Polidoro (Camere Penali) : Orlando è l’unico Ministro ad esser impegnato sulle Carceri


avv-riccardo-polidoroNonostante non vi sia stato un concreto mutamento va riconosciuto all’attuale Guardasigilli di avere posto le basi per un possibile cambiamento culturale. Il 30 novembre, l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali ha visitato la Casa circondariale di Sollicciano a Firenze. Tornava nell’istituto dopo esserci stato il 6 maggio 2015. Un disastro. Al peggio, è vero, non c’è mai fine.

L’Istituto fu aperto nel 1983. Progettato con velleità artistiche e con grandi ambizioni, avrebbe dovuto ricordare la forma di un giglio, simbolo della città di Firenze, ed ispirarsi all’idea del carcere città, con ampi spazi aperti destinati alle attività ricreative e trattamentali. Ma questa originaria ispirazione illuminata fu abbandonata ancor prima del collaudo, perché ritenuta incompatibile con le concrete esigenze di sicurezza.
Dopo poco più di trenta anni, oggi il muro di cinta è inagibile, vi sono infiltrazioni d’acqua dalla copertura e dappertutto. All’emergenza strutturale si aggiunge il sovraffollamento che non lascia ai detenuti quello spazio vitale e quel minimo di decenza indicato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Apprendere, dopo pochi giorni, che il Presidente del Consiglio ha rassegnato le sue dimissioni, che si è aperta un’ennesima profonda crisi istituzionale, che è stato conferito un nuovo mandato per un Governo di “scopo”, mentre in Parlamento giace la riforma dell’Ordinamento Penitenziario, lascia cadere anche quel minimo di speranza che si poteva nutrire per l’affermazione di diritti da tempo cristallizzati nella Carta Costituzionale.
Intendiamoci, non era la riforma che avrebbe potuto creare aspettative reali – da oltre 40 anni, infatti, molte delle norme in materia non vengono rispettate – ma l’impressione era che finalmente se ne parlasse in termini diversi, come se si fossero compresi valori, principi ed idee sino ad oggi del tutto trascurati.

Nonostante non vi sia stato, infatti, un concreto e sostanziale mutamento delle condizioni di detenzione e Sollicciano ne è la prova, va riconosciuto all’attuale Ministro della Giustizia di avere posto le basi per un possibile mutamento culturale in ordine alle innumerevoli problematiche che affliggono l’esecuzione penale. Un percorso difficile e lungo, appena iniziato e che aveva trovato, negli Stati Generali, la rotta da seguire.
Nessun Ministro aveva, in precedenza, dedicato tanto impegno all’impopolare tema del carcere, nel tentativo di trovare soluzioni praticabili per porre fine agli abusi che l’Europa ci ha contestato. Un solitario impegno istituzionale che aveva finalmente dato ascolto alla voce, o meglio al grido di dolore, dei radicali, delle associazioni e, fra gli addetti ai lavori, degli Avvocati che da sempre hanno denunciato la violazione di diritti fondamentali. In un recente convegno il Ministro ha manifestato la sua “frustrazione” per non vedere ancora presi in considerazione i lavori degli Stati Generali. Delusione che è anche delle oltre 200 persone che all’iniziativa hanno partecipato, mossi esclusivamente da una sana passione civile.
Cosa accadrà ora ? Il vento che spira non è favorevole. La politica internazionale sta percorrendo mari impraticabili per il debole vascello dei diritti dei detenuti, che, appena restaurato e messo a mare, rischia di naufragare ancora.

Riccardo Polidoro, Avvocato, Responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane

Il Dubbio, 15 dicembre 2016

Presidente lei mi ha dato l’ergastolo perché lo dice la legge ma son sicuro che il suo cuore era contrario


braccio cellaIl giudice Fassone e un suo ergastolano si sono scritti per 26 anni. Esperienza condensata in un libro. “Presidente, io di libri non ne ho letti mai, ho letto solo atti processuali, ma questo mi sforzerò di leggerlo e anche di capirlo” (…) Verso la fine della lettera mi tramortisce: “Presidente, io lo so che lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge, ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare”.
Tramortisce anche noi questa riflessione che il giovane ergastolano Salvatore affida alla lettera con cui risponde a quella inviatagli dal giudice che lo ha condannato. Letta la sentenza che pone fine a venti mesi di maxi processo alla mafia catanese, il presidente della Corte d’Assise Elvio Fassone torna a casa, ma la notte lo sorprende inquieto, popolando il sonno di immagini e frasi spezzate: “Uno di questi fotogrammi rifiuta di spegnersi, quello di Salvatore che mi dice: “Se io nascevo dove è nato suo figlio, ora…”.
Nell’atmosfera un po’ drogata di questo sonno malato formulo un pensiero: “domani gli scrivo”. Un’irrequietezza che non si attenua se non quando il giudice, il mattino successivo, si mette al computer e incomincia con l’attacco di prammatica “Caro Salvatore”.
Tra quelli della sua biblioteca, inoltre, cerca un libro con cui accompagnare il messaggio, e sceglie Siddharta perché alla mente gli ritorna un suo passo: “Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore”. È da questo scambio epistolare che nasce Fine pena: ora (Sellerio, 2015) il libro di Elvio Fassone (Torino, 1938), che è stato magistrato e componente del Consiglio superiore della magistratura.
Senatore per due legislature, è autore di numerose pubblicazioni in materia penitenziaria e su temi politico-istituzionali (Piccola grammatica della grande crisi, 2009; Una costituzione amica, 2012). Nel 1985 a Torino si celebra un maxi processo alla mafia catanese che dura quasi due anni. Tra i condannati all’ergastolo c’è Salvatore con il quale il presidente della Corte d’Assise stabilisce un rapporto di reciproco rispetto, che poi si approfondisce attraverso una corrispondenza durata 26 anni, e che continua tuttora.
Il 14 dicembre alle 20.30 al Museo diocesano tridentino una lettura scenica di “Fine pena: ora” porterà il pubblico tra le pieghe di una storia che si interroga su come conciliare la domanda di sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di qualsiasi condannato. Insieme a Fassone interverrà Enrico Franco, direttore del Corriere del Trentino, Corriere dell’Alto Adige, Corriere di Bologna, mentre la lettura scenica sarà a cura di Maura Pettorruso e Stefano Pietro Detassis. L’iniziativa si colloca nell’ambito della mostra Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere, in corso al Diocesano fino al 27 marzo.

