Il Dap chiude il Carcere di Savona. Protesta il Sindacato della Polizia Penitenziaria


CC Savona Sant'AgostinoL’informativa indirizzata al presidente del Tribunale e al Procuratore della Repubblica, firmata dal Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo, è del 7 ottobre scorso, e non lascia spazio a diverse interpretazioni. Il carcere di Sant’Agostino chiude. E forse molto presto. Si attende solo la firma del ministro della Giustizia.

Le condizioni fatiscenti, di degrado dell’edificio, le celle sovraffollate che non “consentono – si legge nel documento – ai detenuti di espiare la pena in modo dignitoso” hanno determinato l’inserimento del carcere di Savona nel piano di dismissioni che interessa complessivamente in tutta Italia una ventina di istituti di pena. In attesa dunque della costruzione di un nuovo penitenziario (come è specificato nell’informativa), i detenuti saranno trasferiti in altre strutture, a Marassi ad esempio, ma non solo lì. Stando a indiscrezioni, infatti, i primi dodici ospiti dovrebbe essere spostati già questa settimana a Sanremo. Le indiscrezioni di quella che pare un’imminente chiusura hanno scatenato la protesta del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, il cui segretario regionale Michele Lorenzo, dice senza mezzi termini “no alla chiusura del Sant’Agostino, prima di costruire il nuovo carcere”. E attacca la politica: “che non è stata capace nemmeno di trovare un sito dove costruirlo”.

Sappe: no alla chiusura del carcere prima di aver costruito quello nuovo

“Il carcere di Savona è il fallimento della politica che non è stata capace nemmeno di trovare un sito dove costruirlo. Ben venga in Valbormida allora”. È data per certa le indiscrezioni che ormai da mesi circolavano sulla chiusura della C.C. di Savona alle quali mai nessuna risposta è mai pervenuta alle nostre richieste di conoscere quali determinazioni volessero adottare i vertici del nostro dipartimento. Alla fine la chiusura è stata ufficializzata dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo, prima con i Provveditori in una riunione del 1° ottobre scorso ed in seguito mediante l’emanazione di alcuni atti ufficiali diretti a varie autorità connessi con sistema carcere. Nessuna comunicazione è però stata indirizzata alle OO.SS. di categoria.

Spiegare cosa significa la chiusura di un istituto penitenziario in una città quale può essere Savona, potrebbe sembrare per certi versi assurdo, come a significare offendere la capacità organizzativa del proponente. Ma se siamo arrivati a ciò allora sicuramente chi ha proposto all’On. Ministro della Giustizia la chiusura di Savona, non ha ben chiaro la ricaduta sul territorio. Vorrei lasciare in ultima analisi la questione del personale di Polizia Penitenziaria che per questa O.S. è l’aspetto più importante. Una città sede di procura, tribunale, prefettura, questura, comandi provinciali di tutte le forze di Polizia dello Stato e non, come può fare a meno di un carcere? L’assenza del carcere connette una serie di problematiche:

1. la forza di polizia che effettua un arresto deve accompagnare il soggetto o a Genova marassi o a Imperia, quindi maggiore impegno in termini di tempo e spese connesse.

2. Questo determinerebbe un ulteriore carico su questi istituti che sono già penalizzati per l’elevata presenza di detenuti e movimenti connessi.

3. L’avvocato che deve effettuare un incontro per attività, dovrà recarsi in altro istituto e questo è un disagio sotto tutti gli aspetti.

4. L’attività giudiziaria verrebbe rallentata, in quanto per le convalide o interrogatori bisogna recarsi fuori comune con aggravio di tempi e costi.

5. Ripercussione sui detenuti e famigliari allorquando questi devono effettuare i colloqui o quanto altro connesso alla vita sociale del detenuto.

6. Sulla Polizia Penitenziaria ricadrà il maggiore disagio. Premesso che nessuna richiesta di incontro sull’argomento chiusura carcere è mai pervenuta a questa O.S. quindi non si conoscono tempi e modalità attuative la chiusura, questa O.S. in attesa dell’incontro sulla mobilità del personale di polizia evidenziando e ponendo come condizione che tale mobilità non dipende dalla loro volontà sarà interesse dell’amministrazione non determinare ulteriori disagi al personale del Corpo, questa o.s. propone.

a) che una parte di essi, in attesa della totale dismissione dell’istituto, resti a presidio dell’istituto

b) che un’aliquota venga inviata presso la scuola di Polizia Penitenziaria di Cairo Montenotte quale sede più vicina e territorialmente della stessa provincia.

c) prevedere un’aliquota presso il Tribunale di Savona utile sia come supporto logistico alle varie scorte provenienti da altri istituti ma anche come forza di Polizia disponibile per esigenze di giustizia.

d) In ultima ipotesi quella di un utilizzo sul territorio cittadino considerato che la Polizia Penitenziaria, sino a smentita, è una Forza di Polizia prevista dall’art.16 l.121\81.

e) Rispettare la volontà di coloro che, per loro scelta, optino per altre sedi.

f) Garantire la costruzione del nuovo istituto con la procedura d’urgenza.

