Reggio Emilia, Solo un Magistrato di Sorveglianza per 1.200 detenuti, molti dei quali al 41 bis


carceri cella affollataUn magistrato di sorveglianza per 1.200 detenuti, tra cui quelli in regime di 41bis (rinchiusi nel carcere di Parma) e i sex offenders (a Piacenza). E non ci sono solo quelli a cui pensare, perché sotto il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia ricadono anche l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio (che è ancora aperto), la nuova Rems e il Cdt (centro diagnostico terapeutico) di Parma, che smista i detenuti pericolosi.

A lanciare l’allarme sulla situazione “gravissima” del tribunale di sorveglianza è oggi il presidente Francesco Maisto, che ha tenuto una conferenza stampa a Bologna affiancato dai quattro colleghi che insieme a lui affrontano tutto il carico relativo all’Emilia-Romagna.

Tra loro Maria Giovanna Salsi, al momento l’unico giudice di sorveglianza a Reggio Emilia, sotto la cui giurisdizione ricadono, oltre al territorio di Reggio, anche Parma e Piacenza. “A Reggio fino a poco tempo fa eravamo due magistrati con 600 detenuti a testa, ed erano già numeri altissimi. Adesso sono sola”, spiega il giudice Salsi.

La situazione del personale non è meno drammatica: “A pieno organico, a Reggio dovrebbero essere nove persone, invece sono cinque di cui uno part time. E tra loro ci sono un commesso e un autista, che non possono apporre timbri e non hanno potere di firma”, spiega Salsi, che lancia l’allarme: “Basta solo che due persone si ammalino contemporaneamente, o che qualcuno vada in ferie mentre uno è malato, che il tribunale non può aprire, perché non c’è personale a ricevere gli atti, le carte cadrebbero a terra”.

La situazione di Reggio Emilia è una delle più paradossali della regione, dove ci sono “carenze di magistrati, cancellieri e ufficiali giudiziari”. Al momento, spiega oggi Maisto, sono in tutto cinque i magistrati di sorveglianza operativi: la pianta organica ne vorrebbe otto, ma venne fatta negli anni 80 e “sarebbe comunque sottodimensionata, visto ce ne vorrebbero almeno il doppio”, non ha dubbi Maisto.

Soprattutto rapportato al numero di detenuti su cui vigilare. Dei cinque magistrati di sorveglianza, a Bologna ce ne sono tre più il presidente (dovrebbero essere quattro ma uno è malato), a Reggio uno solo (quando dovrebbero essere due) e a Modena nessuno (e resterà vacante fino al giugno 2016, visto che il giudice assegnato è incinta in maternità). Tanto che le funzioni relative a Modena e Reggio ricadono in parte su colleghi di Bologna.

Per Maisto la situazione è gravissima, soprattutto visto che “questo tribunale celebra processi per 41 bis e altri casi clamorosi a livello nazionale”. Di recente, ad esempio, è stata discussa e rigettata la richiesta di Totò Riina (detenuto a Parma) di uscire dal carcere per questioni di salute. E proprio oggi si è svolta un’udienza per uno degli imputati a piede libero del crac Parmalat.

“La coperta è corta e tutto non possiamo fare, stabiliamo delle priorità ma di fatto stiamo subendo una regressione nei tempi, ci sono ritardi fisiologici e stiamo perdendo i primati di cui fino a poco tempo fa potevamo vantarci”. Il merito, conclude Maisto, è tutto del personale: “Se abbiamo mantenuto tempi tutto sommato accettabili è solo perché qui c’è gente che lavora molto più del necessario, ma questo alla lunga logora: se la soluzione non arriva, il personale alla fine si demotiva”.

La Gazzetta di Reggio, 24 giugno 2015

Roma, Per 1.378 giorni di Carcere inumano, detenuto risarcito con 11 mila euro


regina-coeli-carcereOtto euro per ogni giorno trascorso in una cella sovraffollata di Regina Coeli o di Rebibbia. È il risarcimento stabilito dal giudice della seconda sezione civile del tribunale di Roma per un ex detenuto cinquantenne che, nel dicembre del 2014, si era appellato all’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorrendo contro il Ministero della Giustizia per l’inadeguatezza delle strutture penitenziarie dove ha scontato quasi quattro anni di reclusione per spaccio e reati contro il patrimonio. Un provvedimento, emesso dal giudice Antonella Dell’Orfano, che ha riconosciuto all’ex detenuto una compensazione complessiva di 11.000 euro, a fronte di 1.378 giorni di carcere vissuti in un contesto considerato inumano e degradante.

