Roma: Orlando “per il Giubileo utilizzeremo i detenuti per il miglioramento della Città”


Orlando, Festa Penitenziaria“Interverremo per rafforzare in modo strutturale gli uffici e credo saranno previste norme per far fronte alla domanda eccezionale che si svilupperà sul fronte della giustizia, è avvenuto per Expo e credo avverrà anche per il Giubileo”. Così il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in occasione della firma di un accordo con la regione Lazio.

“Abbiamo cominciato a progettare un utilizzo dei detenuti per gli interventi di miglioramento della città e abbiamo fatto qualche esperienza pilota molto positiva e mi auguro che in cooperazione con gli enti territoriali si possa fare una cosa di dimensioni più ampie. Anche perché questo – come ci ha ricordato più volte il Santo Padre – è il Giubileo della Misericordia e il tema della modalità dell’esecuzione della pena – ha detto – sarà importante e al centro dell’attenzione come lo è spesso nelle parole del Papa e credo che questo lavoro possa andare esattamente in quella direzione.

Ho detto che parlare in astratto di riabilitazione, rieducazione, restituzione rischia di essere poco compresa dall’opinione pubblica che è fortemente condizionata da molte paure talvolta anche indotte e dimostrare concretamente che chi sta in carcere può dare una mano a risolvere alcuni problemi della comunità credo sia il modo migliore per affermare questi principi” ha concluso il Ministro Orlando.

Catanzaro: 2,3 milioni di risarcimenti per ingiuste detenzioni, un record negativo


carcere-620x264Catanzaro conquista il secondo posto a livello nazionale nella drammatica classifica dei rimborsi dovuti a chi è stato ingiustamente in carcere. Un record per nulla positivo, secondo solo a Palermo. Le cifre provengono dal Ministero dell’Economia, che materialmente liquida le somme.

La statistica semestrale dei fascicoli per ingiusta detenzione vede in testa proprio la città siciliana, con 35 casi e risarcimenti per 2 milioni e 790 mila euro. Seguono Catanzaro, con 2,3 milioni; Roma, con 1,3 milioni, e Napoli con 1 milione e 235mila euro.

Solo nei primi sei mesi del 2014 lo Stato ha già pagato 16 milioni e 200 mila di euro di risarcimenti per 431 casi di ingiusta detenzione nelle carceri. Un dato che si aggiunge a quello degli oltre 567 milioni di euro pagati a partire dal 1992 per le 22.689 richieste autorizzate. E ai 30 milioni e 650 mila euro sborsati per i soli errori giudiziari, cioè quelli sanciti dopo un processo di revisione che ha dichiarato innocenti soggetti precedentemente condannati in via definitiva.

Ma “al di là delle cifre – osserva il vice ministro della Giustizia, Enrico Costa – che certo servono a misurare l’entità del fenomeno, bisogna comprendere meglio quali vicende si nascondano dietro i numeri. Bisogna andare oltre i dati, per capire meglio come si produca l’errore: per questo ritengo si debba quanto prima avviare un’istruttoria in merito”.

“Il solo passaggio all’interno del carcere – afferma Costa – è un’esperienza che segna e spesso spezza una vita. Dietro i numeri ci sono storie personali che vanno analizzate non solo per prevenire il pagamento di ingenti somme da parte dello Stato, ma anche per capire perché e in che fase, principalmente, si apra la falla: se per esempio prevalga un’errata valutazione di fatti e circostanze o piuttosto una applicazione della custodia cautelare non corretta.

Noi, per esempio, non desumiamo dai dati se la percentuale maggiore di ingiusta detenzione si determini nella fase preliminare con ordinanze dei gip o in quelle successive. Ma sarebbe importante capirlo”.