Quindi se l’intenzione del Ministro è quella di chiudere l’istituto prima della costruzione del nuovo, lo faccia pure ma rispetti la Polizia Penitenziaria che sino ad oggi ha fatto bene il loro lavoro in quel luogo che oggi è dichiarato ufficialmente vetusto ossia inadeguato, riconoscendo a tutto il personale che ha costantemente operato in quell’ambiente, le ripercussioni specialmente sul proprio stato di salute. Su tale argomento questa O.S. non transige. Aspettiamo fiduciosi una risposta ovvero la decisione che il carcere di Savona chiuderà solo dopo l’apertura di quello nuovo.

Carceri, ancora suicidi. Ragazza di 27 anni si toglie la vita dopo la revoca dei domiciliari


Carcere di PisaUna giovane donna italiana di 27 anni si è impiccata la vigilia di Ferragosto nella sua cella nella Sezione Femminile della Casa Circondariale “Don Bosco” di Pisa. La giovane, originaria di Massa Marittima, secondo quanto appreso, si trovava reclusa dal 31 luglio, dopo la revoca degli arresti domiciliari, per maltrattamenti familiari dopo una precedente detenzione domiciliare per stalking nei confronti della madre e della nonna.

Sull’episodio ha aperto un’indagine la Polizia Penitenziaria, dopo che i rilievi della scientifica sono stati effettuati dai carabinieri. La 27enne, secondo quanto si è appreso, era detenuta con “regime aperto”, ovvero con 8 ore quotidiane di socialità. Divideva la cella insieme ad altre donne: avrebbe evidentemente approfittato di un momento in cui si è trovata da sola per togliersi la vita, utilizzando un lenzuolo per impiccarsi. Stando a quanto riferito dalla direzione della casa circondariale, la ventisettenne in queste due settimane di detenzione a Pisa non aveva mai avuto particolari problemi né con gli agenti né con le altre recluse. Viveva comunque un momento di disagio, un passaggio difficile, era stata anche in cura ai servizi sociali.

Secondo l’Osservatorio sul carcere dell’associazione Ristretti Orizzonti quello di oggi, di una giovane di 27 anni a Pisa, è il ventinovesimo suicidio in cella dall’inizio dell’anno. Il ventottesimo suicidio era avvenuto, poche ore prima, ad Alba dove alle grate della sua cella si era impiccato un uomo, romeno di 30 anni. Una ricerca di Ristretti Orizzonti rileva che circa un terzo dei suicidi tra i detenuti riguarda persone di età compresa tra i 20 e i 30 anni e, più di un quarto, un’età compresa tra i 30 e i 40. In queste due fasce d’età il totale dei detenuti sono, rispettivamente, il 36% e il 27%.

Il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, Sappe, sottolinea come permangano le criticità e le problematiche nelle carceri toscane: “I detenuti complessivamente presenti nelle carceri regionali della Toscana erano, il 30 luglio scorso, 3.223 Circa 150 in meno di quelli che c’erano un anno fa quando, nello stesso giorno del 2014, erano 3.371. A non calare, però, sono gli eventi e gli episodi critici nelle celle”, sottolinea Donato Capece, segretario generale del Sappe.

“Per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria le condizioni di vita dei detenuti, in linea con le prescrizioni dettate dalla sentenza Torreggiani, sono migliorate in Italia. Non si dice, però, che le tensioni del sistema penitenziario italiano continuano a scaricarsi sulle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, quotidianamente impegnati a contrastare le tensioni e le violenze che avvengono nelle nostre carceri vedono spesso i nostri Agenti, Sovrintendenti, Ispettori picchiati e feriti dalle violenze ingiustificate di una consistente fetta di detenuti che evidentemente si sentono intoccabili”, aggiunge il leader nazionale del Sappe.

“I dati sono gravi e sconcertanti e sono utili a comprenderli organicamente la situazione delle prigioni del nostro Paese: ometterli è operazione mistificatoria”, prosegue Capece con il Segretario regionale Sappe della Toscana Pasquale Salemme.

“Dal 1 gennaio al 30 giugno 2015 nelle 18 carceri toscane si sono infatti contati il suicidio di 2 detenuti in cella, 3 tentativi sventati in tempo dagli uomini della Polizia Penitenziaria e ben 501 atti di autolesionismo (il numero più alto in tutta Italia!) posti in essere da detenuti. Ancora più gravi i numeri delle violenze contro i nostri poliziotti penitenziari: parliamo di 213 colluttazioni e 39 ferimenti. Ogni giorno, insomma, le turbolenti carceri toscane ed italiane vedono le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria fronteggiare pericoli e tensioni e per i poliziotti penitenziari in servizio le condizioni di lavoro restano pericolose e stressanti”.

“Ma il Dap queste cose non le dice”, denunciano infine Capece e Salemme: “l’unica preoccupazione, per i solerti dirigenti ministeriali, è evidentemente quella di migliorare la vita in cella ai detenuti. I poliziotti possono continuare a prendere sberle e pugni, a salvare la vita ai detenuti che tentato il suicidio nel silenzio e nell’indifferenza dell’Amministrazione penitenziaria”.

