeri su numeri che raccontano un’emergenza purtroppo ancora sottovalutata, anche dall’Amministrazione penitenziaria che pensa alla vigilanza dinamica come unica soluzione all’invivibilità della vita nelle celle senza però far lavorare i detenuti o impiegarli in attività socialmente utili”.

Il Garante: detenuta suicida sarebbe uscita tra 4 mesi

Il tragico episodio sarebbe avvenuto nella notte di sabato scorso. A renderlo noto il segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe, Donato Capece, che ha inoltre sottolineato che sarebbe la quarta detenuta suicida del penitenziario in pochi anni, in un reparto dove manca inoltre la figura fissa dell’ispettore coordinatore.

Ma l’episodio è reso, se possibile, ancor più tragico se si pensa che la donna che si è tolta la vita sarebbe uscita dall’istituto di pena fra quattro mesi, ossia il prossimo dicembre. A dichiararlo, in una nota, il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni che aggiunge: “Una persona che, a poche settimane dal fine pena, decide di negarsi in maniera tanto drammatica ogni speranza per il futuro dovrebbe farci riflettere sulla reale capacità della pena di tutelare i detenuti e di garantirne il pieno recupero”.

La detenuta, A. L., era in carcere dal 2011 per una serie di reati comuni ed aveva problemi di dipendenza dalle droghe, e negli ultimi tempi avrebbe manifestato un forte disagio tanto da essere, proprio per questo, sottoposta in carcere alle misure previste in questi casi.

“Il gesto di questa donna – ha proseguito Marroni – riaccende per l’ennesima volta i riflettori sull’utilità della detenzione per i tossicodipendenti e, più in generale, per tutti coloro che sono affetti da malattie. Il carcere è un ambiente duro che piega la resistenza dei più forti, figurarsi di quanti vivono una situazione di disagio psicologico.

Nel caso specifico anche il momento del fine pena, se non affrontato con adeguati sostegni, per i soggetti più deboli può essere drammatico”. “Credo che il carcere non sia la risposta migliore ai problemi delle persone malate – ha concluso Marroni – e che non basti diminuire le presenze per avere condizioni più umane di detenzione.

La differenza sta nella funzione trattamentale e nell’individuare la soluzione più efficace a garantire i diritti dei reclusi, garantendo la continuità di trattamento anche quando finisce la detenzione. Per questi casi, la soluzione migliore può essere il ricorso a misure alternative alla detenzione come il ricovero nelle comunità terapeutiche, che sicuramente hanno maggiori professionalità per accogliere queste persone”.

Ristretti Orizzonti, 26 agosto 2014

Conclusa l’Ispezione Ministeriale nel Carcere di Rossano. Il Ministro Orlando attende la relazione degli Ispettori


On. Enza Bruno Bossio - Deputato PdÈ stata portata a termine l’ispezione mirata nel carcere di Rossano Calabro (Cosenza) disposta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, a seguito della denuncia dell’on. Enza Bruno Bossio riferita alle condizioni detentive riscontrate personalmente dalla parlamentare nell’istituto penitenziario. Gli ispettori, secondo quanto si è appreso, sono arrivati già lunedì scorso ed avrebbero terminato il loro lavoro la sera stessa. Dal carcere, intanto, nessun commento, né da parte del direttore Giuseppe Carrà, né dalla polizia penitenziaria, dal momento che in istituto si attende di sapere l’esito dell’ispezione. Nel carcere di Rossano sono attualmente ospitati 260 detenuti, il 70% dei quali sta espiando una pena definitiva, 36 all’ergastolo, con un sovraffollamento, secondo un recente studio di Demoskopika, del 25,2%. Nell’istituto c’è anche una sezione di alta sicurezza dedicata ai terroristi islamici nella quale sono reclusi in 15.

Nei giorni scorsi, il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, ha reso noto che gli agenti avevano sventato un tentativo di evasione di un gruppo di detenuti che stavano allargando le sbarre delle finestre per calarsi con le lenzuola.
Sabato scorso, Bruno Bossio si era recata nel carcere calabrese per una visita a sorpresa. Subito dopo aveva scritto al Garante dei detenuti del Lazio per denunciare condizioni di detenzione inumane e degradanti e i tentativi del personale della struttura per impedirgli l’accesso e la visita nelle varie sezioni del carcere, nonostante il proprio status di parlamentare.
Riguardo alle segnalazioni della parlamentare calabrese, Angiolo Marroni, Garante dei detenuti del Lazio, ha detto: «Ho ricevuto proprio in queste ore una dettagliata relazione da parte del deputato del Pd Vincenza Bruno Bossio sulla situazione del carcere di Rossano Calabro. Auspico che il ministro della Giustizia Andrea Orlando verifichi al più presto, come richiesto dal deputato, se siano rispettati i diritti fondamentali delle persone che sono ristrette in quella struttura».
«Quanto denunciato dall’on. Bruno Bossio – ha aggiunto Marroni – è grave ed inquietante e riporta le lancette della storia bruscamente indietro nel tempo, a comportamenti non degni di un Paese democratico. Spetta alle istituzioni fare piena luce sulla vicenda ed accertare eventuali responsabilità partendo da un dato di fatto incontrovertibile: le carcere fanno parte a pieno titolo della nostra società e certamente non sono luoghi franchi, dove è possibile sospendere regole e diritti».

Corriere della Calabria – 13 Agosto 2014