Parma: botte in cella, i nastri che accusano, anche Dap apre inchiesta sul carcere emiliano


Polizia Penitenziaria cella detenutoAl processo le denunce del detenuto Rachid Assarag. “La verità la conoscono Dio e questo registratore”. Rachid Assarag è stato arrestato nel 2008 per aver violentato due donne. Un fatto pesante che ha meritato “un supplemento di pena”, almeno a giudizio degli agenti penitenziari del carcere di via Burla, a Parma, dove l’uomo è stato rinchiuso tra il 2010 e il 2011. Botte, minacce di morte, umiliazioni di vario genere. D’altra parte, là fuori, è questa la legge che si invoca per chi si macchia di reati tanto odiosi come quelli sessuali: la galera non basta, serve qualcosa di più.

Nella mattinata di ieri, il 40enne marocchino si è presentato in aula, a Parma, sventolando una foto di Stefano Cucchi: “Non voglio finire così”, ha detto ai pm, che lo stavano interrogando nell’ambito di un processo che lo vede imputato per oltraggio a pubblico ufficiale. È una storia che va avanti da tempo: lui inoltra esposti alla procura e gli agenti lo denunciano, un modo come un altro per tenerlo dentro. Finché continuerà a subire processi su processi per le motivazioni più svariate, Assarag non potrà usufruire di alcuna misura alternativa al carcere.

Davanti ai pm Assarag ha parlato delle violenze subite, e delle prove che ha a disposizione: nastri magnetici sui quali sono state registrate le voci di alcuni secondini.

Conversazioni che restituiscono un affresco piuttosto nitido della realtà inquietante e violentissima che si vive dietro le sbarre, tra spavalderie poliziottesche (“Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu”), amare confessioni da parte di un medico (“Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero… Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no… Ma quello è morto, ha capito?

È morto per le botte”) e un tremendo dialogo con una guardia: “Va bene assistente – dice Rachid -, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?”. “Sì, ho visto – la risposta -, come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici. Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io…”.

L’uomo si è procurato il registratore grazie all’aiuto di sua moglie, Emanuela D’Arcangeli, che, in un modo o nell’altro, è riuscita a farglielo arrivare in cella. E lui l’ha usato come meglio non poteva fare per cercare di incastrare gli agenti che l’avevano picchiato e che, proprio davanti a lui, non si vergognavano di rivendicare i propri abusi di potere, il conclamato monopolio della violenza, inconsapevoli però che tutto quello che stavano dicendo veniva registrato.

A volerla dire tutta, comunque, le violenze denunciate da Assarag, gli investigatori avrebbero potuto scoprirle diverso tempo fa: per mesi un esposto con gli stessi elementi usciti fuori ieri durante l’interrogatorio è rimasto a prendere polvere in qualche ufficio nella procura di Parma. Adesso, però, le indagini dovrebbero partire sul serio: se ne parlerà alla prossima udienza, il 12 dicembre.

Alla fine dell’udienza, la procura ha deciso di acquisire agli atti non solo le registrazioni clandestine (che saranno sottoposte a perizia), ma anche i diari del detenuto e ha ordinato di perquisirne la cella a Sollicciano, dove adesso è recluso. Intanto, il Dap – senza capo ormai dalla fine di maggio – ha annunciato di aver aperto un’inchiesta interna sulla vicenda di Parma, mentre il clima si fa sempre più teso, in un ambiente che non riesce ad accettare il fatto di non essere più al di sopra di ogni sospetto. Prossimamente, il Dipartimento andrà anche in visita ispettiva in via Burla, ma, assicurano qualora qualcuno avesse dei dubbi: “Non vogliamo in alcun modo interferire con il lavoro della procura”.

Il carcere di Parma è già finito più volte in cronaca per altri casi di maltrattamento (come quello di Aldo Cagna, con gli agenti che sono stati condannati a 14 mesi) o per le condizioni allucinanti dell’infermeria interna, grazie a una battaglia che il Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna continua a portare avanti nel solito, colpevole, clima di indifferenza generale.