Presidente, il “Fine pena: ora” evocato dal titolo del libro capovolge il punto di vista del “fine pena: mai” scolpito nella scheda personale di Salvatore. Perché, dopo tanti anni, ha deciso di scrivere questa storia?

“Quando ho appreso del tentato suicidio di Salvatore mi sono chiesto se e come io potessi fare qualche cosa per lui, e raccontare la sua storia, illuminante e coinvolgente, mi è parsa la sola via. In un primo tempo Salvatore si è mostrato abbastanza restio ad acconsentire, però gli ho fatto presente che doveva fare i conti con una situazione giuridica pesante: era diventato un “ostativo”, non in relazione ai fatti per cui ebbe la condanna dalla nostra Corte di Assise, che erano anteriori alla legge del 1992″.

Che cosa dispone questa legge, conseguente gli assassinii di Falcone e Borsellino?

“Lo Stato, a quel punto, ritenne indispensabile dare un giro di vite alla disciplina e prescrisse che coloro che venissero condannati per reato di associazione mafiosa non fossero più ammissibili a tutti i benefici penitenziari, a meno che non diventassero dei collaboratori di giustizia. Pochissimi accettarono questa via, perché anche i detenuti hanno un codice di onore: “Io non posso barattare la mia libertà con la galera di un altro”, questo il senso che lo sorregge, e che magari non approviamo”.

Nel libro lei parla di una sorta di gioco di specchi in cui lo sforzo di prevenire genera costrizione e rabbia, la rabbia altra prevenzione, in una spirale che si autoalimenta.

“Il male ha la diabolica capacità di perpetuarsi, producendone dell’altro, e ciò accade anche a livello istituzionale. La sanzione penale non è un’iniquità in sé, certi fatti chiedono una risposta della comunità. Il singolo può essere sollecitato a perdonare secondo il suo livello di moralità, la comunità non credo possa essere richiesta subito di perdonare, nel rispetto del binomio “c’è un tempo del fatto e poi un tempo dell’uomo” che espia e detta la flessibilità, il perdono collettivo e anche istituzionale”.

Un movimento di opinione crescente chiede di ripensare non tanto l’ergastolo in sé ma quello ostativo. Qual è il suo pensiero in proposito?

“È bene alimentare questo movimento di opinione riflessiva che si contrappone al movimento di autodifesa esasperata. Non possiamo dimenticare che avvengono fatti di tale gravita e atrocità che sommuovono il pensiero di uomini e donne comuni, e producono un atteggiamento sintetizzato nell’espressione “bisogna rinchiuderli e buttare via la chiave”. Per fortuna, di fronte a questo movimento di reazione scomposta, si sta incrementando quello che chiede alla pena di essere giusta, per evitare che lo Stato, che è giusto nel momento in cui sanziona, diventi ingiusto”.

Gabriella Brugnara

Corriere della Sera, 8 dicembre 2016

Carceri, ancora un suicidio. 32enne si impicca nella Casa di Reclusione di Alessandria


Casa di Reclusione di AlessandriaHa deciso di togliersi la vita impiccandosi alla finestra della cella della Casa di Reclusione San Michele di Alessandria dov’era detenuto da pochi giorni per scontare una condanna definitiva a sette anni per vari reati.
È accaduto ieri pomeriggio, protagonista un detenuto straniero di nazionalità marocchina. La notizia è diffusa dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria.

In un comunicato Vicente Santilli, segretario regionale Sappe per il Piemonte, spiega: “L’uomo, di 32 anni, era arrivato in carcere tre giorni fa per scontare una pena di sette anni ed era ristretto provvisoriamente nella sezione detentiva Polo universitario.
Si è suicidato, presumibilmente verso le 16:45, impiccandosi con i lacci delle scarpe alle sbarre della finestra della propria cella. L’agente di servizio, subito dopo aver fatto l’apertura delle celle della sezione per la socialità, si è accorto immediatamente dell’accaduto e ha dato l’allarme. Purtroppo sono stati vani i tentativi di soccorso per rianimare il detenuto”. Il suicidio del detenuto nel carcere di Alessandria deve far riflettere sulla situazione generale degli istituti di pena. Il Sappe evidenzia che, alla data del 30 settembre scorso, “nella Casa di Reclusione San Michele erano detenute 313 persone rispetto ai 260 posti letto regolamentari: 25 erano gli imputati, 288 i condannati”.

Donato Capece, segretario generale del Sappe, commenta: “Questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione”.
Insomma “negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 18mila tentati suicidi ed impedito che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”, conclude il leader nazionale del primo Sindacato del Corpo. “Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata”.

Adriano Sofri: L’ergastolo ostativo in Italia è uno scempio ! Una pena di morte centellinata


Adriano-SofriLe armi, Trump, e quel sondaggio sulla pena di morte in America. Un accreditato sondaggio annuale, di cui ho letto sul New York Times, avverte che per la prima volta nella storia la maggioranza dei cittadini degli Stati Uniti si dichiara contraria alla pena di morte. La trovo una formidabile notizia, sostanzialmente e simbolicamente. Verrà il giorno in cui si conoscerà il nome dell’ultimo giustiziato, e forse non è lontano. Nel 1994, poco più di vent’anni fa, era l’80 per cento degli americani a dichiararsi in favore della pena capitale.

Le tendenza opposta non ha fatto che crescere poi, per una serie di cause: lo spaventoso numero di assassinati legali dimostrati poi innocenti, le peripezie dei metodi dell’omicidio legale, i costi finanziari eccetera, ma soprattutto il turbamento crescente per la contraddizione fra quella pratica e una società che si vuole civile. Questo complicato intreccio di cause era riassunto dall’Economist a gennaio (ne trovate un resoconto sul Post.it): è interessante che a quella data si valutasse che i favorevoli alla pena di morte fossero ancora il 60 per cento. Ci sono due ragioni peculiari per congratularsi della notizia sul sondaggio: che viene in un periodo in cui particolarmente calda è la discussione sul “libero” spaccio di armi, e nel periodo in cui tiene metà della scena un personaggio come Trump. La speranza sul progressivo rigetto della schifezza della pena di morte è amareggiata da un suo complemento americano ma non solo americano. Là le voci contrarie alla pena capitale ricorrono spesso all’argomento del carcere inesorabilmente a vita, una pena di morte centellinata.

