Palermo, Detenuto muore in Ospedale. I familiari si rivolgono alla Magistratura


Ospedale Civico PalermoUn detenuto agrigentino, Gioacchino Salvaggio di 54 anni, nei giorni scorsi, è morto presso l’Ospedale Civico di Palermo, dove era stato trasportato dopo un malore avuto al Carcere “Pagliarelli” di Palermo. Per tale motivo i suoi familiari hanno presentato un esposto alla locale Procura della Repubblica chiedendo di effettuare gli accertamenti necessari per verificare se ci siano state delle responsabilità.

Ma a distanza di sette giorni dal decesso il corpo si trova ancora nella Camera Mortuaria ed il Pubblico Ministero della Procura di Palermo non ha ancora deciso se disporre l’esame autoptico. I parenti chiedono di fare luce sulle cause della morte ed accertare se i soccorsi sono stati portati a termine senza ritardo.

“Né i parenti di Selvaggio, né il sottoscritto – spiega l’avvocato Giuseppe Dacquì -, abbiamo mai appreso che avesse problemi di salute”. La vicenda giudiziaria di Salvaggio risale agli anni compresi fra il 1997 e il 2001. In quel periodo avrebbe fatto parte di una banda che ricettava assegni falsi e spacciava banconote contraffatte.

Di Gregorio : Pietà per Provenzano, è un vegetale col cuore battente


Avv. Rosalba Di GregorioParla l’avvocato del boss: “L’encefalopatia gli ha distrutto il cervello ma il tribunale di Sorveglianza non vuole revocargli il 41 bis”.

Pietà per Provenzano. Uno Stato degno di questo nome dovrebbe averla o quantomeno trovarla. Perché il boss dei boss, come ci conferma il suo avvocato, Rosalba Di Gregorio, è da tempo un “vegetale”, fermo su un letto da due anni, si nutre con un sondino nasogastrico, l’encefalopatia gli ha “distrutto” il cervello. Eppure è ancora detenuto in regime di carcere duro.

Persino l’ex pm Antonio Ingroia ha chiesto la revoca del 41bis. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, invece, sostiene che il boss, anche se a intermittenza, reagisce. E a proposito di Dap, al legale di Provenzano abbiamo chiesto che ne pensa dell’annuncio del premier Renzi di revocare il segreto di Stato sul cosiddetto “protocollo Farfalla”, il presunto accordo fra servizi segreti e Dap che permetteva agli 007 di “contattare” i detenuti per 41bis.

Avvocato Di Gregorio, come sta Provenzano?

“Malissimo. Se gli staccano i fili avrà sì e no 48 ore di vita. Pesa 45 chili, è alimentato artificialmente con un sondino che va dal naso non più allo stomaco, che ormai non reagisce più, ma direttamente all’intestino. Dovranno fargli la Peg (l’inserimento di un tubo dalla cavità gastrica verso l’esterno per permettergli di nutrirsi, ndr), ma col suo tipo di encefalopatia, l’anestesia potrebbe ucciderlo. Provenzano è un vegetale col cuore battente ma senza più orientamento spazio-temporale”.

Eppure il carcere duro non gli viene revocato.

“Il tribunale di Sorveglianza di Roma si comporta da Ponzio Pilato. Il primario ospedaliero del reparto San Paolo di Milano, dove Provenzano è ricoverato in regime di 41 bis, ha inviato una relazione al magistrato di Sorveglianza di Milano certificando l’incompatibilità di Provenzano con qualunque stato di detenzione. Il magistrato ha attivato il tribunale di Sorveglianza di Milano, che ha nominato i periti rinviando però il tutto al 3 ottobre. Alla stessa data, pilatescamente, ha rinviato anche il tribunale di Roma competente per il 41 bis. Così Provenzano se ne resta “felicemente” al 41bis perché, dicono, in queste condizioni pare possa dare ordini e comandare Cosa Nostra. In queste condizioni potrebbe impartire la sua volontà solo a una mafia in coma come lui”.

Potrebbe rimanere in questo stato per anni?

“No, i medici dicono che le cellule celebrali si stanno distruggendo e che a un certo punto verranno meno anche quelle che comandano la respirazione e quindi il cuore. Provenzano morirà improvvisamente per arresto cardiocircolatorio dopo anni di sofferenza. Io ho esaurito tutti i mezzi che il codice mi mette a disposizione per tirarlo fuori di lì. È un momento di inciviltà dello Stato. Persino Ingroia ha chiesto la revoca del 41bis”.

A che titolo e in che veste? Come avvocato?

“Le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze hanno espresso parere favorevole alla revoca. Ma il ministro della Giustizia le ha ignorate riapplicando il 41bis. Anche la Procura nazionale antimafia ha detto “no” alla revoca. E sa perché? Perché il Dap gli ha comunicato che ad intervalli Provenzano capisce. Nella loro relazione c’è scritto che se gli chiedi “come sta”, a volte non reagisce, altre dice “bene”, quindi per loro sta bene. È anche annotato che quando l’infermiera gli chiede se vuole la tv accesa, lui risponde “mia sorella dov’è? E le preghiere?”, ma per il Dap interagisce. Per il giudice tutelare, invece, non occorre nemmeno la perizia tanto è evidente che il suo cervello è ormai compromesso”.