Una nuova sentenza che riguarda le carenze strutturali dei penitenziari italiani è stata emessa nelle scorse ore dalla seconda sezione civile del tribunale di Roma per un ex detenuto cinquantenne che, nel dicembre del 2014, si era appellato all’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Secondo l’ex ristretto, che ha scontato quasi quattro anni di reclusione per spaccio e reati contro il patrimonio, la cella dove era detenuto era troppo stretta e le condizioni di degrado evidenti.

L’uomo, difeso dagli avvocati Giuseppe Caparrucci e Silvia Narduzzi, si è rivolto per questo alla magistratura ordinaria e ieri un provvedimento, emesso dal giudice Antonella Dell’Orfano, gli ha riconosciuto 11mila euro a titolo di risarcimento, a fronte di 1.378 giorni di carcere vissuti in quello che è stato descritto come un contesto considerato inumano e degradante.

La vicenda è molto simile a quella di un 44enne, condannato nel 2011 per reati legati agli stupefacenti, che ha raccontato la sua detenzione nel carcere di Sollicciano, a Firenze, sottolineando: “La mia non è stata detenzione ma segregazione. Decima sezione penale, niente libertà di movimento, in 3 in una cella di neppure 12 metri quadri, l’acqua che filtra dal terrazzino, umida d’inverno e bollente d’estate: fino a 50 gradi, non puoi appoggiarti al muro”.

L’uomo era stato scarcerato a marzo; il suo legale, Giovanni Conticelli, aveva chiesto, sulla base dell’articolo 35 dell’ordinamento penitenziario, “una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari a 1 giorno ogni 10 espiati” in condizioni inumane, nonché “una somma di denaro pari a 8 euro per ciascuna giornata”. Il giudice aveva accolto il ricorso.

Riccardo Di Vanna

Il Messaggero, 24 giugno 2015

Bernardini (Radicali): Sofri ha sbagliato a rinunciare all’incarico. Il Sappe pensi a quanto accade nelle Carceri


Rita BernardiniAdriano Sofri ha rinunciato all’incarico assegnatogli dal ministero della Giustizia.

La polemica scoppiata sulla sua nomina, le critiche del sindacato delle guardie penitenziarie, ma forse soprattutto le voci del figlio e della vedova Calabresi lo devono aver convinto.

Sulla vicenda, però, c’è stata grande imprecisione. L’elenco dei consiglieri nominati per gli ‘Stati generali dell’esecuzione penale’ pubblicato dal ministero il 19 maggio 2015 non comprendeva il nome di Sofri, perché il suo era un incarico differente.

INCARICO A TITOLO GRATUITO. «Non si trattava di una consulenza pagata, ma di un incarico da coordinatore di uno dei 18 tavoli tematici scelti dal ministero della Giustizia», spiega Rita Bernardini, radicale di lungo corso che per la grazia di Sofri e di Bompressi ha condotto una lunga battaglia. Anche lei è stata chiamata da Andrea Orlando come coordinatrice del tavolo sull’affettività e le relazioni territoriali, un ruolo che è «a titolo gratuito, prevede solo un rimborso spese».

E come Sofri, Bernardini è pregiudicata per la giustizia italiana: «Cosa dirà il Sappe quando saprà che sono stata condannata per disobbedienza civile sulle droghe leggere?».

Il decreto del 19 giugno con cui il ministero ha nominato i coordinatori dei tavoli tematici, che prevede il rimborso spese nei limiti di legge

Sofri ha lasciato: cosa ne pensa?

Mi spiace, capisco il suo stato d’animo, ma secondo me ha sbagliato.

Perché?

Perchè Adriano Sofri ha dimostrato il suo valore umano e civile con l’esemplarità della sua vita, anche per come ha vissuto l’esperienza del carcere.

Cosa intende?

Lo dimostra quello che ha scritto, le sue battaglie per i diritti umani non solo in Italia. A me non interessa entrare nella sua vicenda giudiziaria, mi basta guardare la storia degli ultimi suoi tre decenni. Ripeto: esemplare. Quando stava in carcere ha rinunciato a molti di quei benefici che gli spettavano di diritto. Ai Capece & company tutto questo non interessa.

Lei pensa dunque che fosse la persona giusta?

