Cappato (Radicali) : Inutile inasprire le pene, rappresenta soltanto l’impotenza dello Stato


On. Marco CappatoIn un articolo sugli “Eccessi di riforma” della giustizia italiana, apparso su Il Messaggero di lunedì 25 maggio, Carlo Nordio censura l’incompetenza del legislatore. Ha ragione da vendere, Nordio: nel complesso e articolato quadro dei problemi che affliggono la giustizia nel Paese, l’incapacità professionale di chi ha la responsabilità di dettare le regole viene prima di qualsiasi valutazione politica.

Nel diritto penale sostanziale e processuale, di questi tempi l’incompetenza del legislatore si esprime in una specifica inclinazione a produrre leggi che, da un lato, inaspriscono le pene e, dall’altro, allungano i tempi della prescrizione. In realtà, chi è propenso ad attività delittuose non se ne astiene al pensiero dell’entità della pena che rischia, ma se mai a quello di una giustizia che funziona e che, anzitutto per questo, induce rispetto. L’inasprimento delle pene più che altro esprime dunque l’impotenza dello Stato che, quanto meno sarà in grado di punire, tanto più mostrerà i denti con i quali morderebbe se fosse in grado. In particolare, come ha detto e scritto Mario Baldassarri ad altro proposito, l’aumento delle pene comminabili per il reato di corruzione farà aumentare il prezzo della condotta del reo, ma non modificherà le statistiche della commissione del reato.

E l’allungamento dei tempi della prescrizione, in parte come effetto legale automatico dell’aumento delle pene, in parte per diretta disposizione, produce come unico risultato che i cittadini imputati di reati possono trovarsi a do-vere attendere tempi ancora più lunghi prima che i processi si concludano – peraltro di frequente non con la pronuncia di una sentenza definitiva, ma, come in precedenza, con il compimento della prescrizione.

Il legislatore sa che dell’inefficienza della giustizia spesso si avvalgono gli avvocati, contribuendo volontariamente a che il processo penale duri fino a che il reato del quale è imputato il cliente si estingua in esito al maturare del termine di prescrizione; al che il legislatore reagisce allungando il tempo a disposizione della magistratura per completare il processo prima che il termine maturi, forse pensando che la paradossale irraggiungibilità della tartaruga da parte di Achille non sia poi tanto irrealistica, se la corsa viene resa praticamente infinita.

Di nuovo, dunque, il legislatore fornisce denti da mostrare, che il magistrato potrà usare proprio sul presupposto dell’abnorme durata dei processi penali, in qualche modo confermato come normale e del quale anzi gli è implicitamente rivolto l’invito ad approfittare. Un paio di settimane addietro, nel corso di un incontro presso l’associazione radicale milanese Enzo Tortora, il parlamentare membro della Commissione giustizia Stefano Dambruoso ha diffusamente parlato, appunto, del progetto relativo all’aumento delle pene e all’allungamento dei tempi di prescrizione del reato di corruzione.

Nell’occasione, alla quale ero presente, ho esposto quanto nuovamente espongo qui, citando anche il pensiero di un bravo giudice che ho conosciuto in tempi ormai lontani, il cui assunto centrale è che, riguardo alla prescrizione del reato nel processo penale, il legislatore dovrebbe adottare una disciplina analoga a quella che vige riguardo alla prescrizione del diritto azionato nel processo civile.

In sede civile, la prescrizione di un diritto è interrotta dall’inizio di un giudizio, o dalla domanda proposta nel corso di un giudizio già iniziato, e dall’interruzione inizia un nuovo periodo di prescrizione che, peraltro, non corre fino al momento in cui il giudizio è definito con sentenza passata in giudicato; dunque, il trascorrere del tempo nel quale si svolge la vicenda processuale non influenza la prescrizione del diritto – salvo rimanendo il caso che il processo si estingua in esito ad abbandono per inattività delle parti, o a loro rinuncia in ragione di intervenuti accordi conciliativi, o ad altro.

