Viaggio nel mondo del Carcere, “la più grande vergogna italiana”


Isernia 1Il libro “Viaggio nel mondo del carcere”, di Davide La Cara e Antonino Castorina, del movimento Giovani Democratici, raccoglie contributi di chi da anni si batte per i diritti dei detenuti e racconta le storie drammatiche dei reclusi vittime del sovraffollamento e delle condizioni di vita degradanti.

Le carceri italiane, nel loro complesso, “sono la maggior vergogna del nostro Paese” e rappresentano “l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si abbia mai avuta”, come sosteneva Filippo Turati. È la realtà che emerge dal libro “Viaggio nelle carceri”, di Davide La Cara e Antonino Castorina, del movimento Giovani Democratici. “Dentro il pacchetto della giustizia Orlando, riteniamo importante focalizzare l’agenda sul tema delle carceri.

Abbiamo chiesto al direttore del quotidiano “Il Garantista”, Piero Sansonetti, di promuovere questa discussione, anche sul suo giornale”, commenta Castorina. E l’appello è stato accolto entusiasticamente dal direttore, che dichiara: ” Se non si parla di riforma delle carceri, è inutile parlare di riforma della giustizia. Nel nostro paese, non è mai stato risolto nulla. Solo negli anni 70, se ne è parlato, perché cominciarono ad esserci delle rivolte. Che aspettiamo? Che i detenuti si ribellino ancora?”.

Il saggio è ricco di contributi da parte di chi, nel corso degli anni, si è battuto per la causa delle carceri e si è interrogato sul senso della loro esistenza, come Rita Bernardini, segretaria dei Radicali Italiani, Roberto Giacchetti, vicepresidente della Camera dei Deputati, l’onorevole Laura Coccia, l’onorevole Enza Bruno Bossio e molti altri. Tante le storie raccolte nel libro, edito da Editori Riuniti Internazionali (Eir), che tracciano il panorama delle carceri italiane – da Rebibbia a Regina Coeli a Roma, da Poggioreale a Napoli a San Pietro a Reggio Calabria, dall’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto a il Coroneo di Trieste – disumano e avvilente, dalla cui visita, è nato il progetto del testo, per denunciarne le carenze strutturali.

“Negli istituti ho incontrato molta gente, migliaia di occhi, ma prima di tutto persone con le loro storie, i loro drammi, le loro speranze (…) – racconta l’onorevole Coccia nel libro. Visitando una sezione sovraffollata, mentre avevo una sensazione opprimente al limite della claustrofobia, ho sentito un urlo “benvenuti allo zoo!”: mi si è gelato il sangue”.

Davide La Cara ha visitato il carcere di Rebibbia e, nel libro, si sofferma sulle condizioni di vita dei detenuti: “(…) Nella cella accanto dormono in undici, su una superficie che potrebbe contenerne massimo quattro, hanno risolto installando vecchi letti a castello in legno a tre piani. Vicino c’è una porta che conduce a una sorta di cucina: un mobiletto col cucinino a gas che sta scaldando l’acqua per la pasta, accanto a questa, il lavandino e il water”. Sono queste le condizioni disumane che hanno portato a varie sanzioni da parte della Corte europea all’Italia, non ultima la sentenza Torreggiani, “che ha giudicato le condizioni dei detenuti una violazione degli standard minimi di vivibilità che determina una situazione di vita degradante”.

Una delle interviste di La Cara, quella a Nobila, madre di Federico Perna – morto a Poggioreale lo scorso anno a causa di un ictus, ma sulle cui cause certe di morte, c’è ancora da fare chiarezza – pone in luce l’aspetto di totale arbitrarietà, che pure vige nelle carceri. “Federico mi aveva raccontato di aver subito abusi sessuali, da parte delle stesse guardie carcerarie a cui avrebbe dovuto denunciare il fatto (…).

Non ho mai capito perché abbia girato 9 carceri in 3 anni. Un ragazzo malato di epatite C e di cirrosi epatica, per quale motivo viene sbattuto da carcere a carcere, per andarsi a prendere altri virus? (…) Federico è morto per le percosse, è stato ammazzato; aveva escoriazioni in tutto il corpo, anche nelle orecchie, e bruciature di sigarette”.

E nel testo, in chiusura, compare anche una intervista a Raffaele Sollecito, condannato a 25 anni in primo grado per l’omicidio di Meredith Kercher, a cui è stata annullata, dalla Cassazione e dalla Corte d’assise d’appello di Firenze, l’assoluzione. Dopo ben 7 anni, il suo processo non è ancora terminato, diventando così un caso mediatico: “Chi è abituato a entrare e uscire di prigione, sente una appartenenza a quella struttura. Ci trovano delle regole, delle figure di riferimento, un’educazione che non hanno mai ricevuto. È un mondo a parte (…) Penso che in carcere pesi molto la questione istruzione. Più del 90% di quelli che ho conosciuto durante la mia pena sono quasi analfabeti. Non hanno alcun tipo di educazione”.