Ha sentito che il premier desecreterà il “protocollo Farfalla”?

“Se lo facessero veramente avremmo molto da apprendere. Parliamo di un accesso alle carceri allo scopo di dialogare coi detenuti per 41bis per acquisire informazioni senza informare la magistratura. Qual è il fine? I “contatti” di che natura erano? Che scopo aveva “contattare” i detenuti per 41bis senza che alla magistratura venisse comunicato nulla? Si tratta di un’operazione che non prevede nessun tipo di rendicontazione scritta, assolutamente “chiusa”, che “sfugge” ma che di certo è contraria alla costituzione, perché il detenuto dovrebbe rispondere solo alla magistratura di sorveglianza. Di certo, però, questo “protocollo” non è stato creato per perdere tempo”.

Nel 2012 l’allora eurodeputata dipietrista Sonia Alfano e Giuseppe Lumia, del Pd, incontrarono Provenzano in carcere.

“Quella era un’iniziativa personale che non mi pare possa rientrare nel protocollo farfalla”.

Anche il dialogo in carcere tra Riina e Alberto Lo Russo, un affiliato alla Sacra Corona Unita trasformato in “cimice umana”, ha fatto pensare al “protocollo Farfalla”.

“In questo caso allora dovremmo parlare di una “farfalla” ancora svolazzante, ma non è proprio la stessa cosa. Il vero “protocollo Farfalla” è quello esistito negli anni precedenti. Quello sì che è una cosa grave e seria, e sarà un bene fare piena luce. Magari anche su alcuni strani suicidi di detenuti mafiosi avvenuti nel corso degli anni”.

Luca Rocca

Il Tempo, 31 luglio 2014

Csm : Sono pochi 8 euro per risarcire i detenuti vittime di trattamenti disumani


Consiglio_Superiore_della_MagistraturaTroppo pochi 8 euro al giorno per risarcire un detenuto per le “condizioni inumane o degradanti” vissute in un carcere sovraffollato. Questa la posizione espressa dal Csm con un parere, approvato oggi in plenum a larga maggioranza (19 voti a favore, astenuti il laico della Lega Ettore Albertoni e il togato di Magistratura Indipendente Antonello Racanelli), sul decreto legge che prevede misure compensative per i detenuti.

La norma, osserva Palazzo dei Marescialli, può essere esposta anche a “problemi di compatibilità costituzionale sotto il profilo della effettiva tutela in relazione al combinato disposto” degli articoli 117 della Costituzione (che prevede il rispetto dei vincoli degli ordinamenti comunitari) e dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. “L’obiettiva esiguità del quantum risarcitorio da liquidarsi – si legge nel parere messo a punto dalla Sesta Commissione (relatrice la togata di Unicost Giovanna Di Rosa) e richiesto dal ministro Andrea Orlando – senza che alcuna discrezionalità sul punto residui al giudicante, potrebbe infatti essere sospettata di svuotare di contenuto la tutela offerta dalla disposizione sovranazionale, la cui violazione non darebbe luogo ad un effettivo ristoro per equivalente da parte dell’amministrazione”.

Inoltre, “al di là della evidente esiguità della somma – osserva il Csm – chiaramente riconducibile al timore che il riconoscimento di importi assai cospicui a favore dei danneggiati possa gravare eccessivamente sulle finanze dello Stato, la previsione di un siffatto limite appare discutibile anche sotto il profilo della rigidità del tasso di risarcimento previsto per legge, senza che sia prevista alcuna possibilità di graduarlo in ragione della gravità del pregiudizio eventualmente accertato”.

Profili “critici”, poi, sono evidenziati anche sulla previsione della riduzione di un giorno di pena per ogni 10 passati in “condizioni degradanti” a favore di coloro che stanno ancora scontando la condanna: “riduzione che forse – sottolinea Palazzo dei Marescialli – sarebbe stato preferibile parametrare su quelle di cui il condannato può beneficiare, a titolo di liberazione anticipata, quando partecipi positivamente all’opera rieducativa”. Infine, l’organo di autogoverno della magistratura definisce “ragionevole ritenere che l’elevato numero dei ricorsi che, presumibilmente, potrà essere esperito da una vastissima platea di soggetti, finisca per determinare un notevole rallentamento nell’accesso alla tutela giurisdizionale, anche tenuto conto della condizione di notevole difficoltà in cui versano gli uffici di sorveglianza, investiti di una nuova gravosa competenza”.

