Aversa, l’ex internato in Opg “ci ho passato 2 anni infernali, mi ha salvato il giardinaggio”


ERGASTOLO BIANCO, viaggio in un O.P.G. italianoGaetano, ex rinchiuso ad Aversa: “Ai più “inguacchiati” fanno le punture”. “Il giorno in cui ci sono entrato ero spaventato, non sapevo che cosa aspettarmi. Ero passato davanti al manicomio tante volte, quando ancora lavoravo per un’impresa di pulizie della zona. Ma non avrei mai immaginato che tra i pazzi ci sarei finito anche io”.

Gaetano P. parla in modo concitato, ansioso di raccontare la propria storia. È la storia di una vita vissuta in modo “normale” fino ai quarant’anni, nonostante quel disturbo bipolare che gli era stato diagnosticato, fatta di un lavoro più o meno costante, una moglie e due figli piccoli. Poi con la fine di un amore è precipitato tutto: la malattia di Gaetano si è aggravata, lui ha smesso di seguire regolarmente la terapia e spesso nei momenti più bui i servizi non erano lì ad ascoltarlo.

Ed è così che dai litigi in famiglia culminati in piccoli reati e denunce si è ritrovato sulla soglia dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa. “Era l’inferno dantesco. Gente che urlava, piangeva.. Lì sapete cosa ci facevano a quelli più “inguacchiati” – chiede, usando un termine napoletano per indicare così gli internati più agitati. Se non stavano bene gli infermieri prendevano una siringa, facevano loro una puntura e poi li ributtavano dentro.

Altro che “casa di cura e custodia”, come la chiamano”. I due anni e quattro mesi che Gaetano ha passato all’Opg di Aversa, dal febbraio 2010 al giugno 2012, sono pochi rispetto ai decenni che alcuni suoi compagni di cella hanno dovuto scontare per crimini ancora minori di quelli commessi da lui. Per anni infatti la norma è stata che sentenze di un paio d’anni si tramutassero in quegli “ergastoli bianchi” che, per chi soffre di un disturbo mentale ed è stato prosciolto – ovvero dichiarato incapace di intendere e di volere al momento del reato e di conseguenza non destinato al carcere – non possono che rendere ancora più pesante il fardello della malattia.

“Io facevo teatro e giardinaggio e queste attività mi hanno salvato, erano gli unici momenti in cui riuscivo a pensare ad altro e a svuotare la mente. Se non sai prendere le misure e capire come fare per sopravvivere, in Opg rischi di restarci per sempre”, racconta. E aggiunge: “Io andavo sempre in tribunale quando il magistrato di sorveglianza mi chiamava per il riesame del mio caso, ma tanta gente lo saltava senza saperlo, prendendo proroghe di anno in anno”.

Pur essendo uscito da Aversa, anche per Gaetano la libertà è ancora lontana. “Abbiamo cominciato a progettare il suo ritorno a casa, ma è necessario attivare una rete di servizi sul territorio che sia pronta ad accoglierlo al suo rientro”, spiega Valentina De Filpo, psicologa della comunità alloggio “Si può fare”, una struttura protetta situata in provincia di Salerno dove ora Gaetano risiede, insieme a una decina di altri ex-internati seguiti con la collaborazione della Asl di Salerno. “Questi sono pazienti che possono riacquistare le loro capacità di funzionamento ma avranno bisogno di sostegno e dei servizi locali. Bisogna far sì che abbiano dei punti di riferimento saldi, come un lavoro e un rapporto con i centri di igiene mentale, oltre che ristabilire i legami con le famiglie”. E aggiunge: “Finché questo non succederà gli Opg non chiuderanno mai veramente”.

Caterina Clerici

La Stampa, 25 agosto 2014

Ospedali Psichiatrici Giudiziari, la chiusura che non arriva mai. A Barcellona Pozzo di Gotto un recluso dal 1992 per aver rubato 7 mila lire in un bar


OPGDovevano sparire nel 2013,ma l’ennesimo rinvio li tiene aperti fino al 2015. In Italia non c’è nulla di più duraturo dell’interim”, sosteneva il senatore a vita Giulio Andreotti. A dargli tragicamente ragione sulla reiterazione italiana del provvisorio è la proroga continua nella chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg).

