Gli Opg dovrebbero essere chiusi ma le Regioni sono inadempienti. Chiesto l’intervento del Governo


OPG Barcellona Pozzo di GottoRegioni senza Rems verso il commissariamento? che potrebbe non risolvere il problema di una legge mal fatta. Suicidi in carcere: la domanda è questa: perché, nonostante tutti gli sforzi, effettivi o promessi; nonostante l’indubbio impegno di tanti agenti della Polizia penitenziaria e della comunità penitenziaria in genere, perché il numero di suicidi o tentati suicidi tra i detenuti italiani è sempre più in aumento?

Nelle prigioni italiane si registra un tasso di suicidi 20 volte maggiore rispetto a quello della popolazione libera. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità viene commesso un tentativo di suicidio circa ogni tre secondi, ed un suicidio completato ogni minuto. Nelle carceri poi, si registrano numeri maggiori sempre in aumento, rispetto a quelli della comunità circostante. Il sovraffollamento delle carceri non si arresta, calano le forze di Polizia penitenziaria, e questa bomba a orologeria esplode tra i detenuti sotto forma di suicidio. Eccetto per una leggera flessione registrata nel 2013, quando i detenuti suicidi furono il 30 per cento, i dati sono allarmanti. Nelle carceri italiane si registra un tasso di suicidi 20 volte maggiore rispetto a quello della popolazione libera.

Nel corso di questi ultimi dodici anni sono avvenuti complessivamente 692 suicidi, più di un terzo di tutti i decessi avvenuti in carcere. Nel 2012 i detenuti hanno raggiunto i 7.317 atti di autolesionismo e 1.308 tentativi di suicidio. Le morti sono state complessivamente 154, 60 per suicidio, con una più elevata frequenza tra le persone più giovani.

Ospedali Psichiatrici Giudiziari: 31 marzo scorso: a partire da quel giorno gli Opg sarebbero dovuti sparire. Una promessa e un annuncio dato con molta enfasi, l’evento storico. Fine di una pagina spesso drammatica del sistema penale del nostro Paese.

A che punto siamo? La realtà è ben diversa da quella auspicata. Gli Opg non si sono affatto svuotati. In Campania attualmente sono presenti 122 internati, 67 ad Aversa, 55 a Secondigliano. Di questi circa la metà sono campani, gli altri provengono da altre regioni. Le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza che avrebbero dovuto sostituire gli OPG, non sono ancora pronte. In Campania ne sono previste due: a Calvi Risorta, e S. Nicola la Baronia, 20 posti ciascuna. Se tutto andrà come si spera saranno completate entro l’estate, le prime funzionanti a livello nazionale. Sono state individuate tre Rems provvisorie: 38 posti letto, solo due sono aperte.

Finito l’effetto annuncio, si deve prendere atto che non si è pronti. La legge 81 del 2014 che definisce la chiusura degli Opg, rileva evidenti limiti che non si sono voluti vedere, ma che fin dal primo momento erano chiarissimi: per esempio si prevede il commissariamento per le Regioni inadempienti. Con questo provvedimento, del resto non attuato pur talvolta essendoci le condizioni, il commissario dovrebbe predisporre in un tempo ragionevole i piani per la definizione delle Rems e riorganizzare i Dipartimenti di Salute Mentale, avviando nel contempo i progetti terapeutici individuali. Ma ecco emergere un’altra criticità: la difficoltà di prendere in carico i pazienti più problematici, gli internati rimasti in OPG, e quelli per cui fallisce la licenza finale di esperimento. Le incognite sul futuro, comunque, riguardano soprattutto i nuovi ingressi che nel frattempo continuano ad essere predisposti nelle Rems, con un intasamento che nei prossimi mesi diventerà ingestibile.

Al di là dello specifico caso campano, almeno 300 persone restano rinchiuse nei cinque Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, e quasi 250 persone sono rinchiuse nell’OPG di Castiglione delle Stiviere. Nelle otto Rems sinora attivate nelle altre regioni vi sono meno di 100 persone. È la denuncia del Comitato StopOpg. Il comitato chiede che le regioni che non hanno ancora accolto i loro pazienti siano immediatamente commissariate, “per assicurare le dimissioni e il trasferimento delle persone internate. Il Commissariamento è indispensabile per superare i ritardi nella chiusura degli Opg e per l’attuazione integrale della Legge 81/2014; misure e progetti che il Ministero della Salute è tenuto a monitorare e a sollecitare”.

Valter Vecellio

L’Indro, 25 giugno 2015

Gli orrori delle Carceri e lo scandalo degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari che non chiudono mai


Cella carcere IserniaNelle carceri persiste la problematica dell’ invivibilità nonostante gli appelli del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di Papa Francesco. A dispetto di quello che si dice (e può sembrare), il carcere continua a restare un luogo dove si muore, ci si uccide. Non se ne parla più, è vero: l’impellente urgenza individuata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il suo messaggio solenne al Parlamento, lo hanno gettato alle ortiche.

Pensate: il Parlamento, che pure ha l’obbligo di dibattere il messaggio venuto dal Colle, non lo ha neppure messo in agenda. Sostanzialmente censurato, poi, l’appello di papa Francesco, che ha puntato l’indice sull’ergastolo, definito “morte nascosta”, e ancor meno presa in considerazione la grave denuncia degli ispettori dell’Onu, che ha definito le carceri italiane luogo di tortura; e, come si è detto, si continua a morire, tra la generale indifferenza.

L’ultimo episodio riguarda un detenuto calabrese 56enne, ristretto per omicidio e condannato ad una pena di 30 anni, morto per infarto causato da una embolia nel carcere toscano di Porto Azzurro. Ne da notizia il Sappe, sindacato di Polizia Penitenziaria.

