Spigarelli (Camere Penali): Per Amnistia e Indulto manca il coraggio politico


Giorgio Napolitano cella NapoliSi fa presto a parlare di riforma della giustizia, e della necessità di velocizzare i procedimenti, se poi a Roma i cinquanta metri che separano il tribunale di primo grado dalla corte d’appello vengono percorsi alla bruciante velocità di venti centimetri al giorno. “Ci vogliono otto mesi perché un fascicolo dalla corte d’assise raggiunga la corte di secondo grado”, dice Valerio Spigarelli, l’avvocato che presiede l’Unione delle Camere Penali.

Un modo come un altro per sostenere che il progetto di riforma della Giustizia non vi piace?

Quella proposta non ci sembra una riforma. Nel senso che alcuni dei nodi di struttura della giustizia penale non vengono affrontati: riforma del Csm, terzietà del giudice, rivisitazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Però l’obbligo di indagare davanti alle notizie di reato è una garanzia di equità.

Lasciare alla discrezionalità degli inquirenti non sarebbe molto più rischioso?

In realtà non è più così. Negli ultimi tempi si sono succedute direttive dei capi degli uffici inquirenti i quali stabiliscono quali reati devono avere priorità, perché evidentemente il sistema non sopporta il carico di lavoro e dunque le procure privilegiano alcuni reati rispetto ad altri, sulla base di scelte autonome.

Con quali conseguenze?

Che la prescrizione, ad esempio, non si matura nella maggioranza dei casi durante il dibattimento, ma negli armadi delle procure, perché lì i fascicoli rimangono bloccati. Credo perciò che dovremmo fare in modo che i criteri di priorità non siano stabiliti “motu proprio” dai singoli uffici. Però nel progetto di riforma questo tema non viene affrontato.

Intanto che si discute e si polemizza, le carceri continuano a sovrabbondare di detenuti e non si vede nell’immediato una soluzione definitiva al sovraffollamento…

In un paese che viene condannato perché riserviamo trattamenti disumani ai detenuti bisognerebbe trovare il coraggio di parlare prima di tutto di amnistia e indulto. Ma alla politica questo coraggio manca.

Qual è l’anello debole del dibattito?

La politica deve tornare ad assumere il suo primato, finché contratta le norme con i magistrati e ne subisce i diktat non andremo da nessuna parte. Ricordo che all’epoca della Commissione D’Alema arrivò un fax da settanta procuratori che intimava di fermare la riforma. E così avvenne. Tornare su questa strada non si può e non si deve. Le leggi in nome del popolo italiano non vanno contrattate.

Anche gli avvocati hanno i loro interessi. E tutto sommato neanche voi siete esenti da colpe. Lo dimostra il moltiplicarsi di casi giudiziari nei quali alcuni suoi colleghi sono coinvolti. Non dovrebbe essere riformata anche la vostra categoria?

Non ho preclusioni a discuterne. Capisco che 250mila avvocati sono troppi. E per far calare questo numero aumentando la qualità occorre una seria riforma dell’Università, istituendo una scuola unitaria delle professioni forensi post laurea per magistrato e avvocato, raggiungendo l’obiettivo di vere specializzazioni.

intervista a cura di Nello Scavo

Avvenire, 18 luglio 2014

L’Unione delle Camere Penali Italiane boccia la “Riforma della Giustizia” programmata dal Governo Renzi


Avv. Valerio SpigarelliValerio Spigarelli, Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, boccia la proposta in 12 punti del governo Renzi: “Serve molto altro”.

“Mettiamola così: il progetto contiene alcune enunciazioni condivisibili. Ma nell’insieme è decisamente “pochino” per definirlo una vera riforma”. A Valerio Spigarelli, avvocato romano e dal 2010 presidente dell’Unione delle camere penali, basta questa breve premessa per colorare di scetticismo i 12 punti del “progetto di riforma della giustizia” presentato il 30 giugno dal Guardasigilli Andrea Orlando e sbandierato dal premier Matteo Renzi come “svolta epocale”.

Insomma, avvocato Spigarelli: ancora una volta… non arriverà la svolta?