Una persona di valore che sa cos’è il carcere, che è culturalmente preparata poteva dare un contributo importante.

Come giudica le loro critiche?

Che dovrebbero rileggersi la Costituzione italiana riflettendo sul significato rieducativo della pena. Dovrebbero concentrarsi di più sul loro lavoro sindacale; sul fatto, per esempio, che gli agenti di polizia penitenziaria sono fra le forze di polizia quelli che sono rimasti più indietro in termini di stipendi e di carriere.

L'elenco dei coordinatori dei tavoli tematici scelti dal ministero della Giustizia

Ma è corretto che lo Stato paghi una persona condannata per un crimine che ha offeso la comunità?

Guardi che questo era un incarico gratuito e per Sofri sarebbe stato un modo di mettersi al servizio della comunità, come ha già fatto e fa senza avere avuto incarichi. Nel decreto di nomina è spiegato che non ci sono emolumenti e che gli eventuali rimborsi spese devono essere documentati (io vorrei pubblicamente) e nei limiti della legge e delle ristrettezze di bilancio. Quando ho collaborato con la commissione istituita dalla Cancellieri non ho chiesto nemmeno un euro di rimborso perché le riunioni si tenevano a Roma e io vivo a Roma.

NELLE IMMAGINI

  1. Il decreto del 19 giugno con cui il ministero ha nominato i coordinatori dei tavoli tematici, che prevede il rimborso spese nei limiti di legge.
  2. L’elenco dei coordinatori dei tavoli tematici scelti dal ministero della Giustizia.

Giovanna Faggionato

http://www.lettera43.it – 23 Giugno 2015

D’Ascola (Senatore Ap): la “certezza della pena” appartiene al diritto penale del passato


Sen. Nico D'Ascola“Più il sistema si sbilancia nella direzione di prevedere fatti illeciti qualificati nelle forme del reato, puniti con la pena detentiva, più il problema dell’affollamento carcerario è destinato a non risolversi”. Ad affermarlo è il senatore Nico D’Ascola, responsabile giustizia Area Popolare, intervenuto al convegno sulle carceri nell’aula magna della facoltà di Architettura di Reggio Calabria.

“Reato e pena – prosegue – non costituiscono più un collegamento assolutamente indissolubile. La certezza della pena appartiene ad un diritto penale del passato, non certo ad un diritto penale del presente. Sarebbe il caso ovviamente di prenderne atto allorquando ci ricordiamo di principi fondamentali che non trovano più un corrispettivo nelle attuali esigenze di un diritto penale che ormai, perlomeno da quarant’anni, si è trasformato in questa direzione. Tra l’altro non dobbiamo dimenticare una circostanza estremamente importante, che è dimostrativa di una sorta di cortocircuito nel quale versa questa difficile e complessa disciplina.

Il punto serio della questione dovrebbe consistere nel comprendere, intanto, che l’affermazione della responsabilità penale andrebbe garantita da un sistema che, rispetto all’attuale, sia più in grado di selezionare la certa responsabilità del condannato rispetto ai casi di incerta responsabilità che dovrebbero esitare in sentenze dichiarative della non responsabilità dell’imputato”. “Quindi – conclude D’Ascola – la garanzia andrebbe certamente riferita alle fasi dell’accertamento, a pene commisurate effettivamente alla gravità del fatto e che tengano conto del principio della rieducazione”.

Donatiello (Ergastolano) : Da Padova a Parma, il rispetto dei diritti in carcere è “discrezionale” ?


CC Parma DAPMi chiamo Giovanni Donatiello, sono detenuto nella sezione A.S1 della Casa di Reclusione di Parma dal 4 giugno di quest’anno proveniente dalla Casa di Reclusione di Padova.

Porto la mia testimonianza a conforto del documento “Lettera aperta dei detenuti AS1 di Parma” per portare a conoscenza la sperequazione esistente tra i due Istituti penitenziari già citati, sia sotto l’aspetto trattamentale sia sotto l’aspetto della garanzia dei diritti del detenuto, ma soprattutto della persona. Sono stato il primo, dei due detenuti già giunti da Padova cui il Garante comunale fa riferimento nel comunicato stampa del 17.06.2015.