Non solo americano, perché come si sa, se solo lo si voglia sapere, l’Italia ha introdotto una mostruosa dizione giuridica, l’ergastolo cosiddetto “ostativo”, che cioè non può mai avere fine per quanto tempo trascorra e quali che siano i cambiamenti attraversati dal condannato, salvo che questi “collabori”, cioè denunci altre persone. Condizione ulteriormente mostruosa e caricatura del pentimento beninteso.
L’ergastolo “ostativo” è una micidiale violenza fatta al dettato e allo spirito della Costituzione. Oggi lo denunciano prima di tutto con voci intelligenti e sconvolgenti molti di quegli ergastolani che hanno saputo riscattarsi in carcere e nonostante il carcere, e con loro “i soliti radicali” (anch’io) e un numero crescente di persone che hanno professionalmente a che fare con la giustizia, la galera e i detenuti: giuristi, magistrati, avvocati, dirigenti e personale di carceri. Il Papa, anche, che al suo Stato ha provveduto in fretta. Oggi succede anche che all’ergastolo “ostativo” siano contrari anche i maggiori responsabili dell’amministrazione penitenziaria e del ministero della Giustizia. Bel paradosso, cui contrasta l’estensione progressiva e quasi per inerzia dell’ergastolo “ostativo” a categorie di condannati diverse da quelle che pretesero di giustificarne l’introduzione. Americani e italiani, ancora uno sforzo.

Adriano Sofri

Il Foglio, 5 ottobre 2016

Spes contra spem, Capozzoli : La cultura vince su tutti i fronti, anche contro la Mafia


giancarlo-capozzoliSpes contra spem è il docufilm presentato all’ ultima mostra del cinema di Venezia, prodotto in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, Indexway e Radio Radicale e girato dal regista Ambrogio Crespi.

E’ un documentario sulle storie di criminali, mafiosi e camorristi, privati della libertà personale presso il carcere di Opera, ma è sopratutto un documentario sulla speranza di queste persone di immaginare ancora il proprio futuro, fuori dalle mura del carcere.

Sulla speranza di loro, intervistati, che sono condannati all’ ergastolo ostativo.

L’ ergastolo è ostativo quando sono negati i benefici e le misure alternative previste dagli articoli 17 e 22 del codice penale.

Possibilità prevista dall’ Art. 4 dell’ Ordinamento Penitenziario, “Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti”.

Un ergastolano, lo scrittore Musumeci, ha lanciato una campagna per raccogliere firme a favore di una proposta di iniziativa popolare per l’ abolizione di questo ergastolo, in virtù di quanto prescritto dall’ art. 27 della Costituzione Italiana che prevede la rieducazione del condannato come fine ultimo della pena e vieta trattamenti contrari al senso di umanità, proposta rilanciata dalla Associazione A buon diritto.

Questo docufilm prende il titolo dal VI Congresso di Nessuno tocchi Caino, tenuto nel carcere di Opera, a Milano, e il titolo è tratto dalle parole della Lettera di San Paolo ai Romani su Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza”.

Protagonisti sono i detenuti che hanno aderito a questo progetto, nove in tutto. Di età diversa. Entrati in carcere giovanissimi, sbarbati. E in carcere poi diventati anche nonni. Sono giovani nonni…

Il regista sembra che non abbia voluto sapere nulla dei reati commessi, per non essere condizionato. “Sapevo che erano persone che avevano commesso reati molto gravi, ma poco altro”.

Io preferisco chiedere invece direttamente alle persone con cui lavoro all’ interno della Casa Circondariale di Rebibbia dei loro reati proprio per abbattere questi muri….

Questa proiezione è comunque stata una esperienza straordinaria anche grazie all’ intervento del Ministro della Giustizia Orlando il quale è seriamente sensibile al tema delle carceri. Se da un lato, infatti, il docufilm, vuole fare emergere le problematiche legate alla questione dell’ ergastolo ostativo, da un altro lato vuole “semplicemente” affrontare e affronta in maniera diretta il problema delle carceri in Italia.

C’è da dire che il carcere di Opera sta diventando davvero un modello, nonostante sia un carcere di Alta Sicurezza. Ma grazie soprattutto all’ opera del Direttore Siciliano sta cambiando sostanzialmente a partire dal rapporto assistenti-detenuti.

Quello che voglio dire è che è in atto una vera trasformazione culturale, messa in atto dal Direttore. Se generalmente il rapporto “guardie”- detenuti è un rapporto basato sulla reciproca diffidenza, oggi, ad Opera, si tenta quantomeno un approccio culturale diverso, che sta portando e in parte ha già portato ad un cambiamento radicale nel rapporto tra queste due figure apparentemente incompatibili. Alla diffidenza sostanziale e solita, si è sostituito lo scambio, la confidenza.

Questo approccio diverso ha condotto ad una cultura diversa nei confronti del detenuto, grazie soprattutto al dialogo.

Il Direttore si è speso e continua ad impegnarsi affinchè questo cambiamento in atto sia soltanto l’ inizio di un cambiamento reale.

Cambiamento che è accaduto già nel detenuto stesso.

Il detenuto è cambiato, ha abbandonato per così dire, la sua parte “nera”, per usare le parole del regista, in vista un effettivo ritorno alla vita. Gli assistenti/ guardie devono, nell’ ottica del Direttore, contribuire a questo cambiamento sostanziale e reale. Ma non è semplice.

Una persona privata della sua libertà è inevitabilmente “duro”, rigido. E lo è anche per quella che è stata la sua condotta precedente, la sua vita precedente.

Questo è l’aspetto davvero fondamentale in vista della rieducazione prevista e sancita dalla Costituzione.

Nel Carcere di Opera il detenuto è davvero cambiato a partire da questa relazione altra con gli assistenti.

Oggi c’è confidenza, e i detenuti sono orgogliosi di confidarsi con loro. Confidarsi nel senso proprio di confidenza, consigli che chiedono agli assistenti stessi.

Questo emerge dalla visione stessa del docufilm.

E’ un aspetto decisivo, come si diceva, ed è la svolta che ci si aspetta da un mondo chiuso come quello dello carcere.

E’ l’ unico modo anche, ed è questa l’ idea di Crespi, per riportare effettivamente nella legalità, chi ha vissuto ai margini della società.

Il pericolo, altrimenti, è rendere ancora più pericoloso chi lo era già prima di entrare in carcere.

Pertanto la Cultura vince su tutti i fronti, intanto come unico argine contro la Mafia.

Concretamente.

Ed inoltre questo nostro docufilm  lascia emergere un altro aspetto che mi sembra molto importante anche: sono i detenuti stessi che letteralmente smontano, distruggono con le loro parole, con il loro vissuto raccontando, esponendo, anche con la loro speranza di altro, di una vita diversa, il mito del criminale stesso.