“Il detenuto aveva un fine pena nel 2018 e fruiva regolarmente di permessi premio, avrebbe dovuto fruirne uno proprio il prossimo venerdì” – spiega il segretario del Sappe, Donato Capece. “È deceduto dopo aver accusato alcuni malori e problemi di respirazione. Nonostante i tempestivi interventi del personale di Polizia Penitenziaria, di quello medico e paramedico non c’ stato purtroppo nulla da fare”.

Le stime sulla salute dei detenuti italiani elaborate vedono in testa alla classifica delle patologie più diffuse le malattie infettive (48%); i disturbi psichiatrici (27%); le tossicodipendenze (25%); le malattie osteoarticolari (17%); le malattie cardiovascolari (16%); i problemi metabolici (11%); le Claudiopatologie dermatologiche (10%). Per quanto riguarda le infezioni a maggiore prevalenza, il bacillo della tubercolosi colpisce il 22% dei detenuti, l’hiv il 4%, l’epatite B (dormiente) il 33%, l’epatite C il 33% e la sifilide il 2,3%”. Non solo: i dati raccolti dalla Società italiana di medicina e sanits’ penitenziaria ci dicono che il 60-80% dei detenuti affetto da una patologia. Un detenuto su due soffre di una malattia infettiva, quasi uno su tre di un disturbo psichiatrico, circa il 25% tossicodipendente. Solo 1 detenuto su 4 ha fatto il test per l’Hiv.

Per tornare alle morti in carcere: nei primi mesi del 2014 “è stato raggiunto un nuovo picco di suicidi nelle carceri italiane: il 40% di tutti i decessi in carcere è infatti rappresentato da suicidi”. Lo ha affermato il presidente della Società italiana di psichiatria (Sip), Claudio Mencacci, sottolineando che nel 2013 la quota di suicidi era stata pari al 30%, contro il 40% del 2012 ed oltre il 40% del 2009.

Prima di terminare questa nota. Ricordate gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari? Li si doveva chiudere, abolire. Proroghe a non finire, perché non si era ancora pronti, poi il solenne impegno delle Regioni di istituire strutture alternative e risolvere finalmente questa dolorosissima questione che il presidente Napolitano aveva qualificato come vera e propria barbarie… Ebbene, cos’è accaduto? Un bel nulla. Nella “Relazione sul programma di superamento degli Opg”, trasmessa dal Ministro della Salute Beatrice Lorenzin e dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando si sostiene che, “allo stato, appare irrealistico che possa addivenirsi alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari entro la data del 31 marzo 2015.

La ragione di fondo di tale previsione risiede nell’acclarata impossibilità che le Regioni possano, entro il termine previsto dal decreto legge n. 52 del 31 marzo 2014, portare a compimento l’opera di riconversione delle strutture, con la realizzazione delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza)”.

Di fatto, il Governo ammette che poco o nulla in questi mesi è stato fatto dalle Regioni per realizzare le nuove strutture (Rems) che garantissero ai malati psichiatrici una degenza nel pieno rispetto della loro dignità, secondo quanto stabilito sia dal decreto legge di proroga che dalla risoluzione approvata dalla Commissione Igiene e Sanità.

Insomma: l’avvilente ammissione che la tutela della salute e della dignità umana sono vittime degli inammissibili ed ingiustificabili ritardi della politica. A suo tempo il governo Monti aveva messo a disposizione circa 180 milioni di euro per la realizzazione di nuove strutture. Sarebbe interessante sapere che fine hanno fatto, come sono stati utilizzati, e da chi.

Valter Vecellio

http://www.lindro.it, 6 novembre 2014

Nell’indifferenza generale continua la mattanza silenziosa nelle Carceri d’Italia


cella perquisizione penitenziariaNelle carceri italiane, silenziosa e tra la generale indifferenza, continua la mattanza. L’altro giorno, nella casa circondariale di Sassari “Bancali” un detenuto si è tolto la vita dopo il giro di controllo del poliziotto di turno.

Lo ha reso noto Domenico Nicotra, segretario generale Aggiunto dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), uno dei sindacati della polizia penitenziaria. Nicotra racconta che il detenuto, un uomo di 34 anni, condannato per furto, dopo il normale e previsto giro di controllo ha ricavato un cappio dalle lenzuola in suo possesso e si è impiccato nel bagno della cella.

C’è poi l’ancora più lunga lista dei suicidi sventati. Due nel solo carcere di Civitavecchia. Donato Capece leader del sindacato autonomo di polizia Sappe, spiega che il detenuto, originario della Campania “ha tentato di uccidersi nella sua cella realizzando un rudimentale cappio con le lenzuola della cella”. Un suicidio sventato “Per Il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, ma l’ennesimo episodio accaduto in carcere a Civitavecchia è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria”.

Capece ricorda che qualche giorno prima un altro detenuto di Civitavecchia, italiano di 34 anni, ha tentato il suicidio cercando di impiccarsi, salvato anche in questo caso dagli agenti penitenziari: “Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 16mila tentati suicidi ed impedito che quasi 113mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”.

La situazione nelle carceri, insomma, resta allarmante. “Altro che emergenza superata”, sospira Capece. “Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma devono assumersi provvedimenti concreti: non si può lasciare solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri laziali e del Paese tutto”.

Un altro suicidio è stato sventato a Torino, Anche in questo caso un detenuto di 48 anni ha tentato di farla finita con un cappio rudimentale ricavato da un lenzuolo, ma è stato fortunatamente salvato dall’intervento della polizia penitenziaria e portato in ospedale. Un episodio, osserva Leo Beneduci, leader dell’Osapp che dimostra “l’assoluta inadeguatezza dell’amministrazione penitenziaria rispetto alle esigenze e all’alta professionalità degli appartenenti alla polizia penitenziaria”.