“La situazione delle carceri sta migliorando grazie all’impegno ed al lavoro del governo. Una giovane donna che compie l’estremo gesto del togliersi la vita merita massima attenzione. L’impegno del governo nel monitorare e offrire supporto alle strutture detentive è costante. Cercheremo di fare ancora di più affinché le carceri assolvano al difficile ma essenziale compito della rieducazione di chi delinque prevista dalla Costituzione”.

Così in una nota il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri dopo aver visitato oggi la Casa Circondariale “Don Bosco” di Pisa dove ieri, nella sezione femminile, si è tolta la vita una detenuta di 27 anni. “Occorre potenziare – afferma ancora Ferri – le strutture sanitarie all’interno degli istituti, in tal senso stiamo attivando protocolli d’intesa con le aziende Usl per trovare rimedi più efficaci e maggior attenzione nei confronti delle persone detenute”.

Adriano Sofri, ex Leader di Lotta Continua : Una condanna è per sempre


Adriano-Sofri«Fine pena mai» è la tetra formula che compare sulle cartelle biografiche delle persone condannate all’ergastolo in Italia. Fino al 1987 voleva dire che il detenuto sarebbe morto dietro le sbarre, poi con la riforma dell’ordinamento, è stato stabilito che dopo 10 anni si può accedere ai permessi, dopo 20 alla semilibertà e dopo 26 alla libertà condizionale. Funziona così (eccetto per i condannati per i reati ostativi – Art. 4 bis O.P., che nello specifico caso degli ergastolani sono la maggior parte, che non usciranno mai più dal Carcere, neanche per brevi permessi, se non dopo morti, salvo che collaborino con la Giustizia ai sensi dell’Art. 58 ter O.P. Emilio Quintieri).

Adriano Sofri è stato condannato nel 1990 a 22 anni di carcere in quanto mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. È uscito nel 2012 per decorrenza dei termini. Il processo, invero, fu controverso: lui si è sempre assunto la ‘responsabilità morale’ dell’omicidio, ma ha sempre negato ogni responsabilità diretta, ritenendosi innocente dal punto di vista penale. Comunque uno la voglia mettere, lasciando da parte il merito delle accuse e ogni valutazione sui cosiddetti Anni di Piombo (a proposito, sarebbe anche il caso di cominciare a parlare di certi temi inquadrandoli da un punto di vista storico, prima o poi. Ma questo è un altro discorso), Adriano Sofri è oggi un uomo libero a tutti gli effetti: ha scontato la sua pena, può andare dove preferisce e fare quello che vuole. Questo dovrebbe essere pacifico in ogni stato di diritto, in ogni democrazia, ovunque. Poi è venuto fuori che il 19 giugno scorso il ministero della Giustizia ha indicato proprio Sofri tra i membri di uno dei tavoli di lavoro che il governo vorrebbe mettere in piedi per riformare il sistema carcerario italiano, una delle vergogne più grandi del paese, definito a più riprese dagli osservatori indipendenti come «disumano e degradante».

La nomina di Sofri avrebbe una certa logica, a ben guardare: a parte che ogni detenuto potrebbe offrire prospettive interessanti sulle patrie galere, bisogna riconoscere che l’ex Lotta Continua è uno dei massimi esperti italiani sul tema. Ne ha scritto spesso sui giornali, nel 2002 diede alle stampe il libro «Altri Hotel», uno dei documenti più importanti per capire la detenzione e quello che vuol dire. Insomma, è una voce che verrebbe ascoltata ovunque proprio perché competente in materia. Ovviamente le cose non sono andate così. Circostanza in effetti ovvia a guardare la qualità del dibattito italiano in generale e sulle carceri in particolare. Così, la polemica è scoppiata con un comunicato del Sappe (il sindacato degli agenti di polizia penitenziaria) che ha bollato la scelta del ministero come «inaccettabile, inammissibile, intollerabile e insopportabile», ha invocato l’intervento di Mattarella, ha buttato lì che «gli italiani onesti e con la fedina penale immacolata pagheranno con le loro tasse le trasferte, i pasti ed i gettoni di presenza» al reprobo e suggellato il tutto con quello che probabilmente ritenevano essere un paradosso: «E’ come far sedere Totò Riina al tavolo di revisione del 41 bis».

Sui social network c’è voluto pochissimo perché scoppiasse il finimondo. Su Twitter l’hashtag #Sofri è schizzato in testa ai trend topic nel giro di pochi minuti. Alla fine, proprio Sofri ha annunciato che, dopo essere stato semplicemente interpellato al telefono, non parteciperà ai futuri tavoli a tema, ritenendo di averne abbastanza «delle fesserie in genere e delle fesserie promozionali in particolare». La risposta, recapitata al Foglio, smonta una per una le accuse piovute dal sindacato di Polizia: Sofri ha dichiarato di aver esplicitamente richiesto di non ricevere nemmeno un centesimo per la sua consulenza e ha aggiunto che comunque «Riina, benché non sia necessariamente ‘il massimo competente del 41 bis’ ne è certo competente: e troverei del tutto ragionevole che, in una seria indagine sulla realtà del 41 bis, venisse anche lui interpellato in qualità di ‘competente’. Questo genere di competenza ed esperienza non ha infatti a che fare con l’innocenza, o la colpevolezza, o la gravità della colpevolezza, di chi finisce in carcere».