È un aspetto determinante. Chi come noi racconta queste storie ne coglie appieno l’ importanza.

Il rischio è che i giovani delle periferie degradate e dimenticate, con poca o nessuna cultura, che non hanno accesso al sapere e allo studio, prendano i criminali come”modello”.

Esattamente.

Mi sembra essenziale che, grazie all’ arte, al cinema e alla cultura in generale, si possono fare dei passaggi sostanziali in vista di un reale ripensamento del sè e di reale conoscenza di se stessi, che apre nuove strade e porta ad un allontanamento vero dal rischio di emulazione della criminalità.

Le persone protagoniste del docufilm sono “pentiti dell’ anima”. Non si pongono come modelli per i ragazzi “fuori”, tutt’altro.

Non pongono più dei modelli criminali.

L’ arte, la Cultura, il cinema e anche questo docu sono “un grande lenzuolo bianco contro la Mafia” parole che Melillo, capo gabinetto del Ministro Orlando ha usato proprio per dire di questo film.

Raccontare queste storie dicevo.

Storie negative.

I detenuti che raccontano nel film, raccontano degli sbagli fatti, di non sapere cosa sia la felicità.

E’ facilmente comprensibile come queste parole pronunciate da un detenuto abbiano una forza dirompente. Ma mostrano anche l’ aspirazione e la speranza verso un cambiamento reale e profondo nella società stessa.

E’ un film in questo senso educativo che potrebbe essere proiettato anche nelle scuole.

Anche se credo non sia semplice.

Non si vuole sentire parlare di carcere e di detenuti. Ma quest’ opera ha cercato di dimostrare invece che una svolta, un cambiamento reale e radicale è possibile e concreto.

Cambiamento che è il primo obiettivo dell’ Arte e della Cultura.

La cultura o porta a un radicale mutamento o non è cultura.

Riuscire a intervenire a livello culturale al fine di riuscire a cambiare i giovani, e proporre modelli culturali differenti  è un bel cambiandoti culturale anche da parte di chi progetta cultura.

É quello che tento di fare anche io con i miei laboratori integrati con i giovani studenti della facoltà di lettere e filosofia di Tor Vergata, a Roma, e i “ragazzi” reclusi presso la Casa Circondariale…

Il cinema, il teatro servono a cambiare. Assolutamente.

Noi siamo In questo senso responsabili, abbiamo il diritto e il dovere di mostrare ai giovani che esistono possibilità altre.

É l’ unico modo in cui la criminalità può essere efficacemente combattuta e marginalizzata.

É una bella scommessa.

Ma sono convinto, anche dopo aver visto questo progetto, che chi è cambiato deve poter aiutare gli altri. E non marcire in galera ad aspettare che il tempo passi.

Spes contra spem è un progetto che si radica nella storia e nella esperienza di Nessuno tocchi e dei Radicali in generale.

Ecco, Pannella è presente nel film.

E’ nel film la lettera ultima che il leader radicale ha scritto a Papa Francesco sul tema delle carceri.

L’ impegno dei Radicali in favore dei diritti dei detenuti è ben importante. All’ inizio di settembre si è tenuto il congresso straordinario all’ interno della Casa Circondariale di Rebibbia.

La scena nel docufilm è essenziale, sacra quasi.

Una cella illuminata da quattro luci, Quasi a ricreare una sacralità che in un luogo del genere, è ben davvero difficile da trovare.

I detenuti, nell’aprirsi, nel raccontarsi, si sono commossi, mi confida il regista.

Erano, sono sinceri davvero.

Distruggere la figura del criminale, è andare anche contro loro stessi, contro il loro essere stati criminali, contro l’ aver creduto in certi valori o dis-valori piuttosto che in altri.

Raccontano del loro vissuto recluso, delle loro sensazioni, emozioni.

Si sono lasciati andare.

Quando iniziano a parlare sembra che non smetteranno più.

Sono perlopiù ragazzi/uomini ai limiti dell’ analfabetismo.

Se la Cultura è davvero uno degli aspetti più importanti rispetto all’ animo, allo spirito di una persona, lo è anche e soprattutto dove è del tutto assente.

In carcere molti, quasi tutti, hanno una cultura davvero basilare. Minima.

La cultura serve a combattere sia all’ interno del mondo penitenziario, sia e soprattutto fuori, per contrastare combattere e sconfiggere i fenomeni mafiosi, la criminalità.

Dopo Cesare deve morire dei fratelli Taviani, questo tuo docufilm sul carcere. Che è un modo dal mio punto di vista di sensibilizzare la società civile rispetto ad un mondo altrimenti chiuso e dimenticato.

Questo tipo di opere serva a porre una luce diversa su un mondo che viene raccontato sempre e solo in “negativo”. Si parla di carcere solo quando un detenuto è evaso, o solo quando un detenuto è picchiato.

Questo film ne racconta in maniera positiva.

Un detenuto non è un criminale.

Se il film dei Taviani rappresenta esattamente la risposta culturale contro la criminalità stessa, questo docufilm dà voce alle loro parole.

Parole che hanno un effetto micidiale in questo racconto.

Tirare fuori un criminale in meno, è questa l’ intenzione di chi realizza progetti importanti come questo.

Giancarlo Capozzoli *

*Giornalista, regista e scrittore teatrale

Radicali e Camere Penali in visita alle Case Circondariali di Paola e di Cosenza


Carcere di PaolaProseguono le visite dei Radicali in tutti gli Istituti Penitenziari della Calabria. Nella giornata di domani, domenica 3 gennaio 2016, una delegazione del Partito Radicale composta da Giuseppe Candido, Rocco Ruffa, Emilio Enzo Quintieri, Claudio Scaldaferri, Ernesto Biondi e dagli Avvocati Sabrina Mannarino e Carmine Curatolo, questi ultimi in rappresentanza della locale Camera Penale di Paola – aderente all’Unione delle Camere Penali Italiane (Ucpi), visiterà nella mattinata la Casa Circondariale di Paola sita in C.da Deuda sul Tirreno Cosentino. Nel pomeriggio, invece, la delegazione radicale composta anche da Gaetano Massenzo e Valentina Moretti, visiterà la Casa Circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza sita in Via Giacomo Mancini.

Entrambe le visite, su richiesta dell’On. Rita Bernardini, già Deputato e Segretario di Radicali Italiani, sono state autorizzate dal Dott. Santi Consolo, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Durante le visite ai predetti Istituti Penitenziari saranno verificate le condizioni di detenzione ed il trattamento praticato dall’Amministrazione Penitenziaria nei confronti di tutte le persone private della libertà.