Questa non è una riforma strutturale della giustizia. Da anni si parla di “grandi svolte”, ma qui non c’è nulla che attenga alla struttura costituzionale, al titolo IV: per esempio, non si propone nulla di veramente incisivo sul Consiglio superiore della magistratura; nulla sulla terzietà del giudice rispetto ad accusa e difesa; nulla sulla favola dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Anzi, semmai noto che c’è una piccola marcia indietro: i “saggi”, convocati nel 2013 da Giorgio Napolitano, avevano proposto un’Alta corte di disciplina separata per tutte le magistrature, mentre al punto numero 7 della “riforma” il ministro oggi pare volerla creare esclusivamente per la magistratura amministrativa e contabile.

Però ai punti 4 e 5 si parla del Csm: si dice che la carriera dei magistrati dev’essere basata sul merito e non sulle correnti, e che nel Consiglio dev’essere separato il ruolo di chi fa le nomine delle toghe e di chi applica le sanzioni.

Non basta. Il vero problema della giustizia italiana è che la terzietà del giudice non solo non è garantita, non c’è proprio. Il giudice resta contiguo al magistrato inquirente, ne condivide la istanze volte ad affermare la pretesa punitiva dello Sato e anzi se ne fa spesso carico in prima persona. A dimostrarlo è anche l’altissimo numero di provvedimenti di custodia cautelare: l’Italia è il solo paese europeo dove i detenuti in attesa di giudizio superano il 40% del totale. E la motivazione prevalente è quella del pericolo della reiterazione del reato: proprio perché il giudice condivide in pieno l’idea che il processo sia uno strumento di difesa sociale, non di risoluzione di una singola vicenda che contrappone lo Stato a un singolo imputato.

Lei sa, vero, che gli avvocati milanesi sciopereranno giovedì 17 luglio proprio perché in udienza un giudice ha dichiarato che, se fossero continuate le convocazioni di testi della difesa a suo parere “inutili”, in caso di condanna sarebbe stato “più duro” con gli imputati?

E hanno ben ragione di protestare. Questo problema emerge con forza anche dal saggio “I diritti della difesa nel processo penale e la riforma della giustizia” (Cedam, 224 pagine, 22 euro), curato dal grande giurista bolognese Giuseppe Di Federico e sponsorizzato dall’Unione delle camere penali. Nel corso del 2013 sono stati intervistati 1.265 penalisti italiani e il libro è appena uscito. Sa che cosa racconta?

Un disastro?

Che nel 72,9% dei casi il giudice accoglie “sempre o quasi sempre” una richiesta d’intercettazione avanzata dal pm, e un altro 26% dice che questo accade “di frequente”. Che il giudice è “più sensibile alle sollecitazioni del pm rispetto a quelle del difensore”: per gli avvocati è così nel 58 per cento dei processi “ordinari” e la quota sale al 71 nei procedimenti “rilevanti”, quelli più importanti e più seguiti dai mass media. Ne esce che l’iscrizione ritardata nel registro degli indagati è una pratica lamentata dal 65,9 per cento degli avvocati. Si scopre che molti di loro denunciano di essere non soltanto intercettati mentre parlano con i loro clienti (e questo accade “sempre” o “di frequente” nel 28,9 per cento dei casi, e “a volte” nel 42,2 per cento), ma che l’intercettazione, pur se totalmente illegale, viene perfino trascritta ed utilizzata negli atti. Si scopre che il 92,1 per cento degli intervistati sostiene che, nell’esame in aula dei testimoni, il giudice pone “domande suggestive”: una pratica espressamente vietata dal codice di procedura penale a tutela del diritto di difesa.

E quali sono le soluzioni che proponete voi avvocati penalisti?

Separare le carriere. E separare il Csm: due Consigli che decidono su carriere in modo separato per giudici e magistrati inquirenti. Poi un’Alta corte di disciplina, competente sulle violazioni disciplinari dei magistrati e anche degli avvocati in grado di appello. E perché non una Scuola superiore delle tre professioni giudiziarie, dopo la laurea? Alla fine, chi ne esce sceglie se fare il pm, il giudice o l’avvocato. Servirebbe anche per dare una qualche ventilazione alla magistratura e creare una comune cultura delle regole.

Altri elementi di debolezza della proposta in 12 punti del governo?