Lo Giudice (PD): “Approvato in Senato ODG sui minori in carcere”


Sergio Lo GiudiceL’estensione del limite di età, dai ventuno ai venticinque anni, per l’applicazione delle misure penali previste per i minorenni, sia accompagnata da misure adeguate. Questo il contenuto di un ordine del giorno presentato in Commissione Giustizia del Senato e fatto proprio dal Governo, relativo al decreto n. 92 in materia carceraria che sarà al voto nell’aula del Senato il prossimo 6 agosto. L’odg, sottoscritto dai senatori Pd Sergio Lo Giudice, Giuseppe Lumia, Rosaria Capacchione, Monica Cirinnà, Giuseppe Cucca, Rosanna Filippin e Nadia Ginetti segue un atto analogo assunto nei giorni scorsi dalla Camera su proposta della deputata Pd Sandra Zampa.

“L’intenzione di mantenere all’interno dell’ordinamento penale minorile i giovani fino ai venticinque anni che abbiano compiuto un reato da minorenne è in sé condivisibile – spiega Sergio Lo Giudice, primo firmatario della proposta -. Tuttavia questa scelta potrebbe avere contraccolpi negativi sull’organizzazione degli istituti penali minorili. Non è possibile progettare trattamenti analoghi per un ragazzo di quattordici anni e uno di ventiquattro, magari con già alle spalle un’esperienza precedente nel carcere per adulti. Per questo motivo abbiamo chiesto e ottenuto dal Governo di valutare tre interventi: erogare più risorse finanziarie e di personale agli istituti penitenziari minorili, differenziare gli interventi psico-pedagogici mirati alle diverse età dei soggetti, attivare specifici istituti a custodia attenuata utilizzando le strutture già disponibili nel circuito penale minorile”.

SENATO DELLA REPUBBLICA – XVII LEGISLATURA

COMMISSIONE GIUSTIZIA

Resoconto Sommario n. 135 del 30 Luglio 2014

ORDINE DEL GIORNO AL DISEGNO DI LEGGE (AL TESTO DEL DECRETO LEGGE N. 92/2014) N. 1579

Il Senato
premesso che:

il decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92, recante disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile, all’articolo 5 detta una specifica disposizione relativa all’esecuzione delle pene detentive, delle misure cautelari, delle misure alternative e di sicurezza nei soggetti che abbiano compiuto da poco la maggiore età;

il succitato articolo 5 prevede che le disposizioni dettate in materia di esecuzione dei provvedimenti limitativi della libertà personale nei confronti dei minorenni si applichino a tutti i soggetti sottoposti a sanzione che non abbiano ancora raggiunto il venticinquesimo anno di età e non più il ventunesimo;

l’inserimento di un sia pur esiguo numero di detenuti e internati di età maggiore ai ventun’anni negli istituti penali minorili pone la necessità di affrontare con la massima attenzione il tema delicato della compresenza fra detenuti internati minori e altri di età più elevata

impegna il Governo:

a valutare la possibilità di erogare maggiori risorse finanziarie e di personale agli istituti penitenziari minorili presso i quali saranno assegnati i soggetti sottoposti a sanzione che abbiano già raggiunto il ventunesimo anno di età e non abbiano ancora raggiunte il venticinquesimo;

a valutare la possibilità di predisporre interventi psico-pedagogici mirati alle diverse età dei soggetti sottoposti a sanzione, volti a dare continuità ai percorsi rieducativi e contribuire al pieno recupero sociale degli stessi;

a valutare l’opportunità di attivare appositi e dedicati istituti a custodia attenuata per la fascia di detenuti e internati in questione, utilizzando a tale scopo spazi detentivi recuperati fra le strutture presenti nell’ambito del circuito penale minorile.

Lo Giudice , Lumia, Capacchione, Cirinnà, Cucca, Filippin, Ginetti

I decreti sulle Carceri e lo “scandalo” dei Tribunali di Sorveglianza


Aula Udienza TribunaleSi occupano degli sconti di pena e dei permessi. Ma gli ultimi due decreti, cosiddetti svuota-carceri, vengono applicati in maniera diversa da città a città. E ora vengono assunte anche persone non preparate.

Il decreto legge Cancellieri, il primo inopinatamente denominato “svuota carceri”, ha dato il via ad una situazione di caos devastante negli uffici di Sorveglianza di tutta Italia. Nel decreto si stabiliva, tra le misure per mitigare l’insostenibile sovraffollamento carcerario, dopo le sonore bacchettate della Corte Europea, la concessione ai detenuti meritevoli per buona condotta, di uno sconto di pena ulteriore: non più 45 giorni ogni sei mesi, bensì 75. Nella prima stesura del decreto, il beneficio è esteso indiscriminatamente a tutti i detenuti. I ristretti per reati più gravi dovranno aver dimostrato una concreta volontà di recupero sociale.

In sede di conversione, però, lo spauracchio della sicurezza, sventolato ad arte da alcune forze politiche e dai compiacenti canali di informazione, prevale su ogni buon senso e si stabilisce per legge che se la detenzione inumana e degradante è patita da chi ha commesso reati di particolare allarme, è cosa buona e giusta.