Mario Di Vito

Il Manifesto, 15 ottobre 2014

Parma: abusi dietro le sbarre, una svolta nelle indagini dopo la denuncia de l’Espresso


CC Parma DAPIl tribunale di Parma acquisisce le carte sui presunti pestaggi denunciati dal detenuto che in carcere aveva registrato le confessioni di alcuni agenti. Ora gli audio, rivelati in esclusiva dalla nostra testata, sono agli atti del processo contro il carcerato accusato di oltraggio da un gruppo di guardie penitenziarie.

Il tribunale di Parma ha acquisito le registrazioni audio dei presunti pestaggi subiti in carcere da Rachid Assarag rivelate in esclusiva da “l’Espresso”. Il detenuto marocchino, che sta scontando una condanna per violenza sessuale, ha registrato, tra il 2010 e il 2011, le confessioni di alcuni agenti all’interno del penitenziario emiliano.

Le sue denunce però sono rimaste ferme in Procura, mentre la querela presentata da un gruppo di agenti contro di lui per oltraggio si è rapidamente trasformata in processo. Così la strategia dell’avvocato Fabio Anselmo (difensore della famiglia di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi) è di sfruttare questo giudizio per ribaltare la situazione. E oggi ha incassato un primo risultato.

Nell’ultima udienza, il giudice, dopo aver interrogato Assarag, ha deciso far entrare nel processo i documenti della difesa, incluse le conversazioni rubate all’interno del penitenziario emiliano. Non solo. È stata anche disposta la perquisizione urgente della sua cella del carcere di Sollicciano, a Firenze, dove attualmente è recluso. La polizia giudiziaria dovrà recuperare i suoi diari scritti in arabo. Insomma, quello che sembrava un processo dall’esito scontato, si arricchisce di nuovi colpi di scena. La prossima udienza è fissata per il 12 dicembre.

Le trascrizioni degli audio raccolti all’interno del super carcere – affidate a una società specializzata che lavora anche per l’autorità giudiziaria – sono impressionanti: presentano uno spaccato di violenza e omertà. Viene proclamata un’unica legge: “Se ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male”, spiega un agente.

E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: “Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata… non credo che lei abbia il potere di cambiare niente”.

“Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu”. Così parlava ai microfoni nascosti del detenuto un poliziotto della penitenziaria. E il medico della stessa struttura è ancora più esplicito: “Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero… Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no… Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte”.

Il direttore dell’epoca, Silvio Di Gregorio, ora responsabile dell’ufficio del personale della polizia penitenziaria, contattato da “l’Espresso”, aveva preferito non rilasciare dichiarazioni. Mentre il rappresentante del Sappe aveva detto di nutrire forti perplessità sul metodo utilizzato dal detenuto nel ricercare le prove: “Mi sembra strano che possa aver registrato, nel carcere non è possibile avere niente di elettrico, non ci sono telefoni.

La denuncia la può fare comunque, si vedrà chi ha ragione e chi ha torto. Poi per carità c’è qualche collega che può sbagliare e il detenuto può denunciare, ma mi sembra strano che si possa registrare” è stata la replica di Enrico Maiorisi responsabile sindacale della struttura emiliana.

Giovanni Tizian

L’Espresso, 14 ottobre 2014

Parma, Pestarono detenuto. Condannati definitivamente 2 Agenti di Polizia Penitenziaria


Polizia_Penitenziaria_2Sono stati condannati a 1 anno e 2 mesi per lesioni personali e violenza privata i due Agenti di Polizia Penitenziaria Vincenzo Casamassima e Andrea Miccoli, imputati di aver picchiato all’interno del Carcere di Parma il detenuto Aldo Cagna, condannato a 30 anni di carcere per l’assassinio della studentessa Silvia Mantovani.

La Corte Suprema di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Bologna del 15 ottobre scorso: gli agenti sono stati riconosciuti colpevoli dei due reati con la concessione delle attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti. Per il terzo reato di cui erano accusati, ovvero maltrattamenti, invece i Giudici avevano ritenuto che non ci fossero prove sufficienti. Il pestaggio di Aldo Cagna è avvenuto in carcere nel febbraio del 2007: secondo la relazione del medico del carcere il detenuto riportava sia un arrossamento del torace che un arrossamento ad un occhio.