In sede penale, invece, dall’interruzione la prescrizione comincia nuovamente a correre e, raggiunti determinati traguardi, si compie determinando l’estinzione del reato; indipendentemente dalla condotta sia dei giudici che degli imputati, per il solo trascorrere del tempo. C’è da chiedersi il perché delle due differenti discipline della prescrizione, quali siano gli effetti di quella in sede penale e cosa, in un’ottica riformatrice, si potrebbe ipotizzare di cambiare.

Alla prima domanda, l’usuale risposta è che il cittadino imputato non può rimanere indefinitamente in attesa di giudizio, mentre l’attore e il convenuto in sede civile se la possono vedere tra di loro, arrangiandosi in qualche modo; alla quale considerazione viene spesso aggiunto che, se venisse meno il rischio del compimento della prescrizione durante lo svolgimento del giudizio penale, verrebbe anche meno qualunque propensione dei giudici ad adoperarsi, lavorando duramente, al fine di sventarlo, con conseguente aumento dell’inefficienza del sistema giudiziario. Lode dunque al Codice Rocco del 1930, che ha dettato i principi ancora oggi vigenti in tema di prescrizione del reato – elaborati, comunque, in epoca nella quale il numero delle prescrizioni era infinitamente minore di quello odierno.

La replica viene in primo luogo dalla Carta costituzionale: il cui art. 111, nel dettare ai commi I e II che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” la quale “ne assicura la ragionevole durata”, non si riferisce, come invece distintamente fanno i commi che seguono, al processo penale, ma al processo tout court e quindi non solo al processo penale, ma anche a quello civile; né tanto meno attribuisce all’imputato una tutela “privilegiata” rispetto a quella della parte di un processo civile.

Dunque, sul piano dei principi, è sensato concepire che la ragionevole durata di ogni tipo di processo (anche amministrativo, tributario, eccetera) sia regolata in modo omogeneo anche per quanto concerne la prescrizione dei diritti che in esso si facciano valere, compresi quelli dello Stato. Inoltre, a sostegno dell’opportunità di una conforme disciplina degli effetti del decorso del tempo nei vari tipi di processo, sul piano pratico non va trascurato il fatto che l’estenuante durata di un importante processo civile può rappresentare per un cittadino un problema non meno grave della perdurante pendenza di un importante processo penale e, anzi, molto più grave di quella di un processo penale per fatti di modesto rilievo o, comunque, senza carcerazione preventiva.

Né, con riferimento al preteso aumento dell’inefficienza del sistema giudiziario, sembra potersi immaginare qualcosa di peggio di una situazione come quella che si produrrebbe con l’entrata in vigore di una legge come quella allo studio sul reato di corruzione, nella quale il corso dei nuovi termini prescrizionali coprirebbe in molti casi una porzione fondamentale della vita dell’imputato, poco distinguibile da una situazione caratterizzata dall’assenza di termini.

L’attuale disciplina della prescrizione in sede penale, ha innegabilmente l’effetto di indurre gli imputati ad adottare una linea difensiva che spesso ha il centrale obbiettivo di fare trascorrere il tempo necessario affinché maturi la prescrizione del reato. Tale risultato è perseguibile in quanto un termine di prescrizione che possa maturare durante il processo esista, per quanto lontano: se tale termine mancasse, come manca nel diritto civile, le difese dilatorie perderebbero la loro ragione di essere.

L’assenza di un termine di prescrizione del reato che possa maturare durante il processo penale, in primo luogo, consentirebbe ai magistrati di disporre di tempo per la gestione dei processi senza essere “incalzati” dal termine di prescrizione, evidentemente ancor più che potendo contare su un termine di prescrizione di grande lontananza; in secondo luogo, l’assenza del corso della prescrizione dei reati durante i processi accelererebbe la speditezza di quelli pendenti e ne ridurrebbe notevolmente il numero.