Ci sono poi i casi di connazionali detenuti all’estero. Il caso più clamoroso è quello di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due militari italiani prigionieri in India da più di due anni, al centro di uno sconcertante caso giudiziario caratterizzato da rinvii e rimpalli di competenza che sembra non avere mai fine.

Un’altra vicenda clamorosa è quella di Roberto Berardi un imprenditore detenuto in quello che si può ben definire un lager, in Guinea Equatoriale. Accusato di truffa Berardi denuncia di aver subito sevizie e torture. Secondo la ricostruzione dei familiari, Berardi aveva formato una società di costruzioni con il figlio del presidente della Guinea. Scopre strane operazioni sul conto corrente dell’impresa, chiede spiegazioni. Come risposta lo accusano di frode fiscale e lo sbattono in carcere.

Meglio è andata a Giulio Brusadelli un ragazzo arrestato a Cuba perché in possesso di appena tre grammi e mezzo di marijuana, l’equivalente di qualche spinello. Oggi Giulio è libero, ma per cinque mesi lo hanno tenuto in galera, e per non fargli mancare nulla lo hanno anche internato in ospedale psichiatrico. Secondo l’Annuario statistico del ministero degli Esteri sono circa tremila gli italiani detenuti nel mondo. Poco meno di settecento i condannati per delitti gravi, spesso per delitti gravi, ma a volte vittime di montature e capri espiatori di vicende più grandi di loro.

Il dato più allarmante è che sono 2400 gli italiani detenuti in attesa di giudizio, la maggior parte, circa 1800, nei paesi dell’Unione europea, Germania e Spagna in testa; quasi trecento nelle Americhe, concentrati negli Stati Uniti e in Venezuela. Altri 33 detenuti sono in attesa di essere estradati in Italia. Quale che sia il reato per cui sono imputati tutti i detenuti dovrebbero avere diritto ad un giusto processo. Non sempre è così.

In diversi Paesi, infatti, sono negati anche i più elementari diritti sanciti dalle convenzioni internazionali come l’assistenza di un avvocato e la presenza di un interprete durante gli interrogatori. E in molti casi le notizie lasciate trapelare dalle autorità sono così poche e generiche che non ci si può neppure fare un’idea del processo.

Valter Vecellio

Notizie Radicali, 12 settembre 2014

La vicinanza della pena al delitto ? Per Beccaria un caposaldo, per noi pura utopia


giustizia-500x375Non c’è solo il rifiuto della pena di morte e l’avversione alla tortura, nel celebre dei Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. C’è anche la precisa definizione di quello che deve essere la pena, la sanzione, che deve possedere alcuni requisiti: a) la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al delitto; b) l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta sanzionatoria da parte delle autorità; c) la proporzionalità con il reato (difficile da realizzare ma auspicabile); d) la pubblica esemplarità: destinataria della sanzione è la collettività, che constata la non convenienza all’infrazione.

In breve: il fine della sanzione non è quello di affliggere, piuttosto di impedire al reo di compiere altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri. A 250 anni esatti dalla prima pubblicazione, a Livorno, dei Delitti e delle pene, non si può proprio dire che si sia fatto tesoro di quegli “ammonimenti”. Un primo esempio ci viene dal racconto di un magistrato da sempre schierato e impegnato sul fronte progressista, Giovanni Palombarini: “Pare proprio che sia impossibile per l’Italia adeguarsi ai principi europei (e della civiltà) in materia di trattamento da riservare alle persone arrestate o fermate dalla polizia. Ci sono anche le sentenze delle Corti internazionali a ricordarci la situazione”.

“Nel giro di una settimana – continua – infatti, l’Italia ha riportato due condanne dinanzi alla Corte europea dei diritti umani, una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia)”, Non si tratta, spiega, di sentenze che stabiliscono nuovi principi di diritto: entrambe, costituiscono semplici conferme della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (articolo 3 della Convenzione).

Sentenze che meritano attenzione: ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni, Al riguardo il caso Saba, è esemplare: “I fatti risalgono all’aprile del 2000, quando alcuni detenuti del carcere di Sassari denunciarono le violenze di ogni genere subite da parte della polizia penitenziaria in occasione di una perquisizione della struttura (agenti di altri stabilimenti vennero inviati a Sassari per rafforzare la guarnigione locale)”.

Non mancano i tentativi di insabbiare e minimizzare, ma grazie a un magistrato ostinato, il pm Mariano Brianda, le indagini vanno avanti, e alla fine arriva la richiesta di rinvio a giudizio per novanta persone tra agenti ed altri membri dell’amministrazione penitenziaria; l’ipotesi di reato è di violenza privata, lesioni personali aggravate, abuso d’ufficio, commessi nei confronti di un centinaio di detenuti. E qui comincia un avvilente carnevale: 61 imputati scelgono il rito abbreviato, in 12 vengono condannati, da quattro mesi a un anno e mezzo di reclusione, condanne sospese. In appello le condanne definitive diventano solo nove.

E veniamo agli altri 29 imputati: nove sono rinviati a giudizio, per venti la sentenza è di non luogo a procedere. Nel corso dei processi si accerta che si sono verificati episodi di violenza inumana e gratuita, detenuti costretti a denudarsi, insultati, minacciati e picchiati, Ma il tribunale comunque proscioglie tutti gli imputati: due per carenza di prove, gli altri per sopravvenuta prescrizione. Le misure disciplinari che seguono le condanne sono altrettanto simboliche. Ciò induce a pensare, ne ricava Palombarini, che in molti ambienti siano forti i sentimenti di solidarietà verso coloro che violano le regole a danno delle persone detenute: “Infatti sono trascorsi più di dieci armi dai fatti di Sassari, ma la situazione, anche normativa, non si è modificata”.