Il testo ha visto anche la collaborazione del mondo delle associazioni e del volontariato. La Cara ha infatti intervistato per la stesura del libro, Paolo Strano, dell’associazione Semi (di) Libertà, che si occupa del reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti degli istituti penitenziari romani, tramite l’attività dei birrai.

“Il progetto nasce a Regina Coeli da una mia esperienza nel carcere. In quanto fisioterapista, sono stato mandato lì a svolgere il mio lavoro poiché i detenuti non posso essere trasferiti da noi(..) Dopo la mia esperienza lavorativa, ho deciso di fare qualcosa (…) fino a due anni fa non sapevo nulla di birra artigianale, ho iniziato ad approfondire e studiare l’argomento. Grazie al Miur, è iniziata la formazione dei detenuti all’Istituto Sereni, che ospita un birrificio. Il tirocinio pratico si svolge invece presso Eataly, dove produciamo birra assieme ad alcuni birrai di Roma”.

Castorina, co-autore del libro, ha svolto la sua ricerca a Reggio Calabria, dove forte, è stato il problema del sovraffollamento:” Il problema del sovraffollamento a Reggio Calabria è stato in parte arginato dalla recente inaugurazione della struttura di Arghillà, ma purtroppo non è stato ancora risolto- commenta la direttrice del carcere, che sostiene pratiche per riabilitare i detenuti- “Può sembrare banale, ma il lavoro nelle carceri è uno strumento obbligatorio per legge (art 20-21-48 dell’ordinamento penitenziario del 1975), è qualcosa che rende il condannato un po’ più libero”.

La collaborazione di Roberto Giacchetti al libro ha fatto emergere una verità importante e inquietante:” Nel carcere non si possono comprare i voti; è per questo che la politica non fa niente per cambiare la situazione”. Ma è importante, secondo il vicepresidente della Camera, assicurare un “dopo il carcere” ai detenuti, reinserendoli in società, previa, preparazione di quest’ultima, alla loro accoglienza.

Maria Panariello

Redattore Sociale, 2 agosto 2014

Presentazione del libro di Davide La Cara e Antonino Castorina (Edizioni EIR). Il saggio è arricchito dai contributi di Rita Bernardini (Segretaria di Radicali Italiani) e Roberto Giachetti (Vicepresidente della Camera dei Deputati) e contiene un’intervista esclusiva a Raffaele Sollecito.

Radio Radicale – Camera dei Deputati 31 Luglio 2014

http://www.radioradicale.it/scheda/417792

 

Milano: Detenuto disabile incompatibile con il Carcere. 9 mesi per trovare una soluzione


Cella carcereSecondo il Tribunale di Milano le sue condizioni sono incompatibili con la detenzione, ma per il giovane romano, che vive sulla sedia a rotelle, solo ieri l’uscita da Opera. Colpa della mancanza di strutture in grado di accoglierlo e burocrazia.

Poteva essere scarcerato, ma dietro le sbarre c’è rimasto per altri nove mesi. Per la mancanza di strutture in grado di accoglierlo e per colpa della burocrazia. L.V. è un giovane romeno, che ha tentato due volte il suicidio in cella ed è semi-paralizzato. Vive sulla sedia a rotelle. Il Tribunale di sorveglianza di Milano ha stabilito, nel novembre dell’anno scorso, che le sue condizioni sono incompatibili con la detenzione.

Ma dal carcere di Opera è uscito solo ieri, quando finalmente il Comune di Milano e il garante per i detenuti sono riusciti a trovargli un posto all’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Il suo caso era stato denunciato dalla stesso direttore del carcere, Giacinto Siciliano, durante un’audizione alla sottocommissione carcere di Palazzo Marino: “Abbiamo percorso tutte le strade possibili perché qualche struttura esterna se ne occupi – aveva detto – ma nessuno vuole prenderlo in carico”.

Il paradosso è che quando la struttura è stata trovata, non si riusciva a farlo uscire per problemi burocratici. “L’attuale normativa prevede infatti che debba essere garantita l’assistenza sanitaria a tutte le persone detenute o sottoposte a misure alternative alla detenzione – racconta Alessandra Naldi, garante per i detenuti del Comune di Milano. Ma L.V. non è in nessuna di queste due situazioni perché il Tribunale di sorveglianza gli ha concesso il differimento pena per motivi di salute. Il differimento pena non è formalmente una misura alternativa alla detenzione, e quindi non rientra tra le situazioni in cui è esplicitamente prevista la garanzia dell’assistenza sanitaria anche ai cittadini stranieri”.

Risultato: l’Asl non concedeva la tessera sanitaria perché formalmente L.V. non era più un detenuto. Allo stesso tempo però la Sacra Famiglia non poteva ricoverarlo perché non aveva la tessera sanitaria e quindi il carcere di Opera non poteva lasciarlo libero. Un gatto che si morde la coda, insomma. La situazione si è sbloccata quando il Comune di Milano è intervenuto e ha garantito per il giovane L.V.. “È una storia che fa anche rabbia – commenta Alessandra Naldi, perché la lentezza e le incongruenze della burocrazia a volte creano situazioni paradossali. Per questo a fine giugno abbiamo istituito un tavolo con Asl, Regione, Comune e amministrazione carceraria per creare un protocollo che colmi questi vuoti che impediscono ai detenuti di usufruire di benefici di cui hanno diritto”.