Nei giorni scorsi i Radicali hanno effettuato ulteriori visite alle Carceri di Rossano, Castrovillari, Locri, Catanzaro, Crotone, Palmi, Reggio Calabria e Vibo Valentia. Martedì 5 gennaio si recheranno presso la Casa di Reclusione “Luigi Daga” di Laureana di Borrello in Provincia di Reggio Calabria.

Padova, Natale in carcere, alla ricerca di un po’ di speranza. Lettere degli Ergastolani ostativi


Casa Circondariale di PadovaIl Papa ha deciso che i detenuti passeranno la Porta santa del Giubileo ogni volta che varcheranno la soglia della loro cella, a Padova poi anche la cappella del carcere Due Palazzi è Porta santa. Ma troppe persone in carcere vivono ancora SENZA SPERANZA. Sono i condannati all’ergastolo, una pena che Papa Francesco ha definito “pena di morte nascosta”, e in particolare all’ergastolo ostativo, l’ergastolo cioè che non concede vie d’uscita a meno che la persona condannata non collabori con la Giustizia, ma in tanti non lo vogliono fare per non rovinare la vita dei propri cari.

Assieme alle testimonianze di ergastolani, per aprire uno spiraglio di speranza riportiamo anche le parole di Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dai terroristi nel 1978: “Ogni essere umano è, in quanto tale, titolare di dignità e di diritti; anche se in uno o più momenti della vita ha scelto il male, se è profugo, povero, violento, barbone, straniero, disabile, tossicodipendente, malato, giovane e ribelle. La nostra Repubblica nasce dal rifiuto di ogni totalitarismo per il quale – di destra o di sinistra che sia – le persone non sono niente. Per noi, invece, sono tutto. Ad ognuno di noi, noi che siamo la Repubblica, la responsabilità di non lasciare indietro nessuno”.

Il Mattino di Padova, 29 dicembre 2015

Il mio orologio ha un orario fisso, l’orario dell’ergastolo ostativo

Questa mattina mi sono alzato alle 5, fuori era ancora buio e mi sono messo a pensare alla mia vita passata, a quanto tempo ho trascorso in questi posti e quanto ancora ci dovrò restare. Sono passati tanti anni da quel lontano 1994 e per fortuna gioisco ancora quando, quelle rare volte, il sole riesce a spaccare le giornate gelide dell’inverno di Padova. Vorrei essere anch’io forte come il sole e risorgere ogni giorno, ma da 21 anni l’inverno è entrato nel mio cuore e nel cuore dei miei cari senza mai abbandonarci.

Il tempo si è fermato per sempre, il mio orologio ha un orario fisso, l’orario dell’ERGASTOLO OSTATIVO. I primi tempi sognavo che la mia situazione potesse cambiare, cercavo di farmi forza per lottare e facevo di tutto per essere il sostegno morale della mia famiglia, ma purtroppo quell’orologio mi ha dimostrato di essere più forte di ogni mia volontà, di ogni mio sogno e desiderio. Per tanti anni ho allenato il mio fisico nella speranza vana di contrastare i segni dell’invecchiamento sul mio corpo, ma oggi mi rendo conto che il ciclo della vita è inarrestabile, niente e nessuno può fermare lo scorrere degli anni e l’amarezza di vederli scorrere nel peggiore dei modi.

Oggi mi rendo conto che quello che mi salva da tutto questo orrore è l’amore di mia figlia e di mia moglie, che sono state più forti di tutti questi anni di carcere, anche se per resistere a questo lungo calvario stanno pagando un caro prezzo, visto che hanno scelto di starmi vicino seguendomi nelle varie carceri che mi hanno fatto girare su giù e per l’Italia, come un pacco postale e per motivi che non avevano a che fare con i miei comportamenti. A volte mi chiedo se si sono mai rese veramente conto che dovranno seguirmi per tutta la vita poiché io da qui non uscirò vivo, perché il mio ergastolo ostativo non me lo permetterà, perché chi è condannato a questa pena è ritenuto colpevole per sempre, irrecuperabile.

Vorrei solo trovare la forza e la lucidità di dire a mia moglie e a mia figlia che la speranza non ha nulla di concreto a cui aggrapparsi, ma non vorrei che anche loro smettessero di sognare come ho fatto io. Sicuramente il fatto di non essere mai riuscito a spiegare chiaramente che cos’è l’ergastolo ostativo ai miei cari non mi fa stare bene, ma è anche vero che sono sempre stato convinto che l’ergastolo ostativo fosse una condanna fatta per errore e che uno stato democratico come l’Italia, culla del cristianesimo, non potesse fregiarsi di una pena così disumana, visto che ha sempre lottato in prima linea contro le torture e la pena di morte, quindi pensavo che sarebbe stata rivista e con questa ferma convinzione ho sempre temporeggiato. Comunque, non voglio rassegnarmi a questa pena di morte mascherata così come l’ha definita Papa Francesco e continuo a sperare che al più presto venga rivista, così che non mi sentirò di essere stato un bugiardo nei confronti di mia moglie e di mia figlia, dalle quali traggo ancora oggi la forza necessaria per continuare a lottare.

Gaetano Fiandaca

La mia famiglia vive a 1.800 Km. di distanza e fare colloqui diventa un’impresa

Dopo sei anni di regime duro del 41bis sono stato trasferito nella Casa di reclusione di Padova, nella sezione Alta Sicurezza, adesso sono tre anni che mi trovo in questo istituto. La mia famiglia vive a 1.800 Km. di distanza (Gela) e fare colloqui diventa un’impresa, specialmente per questioni economiche. Tutta la mia famiglia, compresi genitori, fratelli e sorelle, sono persone oneste e lavoratori che vivono di stipendio e non sempre hanno un posto fisso di lavoro, quindi ognuno ha i suoi problemi e non possono certo pensare a me. I sacrifici per me li fanno mia moglie e i miei figli.