Per Costa, un veicolo di possibile intervento per introdurre contromisure potrebbe essere proprio il provvedimento sulla custodia cautelare all’esame della Camera. Ma in prima battuta serve un supplemento di indagine per comprendere il fenomeno. Un’istruttoria, appunto. Che tra l’altro Costa riterrebbe utile anche su un altro versante: quello della responsabilità civile dei magistrati. L’ambito e i meccanismi non sono esattamente gli stessi, ma alla base c’è comunque un errore che può essere riconosciuto come danno, sebbene i casi di risarcimento siano stati molto pochi nel corso degli anni.

L’intenzione di Costa è di “chiedere ed esaminare anche i fascicoli relativi alla responsabilità civile per avere un quadro chiaro”, tanto più in un momento in cui l’intera materia oggetto di un disegno di legge di riforma all’esame del Senato. E l’idea di una commissione sugli errori dei magistrati piace all’Unione camere penali, che invita l’Anm, “stabilmente impegnata in un’azione di contrasto a tutto campo delle politiche di riforma del sistema giudiziario”, a riflettere sulle cifre fornite da Costa.

L’Opinione, 16 ottobre 2014

Caso Provenzano, Bernardini (Radicali): Ennesimo trattamento disumano nelle nostre Carceri


Rita Bernardini, Segretaria Nazionale RadicaliVecchio, gravemente malato, tenuto in vita da macchine e sondini, incapace di intendere e di volere, ma nonostante ciò considerato ancora un terribile pericolo pubblico. E’ questa la storia della fine di Bernardo Provenzano, ex storico boss di Cosa Nostra, mantenuto in regime di carcere duro (41-bis) malgrado le sue gravissime condizioni di salute. Una vicenda avvolta dal classico silenzio dei media, che rivela l’ennesimo caso di trattamento disumano perpetrato nelle carceri italiane e, con esso, l’inarrestabile violazione dei principi dello Stato di diritto.

Dopo aver trascorso un lungo periodo nel carcere di Parma (dove, nel 2012, ha anche tentato il suicidio), il “capo dei capi”, oggi 81enne e affetto da patologie neurologiche, è stato trasferito l’8 aprile scorso nel carcere milanese di Opera, per poi essere ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale San Paolo. Qui i medici non hanno potuto far altro che constatare le precarie condizioni di salute dell’ex padrino corleonese.

Nel certificato inviato dai medici al gup di Palermo (davanti al quale pende il procedimento in cui il boss è imputato per la trattativa Stato-mafia) e al Tribunale di Sorveglianza di Roma (competente su tutto il territorio nazionale sulle istanze di revoca del carcere duro), si parla infatti di “stato clinico del paziente gravemente deteriorato e in progressivo peggioramento“, nonché di “stato cognitivo irrimediabilmente compromesso”, per poi concludere ribadendo l'”incompatibilità con il sistema carcerario” del detenuto Provenzano.

Parole molto chiare, quelle dei medici milanesi, che fanno tornare alla mente la discutibile decisione con la quale, appena tre mesi fa, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha negato la sospensione del carcere duro chiesta dagli avvocati di Provenzano e soprattutto avallata da ben tre diverse procure (Palermo, Caltanissetta, Firenze). Nonostante l’ex boss siciliano sia ormai incapace di comunicare con l’esterno, infatti, secondo il Guardasigilli egli continuerebbe a rappresentare un soggetto “pericoloso”.

A richiamare l’attenzione sulle gravi condizioni di salute di Provenzano era stato, nelle settimane scorse, il figlio Angelo, che, dalle pagine de Il Garantista, aveva raccontato il suo ultimo incontro con il padre (“Lo chiamo tante volte, ma non riesco neppure ad attrarre il suo sguardo, perché guarda il soffitto. Se lo portiamo fuori dall’ospedale può vivere 48 ore”) e denunciato l’assurda situazione che lo costringe a non poter svolgere il compito di amministratore di sostegno affidatogli dai giudici tutelari di Milano: “Le mie nuove funzioni (compresa la richiesta di cartella clinica) non potrò esercitarle, se non con il consenso del Ministero”.

