Se due filosofi come Kant e Hegel sentissero parlare di depenalizzazione e di abolizione del carcere, avrebbero di che discutere: la pena, per i due grandi pensatori tedeschi, ristabiliva l’equilibrio sociale violato, quindi ne era necessaria la sua piena esecuzione.
Chi è stato capace di spostare l’attenzione sulla concezione della pena che è alla base degli ordinamenti giuridici più civili e avanzati è stato il nostro Cesare Beccaria. All’illuminato giurista milanese interessava più del reo e del suo recupero che dell’equilibrio sociale violato: è nata così la concezione rieducativa della pena, che ispira la nostra stessa Costituzione e, in particolare, il suo articolo 27.
Tornando ai giorni nostri e riflettendo sul nostro sistema penitenziario, negli ultimi anni ne abbiamo scoperto – anche per via dei richiami della Ue – molti malfunzionamenti: dal problema del sovraffollamento, alla fatiscenza di molte strutture di esecuzione penale, alla poca capacità che il settore dell’amministrazione penitenziaria ha di sviluppare misure alternative alla pena, in particolare il lavoro; si consideri però che ciò forse necessita di competenze che non fanno propriamente capo alla Giustizia e che possono essere integrate con il Welfare e il Lavoro.
L’ultima rilevazione al 31 marzo 2015 ci dice che nelle nostre carceri sono presenti 54.122 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 49.494. Siamo quasi allineati agli standard, le sanzioni minacciate dalla Ue hanno sortito il loro effetto circa i problemi del sovraffollamento, riportando i tassi di detenzione in linea con gli altri Paesi europei (Germania, Francia e Inghilterra).
Per quanto riguarda la poca capacità di sviluppare misure alternative alla pena – il lavoro in particolare – è chiaro che a chi amministra la giustizia può essere molto utile un supporto integrato: il coinvolgimento di imprese e la gestione del matching tra domanda e offerta di lavoro sono specialità un po’ più familiari a chi si occupa di politiche del lavoro e di welfare.
Al di là del problema del sovraffollamento, è chiaro che se non si fa nulla per rendere il luogo di esecuzione della pena meno fatiscente e si resiste a coinvolgere chi è abituato a fare con successo interventi di politica attiva del lavoro difficilmente il carcere potrà diventare un luogo più efficace nella rieducazione.
Il carcere non riabilita di per sé, non esclude di per sé, non riproduce delitti di per sé. È l’assenza di un percorso rieducativo che genera esclusione e riproduce delitto. Stupiscono quindi le proposte, più o meno velate, che ricadono sotto lo slogan di abolire il carcere: per la serie, buttiamo il bambino con l’acqua sporca.
In realtà modelli ed esperienze non mancano, sia in Italia che all’estero. A dire il vero, Germania, Francia e Inghilterra fanno più ricorso di noi alla detenzione: sono così meno esposti a fenomeni di corruzione e di criminalità organizzata.
Nel dicembre 2011 il Parlamento europeo ha approvato la Risoluzione sulle condizioni detentive nell’Unione europea. Nel testo approvato si sottolinea la necessità che, anche nell’ambito di limitazioni alla libertà personale imposte dal diritto nazionale, devono essere rispettate, secondo le modalità specificatamente previste a livello territoriale nel rispetto delle indicazioni del Consiglio, le attività di rieducazione, istruzione, riabilitazione e reinserimento sociale e professionale, anche con riferimento al lavoro in generale.
La risoluzione, inoltre, prevede una particolare attenzione alle attività di tipo informativo, rivolte ai detenuti al fine di esplicitare i mezzi esistenti per preparare il loro reinserimento (orientamento e accompagnamento alla ricerca attiva di lavoro).
Come si evince, il lavoro è ritenuto la via della rieducazione. Considerando che, nel 98% dei casi, chi esce dal carcere inserito nel lavoro in carcere non torna più (dato Italia Lavoro), è facile comprendere come un detenuto che non torni più a delinquere sia un successo anche per i conti dello stato. Diamoci da fare per rendere il carcere sempre più rieducativo. Beccaria ne gioirebbe, ma anche Kant e Hegel non ne sarebbero poi così dispiaciuti.
Giuseppe Sabella
Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2015