Ho fatto l’ultimo colloquio nel mese di luglio e spero in Dio che sotto le feste di Natale mia moglie e uno dei miei figli riescano a racimolare la somma necessaria per venirmi a trovare. Purtroppo, ogni volta che faccio colloquio non c’è la possibilità che vengano a trovarmi tutti insieme, mia moglie e i miei tre figli, solo per due persone spendono intorno ai 1.500 euro, tra biglietto dell’aereo e albergo, poiché sono obbligati ad arrivare la sera prima del giorno di colloquio. E così, due volte l’anno, al massimo tre, riesco a fare un colloquio di sei ore… ma cosa sono sei ore in confronto a sei mesi che non vedi la tua famiglia? Quelle sei ore passano come se fossero sei minuti. Non vedo la figlia più piccola da oltre un anno. Nessuno può capire il cuore di un padre come si può sentire, solo chi ha i miei stessi problemi mi può capire. Aumentare le ore di colloquio non ucciderebbe nessuno. Io sono stato privato della libertà perché ho commesso un reato, ma la mia famiglia di che colpa si è macchiata? Mia moglie e i miei figli alla fine del colloquio la prima cosa che dicono è: “Sono già passate sei ore?” e vanno via nascondendo le lacrime dietro un sorriso e chiedendosi quando ci rivedremo di nuovo. E che dire delle telefonate? Una a settimana e per la durata di dieci minuti da dividere con mia moglie e i miei tre figli, il tempo di salutarci e domandarci come stai e subito dall’altro lato del telefono ti dicono che la telefonata sta per terminare. Durante questa mia detenzione, ho incontrato una persona che negli anni passati era stata detenuta in Spagna e mi diceva che lì se avevi i soldi ti caricavi la scheda telefonica e potevi chiamare la famiglia ogni volta che volevi nei giorni della settimana e per la durata che volevi. Perché non poterlo fare anche qui in Italia?

Domenico Vullo

Non c’è pena di morte o ergastolo ostativo che possa frenare chi è pieno di odio.

La notizia delle stragi di Parigi mi ha portato a riflettere perché anche io sono padre e nonno. È indiscutibile che i conflitti alimenteranno odio e vendette. Una volta quei paesi geograficamente distanti da noi tenevano per sé anche le loro cose negative, e i conflitti restavano lontani da noi, invece oggi il mondo ha accorciato le distanze, e siamo diventati una miscela esplosiva. Io che sono da ventitré anni in carcere mi accorgo di questa miscela vedendo come è cambiata la popolazione detenuta dai primi anni del mio arresto, oggi in ogni sezione troverai detenuti di etnie diverse. E lo stesso è nelle grandi città del nostro paese e molti di questi stranieri, in particolare i giovani, si sentono ghettizzati, come lo sono i nostri nipoti. Io quando faccio colloquio e vedo il mio nipotino di sette anni fissare gli agenti e nei suoi occhi leggo l’odio, finisco per rimproverare mia figlia, che però mi dice “Papà, mai nessuno di noi si è permesso di parlare male delle istituzioni, ma nella sua scuola la maggior parte dei bambini ha un parente in carcere e sicuramente parleranno di queste cose”. La mia grande paura è che si stia spingendo le nuove generazioni verso l’estremismo e in particolare nella braccia di organizzazioni come ISIS, non c’è pena di morte o ergastolo ostativo che possa frenare chi è pieno di odio. Lo Stato si deve preoccupare di quella generazione dell’età di mio nipotino, di quei bambini che fin da piccoli vengono additati come i figli o nipoti del criminale. Lo Stato vincerà la sua battaglia quando toglierà dallo sguardo di quei bambini l’odio verso le istituzioni. Penso che qualcuno debba riflettere pensando a tutti quei bambini che crescono vedendo il proprio genitore dietro un vetro blindato e che non hanno nessuna speranza di poterlo abbracciare in libertà, anche dopo che ha scontato trent’anni di detenzione, perché condannato all’ergastolo ostativo. Togliere l’odio da quegli occhi innocenti significa costruire un futuro sereno, un primo passo è che lo Stato faccia vedere un volto umano e non implacabile e punitivo.

Tommaso Romeo

Napoli, Ispezione del Consigliere Regionale Moxedano (Idv) : “a Poggioreale gravi criticità”


On. Francesco Moxedano CC Poggioreale“Questa mattina mi sono recato al penitenziario di Poggioreale, dopo l’incontro avuto con il direttore del carcere dott. Antonio Fullone, unitamente alla dott.ssa Tocco garante dei diritti dei detenuti, al direttore sanitario del centro clinico dott. Di Benedetto, alla dott.ssa Annalaura De Fusco vicedirettrice e al comandante Colucci Pasquale ho visitato il centro clinico di Poggioreale. Ho potuto constatare criticità strutturali, di attrezzature, diagnostiche e di laboratorio il che appare alquanto paradossale se si pensa che 4 anni fa sono stati stanziati cinque milioni di euro per le attrezzature mai spesi”. Lo dice il Consigliere Regionale della Campania Francesco Moxedano (Italia dei Valori).

“Alcuni pazienti detenuti – aggiunge – sono ricoverati da anni nel nosocomio carcerario gravando fortemente sulla spesa della giustizia e sanitaria, tra l’altro in condizioni non consone ad una società civile. Le apparecchiature della diagnostica risalgono a venti anni fa, il solo ecografo presente nel centro risale ad oltre 15 anni. Durante la visita ho interloquito con il personale infermieristico tecnico e medico, ex dipendenti del ministero della giustizia ed oggi a carico dell’Asl Napoli 1, precari da più di venti anni. Nel centro clinico è presente personale appartenente al consorzio Gesco, con una rotazione continua di personale infermieristico. I detenuti restano in lista di attesa per mesi, a volte anni, per una risonanza magnetica o una Tac, il che comporta naturalmente l’aggravarsi della patologia. Ho chiesto al Presidente della commissione sanità un’audizione urgente, per affrontare le forti criticità presenti nel centro clinico del carcere di Poggioreale”, conclude Moxedano.

Droghe: c’è chi sta ancora in carcere per la Fini-Giovanardi e Renzi non fa niente


Marijuana 3Esce il Libro Bianco di Antigone e della Società della Ragione sulla legge per le droghe leggere: “La politica si è mostrata pavida e latitante”.

C’è chi è ancora in carcere illegittimamente. Chi non avendo un buon avvocato non ha potuto far valere le sue ragioni. Oppure, più semplicemente, c’è chi sta ancora scontando la pena per la lentezza e la “farraginosità della macchina giudiziaria”. Spesso i registri informatici non riescono a rilevare le richieste. E migliaia di detenuti continuano a rimanere in galera. Mette i brividi l’ultimo Libro Bianco dell’associazione Antigone e della Società della Ragione sulla legge sulle droghe.

A un anno dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi non è cambiato nulla, né la maggioranza dei detenuti giudicati all’epoca è riuscita a far valere le proprie ragioni contro pene illegittime. Colpa soprattutto del legislatore, del governo di Matteo Renzi, che non è intervenuto mai sulla questione, nonostante le richieste dello stesso presidente della Corte di Cassazione all’inizio dell’anno giudiziario.