Al punto 9 leggo: “accelerazione del processo penale e riforma della prescrizione”. Ecco: chi non è d’accordo con lo slogan sui tempi? Ma il problema è proprio questo: in questi 12 punti io vedo soltanto slogan, se non battute. Il punto è che per tanti anni abbiamo avuto un premier che faceva battute e poi, purtroppo, non faceva le riforme che vagheggiava. Quello era l’originale: non vorrei che Renzi fosse l’imitazione. Slogan per intercettare la voglia di cambiamento e poi nessun atto concreto Ma torniamo al processo penale e alla prescrizione: lei sa dov’è che si prescrivono, soprattutto, i processi italiani?

Dove: in primo grado? In Corte d’appello?

Sorpresa. Nelle indagini preliminari: il 60% delle prescrizioni avviene lì, quando il fascicolo è ancora sul tavolo del pm! Il problema è che la stessa obbligatorietà dell’azione penale è una favola: a Bologna, Milano, Napoli, Roma, Torino, i procuratori hanno stabilito regole discrezionali per la gestione dell’arretrato, con canali preferenziali per questo o per quel tipo di reati. Ma perché ogni Procura deve andare per la sua strada? Non sarebbe meglio che la fosse la politica a indicare i reati da perseguire in modo prioritario, assumendosene la responsabilità in modo trasparente, davanti agli elettori?

Poi, a complicare ancora le cose e a garantire la prescrizione, c’è la lentezza della burocrazia tribunalizia…

Già. Lei sa a Roma quanto ci mette in media un fascicolo a passare dal Tribunale alla Corte d’appello?

No, quanto?

Sono appena 50 metri a separare i due uffici: ma la durata media per la trasmissione degli atti è 8 mesi. La prescrizione avviene nell’8% dei casi per “colpa” dell’avvocato o dell’imputato, ma nel restante 92% dei casi arriva per défaillance dello Stato. Per questo servirebbe davvero una riforma, non banali enunciazioni di principio.

Intanto la magistratura associata è comunque sul piede di guerra: ma la politica ce la farà mai a varare una riforma della giustizia veramente autonoma?

Per troppi anni la politica ha affidato le chiavi di ogni riforma in materia all’ordine giudiziario: è ovvio che quell’ordine apre e chiude le porte a seconda delle proprie convenienze. Oggi che la sinistra è al governo, però, il problema emerge. Lo stesso Giovanni Fiandaca, il giurista siciliano che il Pd ha candidato alle ultime elezioni europee (e che ora potrebbe andare al Csm, ndr) dice che vorrebbe un paese dove chi fa le leggi fa le leggi, e chi fa il giudice si limita ad applicarle. Ecco, io spero che la politica riaffermi il suo primato, uscendo dalla tutela dell’ordine giudiziario. Ma deve fare meglio di così. Molto, molto meglio.

Maurizio Tortorella

Panorama, 15 luglio 2014

Decreto detenuti; Governo pronto a interventi correttivi sulla custodia cautelare


Carceri1Escludere dalla inapplicabilità della custodia cautelare in carcere tutti quei reati per i quali non è prevista la sospensione dell’esecuzione della pena. Vanno in questa direzione i correttivi che il governo intende apportare alla norma, prevista dal decreto legge sulle misure compensative per i detenuti, che esclude la custodia cautelare in carcere se la pena prevista è inferiore a 3 anni.

Lo ha spiegato il viceministro alla Giustizia, Enrico Costa, presente in commissione alla Camera alle audizioni dei rappresentanti dell’Associazione nazionale magistrati e dell’Unione camere penali. La correzione escluderebbe dalla norma reati di mafia, stalking, estorsione e rapina aggravata, furti in abitazione, violenza sessuale, furti in appartamento.

Perché ci sia “coerenza sistematica”, ha spiegato Costa, la norma “deve agganciarsi al meccanismo della sospensione dell’esecuzione della pena”. Dunque “la misura cautelare in carcere, quale che sia la prognosi del giudice sulla pena, può essere applicata in tutti i procedimenti per reati che già prevedono l’esclusione della sospensione della pena”. E deve anche essere previsto il “coordinamento con le norme sugli arresti domiciliari”. Dunque il governo è disponibile a intervenire sul punto, non è chiaro ancora se questo avverrà con un emendamento specifico o con il parere favorevole a un eventuale emendamento presentato in Parlamento.

Anm: criticità in norma custodia cautelare ma bene correttivi governo

La norma, contenuta nel decreto sulle misure compensative ai detenuti, che prevede che non si possa applicare la custodia cautelare in carcere nei casi in cui il giudice preveda una pena fino a tre anni, presentano “molti aspetti critici”.