Ora, di fronte alle proteste del figlio e all’aggravarsi delle condizioni di Provenzano, l’ultima beffa: “Sebbene sia ridotto al lumicino − denuncia Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani −, il tribunale di sorveglianza di Roma ha rimandato la decisione sulla revoca del 41-bis al 3 ottobre, abbondantemente superate le ferie estive”.

Anche il principio del rispetto della dignità umana (già costantemente screditato), insomma, va in vacanza: “Abbiamo istituzioni − nota Bernardini − che, quanto al rispetto di diritti umani fondamentali, si pongono allo stesso livello di criminalità di coloro che affermano di voler combattere”.

Ermes Antonucci

Agenzia Radicale, 08 Luglio 2014

Carcere e trattamenti disumani: se è Provenzano si può ?


Bernardo Provenzano 41 bisPoche righe di agenzia: l’ “ANSA” riferisce che i legali di Bernardo Provenzano, Rosalba Di Gregorio e Maria Brucale, hanno “reiterato la richiesta di revoca del 41 bis per il loro assistito davanti al tribunale di sorveglianza di Roma, competente su tutto il territorio nazionale sulle istanze di revoca del carcere duro. Di Gregorio e Brucale hanno ribadito le gravissime condizioni di salute del boss, e depositato la decisione del giudice tutelare di Milano che ha nominato il figlio di Provenzano, Angelo, “amministratore di sostegno del padre”. Per i legali, questo atto ne certifica l’incapacità. La Procura generale, facendo riferimento ad alcune relazioni del Dap, ha invece sostenuto che il detenuto ha dei momenti, seppur rari, di lucidità. Il giudice si è riservato di decidere”.

Di questa vicenda si è occupato solo “il Garantista” di Piero Sansonetti, e tra le forze politiche, i radicali. Tutti gli altri preferiscono ignorarla, far finta di nulla. E invece se di qualcuno bisogna occuparsi e preoccuparsi, è proprio di Provenzano.

Già due anni fa i radicali, con Rita Bernardini e Alessandro Gerardi, nel corso di una visita ispettiva nel carcere di Parma, trovarono Provenzano gravemente debilitato e sofferente dal punto di vista fisico, e denunciarono come avesse irrimediabilmente perso il lume della ragione, incapace perfino di articolare anche una semplice frase di senso compiuto, e inascoltati pubblicamente chiesero come fosse possibile sottoporre a un regime detentivo così duro una persona anziana ridotta in quelle condizioni.

Nel maggio del 2013 la trasmissione “Servizio pubblico” ha mandato in onda immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza cinque mesi prima: mostravano il boss irriconoscibile, rispetto alle solite immagini diffuse e note, con un berretto di lana in testa, e incapace di comprendere quanto la moglie e il figlio gli dicevano, mentre lo visitavano in carcere.

Nella passata legislatura, quando alla Camera c’era anche una pattuglia di parlamentari radicali, si cercò di fare luce sui molti punti oscuri che contraddistinguevano (e contraddistinguono ancora) la detenzione di Provenzano. Vennero presentate numerose interrogazioni, tutte rimaste senza risposta. Quelle “domande”, quelle questioni, a due anni di distanza, sono ancora di urgente e drammatica attualità. Sul caso dell’ex boss di Corleone ancora non si è fatta la necessaria chiarezza: una quantità di detenuti continuano a essere sottoposti alle inumane misure previste dal 41 bis, misure che le convenzioni internazionali definiscono “tortura”, e che spesso, come nel caso di Provenzano, si trasformano in atti di vera e propria bestialità.