Il problema, a guardare la qualità della polemica e degli intervenuti, è che il dibattito pubblico italiano si conferma spaventosamente manettaro, quando si parla di giustizia e di ingiustizia. Chi ha subito una condanna, può anche averla scontata tutta fino all’ultimo giorno, ma sarà sempre e comunque destinato a dover subire l’ostracismo da parte del sedicente consesso civile. La riabilitazione non esiste e sembra quasi che la galera sia esclusivamente uno strumento punitivo per chi ha fatto il cattivo, cosa che non sta scritta nemmeno sul Codice di Hammurabi.

Per non dire che, nel caso specifico, non si dibatte della colpevolezza o dell’innocenza di Sofri, ma semplicemente di quello che potrebbe essere il suo parere su un tema per il quale lui è indubbiamente preparato, sia nella teoria sia nella pratica. Ma la cosa più scoraggiante in assoluto è che il dibattito pubblico in tema di giustizia sembra valere soltanto quando si parla di «tintinnar delle manette», possibilmente tante, alla faccia della Costituzione, dello stato di diritto, dell’umanità e del buon senso. Ma nel paese in cui un avviso di garanzia è già una condanna, in fondo, non dovrebbe stupire che il fine pena sia sempre mai.

Mario Di Vito

23 Giugno 2015, http://www.glistatigenerali.com

Carceri, il Sappe: “Eccessivo sospendere colleghi” Quintieri (Radicali) : “Non è un caso isolato”


262780_455911204467755_282597913_nDopo il caso degli insulti – lanciati via Facebook sul sito dell’Alsippe da alcuni poliziotti – e seguiti al suicidio di un detenuto in cercare a Opera, il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, ha firmato «16 provvedimenti cautelari di sospensione». «Insulti ignobili, «intollerabili», ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che hanno consegnato in pasto alla rete, e quindi potenzialmente a chiunque, parole come «un romeno di meno» o «beviamo alla tua salute». La condanna verso il vile gesto è stata unanime, ma il giorno dopo l’invio dei provvedimenti di sospensione, Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, rilancia: «Non ho avuto alcuna esitazione ad affermare che esultare per la morte di un detenuto è cosa ignobile e vergognosa. Ma altrettanto abnorme e sproporzionata è stata la risposta dell’Amministrazione Penitenziaria, su sollecitazione del ministro della Giustizia: sospendere dal servizio 16 appartenenti alla Polizia Penitenziaria è un provvedimento sbagliato ancorché formalmente irregolare. Quelle frasi sono da censurare senza se e senza ma, fatto sta che un percorso disciplinare ha regole e forme da rispettare che, in questo caso specifico, non sono state osservate».

IL DAP : «SE CI FOSSERO REATI, NOI PARTE CIVILE»

Ma secondo il Dap quelle degli agenti sono «affermazioni gravemente lesive dell’immagine dell’Amministrazione penitenziaria e della dignità dei detenuti» e in esse «è ravvisabile non solo una grave indifferenza verso il diritto alla vita, all’incolumità e alla salute» di chi è in carcere, «ma anche un atteggiamento che può avere riflessi sulla sicurezza dell’organizzazione» negli istituti di pena. Per gli agenti sospesi – tutti uomini – partirà l’iter disciplinare che stabilirà le sanzioni. In linea teorica, si può arrivare al licenziamento, ma sono più probabili misure intermedie. Il numero uno del Dap ha anche trasmesso all’autorità giudiziaria il rapporto predisposto dal Nucleo investigativo centrale del Dipartimento: «Se emergeranno reati – preannuncia Consolo – questa amministrazione si costituirà parte civile per danno all’immagine». Spetterà al pm valutare se si possa configurare, in un caso come questo, l’istigazione al suicidio. Ma c’è un altro versante su cui il sistema carceri deve lavorare.

SAPPE : «DAP INCACAPE DI GESTIRE SITUAZIONI CRITICHE»

Il Dap, continua Donato Capece, commentando i provvedimenti assunti, «ha dimostrato ancora una volta di essere incapace di gestire situazioni critiche, tant’è che, invece di cercare di capire le cause di certi fenomeni (ancorché gravi) pensa solo a reagire in maniera eclatante e sproporzionata, al solo scopo di evitare ogni assunzione di responsabilità», prosegue il leader del Sappe che giovedì pomeriggio ha incontrato il Guardasigilli Orlando. «Sospendere dal servizio un poliziotto, senza un percorso disciplinare che preveda contestazione e difesa, è fuori dalle norme previste ed è un’anomalia illegittima che, infatti, l’Amministrazione Penitenziaria non ha mai adottato. Ripeto e lo ribadisco. Il suicidio di un detenuto è sempre – oltre che una tragedia personale – una sconfitta per lo Stato e dunque ci vuole il massimo rispetto umano e cristiano ancor prima di quello istituzionale. Chi ha scritto messaggi stupidi, gravi e insensibili se ne assumerà le responsabilità. Ma sospenderli dal servizio d’ufficio mi sembra davvero abnorme e sproporzionato».