Dovevano scomparire nel 2013, poi da un rinvio all’altro, il termine è slittato al 2015. E così, malgrado un’inchiesta parlamentare-choc e i fulmini scagliati dal Quirinale sugli ultimi sei manicomi criminali, per gli “ergastolani bianchi” le porte dell’internamento restano sbarrate. Non sono ancora pronte le strutture “sostitutive” per i 1.051 “ospiti”.

Quand’era al Senato, da presidente della commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, l’attuale sindaco di Roma, Ignazio Marino ha visto l’inferno dietro quelle sbarre. La mappa dell’orrore include Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Aversa, Secondigliano. Un’inchiesta che prima dell’orrore degli Opg ha portato alla luce anche scandali come quello di alcune cliniche psichiatriche in Abruzzo dove i degenti venivano lasciati a vivere in condizioni disumane: nei giorni scorsi il gip di Chieti, Antonella Redaelli, ne ha rinviato a giudizio i responsabili.

Ogni ispezione per Marino è stata una ferita. “Nel caso dell’inchiesta a Chieti, ricordo la prima volta che ho messo piede in una di quelle strutture: le suole delle scarpe si appiccicavano al pavimento coperto di urina – racconta. Quando si parla di Opg, invece, dobbiamo tener presente che la legge Basaglia ha eliminato i manicomi nel 1978.

Ma le regioni non sono ancora in grado di far funzionare delle strutture sanitarie degne di questo nome che sostituiscano i manicomi criminali”. E ciò malgrado le regioni abbiano a disposizione, grazie a una legge approvata nel 2012, un fondo da 180milioni di euro per le opere strutturali e 55milioni all’anno per la spesa corrente. Per questo rimangono in funzione strutture fatiscenti che, come Barcellona Pozzo di Gotto, dipendono dal ministero di Giustizia, e nelle quali sono recluse persone incapaci di intendere e di volere che hanno compiuto reati per cui non vengono mandati in carcere, bensì in centri che dovrebbero essere riabilitativi ma in realtà sono veri e propri lager fetidi e degradati.

Gli internati non ricevono cure adeguate e non hanno accesso a un ambiente ospedaliero: non guariscono e si trasformano lentamente in prigionieri a vita. “Nel reparto di contenzione a Barcellona Pozzo di Gotto in una stanza angusta c’erano tre letti di contenzione, di cui uno di ferro arrugginito con un buco al centro per il passaggio di feci e urine – spiega Marino. Lì ho visto un paziente legato mani e piedi con le garze, immobilizzato a letto da cinque giorni”.

Ad Aversa “gli internati tenevano dentro i bagni alla turca le bottiglie d’acqua per raffreddarle d’estate non avendo i frigoriferi”. Sempre ad Aversa materassi intrisi di feci e ambienti maleodoranti dove un ospite imprigionato in un bugigattolo senza luce domanda a Marino: “Per i cavalli c’è una legge che punisce chi li rinchiude in pochi metri, perché non c’è per gli uomini?”. Di proroga in proroga i “dimenticati dal mondo” stanno lì anche 30-35 anni, in ex caserme inaugurate negli anni Trenta dal Guardasigilli del regime, Alfredo Rocco.

Ogni sei mesi con il “copia e incolla” nei loro documenti vengono confermate le ragioni giuridiche per trattenerli negli ospedali psichiatrici giudiziari. “Ho letto centinaia di motivazioni, sono tutte uguali”, assicura Marino.

E così a Barcellona Pozzo di Gotto un incensurato di Catania è recluso dal 1992 per aver rubato 7mila lire in un bar: “Attraverso la giacca ho fatto il gesto della rapina, come se avessi in mano la pistola, i miei amici li hanno lasciati uscire con la condizionale, a me hanno dato l’infermità mentale e sono qui da 22 anni”.

Un “autentico orrore indegno di un paese appena civile”: così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, definiva queste strutture nel discorso di fine anno del 2012.Lo scorso aprile, il capo dello Stato ha espresso nuovamente “rammarico” per aver dovuto firmare il decreto che prevede lo slittamento della chiusura dei sei Opg attivi a livello nazionale dal 2014, come previsto dalla legge, al 2015.Eanche due sentenze della Consulta hanno stabilito che è “necessario” superare gli Opg. Per sempre.