È la posizione dell’Associazione nazionale magistrati, ribadita dal presidente Rodolfo Sabelli, ascoltato in commissione Giustizia alla Camera insieme con il componente della Giunta, Marcello Bortolato. Ma l’Anm accoglie con favore i correttivi annunciati dal governo, che escludono la mancata applicabilità della custodia cautelare ai reati per i quali non è prevista la sospensione dell’esecuzione della pena.

Il decreto, così com’è formulato, ha spiegato Sabelli, “non prevede l’esclusione dall’applicazione della norma per i reati per i quali è esclusa la sospensione della pena”. E non va bene “l’automatismo sulla base delle previsioni della pena e non sulla pena edittale”. Un altro aspetto contestato dall’Anm riguarda “il mancato coordinamento con la disciplina degli arresti domiciliari”.

Senza correttivi, dunque, il mancato ricorso alla custodia cautelare, ha ricordato Sabelli, potrebbe riguardare anche “reati di media gravità” e “casi di elevata pericolosità”, come ad esempio lo stalking “per il quale la pena è quasi sempre contenuta entro 3 anni”. Ma con gli interventi annunciati dal governo “alcuni di questi problemi sarebbero eliminati”.

Ucpi: non abbandonare filosofia norma, il carcere inutile va eliminato

La norma sulla custodia cautelare contenuta nel decreto sulle misure compensative ai detenuti, che prevede la non applicabilità nei casi in cui è prevista una pena fino a 3 anni, “non deve essere abbandonata quanto alla filosofia che la ispira, e cioè che il carcere inutile va eliminato”.

Lo ha sottolineato il presidente dell’Unione Camere penali, Valerio Spigarelli, ascoltato in Commissione Giustizia alla Camera. La custodia cautelare “è un incidente del processo – ha denunciato Spigarelli – e arrivare liberi a processo non deve essere considerata una bestemmia”, mentre “si vuole la custodia cautelare come pena anticipata, anche se inutile”. Il Parlamento, è l’invito del leader dei penalisti, “dovrebbe andare avanti con la ricostituzionalizzazione delle misure cautelari”.

Adnkronos, 9 luglio 2014

Spigarelli (Camere Penali) : I gattopardi della responsabilità civile dei Magistrati


Come un fiume carsico la questione della responsabilità civile dei magistrati riemerge nelle cronache politiche, attraverso blitz più o meno inaspettati di singoli parlamentari, ma ancora non riesce a trovare una soluzione, politica prima ancora che giuridica.

Così come era già avvenuto all’epoca del governo Monti, incapace di affrontare questa questione, che all’epoca era stata posta all’ordine del giorno da un emendamento presentato dal deputato leghista Pini, anche Renzi la scorsa settimana si è trovato alle prese con una iniziativa a sorpresa dello stesso tenore, per di più votata da diversi parlamentari del Pd.

Ora, al di là della scontata levata di scudi dell’Anni, e della altrettanto scontata condanna della iniziativa da parte del ministro di Giustizia, ciò che preme sottolineare è un dato evidente: benché nessuno degli ultimi governi abbia messo il tema tra quelli preminenti in materia di giustizia, in Parlamento esiste da tempo una maggioranza trasversale che ritiene necessario riscrivere la legge Vassalli.

Partendo da questo dato va sottolineato che tale evidenza deve portare ad una soluzione che elimini le storture della legge attuale, che ne hanno determinato il fallimento conclamato, e non risolversi in una grida contro la magistratura destinata a sortire effetti ancor più negativi. Insomma, è inutile, e addirittura controproducente, ipotizzare la cosiddetta responsabilità diretta, cioè proprio la soluzione che è stata introdotta da ultimo, con ciò dando il fianco alla polemica da parte dei magistrati, quando si può ben più efficacemente eliminare i punti critici della normativa attualmente in vigore. Oggi non esiste nessuna reale tutela dei cittadini nei confronti degli errori gravi dei dei magistrati essenzialmente per due motivi.