ALTRI SINDACATI CONTRARI ALLE SOSPENSIONI

Insomma, quelle 16 sospensioni fanno anche discutere all’interno del Corpo quanti, tutti i giorni, hanno a che fare con una realtà difficile e in moltissimi casi, lontani dai riflettori e senza che nessuno se ne accorga, salvano detenuti che tentano il suicidio. Il Sappe calcola che in 20 anni i baschi blu abbiano sventato più di 16mila tentati suicidi e impedito circa 113mila atti di autolesionismo. E «solo 1 su 20 dei tentativi di suicidio da parte dei reclusi ha esito infausto», ricorda l’Osapp. I sindacati, che sono unanimi nel condannare il caso, ma sono preoccupate che la polizia penitenziaria sia «criminalizzata», come dice Leo Beneduci dell’Osapp. O giudicano «eccessive» le sospensioni, come Eugenio Sarno, Uilpa, che chiede altrettanta durezza verso «dirigenti e comandanti inefficienti». Pompeo Mannone, Fns-Cisl, afferma che le misure adottate «non convincono fino in fondo, perché manca un’indagine della Procura». «Proviamo vergogna», ammette Salvatore Chiaramonte, Fp-Cgil, e allo stesso tempo ricorda che gli agenti nelle carceri «operano spesso a ranghi ridotti in condizioni drammatiche». «Esultare ad un suicidio è quanto di più squallido e vergognoso ci possa essere», afferma Donato Capece, del Sappe.

CORSI AGLI AGENTI PER IMPARARE AD USARE I SOCIAL

Ma se la libertà di espressione non si discute, esistono confini invalicabili e bisogna essere coscienti di cosa significa oltrepassarli, tanto più nell’era dei social e se si indossa una divisa o si ricopre un ruolo pubblico. «La polizia penitenziaria in questo momento è mortificata per quanto è accaduto: già stamattina ho predisposto una circolare che richiama tutti gli appartenenti all’amministrazione penitenziaria, e non solo gli agenti, ai propri doveri», ha spiegato Consolo. E il ministro ha chiesto di rafforzare la formazione degli agenti rispetto all’uso di internet e dei social network. Anche perché, stando a quanto segnala Emilio Quintieri, dei Radicali, via facebook, quello di oggi non è un caso «isolato», ma insulti simili erano stati postati anche per Bartolomeo Gagliano, serial killer suicida in carcere.

Corriere della Sera 20 Febbraio 2015

Padova, detenuto di Lecce si impicca in cella. Aveva 45 anni e godeva della semilibertà


Casa Circondariale di PadovaLo hanno ritrovato privo di vita nella sua cella nel carcere di Padova, dove stava scontando oltre 20 anni per omicidio e sequestro di persona. Il protagonista dell’ennesimo suicidio nelle carceri italiane è un detenuto leccese, Giovanni Pucci, 45enne originario di Castrignano del Capo, ritrovato in mattinata privo di vita.

L’uomo, dopo avere scontato diversi anni di carcere, godeva del regime di semilibertà e recentemente si era anche sposato. Per togliersi la vita, si sarebbe impiccato nella sua cella, durante le ore notturne. La drammatica notizia è stata diffusa dal sindacato di polizia penitenziaria Sappe. Fu arrestato nel 1999 per l’omicidio della dottoressa Maria Monteduro, uccisa nella notte tra il 24 ed il 25 aprile di quindici anni fa. Il suo nome, oltre che per il raccapricciante omicidio della dottoressa, era comparso all’interno di una inchiesta della squadra mobile di Padova su un traffico di stupefacenti tra le mura del carcere. Era stato sentito dagli investigatori poche ore prima del presunto suicidio proprio nell’ambito di tale inchiesta e forse il gesto potrebbe essere la risposta alla paura di un aggravamento di pena.

Pucci venne arrestato il 24 settembre del 1999 ad Alma Ata, nella capitale dell Kazakistan dove era andato a trovare il padre. Le indagini dell’allora pubblico ministero Leonardo De Castris (attuale procuratore capo di Foggia) e dei carabinieri del Nucleo investigativo riuscirono a venire a capo di un caso che era sembrato piuttosto complesso sin dall’inizio. Sconcerto e incredulità nel piccolo paese sud salentino si sono diffusi non appena la notizia è diventata di dominio pubblico e l’incombenza di informare i familiari. Pucci era difeso dagli avvocati Luca Puce e Giuseppe Stefanelli.

Sull’ennesimo suicidio è intervenuto il segretario nazionale del Coosp Domenico Mastrulli: “Continuano le vittime all’interno delle carceri italiane, anche se le motivazioni che spingono a gesti estremi ed inconsulti come questo restano un mistero delle carceri italiane e mondiali. La situazione penitenziaria in Italia ed il suo enorme sovraffollamento – 58mila unità ad oggi – nonostante le rassicurazioni del ministro Orlando e del Premier Renzi, continuano ad essere motivo di forte preoccupazione per il sindacato Coosp e per tutte le associazioni nazionali di categoria. Ciò che mancano in tutte le carceri italiane – continua Mastrulli – sono le unità operative (12 mila quelle mancanti). Probabilmente, questa ennesima tragedia si sarebbe potuta evitare”.

http://www.corrieresalentino.it – 25 Luglio 2014

Teramo: si toglie la vita in carcere 50enne originaria della Bulgaria arrestata per un furto


Carcere mezzi Polizia PenitenziariaUna 50enne bulgara era a Castrogno da un mese in attesa di giudizio. Ma non ha sopportato la detenzione e si è impiccata alle sbarre della cella.