Naturalmente, però, nella vigenza del decreto prima della conversione, una valanga di istanze raggiunge i singoli magistrati di Sorveglianza, Alcuni le decidono subito, tutte, a volte concedendo altre negando il beneficio. Altri aspettano lasciando spirare i sessanta giorni di vita del decreto e subentrare la disciplina penalizzante introdotta dalla legge di conversione e, pedissequamente rigettano le richieste dei detenuti per i reati successivamente esclusi (previsti dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario).

Altri ancora, pur dopo la conversione, continuano ad applicare la maggiore decurtazione di pena anche a chi espia pene per i reati non più ammessi purché abbia proposto istanza nel periodo di vigenza del decreto. Dalla valanga di istanze scaturisce una valanga dì reclami diretti stavolta al Tribunale di Sorveglianza, Il lavoro aumenta, il caos pure. Ogni collegio decidente partorisce una sua interpretazione della norma, perfino all’interno dello stesso tribunale, Tanti indirizzi giurisprudenziali quante teste. E così nessuno sa se avrà la sperata riduzione di sanzione, dipende da che giudice ti capita, dalla sua lettura della norma.

Gli uffici si ingolfano e tutte le attese e le speranze dei carcerati – richieste di permessi premio, dì permessi di necessità per far visita a un familiare morente, istanze di accesso a misure alternative, alla detenzione domiciliare, al lavoro all’esterno – rimangono sospese e dolenti per tempi via via più dilatati.

Il decreto Cancellieri non ha risolto nulla. La situazione carceraria permane drammatica. Il ministro entrante, Orlando, ha il compito di convincere l’Europa che saremo in grado di ripristinare nelle nostre prigioni la legalità attraverso una relazione programmatica che illustri soluzioni concrete e in tempi determinati. E il 30 maggio l’Europa sospende la pena nei confronti dell’Italia. Ancora un anno di tempo e la pressante richiesta di repentine misure risarcitorie in favore dei detenuti che hanno vissuto la carcerazione in spazi asfittici ed angusti, in situazioni di sostanziale brutalità assimilabili alla tortura.

È la volta del nuovo decreto “svuota carceri”, appena approvato dalla Camera e transitato al Senato. Ai detenuti che hanno subito una carcerazione in violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, spetta una riduzione pena pari a un giorno ogni dieci. Chi non è più ristretto, entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto, potrà chiedere “ben” 8 euro per ogni giorno di tortura.

Naturalmente le domande andranno vagliate dal Magistrato di Sorveglianza che dovrà valutare la sussistenza dei requisiti e, dunque, l’effettività di una detenzione subita in condizioni trattamentali disumane, in ambiti spaziali del tutto inadeguati con margini di discrezionalità e di interpretazione che il decreto ha lasciato del tutto aperti. È inevitabile che ne derivi la paralisi definitiva dei Tribunali e degli Uffici di Sorveglianza.

Le migliaia di richieste di graduale ritorno alla vita dei detenuti sono destinate ad attese impensabili. Il decreto prevede quale soluzione un male peggiore, la nomina veloce per i magistrati di Sorveglianza. Il Consiglio superiore della magistratura potrà attribuire le funzioni di magistrato di Sorveglianza, al termine del tirocinio, anche prima del conseguimento della prima valutazione dì professionalità.

La novità riguarda i 370 nuovi magistrati ordinari assegnati con il decreto ministeriale del 20 febbraio 2014 in casi di scopertura superiore al 20% dei posti di Magistrato di Sorveglianza in organico. In effetti, di magistrati di Sorveglianza meno formati e preparati si sentiva davvero il bisogno.

Avv. Maria Brucale

Il Garantista, 29 Luglio 2014

Ingroia : Revocate il 41bis a Provenzano. Non è più l’uomo che ho interrogato


Antonio IngroiaIl senso del regime di 41-bis è impedire al capimafia di dare ordini alle cosche. Per lui non serve più. È possibile in Italia affrontare il tema delicatissimo della natura, della funzione e dei limiti del regime carcerario differenziato del 41 bis fuori degli schieramenti militanti da tifoseria scalmanata sugli spalti, garantisti da una parte e anti-mafiosi dall’altra?

Possibile aprire un dibattuto serio e civile in cui ciascuno ascolti gli argomenti altrui e rispetti l’interlocutore senza insultarlo di essere, a seconda, bieco torturatore di poveri carcerati o complice dei mafiosi? Dopo tanti anni di tentativi a vuoto, nutro più di qualche scetticismo, ma ciò nonostante insisto. A volte l’ostinazione paga.

E sono così ostinato da porre una questione tanto delicata sul pivi incandescente banco di prova possibile, visto che si tratta di un caso limite, quello dì Bernardo Provenzano, oggi ricoverato in condizioni di salute assai precarie ma pur tuttavia sottoposto ancora al 41 bis. Le opposte tifoserie enfatizzano, da una parte, il suo stato di salute per qualificare il 41 bis come un accanimento carcerario gratuito equiparabile alla tortura, e dall’altra parte, il suo passato criminale, che ha seminato orribili stragi e omicidi, per osteggiare qualsiasi allentamento nel trattamento detentivo.