Da un lato la legge prevede che venga operato un filtro preliminare di ammissibilità delle domande avanzata da chi si ritiene danneggiato. Questo filtro è ovviamente affidato a magistrati, e ha operato una vera e propria falcidia delle istanze avanzate, basti pensare che in oltre venticinque anni solo poche centinaia di casi lo hanno superato. D’altro lato la legge esclude che l’errore professionale del magistrato possa comportare responsabilità se cade sulla attività di applicazione delle norme, ciò per preservare l’indipendenza nella libera interpretazione delle norme; il che lascia esente da colpa professionale anche le ipotesi di clamorosa ignoranza.

Basterebbe intervenire su questi due punti, come già da tempo proposto in alcuni disegni di legge all’esame del Parlamento, per restituire al sistema una normativa non afflitta da un eccesso di garanzie nei confronti dei magistrati e da nessuna tutela effettiva per i cittadini. Senza impelagarsi in discussioni ideologiche, o peggio mettersi a discutere del sesso degli angeli, con ciò regalando ai fautori dello status quo l’ennesimo pretesto per no cambiare nulla, il governo si dovrebbe impegnare in questo senso.

Peccato che dalle prime dichiarazioni di esponenti governativi si coglie una certa confusione in materia. Dopo che il premier ha dichiarato, con la consueta enfasi, che anche su questa materia il governo non si farà condizionare dalle pretese corporative della magistratura, per bocca del ministro Orlando si è subito aggiunto che il filtro preliminare sarà confermato, il che equivarrebbe a dire, con il principe di Salina, che tutto cambia affinché nulla cambi, sul serio.

di Valerio Spigarelli (Presidente Unione Camere Penali)

Il Garantista, 19 giugno 2014

Giustizia: Spigarelli (Ucpi); i Giudici sono troppo vicini ai Pm, è ora di separare le carriere


MagistratiIl presidente nazionale delle Camere penali accusa anche la politica: “Si inseguono gli umori della piazza invece di fare una vera riforma”.

“Se fosse lei il difensore di Claudio Scajola si strapperebbe i capelli?”, chiedo all’avvocato Valerio Spigarelli, presidente nazionale delle Camere penali e massimo esperto degli umori che serpeggiano tra i penalisti italiani.

Le Camere penali sono 120, nelle maggiori città. Volendo parlare di una cosa avvilente come la giustizia penale in questo Paese, consola avere di fronte uno come Spigarelli. Ha lo sguardo fermo, folti capelli da strappare in caso di necessità e la giusta foga per affrontare il pantano. Covava fin da giovanetto la passione per i diritti dell’imputato. Ora ha 57 anni e un grosso studio nel centro di Roma, la sua città. “Diciassettenne, digiuno di diritto, già manifestavo contro la legge Reale (dura legge antiterrorismo del 1975, ndr)”, dice, mentre in cravatta e maniche di camicia cerca di capire con chi ha a che fare prima di rispondere alla domanda su Scajola.

Profitto, per sondarlo anch’io: “La peggiore malagiustizia in cui si è imbattuto?”. “Non una, cento”, risponde e si capisce che considera il mestiere di difensore un campo minato con una trappola al giorno. Poi, per dire che tipo è Spigarelli, improvvisamente si stufa dei preamboli e sbotta: “Le dico il punto debole della giurisdizione penale e potrei anche finire l’intervista. Tutto discende da lì”. “Prego”, gli dico incuriosito da questa prodigiosa capacità di sintesi.

“Il sistema giudiziario è squilibrato. Il giudice non è equidistante tra accusa e difesa”.

Il giudice parteggia?

“È più vicino al pm, per ciò che l’accusa rappresenta: la pretesa punitiva dello Stato; piuttosto che al diritto di libertà dell’imputato”.

Partito preso?

“Dato culturale. Giudice e pm sono contigui e hanno la stessa formazione. Ecco perché è necessario separare le carriere. I pm si oppongono, sentendosi sminuiti. La separazione serve ad avere un giudice libero, non un pm a metà”.

Torniamo a Scajola: da difensore tremerebbe?

“Non penso proprio. Poi è ben assistito”.

Intanto è in galera e non si intravede la fine.

“La magistratura intende la custodia cautelare, non come una cautela per ragioni processuali, ma come un’anticipazione di pena”.

Maramaldeggiano?

“Temono che l’imputato sfugga alla condanna e presentano subito il conto: pochi, maledetti e subito. Che però è un detto di commercianti”.