Mi trovo in carcere ininterrottamente dal luglio del 1986 (29 anni) e dal 2000 nelle sezioni EIV-AS1. Nella sede di provenienza svolgevo una serie di attività che mi permettevano di impegnare il tempo utilmente e vivere una detenzione decente. Sono iscritto al secondo anno della Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Padova. Per motivi di studio ero autorizzato a detenere il proprio PC nella camera di pernottamento. L’Università di Padova, attraverso una fondazione, garantiva sia l’iscrizione gratuita sia tutte le spese occorrenti per un eventuale cambio di sede, come nel mio caso. Infatti, prima di arrivare a Padova ero iscritto presso l’Università di Pisa. Era previsto un servizio di tutoraggio eccellente, veniva assegnato ogni studente un tutor, che potevi incontrare puntualmente anche tutte le settimane.

L’accesso dei tutor era consentito tutti i giorni fino alle ore 17:00. I testi per gli esami venivano forniti con puntualità. Un metodo che mi metteva nelle condizioni di studiare con più serenità. Facevo e faccio parte a pieno titolo della redazione della rivista “Ristretti Orizzonti”. Partecipavo al progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”. Gli incontri con gli studenti, nella media di 70-80 ragazzi a ogni incontro, si svolgevano in un auditorium tre volte alla settimana per tutta la durata dell’anno scolastico. Frequentavo un corso di lingua Inglese. Ho frequentato un corso universitario di Diritto Privato, un corso di yoga e meditazione. Ero iscritto per seguire un corso universitario di Diritto del Lavoro. Ho partecipato a diverse partite di calcetto con scolaresche. Sono intervenuto in svariati incontri con professori universitari, i quali nella veste di relatori affrontavano tematiche di vario genere. Per ultimo, non per ordine di importanza, il 22 maggio sono intervenuto al convegno che si è tenuto presso la Casa di Reclusione di Padova intitolato “La rabbia e la pazienza” alla presenza di 600 persone giunte da tutta Italia.

Tutte le attività svolte a Padova coprono un arco temporale di appena 17 mesi, il tempo di durata della mia permanenza in quel carcere. Il comunicato stampa del Garante elenca le attività presenti in questo istituto: veramente esigue e “possibili” più che reali. Se provassimo a fare una semplice comparazione tra le attività da me svolte a Padova e le attività svolte da tutti i detenuti presenti in questa sezione in tutto l’arco della loro permanenza in questo Istituto, credo che il confronto dovrebbe mettere in crisi chi amministra questo Istituto rispetto all’art.27 della Costituzione.

Ma se le amministrazioni hanno come finalità il raggiungimento degli obiettivi prefissati, mi chiedo quali siano in questo Istituto, e se alla fine non rischino di essere solo quelli dell’annientamento delle persone, spesso lasciate marcire in cella per tutta la giornata, prova ne è che mi ritrovo rinchiuso per almeno venti ore al giorno in cella e per giunta in compagnia di un’altra persona, condizione degradante in particolare per chi è da anni in carcere e ritengo anche illegale in quanto lo spazio calpestabile è di gran lunga inferiore ai tre metri quadrati previsti dalla sentenza Cedu (Torreggiani V.S. Italia), nella quale viene ribadito il diritto di vivere una detenzione che sia rispettosa della dignità della persona.

A me pare di palmare evidenza che in questo Istituto vengono violati i più elementari diritti garantiti all’art.3 e 27 della Costituzione; vengono ignorate le garanzie stabilite dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (V.S. Torreggiani); non si rispetta la prescrizione dell’articolo 27 comma 4 D.P.R. n°230/2000 della continuità trattamentale, che di fatto viene azzerata. In sintesi, ciò che voglio dire è che essere quotidianamente a contatto con un pensiero attivo, profondo e creativo, come viene praticato nel carcere di Padova, dovrebbe essere una condizione della detenzione fondamentale e continuamente alimentata, mentre in questa sede viene annientata! Ecco come il potere discrezionale con cui viene gestito ogni carcere, spesso non rispettando i principi di legalità, spesso si traduce in una violazione sistematica dei Diritti del detenuto, dimenticando che dietro ad una posizione giuridica vi è sempre una persona.

Giovanni Donatiello (Casa di Reclusione di Parma, Sezione AS1)

Ristretti Orizzonti, 23 giugno 2015

Adriano Sofri, ex Leader di Lotta Continua : Una condanna è per sempre


Adriano-Sofri«Fine pena mai» è la tetra formula che compare sulle cartelle biografiche delle persone condannate all’ergastolo in Italia. Fino al 1987 voleva dire che il detenuto sarebbe morto dietro le sbarre, poi con la riforma dell’ordinamento, è stato stabilito che dopo 10 anni si può accedere ai permessi, dopo 20 alla semilibertà e dopo 26 alla libertà condizionale. Funziona così (eccetto per i condannati per i reati ostativi – Art. 4 bis O.P., che nello specifico caso degli ergastolani sono la maggior parte, che non usciranno mai più dal Carcere, neanche per brevi permessi, se non dopo morti, salvo che collaborino con la Giustizia ai sensi dell’Art. 58 ter O.P. Emilio Quintieri).