Altro caso significativo: devono rispondere di sequestro di persona a scopo d’estorsione e rapina. È il 15 gennaio del 2000 quando nel carcere di Panna scoppia una rivolta, e un agente viene rinchiuso in una cella per ore; poi la resa, dopo una lunga trattativa.

Dopo sei interminabili ore l’allora procuratore Giovanni Panebianco annuncia: “Abbiamo accolto le loro richieste dì trasferimento”. Ora, a quattordici anni di distanza, quella rivolta entra in un’aula di giustizia, Il procedimento, dopo essere rimasto a Parma per alcuni anni, è stato trasferito alla Dda di Bologna. Se ne parlerà il 30 settembre prossimo in Corte d’assise.

Il rinvio a giudizio del Gup Bruno Gian-giacomo risale al giugno 2013, e la prima udienza era stata fissata per lo scorso gennaio, ma problemi di notifiche agli imputati hanno fatto slittare ulteriormente il “vero” inizio del processo al prossimo autunno. Per riassumere: una rivolta in carcere, sei ore di grande tensione, una trattativa che alla fine scongiura un epilogo che poteva essere tragico, la resa e il ritorno alla “normalità”.

Quattordici anni dopo, il processo. Neppure concluso: inizia. Con tanti saluti a Cesare Beccaria, al suo Dei delitti e delle pene, alla certezza della sanzione e del diritto. Ed è pur significativo che a opporsi a questo stato di cose siano solo Marco Pannella, Rita Bernardini e un pugno di radicali da giorni in digiuno per ottenere che lo Stato rispetti quelle leggi che si è dato ed esca finalmente dalla situazione tecnica di criminalità organizzata in cui è sprofondato.

Valter Vecellio

Il Garantista, 27 luglio 2014

Carceri-lager e irragionevole durata dei processi, ora anche l’Onu condanna l’Italia


Trapani 1La “notizia” è di quelle che dovrebbe farci arrossire per la vergogna. Ma ci si può vergognare se si conosce di cosa ci si dovrebbe vergognare. Ma se non si sa? Quello che non si sa – e anche questo non sapere dovrebbe costituire “materiale” di riflessione, amara – è che non sono solo le corti di giustizia europee a condannare il nostro paese per le ignobili condizioni delle nostre carceri, per l’irragionevole durata dei processi, e la non episodica denegata giustizia. Ora siamo nel mirino dell’Onu. Se ne sono accorti solo “Il Manifesto”, “Il Garantista” e la segretaria radicale Rita Bernardini. E dire che le agenzie la “notizia” l’hanno diffusa.

È accaduto che una delegazione dell’Onu guidata dal norvegese Mads Andenas, sia venuta in visita in Italia dal 7 al 9 luglio, e al termine delle loro ispezioni hanno stilato un memorandum in cinque punti: 1) Adottare “misure straordinarie, come per esempio soluzioni alternative alla detenzione, al fine di eliminare l’eccessivo ricorso alla detenzione e proteggere i diritti dei migranti”. 2) “Quando gli standard minimi non possono essere altrimenti rispettati, il rimedio è la scarcerazione”. 3) “Che le autorità italiane rispettino le raccomandazioni Onu del 2008 e quanto statuito dalla sentenza Torreggiani. 4) Raccomandazioni come quelle formulate dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2013, incluse le proposte in materia di amnistia e indulto, sono “quanto mai urgenti per garantire la conformità al diritto internazionale”. 5) Sui migranti, oltre ad esprimere rammarico per i “rimpatri forzati”, la delegazione Onu “resta preoccupata per la durata della detenzione amministrativa e per le condizioni detentive nei Centri di identificazione ed espulsione”.

Giustizia al collasso, purtroppo storia di tutti i giorni. Andiamo, per esempio, a Reggio Calabria. È il 7 gennaio del 1984, trent’anni fa. Un’automobile improvvisamente taglia la strada a un autobus, che frena di colpo. Un passeggero cade, si ammacca due costole. Non sembra una cosa grave. Poi però le sue condizioni peggiorano. Sopraggiunge un infarto, l’uomo muore. La famiglia fa causa all’azienda di trasporto. Non si entra nel merito, i famigliari possono avere ragione oppure no, non interessa, qui. Quello che si vuole porre in evidenza è che il processo, anno dopo anno, si è trascinato per trent’anni. La moglie del passeggero nel frattempo è morta, è morta anche la figlia.

Quando finalmente la terza sezione civile della Cassazione ha emesso la sentenza, a “salutarla” c’erano gli eredi degli eredi. Quel processo ha impiegato trent’anni per arrivare in Cassazione. Al tribunale di Reggio Calabria sono occorsi 17 anni per emettere il giudizio di primo grado, arrivato il 25 novembre 2003. La Corte di Appello sempre di Reggio Calabria ce ne ha messi altri nove, la sentenza di secondo grado è arrivata il 10 dicembre 2012.

Trasferiamoci ora in Puglia. È il 2 settembre 2002, solo dodici anni fa. I magistrati della Direzione distrettuale antimafia Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (che poi diventerà sindaco di Bari) chiudono un filone investigativo nato cinque anni prima, con un’ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone, accusate di far parte di un’organizzazione criminale che spadroneggia tra Altamura e Gravina in Puglia; i reati ipotizzati non sono bazzecole: estorsioni, traffico di droga, ferimenti. E tuttavia solo dopo 17 anni il Pubblico Ministero Isabella Ginefra è in condizione di concludere la sua requisitoria. Chiede pene tra i 4 e i 10 anni per 58 imputati. E gli altri? Alcuni sono stati prosciolti, per qualcuno è sopraggiunta la prescrizione, c’è chi è morto per vecchiaia, o perché ucciso da qualcuno di qualche clan rivale. Sono storie che accadono un po’ tutti i giorni un po’ in tutti i tribunali. Non fanno neanche più “notizia”, sono considerate ormai cose “fisiologiche”, parte del “sistema”.