Su Scajola, arrestato per vicinanza a Matacena, ora piovono accuse su accuse. Dal solito concorso esterno, all’inedito “omicidio per omissione” di Marco Biagi…

“Un classico per chi è in carcere. Ricordi accuse e pentiti che si moltiplicarono per l’innocente Enzo Tortora”.

Vale ancora il detto “male non fare, paura non avere”?

“Realisticamente, no. La legge impone al pm di non portare in giudizio un imputato se non sia convinto che ne otterrà la condanna. Poiché assoluzioni e condanne in uno stesso processo si accavallano, è chiaro che la norma è disattesa”.

In più, la gogna delle intercettazioni di cui è vittima anche l’incolpevole.

“Pratica da Stato autoritario. Contraria alla legge che le regola e alla sentenza della Consulta che, nel 1974, fissò i casi in cui sono ammesse”.

Il “reato” di concorso esterno in associazione mafiosa è illegale.

“Invenzione giurisprudenziale, sconosciuta al Codice penale”.

Ha fondamento questa invenzione per persone come Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri?

“Questo ?reato? è spesso una forzatura: permette di criminalizzare i comportamenti più vari. La contiguità con la mafia può andare da uno a cento e si penalizza uno come cento”.

Chi è responsabile di tanta illegalità nella Giustizia?

“I politici. Hanno l’enorme colpa di non avere fatto una vera riforma della Giustizia in questi vent’anni, inseguendo invece gli umori della piazza”.

E le toghe sono dilagate.

“Un magistrato che fa un comizio politico contro il presidente della Repubblica (Ingroia, ndr). Quattro pm che vanno in tv per ammonire il governo a non fare una legge (pool di Milano ai tempi di Mani pulite, ndr). Settanta pm che mandano un fax al Parlamento ingiungendogli di bloccare la riforma della Giustizia (ai tempi della Bicamerale, ndr). Abbastanza per dire che c’è un enorme problema di separazione dei poteri che la politica non affronta”.

Il Guardasigilli, Orlando, è all’altezza?

“Di buono ha che è un politico. Loro, prima o poi, capiscono. Se alla Giustizia mettiamo un giurista, è peggio. Il problema è quello manzoniano (“Il coraggio, uno non se lo può dare”, ndr).

Il Parlamento autorizza addirittura il carcere preventivo dei suoi, come con Genovese del Pd.

“Che quattro giorni dopo era ai domiciliari perché il giudice non ha ritenuto necessario il carcere. Che penseranno di sé i parlamentari che ce lo hanno spedito?”.

Per dire il Paese: la sera delle manette, Crozza in tv ha fatto il pirla su Genovese (e mesi prima su Cosentino).

“Facile fare dello spirito sulla pelle degli altri. Ma se tocca a noi, cambiamo registro. Mai visto nessuno con tanta sfiducia nei giudici, quanto i magistrati che incappano nelle attenzioni dei colleghi”.

Il carcere duro si concilia con lo Stato di diritto?

“Il 41 bis è una tortura democratica. Un trattamento disumano vietato dalla Costituzione”.

La trattativa Stato-mafia, cara alla Procura di Palermo, attiene alla sfera giudiziaria o politica?

“Il reato di trattativa non esiste. Ci sono arrivati anche anti-mafiosi doc, come Marcelle Padovani, biografa di Falcone, e Giovanni Fiandaca, studioso pd del fenomeno. Pur di evitare che mettano una bomba all’Olimpico, io parlo anche con Belzebù”.

Come se ne esce?

“Con la ventilazione della magistratura”.

Frullarla via?

“Aprire ad altri l’accesso in magistratura: professori e avvocati. Aria fresca in una corporazione chiusa. E…”.

E?

“Dopo la laurea, una Scuola superiore delle tre professioni giudiziarie per una comune cultura della giurisdizione. Poi si sceglie: chi avvocato, chi giudice, chi pm. Prima però, quindici giorni di carcere per tutti. Bugliolo, pane e acqua, ispezioni corporali”.