Cagna quando venne sentito in dibattimento dinanzi al Tribunale di Parma non riuscì a ricordare di quanti episodi di maltrattamenti era stato vittima, né chi erano tutti i responsabili. Alle domande del Giudice rispose “non ricordo, succedeva spesso, alla fine ero esasperato”. Poi di fronte alle insistenze sbotta: “Mi facevano ruzzolare giù dalle scale per portarmi in isolamento, poi mi pestavano”.

E poi, dichiarò, anche perché lo avevano preso di mira. Narra dell’episodio scatenante, nel novembre 2006, quando viene accusato da un agente di aver fatto delle scritte nella cella. Lui nega e si rifiuta di pulirle. Poi si convince che è meglio obbedire, ma quando si volta la guardia lo schiaffeggia in testa. Lui reagisce con insulti e spintoni, viene condotto in isolamento. Significa stare per qualche giorno, fino a una settimana, da soli dentro a una cella, senza ora d’aria. Cagna ci finisce 5 o 6 volte durante il suo periodo di detenzione a Parma. Ed è lì che viene a contatto con gli agenti che accuserà del pestaggio.

“Casamassima entrava nella mia cella quando ero in isolamento, si metteva un paio di guanti neri e mi diceva ‘Preparati, lo sai’ – ha dichiarato Cagna – Poi mi faceva alzare la testa e mi schiaffeggiava due o tre volte”. Un comportamento che le guardie, non solo quelle imputate, avrebbero ripetuto più volte. Così come la “doccia” con acqua sporca: Cagna racconta che gli versavano addosso l’acqua con candeggina contenuta nel secchio dopo la pulitura dei pavimenti. Lui non è certo un detenuto modello: “Rispondevo, insultavo. Loro mi provocavano. Ma ero in uno stato mentale non giusto, dovevano capirlo”.

Il primo febbraio 2007 accade il fatto che Cagna decide di denunciare, per la prima volta. Parla con l’avvocato difensore che gli prospetta una pena di 20 anni, lui si agita. Comincia a litigare con un detenuto chiuso in un’altra cella che lo prende in giro: “In vent’anni qui ne imparerai di lingue: albanese, marocchino”. La discussione viene interrotta dagli agenti penitenziari. Cagna ha riferito che Casamassima gli avrebbe detto: “Ti ricordi in isolamento che ti facevo piangere come una bambina?”. La replica “Non piangevo per te ma per quello che avevo fatto” non sarebbe andata giù alle guardie. Cagna viene fatto uscire e condotto dal “capoposto”, l’agente responsabile del turno. Ma mentre sta per scendere le scale, viene afferrato per i capelli, fatto cadere e pestato con calci e pugni. Cagna racconta che Miccoli gli avrebbe sferrato un cazzotto in un occhio. Più tardi, in cella, vomita sangue. Ma il medico non gli crede perché ha tirato lo sciacquone. Allora Cagna insiste, dà fastidio, vuole essere visitato ancora. Racconta l’accaduto al medico, che stila un referto e poi lo fa portare al pronto soccorso. E’ durante il viaggio che il capoposto Tanlerico gli avrebbe consigliato di non dire di essere stato picchiato dalle guardie ma da altri detenuti, per evitare problemi in futuro. Cagna ha ribadito che non c’è stata nessuna minaccia, si sarebbe solo trattato di un invito a riflettere. Che alla guardia 56enne, però, è costato un’accusa di favoreggiamento.

Tornato in carcere, Aldo Cagna firma un verbale in cui compaiono entrambe le versioni: quella riferita al medico del carcere, che accusa gli agenti, e quella che tira in ballo ignoti detenuti, rilasciata al pronto soccorso. Ma soprattutto, sottoscrive di non voler sporgere denuncia per quanto accaduto. “Poi però non ne potevo più, ero esasperato da questi episodi. Ci ho ripensato e ho sporto una regolare denuncia”.