Accadono poi cose che definire paradossali è un eufemismo. Proprio nelle stesse ore in cui il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il ministro della Giustizia Andrea Orlando annunciavano le linee guida della loro riforma della giustizia, il ministero veniva condannato a pagare la doppia penalità. Perché lo stato italiano non si accontenta di essere sanzionato per i danni provocati dall’irragionevole durata dei processi; si fa anche condannare perché i risarcimenti delle cause lumaca sono più lunghi delle cause stesse. “Italia, dolce paese,/ dove chi rompe non paga le spese, / dove chi urla più forte ha ragione,/ dove c’è il sole e il mare blu”, cantava molti anni fa Sergio Endrigo. Patria del diritto; e del suo rovescio.

Valter Vecellio

http://www.articolo21.org, 18 luglio 2014

Giustizia. L’ennesima riforma truffa firmata Renzi, Orlando, PD


Andrea Orlando Ministro GiustiziaDunque, appuntamento a lunedì, quando il Consiglio dei Ministri discuterà le proposte di riforma della Giustizia. Comunque il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha già voluto rassicurare la magistratura associata incontrandone i vertici. Già questo è un mattino che fa capire che tipo di “buongiorno” sarà. C’è una coda infinita di processi, circa nove milioni, tra penale e civile. Se non si parte di qui, questo il ragionamento di Orlando, “non ci si raccapezza più”. Per raccapezzarci, ben cinque mosse: snellimento, con interventi sia sul codice di procedura civile e che quello di procedura penale; potenziamento della magistratura ordinaria e onoraria; sterzata ai tempi del CSM; punizioni e responsabilità; garanzia effettiva che i processi non cadano nel vuoto con la prescrizione, come avviene ora.

A parte il merito delle proposte –bisognerà vigilare sui prevedibili pasticci che saranno capaci di combinare con gli interventi sui codici di procedura penale e civile– siamo a programmi da mille e passa giorni. E cosa si vuole fare, per esempio, per evitare le prescrizioni? Si allungheranno i tempi. Bingo!

E per quanto la responsabilità civile dei magistrati? Il Governo esclude quella diretta, e avrebbe già pronto un ddl che riscrive la responsabilità civile per i magistrati: via il filtro e una rivalsa dello Stato sulla toga non più di un terzo, ma della metà; e dunque chissenefrega di quanto ha approvato pochi giorni fa la Camera dei deputati accogliendo l’emendamento Pini. Del resto lo si è fatto tranquillamente con il referendum Tortora, i cui risultati erano inequivocabili, e venne varata una normativa che andava in senso opposto…

Nel frattempo che accade in città? Che viene presentato il quinto Libro Bianco sulla legge Fini-Giovanardi. Se ne ricava che il 38,6 per cento dei detenuti presenti nelle carceri italiane sono imputati-condannati per reati di droga. Il rapporto conferma gli effetti nefasti di 8 anni illegittimi di legge Fini-Giovanardi. Nel 2013, su un totale di 59.390 ingressi negli istituti penitenziari, il 30,56 per cento era per violazione dell’art.73 Dpr 309/90 mentre quasi il 40 per cento delle presenze in carcere al 31.12.2013 sono dovute direttamente alla legge sulle droghe.

Nonostante i ripetuti proclami gli affidamenti terapeutici dei tossicodipendenti restano al di sotto del dato precedente all’approvazione della legge, ed oggi avvengono perlopiù dopo un periodo di detenzione. Resta irrisolto il grave problema dei detenuti che stanno scontando pene ritenute illegittime dalla Corte Costituzionale: in assenza di un intervento legislativo si rischia il collasso dei Tribunali, costretti ad esaminare una per una le richieste di ricalcolo delle pene o peggio si rischia di lasciare scontare alle persone pene ingiuste.

Per quanto riguarda il sistema di repressione se si sommano le denunce per hashish, per marijuana e per le piante si raggiunge la cifra di 15.347 casi (45,37 per cento del totale). La “predilezione” del sistema repressivo per la cannabis è confermata dal numero di operazioni che aumentano, in controtendenza con tutte le altre sostanze, del 35,24 per cento rispetto al 2005.

Insomma, la mancata distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere”, abrogata poi dalla Consulta, e il carcere anche per il piccolo spaccio, sono la combinazione che in sette anni di applicazione della Fini-Giovanardi ha ingolfato il sistema carcerario di “pesci piccoli”, pusher tossicodipendenti a loro volta, che vendono droga per procurarsi la dose.

Sono 18mila i detenuti per il solo articolo 73 delle legge sulle droghe, che punisce la coltivazione, la detenzione e lo spaccio, mentre pochi, solo 810, scontano la pena o sono imputati del ben più grave articolo 74, l’associazione finalizzata al traffico; circa 5.400 rispondono di entrambe le imputazioni. Si tratta di cifre ufficiali, numeri forniti dal Dap. Negli anni di applicazione della Fini-Giovanardi c’è stato un aumento continuo degli ingressi in carceri per droga, passati in percentuale dal 28 al 30,6 per cento tra il 2006 e il 2013, e delle presenze, aumentate nello stesso periodo da 14.640 a 23.346, annullando rapidamente l’effetto dell’indulto.