Era stata arrestata un mese all’Aquila per un furto ed era stata rinchiusa nel carcere teramano di Castrogno in attesa di giudizio. Ma non ce l’ha fatta a sopportare la detenzione e si è impiccata alle sbarre della sua cella. Una donna di 50 anni, Stoycheva Slavska, di nazionalità bulgara, si è tolta la vita ieri pomeriggio e non è stato possibile soccorrerla.

Quando una compagna di cella ha visto il corpo penzoloni la cinquantenne era già morta. Nella sezione femminile del carcere teramano per regolamento le celle restano aperte dalle 9 del mattino fino al pomeriggio e le detenute possono circolare liberamente all’interno della sezione i cui ingressi ovviamente restano chiusi.

Nessuno si è accorto di niente, anche perché le agenti della polizia penitenziaria addette alla sezione, dove ci sono attualmente quaranta detenute, sono in numero ridotto, la metà dell’organico previsto. Secondo il sindacato della polizia penitenziaria Sappe, nel carcere di Teramo il problema attualmente non è tanto il sovraffollamento dei detenuti – che pure si è verificato nei mesi scorsi – quanto la carenza di personale, circostanza che rende particolarmente gravoso il lavoro degli agenti.

Il sindacato fa inoltre sapere che in questo mese di detenzione il comportamento della cinquantenne bulgara era stato del tutto tranquillo e niente faceva presagire che potesse arrivare al suicidio. Il segretario nazionale del Sappe Donato Capece, dopo aver ricordato che “negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 16mila tentati suicidi ed impedito che quasi 113mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”, sottolinea i problemi del carcere di Teramo: “Manca il personale di Polizia penitenziaria e ogni giorno c’è una nuova criticità.

Stamane, ad esempio, è stato accertato un caso di tubercolosi e questo è sintomo di preoccupazione. Il nostro organico è sotto di 7mila unità. La spending review e la legge di stabilità hanno cancellato le assunzioni, nonostante l’età media dei poliziotti si aggira sui 37 anni. Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgiamo”.

Nel carcere di Castrogno ci sono stati diversi tentativi di suicidio nei mesi scorsi, tutti sventati dagli agenti. L’ultimo caso riguarda Luca Varani, l’uomo che sfregiò con l’acido l’ex fidanzata Lucia Annibali, divenuta suo malgrado un simbolo della lotta alla violenza sulle donne. Varani il mese scorso ha tento di impiccarsi ed è stato salvato dagli agenti. Pochi giorni fa è stato trasferito a Milano.

di Edoardo Amato

Il Centro, 21 giugno 2014

Agente Penitenziario si toglie la vita a casa: è il 6° suicidio dall’inizio dell’anno


CarceriUn agente di Polizia Penitenziaria si è suicidato ieri sera nella propria abitazione a Roma rivolgendo verso di sè la pistola avvolta in un asciugamano. Lascia moglie e un figlio ed ancora non si conoscono le cause del gesto. A comunicarlo, in una nota, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece, secondo il quale salgono «a sei il numero degli appartenenti alla Polizia Penitenziaria che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno». «È una tragedia senza fine. Siamo sgomenti – spiega -, sconvolti e impietriti per questa nuova immane tragedia, anche perchè avviene a brevissima distanza di tempo dal suicidio di altri appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, in servizio a Vibo Valentia, a Padova, Siena, Volterra e Novara».

Secondo Capece «negli ultimi tre anni si sono suicidati più di 30 poliziotti e dal 2000 ad oggi sono stati complessivamente più di cento, ai quali sono da aggiungere anche i suicidi di un direttore di istituto (Armida Miserere, nel 2003 a Sulmona) e di un dirigente generale (Paolino Quattrone, nel 2010 a Cosenza). Lo ripetiamo da tempo: bisogna intervenire con soluzioni concrete, con forme di aiuto e sostegno per quei colleghi che sono in difficoltà. E, anche se nel caso specifico non si tratta di un poliziotto che lavorava in carcere, bisogna comprendere e accertare quanto ha eventualmente inciso l’attività lavorativa. Ma il Dap – conclude – non fa nulla di concreto per favorire il benessere dei nostri poliziotti: neppure fornisce i dati ufficiali sul numero degli agenti suicidi, che raccogliamo noi attraverso i nostri dirigenti sindacali presenti in tutte le sedi d’Italia»

Il Messaggero, 05 Giugno 2014

Vibo Valentia: suicida Poliziotto Penitenziario, è il quinto caso dall’inizio dell’anno


Cella Polizia PenitenziariaEnnesima tragedia nelle fila dei Baschi Azzurri della Polizia Penitenziaria, dove dall’inizio dell’anno 4 poliziotti si sono tolti la vita. “È successo ancora, ancora un poliziotto penitenziario suicida per la quinta volta dal 1 gennaio 2014.