E nonostante l’emergenza del sovraffollamento delle carceri, come dichiarato più volte dall’Unione Europea. A gennaio il primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, chiese di “adeguare le pene previste in questa materia, tenuto conto del ripristino della differenziazione tra droghe leggere e droghe pesanti e, soprattutto, prendendo coraggiosamente atto della estrema inutilità dell’incremento sanzionatorio stabilito con la legge Fini-Giovanardi”.

All’epoca, era il febbraio del 2014, ci si aspettava – si legge nella relazione – che “la pronuncia di incostituzionalità avrebbe avuto effetti sulla popolazione detenuta nelle carceri italiane. Diminuendo significativamente (passando da 20 a 6 anni) il massimo della pena per detenzione e spaccio di derivati della cannabis”. In particolare l’ipotesi è che si sarebbero prodotti due effetti: “in primis l’insussistenza dei presupposti per misure cautelari in carcere basati su previsioni di pena assai superiori a quelle vigenti dopo la sentenza; e a seguire la necessità di rideterminare le condanne passate in giudicato sulla base delle pene giudicate illegittime”.

Nulla di tutto questo. Anche se nell’ultimo anno sono state portate avanti battaglie da parte della Società della Ragione contro le pene illegittime. Come le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che nell’ottobre del 2014 “dettero impulso alla rideterminazione delle pene. Fu cioè riconosciuto ai detenuti il diritto a ottenere il ridimensionamento delle pene sulla base della normativa così come uscita dalla sentenza della Corte costituzionale”

Corte di cassazione1Leonardo Fiorentini, tra gli estensori del Libro Bianco, è molto preciso nella relazione. “Sulla base del pronunciamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le associazioni iniziarono la campagna “Contro la pena illegittima”, chiedendo al parlamento e al governo un provvedimento che garantisse una decisione immediata e uguale per tutti, con una riduzione di due terzi delle pene comminate sulla base di una legge incostituzionale. Purtroppo anche in questa occasione la politica si è mostrata pavida e latitante e questo semplice provvedimento non è stato adottato”.

A nulla sono poi servite le lettere e gli appelli inviati al governo. “Molti garanti dei diritti dei detenuti” si legge “hanno anche richiesto alle Procure della Repubblica informazioni sulla quantità di incidenti di esecuzione e sul loro esito. Le risposte da parte delle istituzioni sono state poche e assai poco significative”. Il risultato è avvilente, perché migliaia di detenuti non sono riusciti a far valere i loro diritti. “La Procura generale della Corte d’Appello di Milano segnala di avere ricevuto 51 richieste e di averne accolte il 20%. Rimanda per il resto della Lombardia alla procura generale di Brescia e alle 13 Procure della Repubblica”.

E poi ancora: “La Procura Generale di Firenze ha effettuato una ricerca dei fascicoli in esecuzione relativi a reati di droga e ne ha individuati circa 400 e di questi 44 relativi a droghe leggere e solo per 7 casi si è proceduto alla rideterminazione della pena. Il quadro che emerge dalle risposte delle procure della Toscana è desolante; solo a Prato è stato disposto un monitoraggio. Per il resto poche istanze e ancora meno accoglimenti.

Alcune procure sostengono che il registro informatico dell’esecuzione (Siep) non consente la rilevazione delle specifiche richieste di rideterminazione della pena per cui non sono estrapolabili quelle conseguenti alla sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014. Altre procure rimandano alle cancellerie del giudice dell’esecuzione. Abbiamo avuto notizia che la Procura di Napoli si è attivata in prima persona e che sono stati esaminati 233 casi di incidenti di esecuzione”.

Per questo motivo, conclude la relazione, “Molti hanno scontato fino alla fine la pena illegittima mentre probabilmente alcuni sono ancora in carcere. In ogni caso, la campagna ha messo in luce la farraginosità della macchina giudiziaria e il suo carattere discriminatorio e di classe. Solo chi ha risorse e avvocato può sperare di vedere riconosciuto il suo diritto. La campagna “Contro la pena illegittima” proseguirà chiedendo al Ministero della Giustizia di impegnarsi nel richiedere tutti i dati e fornire almeno un quadro esaustivo di una vicenda paradossale”.

Alessandro Da Rold

http://www.linkiesta.it, 26 giugno 2015

Cappato (Radicali) : Inutile inasprire le pene, rappresenta soltanto l’impotenza dello Stato


On. Marco CappatoIn un articolo sugli “Eccessi di riforma” della giustizia italiana, apparso su Il Messaggero di lunedì 25 maggio, Carlo Nordio censura l’incompetenza del legislatore. Ha ragione da vendere, Nordio: nel complesso e articolato quadro dei problemi che affliggono la giustizia nel Paese, l’incapacità professionale di chi ha la responsabilità di dettare le regole viene prima di qualsiasi valutazione politica.

Nel diritto penale sostanziale e processuale, di questi tempi l’incompetenza del legislatore si esprime in una specifica inclinazione a produrre leggi che, da un lato, inaspriscono le pene e, dall’altro, allungano i tempi della prescrizione. In realtà, chi è propenso ad attività delittuose non se ne astiene al pensiero dell’entità della pena che rischia, ma se mai a quello di una giustizia che funziona e che, anzitutto per questo, induce rispetto. L’inasprimento delle pene più che altro esprime dunque l’impotenza dello Stato che, quanto meno sarà in grado di punire, tanto più mostrerà i denti con i quali morderebbe se fosse in grado. In particolare, come ha detto e scritto Mario Baldassarri ad altro proposito, l’aumento delle pene comminabili per il reato di corruzione farà aumentare il prezzo della condotta del reo, ma non modificherà le statistiche della commissione del reato.

E l’allungamento dei tempi della prescrizione, in parte come effetto legale automatico dell’aumento delle pene, in parte per diretta disposizione, produce come unico risultato che i cittadini imputati di reati possono trovarsi a do-vere attendere tempi ancora più lunghi prima che i processi si concludano – peraltro di frequente non con la pronuncia di una sentenza definitiva, ma, come in precedenza, con il compimento della prescrizione.

Il legislatore sa che dell’inefficienza della giustizia spesso si avvalgono gli avvocati, contribuendo volontariamente a che il processo penale duri fino a che il reato del quale è imputato il cliente si estingua in esito al maturare del termine di prescrizione; al che il legislatore reagisce allungando il tempo a disposizione della magistratura per completare il processo prima che il termine maturi, forse pensando che la paradossale irraggiungibilità della tartaruga da parte di Achille non sia poi tanto irrealistica, se la corsa viene resa praticamente infinita.