Valter Vecellio

Notizie Radicali, 23 Giugno 2014

 

Liberate Provenzano ! Domani decide il Tribunale di Sorveglianza di Roma


«ll 20 giugno discuteremo, davanti al Tribunale di Sorveglianza di Roma, se è legittimo che Bernardo Provenzano sia ancora ristretto in regime detentivo di 41 bis», scrivono sul Garantista gli avvocati difensori Rosalba Di Gregorio e Maria Brucale.  «E se il cattivo non fa più paura? – si chiedono i difensori – Se il suo corpo è immobilizzato da una lunga, gravissima malattia? Se non può più articolare una parola, neppure un pensiero? Se tutte le sue funzioni vitali vengono prodotte da macchine, tubi, sondini? Ha ancora senso tenerlo in un regime carcerario di estreme cautela e afflizione il cui solo senso normativo è impedire al capo di una organizzazione criminale ancora attiva di veicolare ordini o messaggi all’esterno?». Pubblichiamo qui di seguito la pagina di diario di Angelo Provenzano, già presente sul Garantista del 19 giugno 2014.

Angelo ProvenzanoDal “diario” di Angelo Provenzano

SIAMO AL S. PAOLO A MILANO

Nuova, ennesima, dimensione e realtà.
Sono abituato a fare ”visite” (non colloqui, perché non interagisce dal gennaio 2013) separato dal letto, con un banco di scuola, ma non posso toccarlo.
A Milano (S. Paolo) non c’è il banco fra me ed il letto, come all’ospedale di Parma: c’è il vetro del 41 bis.
Ti viene detto che, per portarlo lì, devono staccare la spina del materasso antidecubito: al mio buon cuore far durare la visita mensile anche meno dell’ora prevista.

Sono dietro il vetro e gli infermieri lo portano dall’altro lato della stanza. Entrano con lui due guardie del GOM: una a lato del letto, l’altra gli regge la cornetta del citofono.
Lo chiamo tante volte, ma non riesco neppure ad attrarre il suo sguardo, perché guarda il soffitto.
Io sono osservato e sento, dopo un quarto d’ora di sforzi e di pugni battuti sul vetro (nel tentativo vano di farmi guardare) di essere ormai arrivato.

Interrompo il colloquio, dico che va bene così.
Rientrano gli infermieri e lo portano via.
Poi le guardie mi ”liberano”, mi aprono la porta.
Devo rimuovere, per adesso, tutti il turbinio di emozioni: devo parlare col medico.
È un medico diverso da quello di Parma, ma la diagnosi e la prognosi non cambiano.
Se lo portiamo fuori dall’ospedale può vivere 48 ore… Grazie. Abbiamo parlato di un essere ”vivente” solo per tubi, macchine e terapie.

Se è così incapace, come è, ho il dovere di tutelarlo.
Vengo nominato, dal giudice tutelare di Milano, amministratore di sostegno dell’incapace.
Era mio padre!
Le mie nuove funzioni (compresa la richiesta di cartella clinica), mi spiega il GOM presente, non potrò esercitarle, se non con il consenso del Ministero.
Sono, credo, l’unico Amministratore di sostegno ”incapace”.

Angelo Provenzano

Palermo, 18/06/2014

Il Garantista, 19 Giugno 2014

Gugliotta, condannati 9 poliziotti: 4 anni per aver pestato il giovane dopo la finale di Coppa Italia


Stefano GugliottaCondannati a quattro anni di reclusione gli agenti del reparto celere della polizia che picchiarono Stefano Gugliotta. I giudici della X sezione penale, presieduta da Vincenzo Terranova, hanno riconosciuto la penale responsabilità dei nove poliziotti che la sera del 5 maggio 2010, in occasione di una finale di Coppa Italia, pestarono Gugliotta dopo che uno di loro lo aveva fermato. “Giustizia è stata fatta”, ha detto tra le lacrime il giovane in aula.

Il pm in sede di requisitoria aveva chiesto condanne da 2 a tre anni. Quella sera di quattro anni fa, il ragazzo, che stava andando col motorino a una festa, fu fermato in via del Pinturicchio, al quartiere Flaminio, vicino allo stadio Olimpico, e picchiato.