Giacomo Galeazzi

La Stampa, 25 agosto 2014

Civitavecchia, Donna muore suicida in Carcere. Aveva 42 anni e avrebbe terminato la pena tra 4 mesi


281778_203223483069863_6404471_nUna detenuta 42enne si è suicidata, sabato sera, nella sua cella del carcere di Civitavecchia. Ne da notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe.

“Nella notte di sabato, nella Casa circondariale di Civitavecchia si è tolta la vita una detenuta di nazionalità italiana di anni 42: è purtroppo il quarto caso in pochi anni che si verifica nella sezione femminile del carcere. Un Reparto il cui Ispettore coordinatore (un uomo) è spesso impiegato in altri servizi d’istituto. Questo episodio deve far capire all’Amministrazione penitenziaria l’importanza di avere un coordinatore stabile del settore detentivo femminile, magari destinando in quell’incarico un Ispettore di Polizia Penitenziaria femminile”, sottolinea il segretario generale del Sappe Donato Capece.

“Quel che mi preme mettere in luce” aggiunge Capece “è la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistingue l’operato delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative come il sovraffollamento, le gravi carenze di organico di poliziotti, le strutture spesso inadeguate. Siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso – conclude il leader dei poliziotti penitenziari.

“Negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita ad oltre 17.000 detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 119mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo. Numeri su numeri che raccontano un’emergenza purtroppo ancora sottovalutata, anche dall’Amministrazione penitenziaria che pensa alla vigilanza dinamica come unica soluzione all’invivibilità della vita nelle celle senza però far lavorare i detenuti o impiegarli in attività socialmente utili”.

Il Garante: detenuta suicida sarebbe uscita tra 4 mesi

Il tragico episodio sarebbe avvenuto nella notte di sabato scorso. A renderlo noto il segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe, Donato Capece, che ha inoltre sottolineato che sarebbe la quarta detenuta suicida del penitenziario in pochi anni, in un reparto dove manca inoltre la figura fissa dell’ispettore coordinatore.

Ma l’episodio è reso, se possibile, ancor più tragico se si pensa che la donna che si è tolta la vita sarebbe uscita dall’istituto di pena fra quattro mesi, ossia il prossimo dicembre. A dichiararlo, in una nota, il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni che aggiunge: “Una persona che, a poche settimane dal fine pena, decide di negarsi in maniera tanto drammatica ogni speranza per il futuro dovrebbe farci riflettere sulla reale capacità della pena di tutelare i detenuti e di garantirne il pieno recupero”.

La detenuta, A. L., era in carcere dal 2011 per una serie di reati comuni ed aveva problemi di dipendenza dalle droghe, e negli ultimi tempi avrebbe manifestato un forte disagio tanto da essere, proprio per questo, sottoposta in carcere alle misure previste in questi casi.

“Il gesto di questa donna – ha proseguito Marroni – riaccende per l’ennesima volta i riflettori sull’utilità della detenzione per i tossicodipendenti e, più in generale, per tutti coloro che sono affetti da malattie. Il carcere è un ambiente duro che piega la resistenza dei più forti, figurarsi di quanti vivono una situazione di disagio psicologico.

Nel caso specifico anche il momento del fine pena, se non affrontato con adeguati sostegni, per i soggetti più deboli può essere drammatico”. “Credo che il carcere non sia la risposta migliore ai problemi delle persone malate – ha concluso Marroni – e che non basti diminuire le presenze per avere condizioni più umane di detenzione.

La differenza sta nella funzione trattamentale e nell’individuare la soluzione più efficace a garantire i diritti dei reclusi, garantendo la continuità di trattamento anche quando finisce la detenzione. Per questi casi, la soluzione migliore può essere il ricorso a misure alternative alla detenzione come il ricovero nelle comunità terapeutiche, che sicuramente hanno maggiori professionalità per accogliere queste persone”.

Ristretti Orizzonti, 26 agosto 2014