Adriano Sofri è stato condannato nel 1990 a 22 anni di carcere in quanto mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. È uscito nel 2012 per decorrenza dei termini. Il processo, invero, fu controverso: lui si è sempre assunto la ‘responsabilità morale’ dell’omicidio, ma ha sempre negato ogni responsabilità diretta, ritenendosi innocente dal punto di vista penale. Comunque uno la voglia mettere, lasciando da parte il merito delle accuse e ogni valutazione sui cosiddetti Anni di Piombo (a proposito, sarebbe anche il caso di cominciare a parlare di certi temi inquadrandoli da un punto di vista storico, prima o poi. Ma questo è un altro discorso), Adriano Sofri è oggi un uomo libero a tutti gli effetti: ha scontato la sua pena, può andare dove preferisce e fare quello che vuole. Questo dovrebbe essere pacifico in ogni stato di diritto, in ogni democrazia, ovunque. Poi è venuto fuori che il 19 giugno scorso il ministero della Giustizia ha indicato proprio Sofri tra i membri di uno dei tavoli di lavoro che il governo vorrebbe mettere in piedi per riformare il sistema carcerario italiano, una delle vergogne più grandi del paese, definito a più riprese dagli osservatori indipendenti come «disumano e degradante».

La nomina di Sofri avrebbe una certa logica, a ben guardare: a parte che ogni detenuto potrebbe offrire prospettive interessanti sulle patrie galere, bisogna riconoscere che l’ex Lotta Continua è uno dei massimi esperti italiani sul tema. Ne ha scritto spesso sui giornali, nel 2002 diede alle stampe il libro «Altri Hotel», uno dei documenti più importanti per capire la detenzione e quello che vuol dire. Insomma, è una voce che verrebbe ascoltata ovunque proprio perché competente in materia. Ovviamente le cose non sono andate così. Circostanza in effetti ovvia a guardare la qualità del dibattito italiano in generale e sulle carceri in particolare. Così, la polemica è scoppiata con un comunicato del Sappe (il sindacato degli agenti di polizia penitenziaria) che ha bollato la scelta del ministero come «inaccettabile, inammissibile, intollerabile e insopportabile», ha invocato l’intervento di Mattarella, ha buttato lì che «gli italiani onesti e con la fedina penale immacolata pagheranno con le loro tasse le trasferte, i pasti ed i gettoni di presenza» al reprobo e suggellato il tutto con quello che probabilmente ritenevano essere un paradosso: «E’ come far sedere Totò Riina al tavolo di revisione del 41 bis».

Sui social network c’è voluto pochissimo perché scoppiasse il finimondo. Su Twitter l’hashtag #Sofri è schizzato in testa ai trend topic nel giro di pochi minuti. Alla fine, proprio Sofri ha annunciato che, dopo essere stato semplicemente interpellato al telefono, non parteciperà ai futuri tavoli a tema, ritenendo di averne abbastanza «delle fesserie in genere e delle fesserie promozionali in particolare». La risposta, recapitata al Foglio, smonta una per una le accuse piovute dal sindacato di Polizia: Sofri ha dichiarato di aver esplicitamente richiesto di non ricevere nemmeno un centesimo per la sua consulenza e ha aggiunto che comunque «Riina, benché non sia necessariamente ‘il massimo competente del 41 bis’ ne è certo competente: e troverei del tutto ragionevole che, in una seria indagine sulla realtà del 41 bis, venisse anche lui interpellato in qualità di ‘competente’. Questo genere di competenza ed esperienza non ha infatti a che fare con l’innocenza, o la colpevolezza, o la gravità della colpevolezza, di chi finisce in carcere».

Il problema, a guardare la qualità della polemica e degli intervenuti, è che il dibattito pubblico italiano si conferma spaventosamente manettaro, quando si parla di giustizia e di ingiustizia. Chi ha subito una condanna, può anche averla scontata tutta fino all’ultimo giorno, ma sarà sempre e comunque destinato a dover subire l’ostracismo da parte del sedicente consesso civile. La riabilitazione non esiste e sembra quasi che la galera sia esclusivamente uno strumento punitivo per chi ha fatto il cattivo, cosa che non sta scritta nemmeno sul Codice di Hammurabi.