di Giancarlo Perna

Il Giornale, 2 giugno 2014

Giustizia, Le Camere Penali bocciano il Ddl di Riforma della Custodia Cautelare


Commissione Giustizia Camera Deputati“È largamente insoddisfacente” il Disegno di Legge sulla riforma della custodia cautelare; un testo che “è stato svuotato di contenuti”. A bocciare la riforma, così come è stata modificata nei passaggi tra Camera e Senato, è l’Unione delle Camere Penali Italiane, il cui Presidente, Valerio Spigarelli, è stato ascoltato ieri dalla Commissione Giustizia di Montecitorio. In questo provvedimento “c’è un delirio di aggettivi. Ma tutto questo non serve a nulla se non si modifica l’impianto delle legge” dice Spigarelli. “Chi dice che così si supererà il problema italiano per il quale si va in carcere come anticipazione incostituzionale della pena, dice una cosa che non è vera” aggiunge il leader dei penalisti, auspicando il ritorno alla proposta originaria che aveva visto concordi magistratura, avvocatura e accademia.

Giustizia: abuso delle intercettazioni… quando la difesa della legalità diventa illegale


Valerio SpigarelliPer fare i conti con il tasso di garantismo che sta, timidamente, tentando di risalire nelle quotazioni interne alla sinistra italiana, è bene evitare i discorsi sui massimi sistemi poiché si rischia, proprio sulle idee portanti, di ammazzare il neonato in culla. Meglio esaminare questioni più circoscritte, come le intercettazioni telefoniche, ad esempio.

Non più tardi di qualche anno fa, orgogliosamente, molti giovani di sinistra manifestavano inalberando cartelli con su scritto “intercettateci tutti”. Monito ultra legalitario di chi, ritenendo di non aver nulla da nascondere, è disposto a rinunciare ad un pezzo significativo della propria libertà pur di sconfiggere il crimine; allo stesso tempo chiaro esempio di deriva verso un populismo giudiziario di stampo autoritario. Provocatorio quanto si vuole, questo slogan intanto tradisce una evidente confusione della scala dei valori costituzionali di riferimento, che non subordina affatto la rinuncia alla intangibilità delle conversazioni dei cittadini alle sole esigenze di tutela della legalità ma rimanda alla legge ordinaria i casi e le modalità, in cui questo può avvenire; il tutto mettendo sull’altro piatto della bilancia, con pari

dignità, la tutela della libertà di comunicazione. Per questo, in una mirabile sentenza della metà degli anni settanta, la Corte costituzionale sottolineò che tale strumento di ricerca della prova, oggettivamente in conflitto con il chiaro disposto dell’articolo 15 della Carta, doveva essere riservato a reati pre-individuati e comunque utilizzato solo nei casi in cui ciò appariva assolutamente indispensabile.

A sottolineare la straordinarietà e la delicatezza delle intercettazioni, la Corte aggiunse che dovevano essere impiegate sotto il controllo giurisdizionale, per limitati periodi tempo, per ipotesi di reato già raggiunte da gravi indizi, e che tanto i decreti impositivi che quelli di proroga dovevano essere specificamente motivati caso per caso. Insomma, per sintetizzare, non tutto e non sempre si può intercettare, il controllo giurisdizionale è fondamentale e la “pesca a strascico”, benché utile nella lotta al crimine, è fuori del sistema.

Questi insegnamenti, pur recepiti nel codice di procedura penale, sono stati negletti dalla giurisprudenza, che da decenni legittima prassi assai generose proprio su questi punti. Tutto ciò, accanto ad una facile “spendibilità” mediatica dei risultati la quale (in barba alla legge che vieta la pubblicazioni di tali atti nel corso delle indagini preliminari) raggiunge vette sconosciute negli altri paesi democratici, hanno reso le intercettazioni oltre che strumento d’elezione nelle investigazioni anche un’arma politica formidabile. Perciò, mentre le procure ne hanno costantemente ribadito l’indispensabilità nella battaglia per la legalità, la sinistra ha sempre contrastato interventi diretti a ridimensionarle visti come cedimenti al malaffare. Ad illustrare la fortuna anche “politica” delle intercettazioni, basti pensare che le ultime leggi penali che sono entrate in vigore hanno visto alzarsi od abbassarsi il loro limite massimo edittale non in base alla gravità della condotta, come sarebbe logico, ma solo in ragione della applicabilità o meno di tale strumento.