Come si vede, la questione giustizia riguarda sì le carceri e le indegne condizioni in cui versano, ma non solo; e sempre più diventa centrale e urgente, affare che riguarda tutti, non solo i detenuti; i provvedimenti annunciati dal Governo Renzi sono motivo di inquietudine. L’unica preoccupazione del presidente del Consiglio, del ministro della Giustizia e del PD è quella di non entrare in rotta di collisione con la magistratura associata. Possono essere molte le ragioni alla base di questa scellerata scelta di campo; quello che è certo è che si tratta di riforme che non riformeranno nulla, anzi…

Valter Vecellio

Notizie Radicali, 27 Giugno 2014

Responsabilità civile dei Magistrati : Strepiti demagogici e realtà incontestabili


magistraturaStrepita l’Associazione Nazionale dei Magistrati, e per una volta tutte le sue correnti sono d’accordo: parlare di responsabilità civile diretta del magistrato equivale a mettere in manette le toghe, limitarne autonomia e indipendenza, perseguitarle proprio ora che stanno facendo pulizia con le loro mega inchieste… Strepita il Consiglio Superiore della Magistratura: mai sia che il Parlamento si azzardi a varare norme che riguardano i magistrati senza averle prima concordate con gli interessati e aver ottenuto il loro placet. Strepita Matteo Renzi, che si affretta ad assicurare che in Senato si metterà una toppa al disastro combinato alla Camera con quell’emendamento leghista votato anche da una ventina di parlamentari del PD.

E il ministro della Giustizia Andrea Orlando parla di “pasticcio che va corretto, improprio nel merito e nel metodo. Presenta anche elementi di incostituzionalità”. Ma pensa un po’ che casino ha combinato il leghista Gianluca Pini con quel suo emendamento galeotto, votato poi da una maggioranza diversa dalla maggioranza…Ci hanno poi pensato giornali come “Il Fatto” e “la Repubblica” a spiegarci che era stato approvato una sorta di antipasto dell’Apocalisse, un’Armageddon della giustizia.

Mica vero, però. Tutte balle. E che di balle, grossolane balle, si tratti, ce lo spiega bene Pierluigi Battista, nelle sue “particelle elementari” sul “Corriere della Sera”. Ecco cosa scrive:
Dicono: una legge sulla responsabilità civile dei giudici che hanno agito per dolo e colpa grave, la vogliono i corrotti per vendicarsi delle inchieste. Falso: la vogliono 20 milioni e 770.334 italiani (oltre l’80 per cento dei votanti) che nel novembre 1987 si espressero a favore di una sanzione per chi ha abusato del proprio potere, distorcendo con dolo le norme dello Stato di diritto. Dicono, come ha fatto Eugenio Scalfari su Repubblica: ma così, chiunque sia stato riconosciuto innocente in un processo, può vendicarsi.

Falso: i magistrati eventualmente costretti a risarcire un cittadino perseguitato non devono rispondere di un esito giudiziario favorevole a quel cittadino, ma per una condotta giudiziaria macchiata da dolo e colpa grave. Dicono: ma così si lasciano soli i magistrati di fronte al ricatto dei potenti. Falso: a decidere se un magistrato ha violentato la legge e la procedura sarà un collegio di altri giudici, non un tribunale del popolo. Dicono: ma adesso c’è già una legge che sanziona comportamenti dolosi da parte di un magistrato. Falso: se un magistrato viene ritenuto (da altri magistrati) colpevole, a risarcire è lo Stato e dunque i magistrati che si macchiano di dolo e colpa grave potranno, come fanno, agire indisturbati sapendo che a pagare non saranno loro, ma tutti i cittadini con le loro tasse.

Dicono: ma una legge sulla responsabilità civile dei magistrati per dolo e colpa grave (o «violazione manifesta del diritto») sottopone i magistrati a un forte stress.

Vero: li costringe a lavorare bene e con attenzione scrupolosa, come i medici quando entrano in una sala operatoria o gli ingegneri quando progettano un ponte, perché la libertà delle persone è sacra come la loro vita, e non si può manipolarla per dolo, colpa grave o manifesta violazione del diritto acclarati da una sentenza di altri giudici.

Dicono: ma una legge del genere farebbe dell’Italia un unicum. Falso: una legge che permette allo Stato di rivalersi sui giudici c’è, con regole ben precise, in Spagna, in Germania («dolo o colpa grave»), in Francia («mancanza intenzionale particolarmente grave» o addirittura «diniego di giustizia»), in Belgio e in Portogallo («frode» e «dolo grave»).

Dicono: ma in Italia, comunque, lo Stato sa sanzionare comportamenti negligenti o dolosi. Falso: farebbero bene a leggere Operazione Montecristo, il libro di Lelio Luttazzi, la cui vita fu distrutta nel 1970 da un’iniqua detenzione non sanata dal proscioglimento successivo. I giudici che si macchiarono d’una simile nefandezza sono stati addirittura premiati, come del resto gli inquirenti del caso Tortora, che hanno in seguito fatto brillanti carriere malgrado la persecuzione di cui sono stati colpevolmente protagonisti.

È probabile che il voto della Camera, che ha approvato finalmente una legge civile, sarà cancellato dal Senato.

Il timore è che sia vero: il Pd di Renzi sta rottamando tutto, ma non la sudditanza al giustizialismo feroce che l’ha dominato in questi anni?”.