Si è tolto la vita ieri a Vibo Valentia, nella sua auto ferma nel parcheggio del carcere, un Assistente Capo del Corpo, Francesco Corigliano, di anni 45, sposato e con due figli. Si sarebbe sparato un colpo d’arma da fuoco al petto con la pistola d’ordinanza”, commenta affranto Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe.

“Siamo tutti sconvolti e sgomenti, anche perché questo grave fatto avviene a poche settimane da analoghe tragedia, a Padova e a Siena. Ci stringiamo con tutto l’affetto e la solidarietà possibili al dolore indescrivibile della famiglia, degli amici, dei colleghi”. Capece torna a sottolineare come “una riflessione deve essere fatta sulla piaga dei suicidi tra i poliziotti: più di 100 casi dal 2000 ad oggi sono una enormità.

È un fenomeno preoccupante e va fatto qualcosa. In Italia non esistono ricerche in questo ambito, forse per colpa dei tabù culturali che ostacolano l’analisi del problema, tanto che ancora oggi è difficile quantificare il numero dei suicidi e dei tentati suicidi tra gli appartenenti alle forze di polizia e compararne i dati con la popolazione di riferimento.

Noi lo abbiamo detto e lo ripetiamo: la predisposizione di convenzioni con Centri specializzati di psicologi del lavoro in grado di fornire un buon supporto agli operatori di Polizia – garantendo la massima privacy a coloro i quali intendono avvalersene – può essere un’occasione per aumentare l’autostima e la consapevolezza di possedere risorse e capacità spendibili in una professione davvero dura e difficile, all’interno di un ambiente particolare quale è il carcere, non disgiunti anche dai necessari interventi istituzionali intesi a privilegiare maggiormente l’aspetto umano ed il rispetto della persona nei rapporti gerarchici e funzionali che caratterizzano la Polizia penitenziaria”.

“Su queste tragedie – conclude – non possono e non devono esserci colpevoli superficialità o disattenzioni, fermo restando che l’Amministrazione Penitenziaria trascura colpevolmente da anni il disagio lavorativo degli Agenti di Polizia Penitenziaria”.

Eugenio Sarno, Segretario Generale UIL – PA Penitenziari :

Un assistente capo della polizia penitenziaria in servizio presso l’Ufficio Matricola della Casa Circondariale di Vibo Valentia si è suicidato nel parcheggio del carcere sparandosi un colpo al petto con la propria pistola. L’evento si è verificato ieri i nel primo pomeriggio. L’uomo ha lasciato una lettera con saluti ai suoi cari ed ai colleghi. Le motivazioni dell’estremo gesto pare siano da riportare a dissidi con un fratello.

Ne da notizia Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari “Siamo addolorati, affranti e costernati nel registrare questo suicidio. Il quinto di un basco blu nel 2014. Anche se le ragioni del gesto pare siano direttamente connesse a ragioni di carattere familiare questa ennesima tragedia ci segna profondamente. Il triste e preoccupante fenomeno dei suicidi nelle fila della polizia penitenziaria (124 dal 2000 ad oggi) va affrontato in profondità senza cedere a strumentalizzazioni di sorta. Il duro lavoro della polizia penitenziaria può certamente incidere in queste scelte estreme ma non sempre c’è correlazione diretta con l’ambiente lavorativo. Come hanno giustamente sottolineato, giovedì scorso, il Ministro Orlando ed il Capo del Dap Tamburino, durante la celebrazione della Festa del Corpo, il meritorio impegno degli uomini e delle donne della polizia penitenziaria merita rispetto ed attenzione. Per questo – conclude Sarno – siamo certi che sia il Dap che il Ministero di Via Arenula dopo l’imminente scadenza del 28 maggio porranno al centro dell’agenda le possibili soluzioni alle difficoltà che oberano il personale di polizia impiegato nelle frontiere e nelle prime linee penitenziarie.

Giuseppe Moretti, Segretario Nazionale UGL Polizia Penitenziaria :

“Esprimiamo il nostro cordoglio per la morte dell’assistente capo della Polizia Penitenziaria in servizio presso l’Ufficio Matricola della Casa Circondariale di Vibo Valentia. Un altro suicidio che purtroppo si aggiunge al già triste elenco di colleghi che sono giunti a questo gesto estremo, talvolta perché sopraffatti dall’enorme peso del compito svolto e spesso perché non supportati in maniera adeguata”.

Lo dichiara in una nota il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, manifestando la propria amarezza “per la ridondanza di progetti di riorganizzazione della gestione detentiva che l’Amministrazione sta portando avanti senza tener conto delle difficoltà emergenti e, soprattutto, mentre continua ad essere relegata in secondo piano qualsiasi iniziativa riguardante il benessere del personale, come la necessità di attivare un efficace sostegno psicologico per aiutare gli agenti a sostenere il peso del servizio che svolgono”.

La nostra Organizzazione è da tempo impegnata con l’iniziativa “l’Ugl dà voce agli eroi silenziosi” per informare i colleghi sulle conseguenze dello stress da lavoro correlato e rinnova con perseveranza la richiesta di rimpinguare l’organico, oggi completamente carente, come ammesso dallo stesso ministro Orlando, e di rilanciare uno sviluppo formativo e professionale del personale più adeguato alle richieste dell’Europa, con l’auspicio – conclude Moretti – che l’Amministrazione intervenga al più presto in maniera fattiva.