Di nuovo, dunque, il legislatore fornisce denti da mostrare, che il magistrato potrà usare proprio sul presupposto dell’abnorme durata dei processi penali, in qualche modo confermato come normale e del quale anzi gli è implicitamente rivolto l’invito ad approfittare. Un paio di settimane addietro, nel corso di un incontro presso l’associazione radicale milanese Enzo Tortora, il parlamentare membro della Commissione giustizia Stefano Dambruoso ha diffusamente parlato, appunto, del progetto relativo all’aumento delle pene e all’allungamento dei tempi di prescrizione del reato di corruzione.

Nell’occasione, alla quale ero presente, ho esposto quanto nuovamente espongo qui, citando anche il pensiero di un bravo giudice che ho conosciuto in tempi ormai lontani, il cui assunto centrale è che, riguardo alla prescrizione del reato nel processo penale, il legislatore dovrebbe adottare una disciplina analoga a quella che vige riguardo alla prescrizione del diritto azionato nel processo civile.

In sede civile, la prescrizione di un diritto è interrotta dall’inizio di un giudizio, o dalla domanda proposta nel corso di un giudizio già iniziato, e dall’interruzione inizia un nuovo periodo di prescrizione che, peraltro, non corre fino al momento in cui il giudizio è definito con sentenza passata in giudicato; dunque, il trascorrere del tempo nel quale si svolge la vicenda processuale non influenza la prescrizione del diritto – salvo rimanendo il caso che il processo si estingua in esito ad abbandono per inattività delle parti, o a loro rinuncia in ragione di intervenuti accordi conciliativi, o ad altro.

In sede penale, invece, dall’interruzione la prescrizione comincia nuovamente a correre e, raggiunti determinati traguardi, si compie determinando l’estinzione del reato; indipendentemente dalla condotta sia dei giudici che degli imputati, per il solo trascorrere del tempo. C’è da chiedersi il perché delle due differenti discipline della prescrizione, quali siano gli effetti di quella in sede penale e cosa, in un’ottica riformatrice, si potrebbe ipotizzare di cambiare.

Alla prima domanda, l’usuale risposta è che il cittadino imputato non può rimanere indefinitamente in attesa di giudizio, mentre l’attore e il convenuto in sede civile se la possono vedere tra di loro, arrangiandosi in qualche modo; alla quale considerazione viene spesso aggiunto che, se venisse meno il rischio del compimento della prescrizione durante lo svolgimento del giudizio penale, verrebbe anche meno qualunque propensione dei giudici ad adoperarsi, lavorando duramente, al fine di sventarlo, con conseguente aumento dell’inefficienza del sistema giudiziario. Lode dunque al Codice Rocco del 1930, che ha dettato i principi ancora oggi vigenti in tema di prescrizione del reato – elaborati, comunque, in epoca nella quale il numero delle prescrizioni era infinitamente minore di quello odierno.

La replica viene in primo luogo dalla Carta costituzionale: il cui art. 111, nel dettare ai commi I e II che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” la quale “ne assicura la ragionevole durata”, non si riferisce, come invece distintamente fanno i commi che seguono, al processo penale, ma al processo tout court e quindi non solo al processo penale, ma anche a quello civile; né tanto meno attribuisce all’imputato una tutela “privilegiata” rispetto a quella della parte di un processo civile.

Dunque, sul piano dei principi, è sensato concepire che la ragionevole durata di ogni tipo di processo (anche amministrativo, tributario, eccetera) sia regolata in modo omogeneo anche per quanto concerne la prescrizione dei diritti che in esso si facciano valere, compresi quelli dello Stato. Inoltre, a sostegno dell’opportunità di una conforme disciplina degli effetti del decorso del tempo nei vari tipi di processo, sul piano pratico non va trascurato il fatto che l’estenuante durata di un importante processo civile può rappresentare per un cittadino un problema non meno grave della perdurante pendenza di un importante processo penale e, anzi, molto più grave di quella di un processo penale per fatti di modesto rilievo o, comunque, senza carcerazione preventiva.

Né, con riferimento al preteso aumento dell’inefficienza del sistema giudiziario, sembra potersi immaginare qualcosa di peggio di una situazione come quella che si produrrebbe con l’entrata in vigore di una legge come quella allo studio sul reato di corruzione, nella quale il corso dei nuovi termini prescrizionali coprirebbe in molti casi una porzione fondamentale della vita dell’imputato, poco distinguibile da una situazione caratterizzata dall’assenza di termini.

L’attuale disciplina della prescrizione in sede penale, ha innegabilmente l’effetto di indurre gli imputati ad adottare una linea difensiva che spesso ha il centrale obbiettivo di fare trascorrere il tempo necessario affinché maturi la prescrizione del reato. Tale risultato è perseguibile in quanto un termine di prescrizione che possa maturare durante il processo esista, per quanto lontano: se tale termine mancasse, come manca nel diritto civile, le difese dilatorie perderebbero la loro ragione di essere.

L’assenza di un termine di prescrizione del reato che possa maturare durante il processo penale, in primo luogo, consentirebbe ai magistrati di disporre di tempo per la gestione dei processi senza essere “incalzati” dal termine di prescrizione, evidentemente ancor più che potendo contare su un termine di prescrizione di grande lontananza; in secondo luogo, l’assenza del corso della prescrizione dei reati durante i processi accelererebbe la speditezza di quelli pendenti e ne ridurrebbe notevolmente il numero.

In altri termini, se divenisse operativo il principio per cui, come il diritto fatto valere in un processo civile, anche il reato oggetto di un processo penale non si può prescrivere durante il relativo corso, avrebbe luogo senza alcun costo un importante effetto deflattivo sia delle condotte difensive dilatorie nei processi di primo grado, che della promozione dei processi di secondo grado e di legittimità avanti alla Corte di cassazione, alle quali gli imputati che mirano alla prescrizione del reato loro ascritto non avrebbero più alcun interesse.

Al che il legislatore potrebbe aggiungere la previsione di depenalizzazioni, di sanzioni alternative, di nuovi tipi di “patteggiamento” e di altri riti alternativi attuabili in qualunque stadio anche avanzato del processo, unitamente a una completa riorganizzazione dei servizi: così indicando e iniziando a percorrere una strada riformatrice ben più promettente di quella, velleitaria e inconcludente, dell’inasprimento delle pene e dell’allungamento dei termini di prescrizione.

Marco Cappato

Il Garantista, 3 giugno 2015