Del resto, è proprio nei casi limite che vengono sottoposti a verifica i principi generali dell’ordinamento. Principi fondamentali che oggi vengono in conflitto su due nodi cruciali: l’umanità della pena, che secondo costituzione non ha solo finalità retributive, e cioè punitive, ma anche rieducative per il condannato e per la comunità; e, dall’altro lato, il principio, non meno irrinunciabile, della effettività e certezza della pena, principale antidoto contro l’impunità dei colpevoli, impunità su cui ha costruito tanta fortuna, autorevolezza e potere l’organizzazione mafiosa. La soluzione del conflitto è trovare il giusto punto di equilibrio, senza sacrificare nessuno di ei due principi fondamentali ì sistema penale, ma facendo sì che ciascuno sia un limite dell’altro. Una pena umana ma effettiva e certa; una pena certa ma non disumana. Facile a dirsi. Ma vediamo i fatti.

Provenzano. Ho conosciuto Bernardo Provenzano per decenni attraverso le carte di tante inchieste: Provenzano ‘”u tratturi”, detto così per la facilità con cui spianava – uccidendoli – i propri avversari, interni ed esterni alla mafia, e perciò responsabile di decine e decine di omicidi e stragi fra i più terribili della storia di Cosa Nostra, in ultimo le stragi palermitane del 1992 (Falcone e Borsellino) e le stragi indiscriminate del continente del 1993 che uccisero tante vittime innocenti (a Roma, Firenze e Milano).

Ed ho conosciuto, sempre attraverso quelle carte, anche Provenzano “il ragioniere”, il raffinato stratega mafioso che sapeva usare la violenza ma anche le arti della diplomazia bellica e della politica. I suoi capolavori criminali in quel periodo furono la strumentalizzazione di un politico mafioso che fu sindaco e assessore a Palermo negli anni del sacco edilizio, e cioè Vito Cianci-mino, corleonese come lui; e poi – da ultimo – il traghettamento della mafia dallo stragismo all’affarismo servendosi della “trattativa Stato-mafia”. Quel Bernardo Provenzano è stato fra i criminali più sanguinari del secolo scorso. E perciò fra i più pericolosi e colpevoli. E questo resta incancellabile.

Ho poi conosciuto un altro Bernardo Provenzano. Lo andai a sentire il 31 maggio 2012, dopo un suo apparente e anomalo tentativo di suicidio, per capire come stava e cosa stava accadendo in quel carcere. Incontrai un uomo vecchio, stanco e malato, che forse avrebbe voluto raccontare qualcosa dì più, ma era frenato da qualcosa o da qualcuno. La situazione di costrizione dove si trovava, le violenze e le minacce che poteva aver subito in carcere, la difficoltà a violare la sua cultura ed il suo codice, o la preoccupazione di danneggiare ì suoi familiari, chissà.

Ad ogni modo, non ebbi la sensazione di avere di fronte il capomafia efficiente ed implacabile con le sue vittime che era stato per tutta la vita, come le carte, i processi e le sentenze me lo avevano consegnato. Avrei voluto tornare a sentirlo e approfondire quella verifica, ma non ne ebbi neppure il tempo perché qualche mese dopo lasciai la Procura di Palermo. Ora leggo che le sue condizioni da salute si sono aggravate ed è perciò ricoverato. Immagino che sia un altro Provenzano ancora, sempre più lontano dal boss che “avevo conosciuto sulle carte.

Il 41 bis, che ho conosciuto dopo l’introduzione del regime differenziato per i mafiosi nel post-stragismo del 1992, e che ho difeso per anni da critiche militanti ed infondate, era una cosa diversa da quella che vedo oggi. E credo che occorra tornare alla sua ispirazione originaria. Il 41 bis non è stato concepito come afflizione suppletiva per i detenuti ritenuti più pericolosi, ma misura mirata alla specifica finalità preventiva di impedire che i capimafia potessero comunicare con l’esterno per dare ordini, come troppe “volte è accaduto nella storia della mafia.

Vige, invece, un generale malinteso sulla reale funzione del 41 bis, malinteso incoraggiato anche dall’estensione di tale regime ad altri detenuti, ritenuti più pericolosi dei comuni, come i terroristi, che però non sono qualificati dalle caratteristiche dell’organizzazione mafiosa capace di tenere ì rapporti con i capi in carcere. Se tornassimo allora all’ispirazione origi-, nana del 41 bis, la sua funzione sarebbe più chiara e dovrebbe quindi essere applicata solo ai capimafia ancora in grado di reggere le fila dell’organizzazione anche dall’interno del carcere, così restituendo senso ed efficacia all’istituto che verrebbe limitato nella sua applicazione ad alcune decine di detenuti, perciò meglio controllati, e andrebbe revocato a chi tali caratteristiche di pericolosità attualmente non ha.