Napoli: io, pentito di camorra, vi racconto l’orrore della “cella zero” di Poggioreale


 La “cella zero” di Poggioreale esiste. Parola di pentito. Fiore D’Avino, storico boss della camorra campana, braccio destro del padrino Carmine Alfieri ai tempi della guerra contro le truppe cutoliane della Nco e suo luogotenente a Somma Vesuviana, in quest’intervista esclusiva a Julie, racconta la sua esperienza dietro le sbarre alle prese con picchiatori e torture.

Che cosa succede nella cella zero?

“Chiariamo prima che cosa sono e come sono fatte. Sono celle lisce, dove ci sono solo le brande per dormire. Senza lenzuola”.

Chi ci va?

“Ci portano i detenuti che, secondo gli agenti penitenziari, danno segni di squilibrio. Ti fanno denudare e vola anche qualche schiaffo, ovviamente. Al mattino presto, prestissimo, ti danno la sveglia e ti mettono in mano una scopa per pulire e lavare. A controllare tutto c’è un agente che brandisce una mazza che porta all’estremità una spugna arrotolata”.

A che cosa serve?

“Serve a picchiare i detenuti. Perché la spugna non lascia segni”.

A lei è mai capitato di essere percosso con questi sistemi?

“A me no, ma sentivo spesso gridare”.

La cella zero dunque non è una invenzione?

“Quando c’ero io, i fatti si verificavano in una parte del padiglione Genova. Ricordo ancora un episodio: era una domenica del novembre 1993, eravamo in una cella del padiglione Firenze. Non sono sicuro sul numero di detenuti, ma eravamo sicuramente in molti. Io stavo scrivendo una lettera e altri guardavano Novantesimo minuto alla tv. Venne un agente dicendo di abbassare il volume. Credetemi, si sentiva a stenti. Un ragazzo di Acerra si alzò e ubbidì. La tv era quasi muta. Dopo qualche minuto, ripassò la stessa guardia e disse, urlando, che la voce era ancora troppo alta e chiuse il blindato”.

E che cosa successe, poi?

“Mi meravigliai del comportamento dell’agente e chiesi se ci fosse qualcosa di personale tra lui e il detenuto. Volevo parlare con il capoposto per farci riaprire il blindato. Gli altri compagni di cella mi dissero che sarebbe stato meglio di no. Erano impauriti. Ma alla fine li convinsi e tutti insieme chiedemmo di parlare con il responsabile. L’agente ascoltò, si fece dare tutti i nostri nominativi e dopo un po’ ritornò da noi chiedendomi di seguirlo. Io ero detenuto da circa un mese”.

Lo segue e che cosa accade?

“Appena entrai nell’ufficio al piano terra, salutai con educazione ma venni accerchiato dagli agenti. L’appuntato mi obbligò a mettere le mani dietro la schiena e in quell’istante mi arrivò uno schiaffo da uno degli agenti alle mie spalle”.

E lei?

“Sinceramente, reagii d’istinto. Gli agenti suonarono l’allarme. Arrivò la squadretta: mi immobilizzarono e trascinarono fuori dal reparto”.

La picchiarono?

“Mi perforarono un timpano e, dopo il loro trattamento, mi ritrovai varie ecchimosi su tutto il corpo. Il giorno dopo, fui visitato da un medico al quale dissi che quei segni erano dovuti a una caduta. Era una bugia, chiaramente. Dopo qualche tempo, andai in udienza al Riesame e dissi che se mi fosse accaduto qualcosa non dovevano considerarmi matto”.

E invece?

“Fui denunciato e al processo, allora avevo già iniziato a collaborare con la giustizia, raccontai la verità. Dissi che cosa era successo, ma non ho saputo più nulla. A Poggioreale, queste cose erano una prassi. C’era una squadretta apposita, ma ho sentito dire che anche in altre carceri usavano violenza fisica e psicologica. Ti gettavano secchi d’acqua fredda addosso”.

intervista a cura di Simone di Meo

http://www.julienews.it, 17 maggio 2014

Parma, Agente Penitenziario si spara alla testa. Il sindacato: «Stressato dal lavoro»


Penitenziaria 1PADOVA – Tragedia tra i «baschi azzurri» della Polizia Penitenziaria. Un Agente 47enne, Marco Congiu, in servizio presso il Carcere di Parma, padre di tre figli, è stato trovato privo di vita oggi pomeriggio nel garage della sua abitazione a Villafranca Padovana. L’uomo si sarebbe sparato alla testa per motivi ancora tutti da chiarire. Sul posto sono subito intervenuti i carabinieri che stanno cercando se l’uomo avesse lasciato messaggi per spiegare le ragioni del gesto.

A dare la notizia del suicidio è Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. «Si sarebbe suicidato per lo stress da lavoro, una circostanza che accade sempre più spesso tra i colleghi più fragili e generata dalla mancanza di personale e turni troppo pesanti. Noi ci stringiamo con tutto l’affetto e la solidarietà possibili al dolore indescrivibile della moglie, dei figli, dei familiari, degli amici, dei colleghi».