In favore di Stefano Gugliotta i giudici della X sezione penale di Roma hanno riconosciuto un risarcimento di 40mila euro. I nove agenti condannati sono stati anche interdetti dai pubblici uffici per il periodo di durata della pena a loro inflitta. Il pm nel corso della requisitoria aveva spiegato che non c’era alcun motivo di ordine pubblico che dovesse portare al fermo di Gugliotta e di un suo amico che erano in motorino.

IL VIDEO DEL PESTAGGIO

Come ricordato dal magistrato, uno stesso agente di polizia urlò contro i colleghi: “Ora basta con i manganelli”. Il tribunale ha stabilito invece che le pene sono di 4 anni. I poliziotti Leonardo Mascia, Guido Faggiani, Andrea Serrao, Roberto Marinelli, Andrea Cramerotti, Fabrizio Cola, Leonardo Vinelli, Rossano Bagialemani e Michele Costanzo sono stati riconosciuti responsabili del reato di lesioni gravi. “E’ stata fatta cadere una aggravante connessa alla cicatrice sul volto di Gugliotta”, ha spiegato uno dei legali di parte civile.

Il 9 maggio scorso, il pm Pierluigi Cipolla aveva chiesto la condanna di Mascia, l’agente che fermò Gugliotta e che inizio il pestaggio, a 3 anni di reclusione e degli altri a due anni, ritenendo che la condotta del primo avesse innescato una situazione che ha finito per coinvolgere anche gli altri otto agenti, per cui il pm aveva chiesto due anni. Secondo la ricostruzione della procura, Gugliotta, dopo aver visto a casa la partita, fu bloccato mentre si trovava in motorino con un amico in viale del Pinturicchio, abbastanza lontano dallo stadio Olimpico, teatro di scontri tra tifosi e forze dell’ordine. Il ragazzo fu prima colpito da un pugno sferrato da un agente e poi malmenato a calci e manganellate dagli altri otto che lo arrestarono, senza che ne ricorressero le condizioni, con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale. Gugliotta rimase in carcere una settimana, poi ottenne la libertà grazie al gip che ravvisò la mancanza delle esigenze cautelari.

Commossa tutta la famiglia di Stefano, dalla madre al padre e alla fidanzata e alcuni amici presenti in aula che si sono stretti in abbraccio non riuscendo a trattenere la gioia e dicendosi tutti “soddisfatti”. Agli amici Stefano, che oggi lavora come operaio specializzato in una azienda poco fuori Roma, tra le lacrime, ha detto: “Mi hanno massacrato”. “I giudici sono stati bravi – ha commentato la mamma – non si sono fatti influenzare dalle tante bugie dette nel corso del processo. Hanno sempre ascoltato e seguito tutto con attenzione”.

“Non si può mai essere contenti quando vengono condannate delle persone specie come in questo caso se agenti di polizia – ha commentato Cesare Piraino, avvocato di Gugliotta – Se l’impostazione accusatoria era corretta la pena da infliggere non poteva essere di modesta entità come chiesto dal pm”. A sostenere la famiglia Gugliotta c’erano anche Lucia Uva e Claudia Budroni, sorelle di altre persone che sarebbero decedute dopo interventi delle forze dell’ordine: il primo, morto il 14 giugno 2008, dopo essere stato trattenuto per alcune ore in una caserma dei carabinieri di Varese, l’altro, deceduto il 30 luglio 2011 dopo essere stato colpito da un proiettile sparato da un poliziotto dopo un inseguimento sul Gra a Roma. “Noi siamo tutte unite”, dice Claudia.