Rimesso su binari di razionalità e coerenza rispetto all’ispirazione originaria, il 41 bis potrebbe perciò venire adottato conciliando i principi di umanità e di efficacia e certezza della pena. E la magistratura sarebbe libera da pressioni e condizionamenti delle tifoserie contrapposte per poter decidere se davvero l’attualità delle condizioni di salute di Provenzano e dei suoi rapporti con il mondo di Cosa Nostra possa giustificare la permanente applicazione di un regime che non deve avere alcuna funzione sanzionatoria, ma soltanto la finalità preventiva di impedire i collegamenti col mondo criminale di provenienza.

Insomma, il Provenzano che ho conosciuto attraverso le carte dei processi e delle sentenze merita, giustamente, l’ergastolo, invece al Provenzano che ho conosciuto nel 2012, e che ancor meglio potranno valutare oggi i magistrati competenti, il 41 bis a me sembra che non serva, come non serve per tanti altri detenuti per fatti non di mafia. E meglio sarebbe applicare il 41 bis solo ai capimafia in carcere ancora oggi operativi.

La mia posizione è ovviamente lontana anni luce da chi, come nel 1993 fece l’allora Ministro Conso, ritenne andasse indiscriminatamente allentato il 41 bis o da chi oggi ne predica l’abolizione. E neppure si tratta di ragioni umanitarie, ma dì applicare la legge secondo la ratio ispiratrice del regime carcerario differenziato per i mafiosi. Ma è possibile oggi aprire un serio dibattito in argomento? Ne dubito.

Perché un confronto di idee e non di scontri polemici sì potrà avviare solo quando usciremo dalla logica delle fazioni contrapposte che vedono in un’eventuale revoca individuale del 41 bis quella rinuncia definitiva allo strumento che gli uni temono e gli altri auspicano. Mentre invece la revoca del 41 bis per questo Provenzano non ne intaccherebbe la funzione, anzi la rafforzerebbe, perché il 41 bis resta indispensabile ed utile purché usato secondo la sua funzione originaria (magari riaprendo carceri “dedicati” al 41 bis come Pianosa e L’Asinara, frettolosamente chiusi) senza piegarlo a finalità improprie. E quindi dannose ed abnormi. Ma temo restino parole al vento.

Antonio Ingroia

Il Garantista, 30 luglio 2014

«Sebastiano Pelle, detenuto a Napoli, rischia la vita. Ha urgente bisogno di un intervento cardiaco»


Carcere-di-Secondigliano“Se non verrà, al più presto, sottoposto, in un centro clinico specializzato, ad un delicato intervento chirurgico finalizzato alla sostituzione della valvola aortica, Sebastiano Pelle, rischia di morire in carcere”. È quanto scrive, in un’istanza presentata al Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Roma, l’avvocato Angela Giampaolo, legale di Pelle, di 54 anni, di Careri (Reggio Calabria), attualmente ristretto nel Carcere di Napoli Secondigliano.

Sebastiano Pelle, originario di San Luca, soprannominato “Pelle-Pelle”, è stato coinvolto nell’operazione antidroga “Good Luck”, eseguita nel maggio del 2012 su direttive della Procura della Repubblica di Roma. Dopo un periodo di irreperibilità, Pelle è stato arrestato dai Carabinieri di Bianco e dallo Squadrone Cacciatori a Careri, in contrada Ancone, nei pressi di un capannone vicino alla sua abitazione, nell’agosto del 2013. Nel processo col rito abbreviato, conclusosi nel maggio scorso, Pelle è stato condannato ad 8 anni di reclusione per traffico di droga.

“Il Gip del Tribunale di Roma – aggiunge l’avvocato Giampaolo – nel maggio scorso, rispondendo ad una nostra precisa istanza, ha invitato il Dap ad attivarsi con la massima sollecitudine per reperire un’altra idonea sistemazione per Pelle, viste le gravi patologie accertate non solo dal nostro consulente ma anche dal perito nominato dal giudice. Dalle perizie effettuate è chiaramente emerso che le condizioni di Pelle sono assolutamente incompatibili con l’ordinario regime di detenzione carceraria. Insistiamo, quindi, affinché Sebastiano Pelle venga trasferito al più presto in una struttura sanitaria adeguata quale cittadino italiano e padre di sei figli e a tutela del suo diritto alla salute, costituzionalmente garantito e previsto anche dalle convenzioni internazionali”.

Vercelli, Arrestati due Agenti di Polizia Penitenziaria per usura


Casa Circondariale di VercelliPrestavano soldi con interessi mensili dal 20 al 100%. In un caso, a fronte di un prestito da 1200 euro, ne hanno chiesti indietro 6500. Un grosso giro di usura che avveniva tra agenti di polizia penitenziaria è stato scoperto dalla procura della Repubblica di Vercelli in collaborazione con Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria di Torino: le indagini hanno portato – al momento – all’arresto di quattro persone, due finanziatori e due poliziotti che facevano da tramite. I due finanziatori sono Catalin Botezatu, originario di Vercelli ma titolare di esercizio pubblico a Carpignano Sesia, e Diego Corona, risicoltore di Pezzana. I due agenti arrestati (attualmente sono ai domiciliari) sono Salvatore Zarelli e Bruno Crisafio, quest’ultimo temporaneamente in servizio all’Uepe (Ufficio esecuzioni penitenziarie esterne) di Vercelli.