In altri termini, se divenisse operativo il principio per cui, come il diritto fatto valere in un processo civile, anche il reato oggetto di un processo penale non si può prescrivere durante il relativo corso, avrebbe luogo senza alcun costo un importante effetto deflattivo sia delle condotte difensive dilatorie nei processi di primo grado, che della promozione dei processi di secondo grado e di legittimità avanti alla Corte di cassazione, alle quali gli imputati che mirano alla prescrizione del reato loro ascritto non avrebbero più alcun interesse.

Al che il legislatore potrebbe aggiungere la previsione di depenalizzazioni, di sanzioni alternative, di nuovi tipi di “patteggiamento” e di altri riti alternativi attuabili in qualunque stadio anche avanzato del processo, unitamente a una completa riorganizzazione dei servizi: così indicando e iniziando a percorrere una strada riformatrice ben più promettente di quella, velleitaria e inconcludente, dell’inasprimento delle pene e dell’allungamento dei termini di prescrizione.

Marco Cappato

Il Garantista, 3 giugno 2015

Livorno, Voleva dire addio alla mamma moribonda. Negato il permesso ad un detenuto


Casa Circondariale di LivornoVoleva dire addio alla mamma moribonda. Ci teneva tanto a vederla l’ultima volta su quel letto d’ospedale che la vedeva rantolare in attesa dell’ultimo respiro. Eppure nessuno si è preso la briga di rispondere alle richieste di Andrea Calloni, carcerato in attesa di processo nel penitenziario delle Sughere, a Livorno. E così, quando Marusca Tarquini se ne è andata dopo una lunga malattia all’età di 67 anni, Andrea non c’era. Era nella sua cella, prigioniero di una burocrazia inumana, che ancora una volta si dimostra vicina parente della strafottenza pura.

Non è altrimenti giustificabile il fatto che le richieste e i solleciti del 42enne, peraltro soggetto a custodia cautelare per ragioni tutt’altro che chiare, siano state ignorate. Ed è a maggior ragione che il benestare concessogli invece per assistere al funerale, giunto puntuale a mamma morta, appare il disdicevole proseguio di una beffa.
Andrea Calloni, 42 anni, è recluso dal 18 settembre scorso, e non ha voluto tacere l’amarezza per quella che definisce come «una vera ingiustizia».

«Sono deluso dal sistema giudiziario – fa sapere il quarantaduenne tramite il suo avvocato Barbara Luceri – io sono in carcere per reati contro il patrimonio. E soprattutto sono in attesa di giudizio. Quindi fino a quel giorno per la legge italiana c’è la presunzione di innocenza. Ecco perché non capisco il motivo di questo torto. Si tratta di un’ingiustizia che poteva essere evitata solo usando il buon senso e un po’ di umanità».

L’uomo, accusato di associazione per delinquere, ha fatto richiesta di vedere la madre in ospedale lo scorso 19 maggio, quando le condizioni di questa si sono notevolmente aggravate. «I medici – racconta l’avvocato Luceri – hanno detto molto chiaramente che non c’erano molte speranze. Le condizioni della donna erano gravissime, ma in alcune circostanze riusciva ancora ad essere presente a sé stessa».

A quel punto, Calloni ha fatto richiesta di un permesso alle autorità competenti, ma «visto che non ho ricevuta alcuna risposta – riferisce l’uomo – ho fatto altri due solleciti il 21 e il 23 maggio. Ma nonostante queste richieste non c’è stata alcuna decisione: la richiesta è stata ignorata». Il 28 maggio, la signora Marusca però è morta. E solo al giungere di questa terribile notizia, è arrivato dal Tribunale l’ok per la partecipazione al funerale. Una vicenda miserrima, resa ancora più penosa dalla posizione giudiziaria di Calloni.

L’uomo, in carcere dal 18 settembre del 2014 per esigenze di custodia cautelare, ha trascorso diversi mesi in isolamento. «Una situazione psicologicamente difficile, soprattutto perché le visite di esterni, a cominciare dai familiari, sono molto complicate se non impossibili», aveva spiegato il suo difensore Massimo Batini. «Tali misure – aveva avvertito il legale – assomigliano molto all’anticipazione di una condanna che potrà arrivare solo al termine di un dibattimento o all’esito del procedimento».