La Repubblica, 04 Giugno 2014

Carceri : caso La Penna; si avvicina la sentenza per i 3 Medici accusati di aver cagionato la morte del detenuto


Carcere Regina Coeli RomaÈ giunto alle ultime battute il processo a carico di tre medici del carcere di Regina Coeli, il direttore sanitario Andrea Franceschini e i suoi colleghi Giuseppe Tizzano e Andrea Silvano, accusati di omicidio colposo in relazione alla morte in cella del giovane viterbese Simone La Penna, avvenuta il 26 novembre 2009.

Il 30 aprile scorso, i giudici del tribunale di Roma, davanti ai quali si svolge il dibattimento, hanno ascoltato la deposizione di Mauro Mariani, all’epoca dei fatti direttore del penitenziario, il quale ha spiegato come è organizzata l’assistenza sanitaria nel carcere romano e quali sono e ha illustrato i compiti del direttore sanitario.

Subito dopo il processo è stato aggiornato. La prossima udienza sarà dedicata all’audizione di alcuni testimoni. Dopodiché sarà la volta della requisitoria del pubblico ministero e degli interventi dei difensori dei tre medici e del legali di parte civile.

Secondo il calendario fissato dal collegio, la sentenza di primo grado dovrebbe essere pronunciata prima della sospensione estiva dell’attività giudiziaria o subito dopo la ripresa.

Simone La PennaLa Penna, 32 anni all’epoca dei fatti, stava scontando una pena a 2 anni e 4 mesi di reclusione per spaccio di droga. Mentre era rinchiuso a Regina Coeli si ammalò di anoressia e, in pochi mesi perse ben 34 chili di peso. Secondo la procura della Repubblica di Roma, i medici, non avrebbero somministrato al giovane le cure necessarie, nonostante i loro colleghi in servizio nel carcere di Viterbo, dove era detenuto La Penna prima del trasferimento a Regina Coeli, gli avessero diagnosticato “anoressia e vomito con calo ponderale e episodi di ipokaliemia”.

Le terapie, secondo l’accusa, furono iniziate solo 43 giorni dopo il ricovero nel centro clinico del carcere romano. Un lasso di tempo, ritenuto eccessivo dagli inquirenti, aggravato dalla mancata verifica sulla effettiva somministrazione della terapia psichiatrica. Inoltre, i medici, nonostante il progressivo peggioramento delle condizioni di La Penna, non avrebbero chiesto il suo trasferimento in una struttura sanitaria specializzata nel contrasto dell’anoressia e dei suoi effetti.

http://www.viterbonews24.it, 5 maggio 2014

Fuma marijuana come “terapia”: Sentenza storica, assolto dall’accusa di spaccio


marijuanaFuma marijuana come “terapia”: A casa di Michele Russotto, 25 anni, due Agenti di Polizia trovano due piante di marijuana che lui fuma “perché affetto da problemi psichiatrici”. Accusato di spaccio, viene assolto in primo grado. E’ la prima volta in Italia che un giudice riconosce la cannabis come “terapia”

Michele ha vinto la sua battaglia “per la libertà di cura”. Con la Legge Fini – Giovanardi rischiava sino a 20 anni per coltivazione e detenzione di marijuana a fini di spaccio. Ma in realtà lui, ragazzo di 25 anni romano, coltivava erba per poter curare i suoi problemi psichiatrici. Affetto da depressione, aveva anche tentato il suicidio più volte.

Una sentenza storica perché è la prima volta che succede in Italia. Un risultato che sarà utile anche per coloro che si trovano nella stessa condizione di Michele. In ogni caso fino al 17 aprile, giorno in cui è uscita la sentenza del suo caso, la sua quotidianità non è stata semplice.

Per tre anni Michele è stato in cura portando avanti una terapia farmacologia prescritta per la sua patologia. “Io sono, come si dice in gergo, pluritentato suicida. Gli psicofarmaci mi facevano diventare un vegetale e non mi è mai piaciuto perdere il controllo. Mi sentivo sedato da Valium, Seroquel, Tranquirit, Entact e altro ancora. Per questo ho deciso di curarmi così” ci spiega. Una decisione ponderata, dopo tanto tempo passato a informarsi e a parlare con esperti. Non a caso in casa sua c’era un tipo di marijuana specifica, la “cannabis indica”, quella utilizzata proprio per lo scopo terapeutico.