Le vittime erano quasi sempre colleghi agenti della polizia penitenziaria, a cui gli strozzini sono arrivati a chiedere fino a 30 mila euro in restituzione di un prestito. Gli usurai, con i soldi intascati, si compravano vestiti firmati, rolex d’oro, cellulari da migliaia di euro dagli Emirati arabi. I dettagli dell’operazione «Tendenza» sono stati presentati dal procuratore capo Paolo Tamponi e dal sostituto procuratore Davide Pretti. «Non avevamo idea della portata di questi fatti», ha commentato il direttore del carcere di Vercelli, Tullia Ardito.

Roberto Maggio

La Stampa, 28 Luglio 2014

Pare proprio che sia impossibile per l’Italia adeguarsi ai principi europei e di civiltà


cella detenuti 1….. in materia di trattamento da riservare alle persone arrestate o fermate dalla polizia. A suscitare allarme non ci sono soltanto le ricorrenti cronache giudiziarie relative a processi contro agenti accusati di avere provocato la morte di qualche giovane. Ci sono anche le sentenze delle Corti internazionali a ricordarci la situazione. Nel giro di una settimana, infatti, l’Italia ha riportato due condanne.

Entrambe dinanzi alla Corte europea dei diritti umani: una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia).

Non si tratta di sentenze che stabiliscono nuovi principi di diritto. Entrambe costituiscono semplici conferme della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione). Esse meritano tuttavia attenzione perché ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in Stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni. Il caso Saba, in particolare, è esemplare.

I fatti risalgono all’aprile del 2000, quando alcuni detenuti del carcere di Sassari denunciarono le violenze di ogni genere subite da parte della polizia penitenziaria in occasione di una perquisizione della struttura (agenti di altri stabilimenti vennero inviati a Sassari per rafforzare la guarnigione locale).

Dopo vari tentativi di insabbiamento o di minimizzazione da parte di alcune pubbliche autorità, grazie all’opera di un coraggioso pubblico ministero, Mariano Brianda, si aprirono le indagini che portarono alla richiesta di rinvio a giudizio per novanta persone tra agenti ed altri membri dell’amministrazione penitenziaria in relazione ai delitti di violenza privata, lesioni personali aggravate ed abuso d’ufficio, commessi nei confronti di un centinaio di detenuti.

Dei sessantuno imputati che scelsero il rito abbreviato solo dodici furono condannati, con pene da quattro mesi a un anno e mezzo di reclusione, tutte sospese, per i delitti di violenza privata aggravata e abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 del codice penale). In appello le condanne divennero definitive per nove di loro, ad alcuni dei quali vennero altresì applicate lievi sanzioni disciplinari.

Quanto agli altri ventinove imputati, soltanto in nove vennero rinviati a giudizio, mentre per venti fu pronunciata sentenza di non luogo a procedere. Pur ritenendo accertato che si fosse verificato un episodio violenza inumana e gratuita, nel corso del quale i detenuti erano stati costretti a denudarsi, insultati, minacciati e in taluni casi anche picchiati (sono queste le parole dei giudici), il Tribunale prosciolse tutti gli imputati: due di loro per carenza di prove, gli altri sette per sopravvenuta prescrizione dei reati.

Oltre al rammarico per la gravità dei fatti e per la cattiva fama che il nostro paese si va costruendo a livello internazionale, ciò che colpisce è la modestia delle conseguenze che subiscono coloro che quella cattiva fama determinano.

La prescrizione è la regina delle ciambelle di salvataggio. Ma l’assenza nel nostro ordinamento del reato di tortura (la cui introduzione, prevista da convenzioni sottoscritte dall’Italia, è stata più volte sollecitata anche da organismi internazionali), determina per coloro che sono riconosciuti colpevoli l’inflizione di pene modestissime, di regola sospese. E le misure disciplinari che conseguono a condanne simboliche sono altrettanto simboliche. Ciò induce a pensare che siano forti in molti ambienti i sentimenti di solidarietà verso coloro che violano le regole a danno delle persone detenute. Infatti, sono trascorsi più di dieci anni dai fatti di Sassari, ma la situazione, anche normativa, non si è modificata.