Che cosa manca a quest’ottimo articolo di Battista? Poco, pochissimo. Questo che aggiungiamo ora: che il 26 anni le cause civili per responsabilità nei confronti di magistrati sono state in tutto 410, una media di 16 l’anno; e poiché la legge Vassalli prevede la cosiddetta “clausola di salvaguardia” e un giudizio di ammissibilità, ben 266 cause sono state bocciate. Altre 71 sono in attesa di valutazione, 25 sono state ripresentate. Ne restano 35 che sono riuscite ad arrivare al giudizio ordinario. Un dato che si ricava dalle statistiche dell’Avvocatura dello Stato: quasi sempre i magistrati si sono visti dar ragione: solo il sette casi il giudizio ha condannato il loro operato. E’ un discorso sul quale torneremo. Merita…

Valter Vecellio

Notizie Radicali, 17 Giugno 2014

Giustizia, Un detenuto su cinque è dietro le sbarre senza processo


Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa riconosce i “significativi risultati” ottenuti dall’Italia per quel che riguarda la situazione delle carceri. Tiri pure un sospiro di sollievo chi vuole, il rischio di una mega-multa per ora appare scongiurato.

La situazione tuttavia è ancora grave: un detenuto su cinque è in carcere senza aver subito un processo. Sono in questa condizione 10.389 reclusi, il 17% dell’intera popolazione carceraria (59.683, secondo i dati aggiornati al 30 aprile scorso). Un fenomeno che incide sul sovraffollamento, ha costi umani e anche economici per il Paese, visto che ogni giorno per la carcerazione preventiva l’Italia spende circa 1,3 milioni di euro.

I dati emergono da un’analisi dell’Associazione italiana giovani avvocati. Per arrivare a stabilire quanto costa la carcerazione preventiva l’Aiga è partita dai dati del ministero della Giustizia, e ha poi moltiplicato il numero dei detenuti sottoposti al carcere preventivo a quello che lo Stato spende al giorno per ogni singolo recluso: una cifra pari nel 2013 a quasi 125 euro, in un anno 45.610 euro. Dal punto di vista numerico la situazione è migliorata da quando nel gennaio del 2013 fu pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la sentenza Torreggiani, visto che allora i detenuti in attesa di giudizio erano circa 12.439 (18,87%) su un totale di 65.905 detenuti.

Nonostante i “significativi risultati” una situazione di palese illegalità, in contrasto con la Costituzione e la normativa europea, e che può essere sanata solo a partire da un provvedimento di amnistia e indulto. Lo ha ben detto, l’altro giorno, il Procuratore generale aggiunto che coordina i magistrati dell’esecuzione penale, dottoressa Nunzia Gatto: “Personalmente sono dell’idea che si sarebbe dovuto seguire la linea più volte indicata dal presidente della Repubblica per alleggerire il sovraffollamento carcerario: amnistia e indulto.

In quel modo, per noi sarebbe stato possibile applicare automaticamente il condono ai detenuti che ne avessero avuto diritto”. Il presidente della Repubblica Napolitano, con il suo messaggio alle Camere ha “gridato” il suo autorevolissimo “non si perda neanche un giorno”. Ci sono state le iniziative nonviolente che i radicali in questi mesi hanno messo in atto: dallo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella a quello della segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini, fino agli appelli diffusi e sottoscritti da numerose personalità alle lettere inviate al Capo dello Stato.

Da ultimo, ma non ultimo, gli incoraggiamenti e gli appelli di papa Francesco con le sue telefonate a Pannella… Gli aspetti della pena illegale in Italia non riguardano solo gli spazi a disposizione di ciascun detenuto (e qui il sovraffollamento persiste) ma anche la possibilità di accesso alle cure. Su questo versante la situazione è disastrosa, perché oltre i tossicodipendenti, che sono il 32%, il 27% di detenuti ha un problema psichiatrico.

Non solo: malattie infettive debellate all’esterno dietro le sbarre si diffondono sempre di più. Tra queste, l’epatite C è la più frequente (32,8%), seguita da Tbc (21,8%), epatite b (5,3%), Hiv (3,8%) e sifilide (2,3%). Con tutti i rischi di diffusione di queste malattie all’esterno. Per quel che riguarda inoltre le possibilità di accesso alle attività trattamentali, quali il lavoro e lo studio siamo ancora all’anno zero. C’è una percentuale bassissima di detenuti che può svolgere lavori poi spendibili all’esterno. Su quasi 60.000 detenuti, solo 2.278 solo quelli che svolgono attività per datori di lavoro esterni, mentre 12.268 fanno lavori poco qualificanti all’interno del carcere. La democrazia e lo stato di diritto si possono realizzare solo difendendo i diritti umani fondamentali. Purtroppo un traguardo ancora lontano.

di Valter Vecellio

L’Unità, 6 giugno 2014

Vecellio (Radicali): La situazione in cui versano le Carceri è sempre disastrosa


carceri detenuto agente penitenziarioNon se ne parla quasi più. Eppure la situazione in cui versano giustizia e carceri è sempre disastrosa, comatosa. Eppure il termine fissato dalla Corte di Giustizia Europea per sanare la situazione è abbondantemente scaduto.

La situazione attuale: un detenuto su cinque è in carcere senza aver subito un processo. Sono in questa condizione 10.389 reclusi, il 17% dell’intera popolazione carceraria (59.683, secondo i dati aggiornati al 30 aprile scorso).

Un fenomeno che incide sul sovraffollamento, ha costi umani ed anche economici per il Paese, visto che ogni giorno per la carcerazione preventiva l’Italia spende circa 1,3 milioni di euro. I dati emergono da un’analisi dell’Associazione italiana giovani avvocati.

Per arrivare a stabilire quanto costa la carcerazione preventiva l’Aiga è partita dai dati del ministero della Giustizia, e ha poi moltiplicato il numero dei detenuti sottoposti al carcere preventivo a quello che lo Stato spende al giorno per ogni singolo recluso: una cifra pari nel 2013 a quasi 125 euro, in un anno 45.610 euro.