Per non dire che, nel caso specifico, non si dibatte della colpevolezza o dell’innocenza di Sofri, ma semplicemente di quello che potrebbe essere il suo parere su un tema per il quale lui è indubbiamente preparato, sia nella teoria sia nella pratica. Ma la cosa più scoraggiante in assoluto è che il dibattito pubblico in tema di giustizia sembra valere soltanto quando si parla di «tintinnar delle manette», possibilmente tante, alla faccia della Costituzione, dello stato di diritto, dell’umanità e del buon senso. Ma nel paese in cui un avviso di garanzia è già una condanna, in fondo, non dovrebbe stupire che il fine pena sia sempre mai.

Mario Di Vito

23 Giugno 2015, http://www.glistatigenerali.com

Carceri, Braccialetti elettronici finiti; niente arresti domiciliari i detenuti restano in cella


arresti-domiciliari-con-braccialetto-elettronico-820x427Non ascoltato l’allarme lanciato un anno fa dal Capo della Polizia Pansa. La gara d’appalto per la nuova partita non è stata svolta: mancano i fondi.

Era il 19 giugno 2014 quando con una circolare inviata ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria il Capo della Polizia Alessandro Pansa accendeva i riflettori sull’emergenza braccialetti elettronici ormai dietro l’angolo: entro la fine del mese corrente, annunciava il prefetto nel documento recapitato al Dap, la scorta di 2.000 apparecchi diventata largamente insufficiente dopo le nuove leggi dei governi Letta e Renzi in materia di sorveglianza sugli stalker, decongestionamento carcerario e misure alternative alla detenzione per le pene inferiori ai tre anni, sarebbe finita.

Per i nuovi braccialetti, osservava ancora Pansa, si sarebbe dovuto attendere fino ad aprile del 2015, vista la necessità di predisporre un capitolato per una gara europea di fornitura. Dopo un anno e due giorni di fatalista e inerte attesa, oggi quell’allarme si trasforma nel disastro ampiamente annunciato sotto gli occhi del governo.

Perché non solo la circolare di Pansa in allora è caduta nel vuoto ma nel frattempo nemmeno la gara europea fissata per la primavera di quest’anno è stata ancora fatta. Ed è così che negli ultimi mesi a più di un detenuto ospite delle patrie galere è stata offerta l’ennesima variazione sul tema dei diritti umani calpestati: sapere che un giudice ha firmato l’ordinanza che ti permette di tornare a casa, ai domiciliari, ed essere nonostante questo costretto a rimanere in cella a oltranza perché il braccialetto che dovrà sorvegliarti non c’è.

L’ultima tragicomico obbrobrio prodotto dal sistema giudiziario e dall’universo carcerario italiano è cristallizzato in una nuova lettera, stavolta scritta da un magistrato e inviata proprio al Capo della Polizia che un anno fa sollecitava il ministero della Giustizia, quasi a sottolineare plasticamente l’ennesimo rimpallo di competenze dal sapore inconfondibilmente nostrano.

A fine aprile, mentre si vedeva obbligato a trattenere dentro le sbarre un carcerato che a suo parere meritava l’attenuazione della misura cautelare, un gip romano ha infatti scritto al prefetto Alessandro Pansa ricordando “la scarsezza degli strumenti e sollecitando l’adozione di opportune iniziative atte ad evitare che il perdurare della condizione di detenzione del sopracitato imputato dipenda dalla occasionale inadeguatezza di strumenti tecnici”.

Il detenuto, nella circostanza, è stato scarcerato solo un mese dopo la firma del magistrato. Un destino che riguarda centinaia di altri carcerati che rimangono in cella a oltranza anche se il gip ha concesso l’attenuazione della misura. Ogni nuova attivazione al momento dipende infatti dal termine di un’altra custodia cautelare. Il contratto firmato nel 2004 tra Viminale e Telecom per la fornitura, l’installazione e il monitoraggio di 2.000 braccialetti elettronici scade a fine 2018.