I miglioramenti di Michele sono sotto gli occhi di tutti finché il 5 gennaio, alle 9, la polizia irrompe in casa sua. La porta del suo appartamento era stata lasciata aperta e una vicina, convinta che fossero entrati dei ladri, aveva chiamato gli agenti. I due poliziotti trovano in un armadio un impianto artigianale per coltivare marijuana. In tutto ci sono due piante. Michele si sente in buona fede: “Fumo per rilassarmi, sono un malato psichico” e anche la sua cartella clinica conferma quello che dice.

Ma i documenti non bastano: viene portato in questura e rimane in cella in stato di fermo per 48 ore. Con la notte arrivano anche i primi attacchi di panico. In quei momenti non ha con sé le medicine, non può chiamare lo psicologo. Poco dopo il giudice convalida l’arresto ma non dispone le misure cautelari. Così Michele torna libero ma deve affrontare un processo con l’accusa di coltivazione e detenzione a fini di spaccio, rischiando da 6 a 20 anni di carcere.

Solo dopo più di quattro mesi la buona notizia: Michele è assolto in primo grado. La documentazione fornita ha mostrato come i suoi fini fossero l’uso personale e medico. La perizia tossicologica, richiesta dall’avvocato difensore, ha confermato quanto riportato dalla sua cartella clinica. “Spero che la mia esperienza possa essere d’aiuto. Il diritto alla salute non si può negare a nessuno, si avvicina al diritto alla vita. E’ vero e proprio rispetto per l’essere umano. La libertà di scelta e di cura sono sacrosante. Lo dico per chi è affetto da patologie come sclerosi multipla o Sla e per chi, come me, è affetto da patologie psichiatriche”. Tra novanta giorni verranno rese pubbliche le motivazioni della sentenza, una delle prime dopo che la Fini-Giovanardi è stata dichiarata incostituzionale dalla Cassazione.

Operato d’urgenza Marco Pannella. Si trova in terapia intensiva al Policlinico Gemelli di Roma


On. Marco Pannellal’On. Marco Pannella, Leader dei Radicali, è stato ricoverato d’urgenza al Policlinico Gemelli di Roma dopo un malore nella notte del 21 aprile. Operato al cuore, si trova attualmente in terapia intensiva ma le sue condizioni sembrano in via di miglioramento, come confermano fonti dell’ospedale.

Il Partito Radicale ha pubblicato un comunicato stampa sul suo sito ufficiale:

Marco Pannella ha avuto un malore ieri sera e stamattina all’alba è stato operato. L’intervento di riparazione di endoprotesi vascolare aortica è andato bene. Marco sarà degente per qualche ora in terapia intensiva. Si rinvia a successivo bollettino medico.

Marco Pannella, all’anagrafe Giacinto Pannella, è nato a Teramo il 2 maggio 1930. È stato tra i fondatori del Partito radicale, di cui è stato più volte segretario. Durante la sua carriera politica ha combattuto diverse battaglie per l’introduzione del divorzio e la depenalizzazione dell’aborto, sulla legalizzazione della droga, per l’Amnistia e l’Indulto e l’umanità delle Carceri italiane e tanto altro.

La notizia ha scatenato immediatamente reazioni di solidarietà bipartisan. “Forza Marco Pannella, abbiamo più che mai bisogno di un rompiscatole come te”,  scrive su Twitter Corradino Mineo, senatore pd.  “Forza Marco (Pannella)!Non fare scherzi…”, scrive sul social network Daniele Capezzone, ex radicale, oggi con Forza Italia. Così anche Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia). “Coraggio Marco! siamo tutti Con te #forzamarco”. Casini: “Auguri Marco Pannella. E’ bello continuare a non essere d’accordo con te”. E Riccardo Nencini, segretario Psi e viceministro delle Infrastrutture: “Forza Marco, ti aspettiamo. L’Italia delle libertà ha ancora bisogno di te”.