Secondo gli inquirenti Andrea Calloni, presunto sodale di Andrea Polinti, aveva il ruolo «di braccio destro e uomo di fiducia del capo, addetto alla organizzazione e realizzazione di truffe nonché spacciatore di banconote contraffatte». È per queste ragioni che l’uomo è stato recluso e posto in custodia cautelare. Ma 9 mesi di carcere duro, in attesa di un processo che inizierà questa settimana, non sono certo acqua fresca. Anche se fosse poi il peggiore dei boss, a un figlio non si nega l’addio alla sua mamma. E a una madre, foss’anche il più famigerato dei banditi, l’addio a suo figlio.

Francesco Lo Dico

Il Garantista, 03 Giugno 2015

Due detenuti su tre stanno male: il carcere italiano è un’istituzione malata


cella detenuti 1E’ allarme salute per i detenuti negli istituti penitenziari italiani: 2 su 3 sono malati, nel 48% dei casi per malattie infettive, il 32% ha disturbi psichiatrici. L’epatite colpisce 1 detenuto malato su 3, mentre sono in riduzione i sieropositivi per Hiv. È la fotografia scattata dagli esperti Società italiana di Medicina e sanità penitenziaria (Simpse) per la tutela delle condizioni di salute dei detenuti italiani per il congresso nazionale che si aprirà oggì a Cagliari.

Sono 199 gli istituti penitenziari aperti, con una capienza totale di 49.493, nonostante i detenuti presenti siano 53.498, per un sovraffollamento di 4.628, che equivale ad un +8,1%. I detenuti stranieri rappresentano il 32,6% del totale, pari a 17.430, mentre le donne sono 2.309, ossia il 4,3%. Secondo l’ indagine, che sarà presentata durante il congresso di oggi, almeno una patologia è presente nel 60-80% dei casi. Questo significa che almeno due persone su tre sono malate.

Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). Una situazione che, nonostante l’appello di cui la Simspe si è fatta portavoce negli ultimi anni, non ha sortito l’effetto sperato. Gli ultimi dati sulle epatiti, infatti, hanno rilevato la presenza di un malato di questa patologia ogni tre persone residenti in carcere. Mentre sono in calo i sieropositivi per Hiv.

«Bisogna ricordare che il paziente detenuto di oggi, è il cittadino libero di domani – afferma Sergio Babudieri, presidente della Simpse – Tutte le informazioni di tipo scientifico ed epidemiologico, sia in Italia che all’estero, indicano sempre lo stesso punto, ossia che in carcere si concentrano persone che hanno comportamenti di vita che sono a rischio dell’acquisizione di una serie di malattie non solo infettive, ma anche di tipo metabolico, come ad esempio obesità, fumo, alcolismo; da ciò si evince evidentemente che il carcere è un ambito in cui la sanità pubblica può più facilmente intercettare persone che, una volta invece diluite nella popolazione generale, è più difficile incontrare, anche perché per il loro stile di vita spesso non hanno il bene salute nei primi posti della loro scala dei valori».

La popolazione detenuta in Italia è cresciuta negli ultimi dieci anni dell’ 80% – ricordano i medici penitenziari – La maggior parte delle carceri ha dei tratti comuni: bagno e cucina nello stesso locale, cambio di lenzuola ogni 15 giorni, bagno alla turca o water separati gli uni dagli altri da un muretto alto appena un metro, strutture fatiscenti. Il personale è insufficiente, gli assistenti sociali sempre meno del necessario. L’assistenza sanitaria, come si può facilmente intuire da questo quadro, può risultare spesso di pessima qualità.

Infine, secondo l’indagine della Simpse, che ha studiato i singoli casi dei detenuti che si sono sottoposti a test e controlli (circa il 56%), il tasso di trasmissione stimato dalle persone positive all’ Hiv consapevoli si aggira tra l’ 1,7% e il 2,4%. Molto più alto, quasi 6 volte superiore, quello stimato dalle persone Hiv positive inconsapevoli, che raggiunge il 10%.

Il Garantista, 03 Giugno 2015