Già un anno fa la stessa Telecom aveva avvisato il ministero retto da Angelino Alfano che i braccialetti non sarebbero bastati. La risposta è stata che si sarebbe fatta una nuova gara (quella prevista per l’aprile scorso) che però non è stata ancora indetta. Il capitolato è pronto, si è appreso da fonti del Viminale. A mancare sarebbero però i soldi, ovvero i necessari stanziamenti del Ministero dell’Economia che permetterebbero di tamponare una situazione di crisi la cui potenziale esplosività era nota a tutti gli attori da tempo.

Per un decennio il braccialetto è rimasto un oggetto misterioso e trascurato, poi due anni fa il gip del tribunale di Roma Stefano Aprile impose alla questura di Roma di utilizzare sistematicamente gli apparecchi disponibili visto che il sistema risultava regolarmente attivato. In pochi mesi il braccialetto elettronico ha preso piede anche in altre procure e tribunali d’Italia.

Ci hanno pensato poi gli ultimi governi a trasformare l’apparecchio in uno strumento cardine nella politica di alleggerimento dei penitenziari: solo dieci giorni dopo l’allarme lanciato da Pansa lo scorso anno, infatti, il 28 giungo 2014 è entrato in vigore il decreto 92. In base alla norma ogni nuovo arrestato, ma anche chi è già detenuto in attesa di giudizio o con una sentenza non ancora definitiva, deve essere inviato agli arresti domiciliari se il giudice competente prevede per lui una pena non superiore ai tre anni. Prima ancora c’erano stati il decreto sul femminicidio, che nell’estate del 2013 ha introdotto il braccialetto come strumento di controllo per gli stalker. E poi la svuota carceri varata nell’inverno 2014, che li fece diventare praticamente obbligatori per i detenuti assegnati agli arresti domiciliari.

Il gip lo manda ai domiciliari. In cella un altro mese

Detenuto in attesa di scarcerazione. A distanza di 44 anni dal film di denuncia di Nanni Loy, da quel “Detenuto in attesa di giudizio” in cui Alberto Sordi viaggiava attraverso i soprusi e i meccanismi infernali della giustizia e del sistema penitenziario italiani sviscerandoli impietosamente con una delle sue massime prove d’attore, dall’arcipelago carcerario italiano spuntano nuovi e aggiornati capolavori di kafkiana assurdità.

Sarebbe dovuto uscire di prigione subito, dopo che il gip di Roma lo scorso 21 aprile gli aveva concesso i domiciliari a una condizione: data la sua potenziale pericolosità, gli doveva essere applicato il braccialetto elettronico. Invece un uomo detenuto a Roma, condannato in primo grado per rapina e sottoposto a custodia cautelare, prima di poter lasciare il penitenziario come deciso dallo Stato è stato costretto (sempre dallo Stato) a rimanere un altro buon mesetto dietro le sbarre a causa della penuria di braccialetti elettronici che sta mettendo a dura prova l’applicazione concreta delle già contestate misure “svuota-carceri” varate dagli ultimi due governi. La vicenda viene denunciata in una lettera spedita al ministero dell’Interno proprio dal gip che aveva concesso i domiciliari vincolati all’impiego del braccialetto.

“Ritengo doveroso rappresentare la grave situazione che si verifica a seguito della indisponibilità dei dispositivi in oggetto”, esordiva il giudice il 30 aprile scorso nella missiva spedita al Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Viminale. “A distanza di alcuni giorni dall’ordinanza”, denuncia il magistrato, “senza avere avuto alcun riscontro in merito all’esecuzione dell’ordinanza, con nota 27 aprile 2015 si sono richieste informazioni alla casa circondariale”.

È così che il gip ha scoperto che il suo provvedimento non aveva avuto applicazione. Infatti il commissariato di Spinaceto informava che il sopralluogo nel domicilio del detenuto per l’installazione dell’apparecchiatura si era concluso positivamente. Il problema, però, è che si era in attesa della “conferma di disponibilità dell’apparato”. Tenendo conto delle rassicurazioni fornite “anche in sede parlamentare”, chiosava il gip, “si sollecita l’adozione di opportune iniziative atte ad evitare che il perdurare della condizione di detenzione del sopra citato imputato dipenda dalla occasionale inadeguatezza di strumenti tecnici”.

Parole rimbalzate nel vuoto. Prima di lasciare il carcere, l’uomo ha dovuto attendere altri 20 giorni prima che venisse il suo turno di indossare uno dei preziosi e contesi braccialetti disponibili nella seleziona “parure” del Viminale.

Martino Villosio

Il Tempo, 22 giugno 2015