Capovolgendo la grammatica costituzionale non è più la gravità del reato a segnare l’utilizzabilità delle intercettazioni, ma anzi essa viene determinata al solo fine di permetterne l’impiego delle captazioni. Negli ultimi tempi, poi, si è assistito ad ulteriori stravolgimenti: quello dell’utilizzo delle intercettazioni al fine del controllo etico sulla classe dirigente e la messa in discussione delle aree di intangibilità per alcuni soggetti. La vicenda del così detto “processo trattativa”, ed il conflitto tra la procura di Palermo e la presidenza della Repubblica, testimoniano entrambi gli aspetti.

Oggi, in vasti strati dell’opinione pubblica, è dato per scontato che avere contezza dei privati comportamenti è un diritto quando riguarda persone che hanno un qualche ruolo pubblico, e che eventuali aree di inviolabilità, come per il Presidente della Repubblica, devono essere abbattute. A nulla vale opporre che questo è uno strumento di indagine penale che per sua natura non attiene alla dimensione morale. In questi giorni altri due fatti di cronaca ed una prassi giudiziaria assolutamente prevalente, ripropongono il problema intercettazioni.

Accade che a Roma, nell’indagare su fatti che coinvolgerebbero un ristoratore, vengano autorizzate intercettazioni e video registrazioni ambientali nel suo locale, che è ovviamente frequentato da molte clienti. Per mesi la procura, su autorizzazione del Gip, registra, salvo poi accorgersi che in questa maniera centinaia di conversazioni dì cittadini del tutto estranei alle indagini sono state ascoltate e captate. Secondo Panorama, il procuratore di Roma, ad un certo punto, fornisce precise indicazioni agli operanti circa il fatto di non procedere alla registrazione, anzi di sospendere le operazioni, per i colloqui non inerenti.

Ora, indipendentemente, dal rispetto delle norme del codice, il quesito è il seguente: un sistema processuale e giudiziario che permette un fatto simile pone un problema di tutela delle conversazioni? Mettere, per mesi, sotto controllo audiovisivo un locale pubblico non postulava l’ineluttabile coinvolgimento di estranei? La tardiva “scoperta” della fatale violazione ingiustificata della riservatezza delle conversazioni di centinaia di persone è un fatto grave o no? La sinistra che ne pensa?

Altro esempio. Sono state date alle stampe, dopo il deposito avanti al Tribunale del Riesame da parte dei pm di Napoli, i dialoghi di carattere evidentemente politico che avrebbe intrattenuto l’ex sottosegretario Nicola Cosentino con altri esponenti del suo partito. Gli stralci pubblicati in questi giorni dalla stampa dimostrano che si tratta di conversari di carattere politico.

Il fatto, sembrerebbe, è che proprio su tali conversazioni e sul loro carattere si appunta l’interesse degli inquirenti. Anche qui, al di là della legittimità del deposito in sede giudiziaria, un interrogativo è lecito: un sistema processuale e giudiziario che permette l’impiego processuale, e la pubblicazione, di conversazioni di tal genere, il cui primo sicuro effetto è quello di danneggiare le persone che avevano intrattenuto rapporti politici con un indagato, garantisce ancora la reciproca indipendenza tra Poteri dello Stato?

L’ultimo esempio non riguarda un singolo fatto, bensì una prassi inveterata: quella di ascoltare le conversazioni che gli avvocati-intrattengono sull’utenza, eventualmente intercettata, di un loro cliente. Secondo la giurisprudenza l’ascolto di suo non è illegittimo, illegittimo è l’eventuale utilizzo processuale di quel materiale. Anzi, secondo alcune sentenze, è proprio dall’ascolto che si può distinguere se la conversazione ha ad oggetto il mandato difensivo od altro, e dunque non è affatto scontato che l’agente, anche se comprende subito che chi parla è l’avvocato con il cliente, debba interrompere le operazioni.

Il risultato è che nel nostro Paese neanche gli avvocati sono certi della riservatezza delle comunicazioni con i loro clienti. In parlamento giace da tempo una proposta di modifica del codice di procedura penale che sarebbe in grado di arginare questo fenomeno, la sinistra la sottoscrive? In conclusione, una nuova stagione garantista, a sinistra, dovrebbe rispondere alla domanda semplice, ed in fondo banale, se questa ancora è una democrazia normale o giudiziaria, e poi operare per ripristinare la legalità costituzionale. Magari rammentando che Orwell era di sinistra.

di Valerio Spigarelli (Presidente dell’Unione Camere Penali)

Gli Altri, 6 maggio 2014