Dario Paladini

Redattore Sociale, 2 agosto 2014

Calderone (A Buon Diritto) : “Basta con le mezze verità sulle morti in Carcere”


Valentina CalderoneDella vicenda di Giovanni Lorusso ci eravamo già occupati. Lorusso, 41 anni, muore nel carcere di Palmi il 17 novembre 2009. Le prime spiegazioni delle cause del decesso sembrano essere univoche: suicidio tramite inalazione del gas della bomboletta con cui i detenuti cucinano.

La vicenda carceraria di Lorusso è tristemente esemplare. Assuntore di sostanze stupefacenti fin dall’età giovanile, Lorusso commette più reati a causa del suo stato di tossicodipendente. Alterna, così, periodi di libertà a periodi in carcere e in comunità terapeutica e il motivo della sua ultima carcerazione è il furto di uno zaino sulla spiaggia di Rimini. Per quel reato, essendo recidivo, viene condannato a 4 anni e 5 mesi.

Inizia a scontare la pena nel carcere di Rimini e il suo difensore fa istanza affinché vengano concessi a Lorusso i domiciliari presso una comunità terapeutica. In attesa della risposta del tribunale, però, Lorusso viene trasferito nel carcere di Ariano Irpino, lontano dalla famiglia che vive in Lombardia. Chiede di essere riavvicinato a casa ma, per tutta risposta, ottiene solo un trasferimento ancora più a sud: il carcere di Palmi in Calabria.

Da qui scrive una lettera alla sorella in cui confessa di aver provato a suicidarsi e in cui denuncia di essere stato picchiato dagli agenti di polizia penitenziaria di Ariano Irpino. Nel frattempo arriva la risposta dal tribunale, che acconsente ai domiciliari in comunità a partire dal 20 novembre. Il fax con la comunicazione arriva in carcere il 16 novembre e, dopo i controlli di rito, può essere comunicata al detenuto dalle ore 12 del 17 novembre. La comunicazione non avverrà mai, e Lorusso viene trovato privo di vita nella sua cella quel pomeriggio stesso.

I punti controversi sono molti e, dopo varie richieste di archiviazione e un processo mai partito, in questo momento siamo a un punto fondamentale. Il 26 giugno scorso si è svolta un’ennesima udienza e un giudice, nei prossimi mesi, farà conoscere la sua decisione: dibattere la vicenda di Lorusso in un tribunale decidendo per il rinvio a giudizio del direttore, di due agenti e del medico psichiatra del carcere di Palmi, oppure concludere che le tante questioni ancora aperte non siano meritevoli di risposta. Ecco i punti su cui l’avvocato Martina Montanari ha chiesto l’integrazione delle indagini, motivando l’opposizione all’archiviazione.

a. La comunicazione del provvedimento di affidamento in comunità, che per legge e prassi doveva essere immediatamente trasmessa a Lorusso. Probabilmente, se quella comunicazione fosse avvenuta nei tempi corretti, il suicidio si sarebbe evitato.

b. L’attitudine del detenuto a compiere atti di autolesionismo, come emerge dagli interrogatori degli imputati: nel diario clinico della casa lavoro dove si trovava prima dell’ultima detenzione sono stati riportati numerosi episodi di autolesionismo; il dirigente sanitario di Palmi “verbalizza minacce di gesti autolesionistici” da parte di Lorusso nel caso in cui non venisse soddisfatta la richiesta di trasferimento; uno degli indagati riporta in cartella clinica il tentativo di Lorusso di tagliarsi le vene ma, nel corso dell’interrogatorio, riferisce di non averlo valutato come gesto autolesionistico.

c. Nel carcere di Palmi viene applicata la “grande sorveglianza” proprio per garantire un maggiore controllo, ma evidentemente la misura non risulta efficace.

In poche parole, la domanda è la seguente: nel carcere di Palmi si era a conoscenza del fatto che Lorusso potesse mettere in atto gesti autolesionistici? A leggere gli atti la sensazione che si ricava è quella di persone che, a vario titolo e con vari ruoli, non avrebbero esercitato la propria funzione né rispettato il proprio dovere. E che provano a scaricare le responsabilità le une sulle altre. Nelle vicenda di morti in carcere – frequentissime purtroppo, 82 nel solo 2014, di cui 24 per suicidio – è difficilissimo riuscire a risalire a responsabilità precise.

A volte si mischiano colpa, incuria, omissione, superficialità. Un mix di azioni e mancate azioni spesso letale. Qualunque siano le circostanze, i diversi ruoli di chi in carcere lavora, le difficoltà innegabili di chi si trova a operare all’interno dei nostri istituti penitenziari, una cosa è certa: non è possibile continuare ad accontentarsi di mancate risposte e di mezze verità quando si parla della vita di uomini che sono stati affidati alla custodia dello Stato.

Valentina Calderone (Direttrice di “A buon diritto”)

Il Manifesto, 2 agosto 2014