Giovanni Palombarini (Magistratura Democratica)

La Provincia Pavese, 26 luglio 2014

La vicinanza della pena al delitto ? Per Beccaria un caposaldo, per noi pura utopia


giustizia-500x375Non c’è solo il rifiuto della pena di morte e l’avversione alla tortura, nel celebre dei Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. C’è anche la precisa definizione di quello che deve essere la pena, la sanzione, che deve possedere alcuni requisiti: a) la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al delitto; b) l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta sanzionatoria da parte delle autorità; c) la proporzionalità con il reato (difficile da realizzare ma auspicabile); d) la pubblica esemplarità: destinataria della sanzione è la collettività, che constata la non convenienza all’infrazione.

In breve: il fine della sanzione non è quello di affliggere, piuttosto di impedire al reo di compiere altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri. A 250 anni esatti dalla prima pubblicazione, a Livorno, dei Delitti e delle pene, non si può proprio dire che si sia fatto tesoro di quegli “ammonimenti”. Un primo esempio ci viene dal racconto di un magistrato da sempre schierato e impegnato sul fronte progressista, Giovanni Palombarini: “Pare proprio che sia impossibile per l’Italia adeguarsi ai principi europei (e della civiltà) in materia di trattamento da riservare alle persone arrestate o fermate dalla polizia. Ci sono anche le sentenze delle Corti internazionali a ricordarci la situazione”.

“Nel giro di una settimana – continua – infatti, l’Italia ha riportato due condanne dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia)”, Non si tratta, spiega, di sentenze che stabiliscono nuovi principi di diritto: entrambe, costituiscono semplici conferme della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (articolo 3 della Convenzione).

Sentenze che meritano attenzione: ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni, Al riguardo il caso Saba, è esemplare: “I fatti risalgono all’aprile del 2000, quando alcuni detenuti del carcere di Sassari denunciarono le violenze di ogni genere subite da parte della polizia penitenziaria in occasione di una perquisizione della struttura (agenti di altri stabilimenti vennero inviati a Sassari per rafforzare la guarnigione locale)”.

Non mancano i tentativi di insabbiare e minimizzare, ma grazie a un magistrato ostinato, il pm Mariano Brianda, le indagini vanno avanti, e alla fine arriva la richiesta di rinvio a giudizio per novanta persone tra agenti ed altri membri dell’amministrazione penitenziaria; l’ipotesi di reato è di violenza privata, lesioni personali aggravate, abuso d’ufficio, commessi nei confronti di un centinaio di detenuti. E qui comincia un avvilente carnevale: 61 imputati scelgono il rito abbreviato, in 12 vengono condannati, da quattro mesi a un anno e mezzo di reclusione, condanne sospese. In appello le condanne definitive diventano solo nove.

E veniamo agli altri 29 imputati: nove sono rinviati a giudizio, per venti la sentenza è di non luogo a procedere. Nel corso dei processi si accerta che si sono verificati episodi di violenza inumana e gratuita, detenuti costretti a denudarsi, insultati, minacciati e picchiati, Ma il tribunale comunque proscioglie tutti gli imputati: due per carenza di prove, gli altri per sopravvenuta prescrizione. Le misure disciplinari che seguono le condanne sono altrettanto simboliche. Ciò induce a pensare, ne ricava Palombarini, che in molti ambienti siano forti i sentimenti di solidarietà verso coloro che violano le regole a danno delle persone detenute: “Infatti sono trascorsi più di dieci armi dai fatti di Sassari, ma la situazione, anche normativa, non si è modificata”.

Altro caso significativo: devono rispondere di sequestro di persona a scopo d’estorsione e rapina. È il 15 gennaio del 2000 quando nel carcere di Panna scoppia una rivolta, e un agente viene rinchiuso in una cella per ore; poi la resa, dopo una lunga trattativa.

Dopo sei interminabili ore l’allora procuratore Giovanni Panebianco annuncia: “Abbiamo accolto le loro richieste dì trasferimento”. Ora, a quattordici anni di distanza, quella rivolta entra in un’aula di giustizia, Il procedimento, dopo essere rimasto a Parma per alcuni anni, è stato trasferito alla Dda di Bologna. Se ne parlerà il 30 settembre prossimo in Corte d’assise.

Il rinvio a giudizio del Gup Bruno Gian-giacomo risale al giugno 2013, e la prima udienza era stata fissata per lo scorso gennaio, ma problemi di notifiche agli imputati hanno fatto slittare ulteriormente il “vero” inizio del processo al prossimo autunno. Per riassumere: una rivolta in carcere, sei ore di grande tensione, una trattativa che alla fine scongiura un epilogo che poteva essere tragico, la resa e il ritorno alla “normalità”.

Quattordici anni dopo, il processo. Neppure concluso: inizia. Con tanti saluti a Cesare Beccaria, al suo Dei delitti e delle pene, alla certezza della sanzione e del diritto. Ed è pur significativo che a opporsi a questo stato di cose siano solo Marco Pannella, Rita Bernardini e un pugno di radicali da giorni in digiuno per ottenere che lo Stato rispetti quelle leggi che si è dato ed esca finalmente dalla situazione tecnica di criminalità organizzata in cui è sprofondato.

Valter Vecellio

Il Garantista, 27 luglio 2014