Dal punto di vista numerico la situazione è migliorata da quando nel gennaio del 2013 fu pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la sentenza Torreggiani, visto che allora i detenuti in attesa di giudizio erano circa 12.439 (18,87%) su un totale di 65.905 detenuti.

Ma anche l’attuale numero di reclusi senza processo è “ancora troppo alto, considerato che si tratta di persone sottoposte ad una misura cautelare senza aver subito alcun processo”. L’Aiga ricorda che il più recente dato sul sovraffollamento carcerario, quello elaborato dal Consiglio d’Europa e aggiornato al 1 settembre 2012, vede l’Italia posizionata al penultimo posto, “peggio di noi solo la Serbia”.

È facile prevedere -sostengono i giovani avvocati – che ai ricorsi pendenti si aggiungeranno quelli di nuova proposizione, con la conseguenza che l’Italia dovrà sborsare ulteriori ingenti somme relative ai risarcimenti: tra i 10 e i 20mila euro a detenuto, secondo quanto disposto dalla Corte nella sentenza.

Una situazione di palese illegalità, una situazione che non può essere risolta dai provvedimenti tampone annunciati dal Governo; una situazione in contrasto con la Costituzione e la normativa europea, e che può essere sanata solo a partire da un provvedimento di amnistia e indulto.

Lo ha ben detto, l’altro giorno, il Procuratore generale aggiunto che coordina i magistrati dell’esecuzione penale, dottoressa Nunzia Gatto: “Personalmente sono dell’idea che si sarebbe dovuto seguire la linea più volte indicata dal presidente della Repubblica per alleggerire il sovraffollamento carcerario: amnistia e indulto. In quel modo, per noi sarebbe stato possibile applicare automaticamente il condono ai detenuti che ne avessero avuto diritto”.

Il 28 maggio è il termine ultimo fissato dalla Cedu allo Stato italiano per porre fine alla tortura praticata nei confronti dei detenuti ristretti nelle nostre carceri è alle nostre spalle; eppure finora nulla è stato fatto. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con il suo messaggio alle Camere ha “gridato” il suo autorevolissimo “non si perda neanche un giorno”, non è servito a nulla. Ci sono statele iniziative nonviolente che i radicali in questi mesi hanno messo in atto: dallo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella a quello della segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini, fino agli appelli diffusi e sottoscritti da numerose personalità alle lettere inviate al Capo dello Stato.

Da ultimo, ma non ultimo, gli incoraggiamenti e gli appelli di papa Francesco con le sue telefonate a Pannella… l’obiettivo non può essere più chiaro: chiedere alle nostre istituzioni di porre in atto tutti i provvedimenti legislativi volti ad eseguire quanto richiesto dalla Corte di Strasburgo con la sentenza Torreggiani e cioè a rimuovere le cause strutturali e sistemiche del sovraffollamento carcerario che generano i trattamenti disumani e degradanti nelle nostre carceri.

La Cedu ci ha chiesto di rimuovere le cause strutturali che generano trattamenti inumani e degradanti, e tutto questo non si è realizzato. In realtà fin dall’emanazione della sentenza Torreggiani l’Italia avrebbe dovuto rimuovere subito i trattamenti inumani, per questo abbiamo proposto da anni un provvedimento di amnistia e indulto. Certo possiamo dire che ci sono meno detenuti, ma rimane la situazione di una pena illegale che continua a essere eseguita nelle nostre carceri, anche nella forma della custodia cautelare.

Gli aspetti della pena illegale in Italia non riguardano solo gli spazi a disposizione di ciascun detenuto (e qui il sovraffollamento persiste) ma anche la possibilità di accesso alle cure. Su questo versante la situazione è disastrosa, perché oltre i tossicodipendenti, che sono il 32%, il 27% di detenuti ha un problema psichiatrico. Non solo: malattie infettive debellate all’esterno dietro le sbarre si diffondono sempre di più. Tra queste, l’epatite C è la più frequente (32,8%), seguita da Tbc (21,8%), epatite b (5,3%), Hiv (3,8%) e sifilide (2,3%). Con tutti i rischi di diffusione di queste malattie all’esterno. Per quel che riguarda inoltre le possibilità di accesso alle attività trattamentali, quali il lavoro e lo studio siamo ancora all’anno zero. C’è una percentuale bassissima di detenuti che può svolgere lavori poi spendibili all’esterno. Su quasi 60.000 detenuti, solo 2.278 solo quelli che svolgono attività per datori di lavoro esterni, mentre 12.268 fanno lavori poco qualificanti all’interno del carcere.

Quanto agli interventi approvati per ridurre l’emergenza sovraffollamento, queste misure non sono tali da far uscire l’Italia dall’illegalità e farla rientrare nei parametri costituzionali italiani ed europei. In particolare va sottolineato che ancora una volta la politica ha scaricato le decisioni sui magistrati di sorveglianza. Questi ultimi non riuscivano a star dietro a tutte le istanze presentate dai detenuti in quanto la pianta organica, peraltro insufficiente, che prevede 173 unità, in realtà vede coperti soltanto 158 posti. A ciò si aggiunga il fatto che ancora più carente è il personale amministrativo e di cancelleria. Inoltre fra i compiti aggiuntivi per i magistrati di sorveglianza, c’è quello del cosiddetto “rimedio interno” che l’Italia ha dovuto prevedere viste le tantissime istanze presentate alla Corte Ue da parte di detenuti. In base a questa norma, il detenuto deve fare tutta la trafila interna e alla fine del procedimento, se ritiene che i suoi diritti siano stati violati, può fare ricorso alla Corte Europea. La democrazia e lo stato di diritto si possono realizzare solo difendendo i diritti umani fondamentali. Ne siamo, purtroppo, ben lontani.

di Valter Vecellio

http://www.articolo21.org, 3 giugno 2014