Roma, 22 aprile 2014 ore 13,10 – L’on. Marco Pannella è stato operato di urgenza nella notte al Policlinico “A. Gemelli” per un aneurisma dell’aorta addominale, con rottura della branca iliaca sinistra; ha subito un intervento di ri-protesizzazione aortica e by pass femoro-femorale, eseguito dall’equipe di Chirurgia vascolare del Gemelli, coordinata dal prof. Francesco Snider.

Dopo l’intervento è stato trasferito nel reparto di rianimazione e terapia intensiva, diretto dal prof. Massimo Antonelli. Le condizioni cardiocircolatorie e respiratorie sono stabili con buon equilibrio emodinamico.

Il prossimo bollettino medico verrà diramato nelle successive 24 ore.

Roma: detenuto anoressico morto in cella, tre medici di Regina Coeli alla sbarra


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Omisero di informare i giudici sul profilo psichiatrico del paziente.

“L’atto in cui si parla di anoressia è una semplice relazione, non una diagnosi”. Questo, in estrema sintesi, il senso delle dichiarazioni spontanee rilasciate da uno dei medici che avevano in cura Simone La Penna, trentaduenne morto nel carcere di Regina Coeli dove era rinchiuso, dopo avere perso 34 chili in una manciata di mesi (quasi la metà del peso corporeo della vittima al momento del suo arresto).

Una morte assurda quella del giovane viterbese – condannato a due anni e 4 mesi di carcere per possesso di stupefacenti – che ha portato alla sbarra, per omicidio colposo, il direttore sanitario del carcere Andrea Franceschini e i medici Giuseppe Tizzano e Andrea Silvano che lo ebbero in cura dopo il suo trasferimento dalla casa circondariale di Viterbo. Ed è proprio sulla diagnosi di anoressia e sul mancato supporto psichiatrico al paziente che gira il fulcro del processo.

I tre imputati devono infatti rispondere del fatto che, nonostante il trasferimento di La Penna dal carcere di Viterbo fosse stato motivato con “diagnosi di anoressia e vomito con calo ponderale e episodi di ipokaliemia”, la terapia specialistica fu iniziata solo 43 giorni dopo. Un ritardo inspiegabile aggravato dalla mancata verifica sulla effettiva somministrazione della terapia psichiatrica e dal fatto che i medici nel tentativo “di contenere il progressivo deterioramento delle condizioni di salute di La Penna, omettevano di assumere, di propria iniziativa, le determinazioni mediche per favorire il trasferimento del detenuto presso una struttura sanitaria in grado di fronteggiare al meglio la patologia”.

E ancora: gli imputati, non solo ignorarono a lungo la necessità del supporto psichiatrico ma, sollecitati dal tribunale del riesame che doveva esprimersi sul possibile trasferimento in ospedale del detenuto, omisero di segnalare nella relazione il profilo psichiatrico della patologia e omisero “qualsiasi informazione in ordine al notevole e allarmante calo ponderale subito da La Penna dal momento del suo ingresso presso la struttura (il reparto medico del carcere di Regina Coeli)”, esprimendo un giudizio di compatibilità del detenuto con il regime carcerario: detenuto che morì appena 18 giorni dopo.

Una brutta storia quella della morte di Simone La Penna; una brutta storia esplosa contemporaneamente al “caso Cucchi” e che riporta in primo piano la situazione al collasso delle carceri italiane. Una morte che avrebbe potuto essere evitata e che invece è andata ad allungare il lunghissimo elenco dei “morti di carcere”.

di Vincenzo Imperitura

Il Tempo, 7 aprile 2014