Fiandaca: la riforma Bonafede cancella la prescrizione, un istituto giuridico di grande civiltà


Perché la riforma Bonafede cancella un istituto di grande civiltà. Rischio pastrocchio con i “correttivi” del Pd. Specie nell’ottica di un anziano professore di diritto penale, l’attuale conflitto politico sulla prescrizione appare sorprendente e al tempo stesso molto preoccupante.

Siamo arrivati al punto, nel nostro paese, di rischiare di stravolgere un istituto giuridico di grande civiltà perché il movimento pentastellato, in nome di presunte sue ragioni identitarie, pretende di imporne una riforma ispirata a un punitivismo smodato?

Oltretutto, questa ossessione punitiva appare politicamente opportunistica in quanto strumentalizza, per lucrare consensi elettorali, pulsioni emotive di punizione alimentate da sentimenti collettivi di paura, rabbia, frustrazione, indignazione, invidia sociale, rancore, risentimento e rivalsa diffusi in periodi di crisi e insicurezza come quello in cui viviamo.

Che l’idea grillina di bloccare in via definitiva la prescrizione dopo la sentenza di primo grado nasca, in fondo, da un avallo politico del bisogno emotivo di rendere imprescrittibile ogni illecito penale – come a volere “eternare” la riprovevolezza e la castigabilità degli autori di reato additati quali nemici del popolo – è una ipotesi esplicativa tutt’altro che azzardata o peregrina.

Come studi di filosofia e psicologia della punizione da tempo mettono in evidenza, infatti, il diritto penale e la punizione coinvolgono (anche a livello inconscio) meccanismi psichici profondi, canalizzando in forma istituzionalizzata tendenze aggressivo-ritorsive insite negli atteggiamenti punitivi declinati in chiave prevalentemente retributiva.

Se così è, fa benissimo ora il Pd a cercare di porre argine al fanatismo repressivo dei Cinque stelle. Ma, stando alle cronache giornalistiche di questi giorni, le linee ispiratrici della proposta dem non risultano ancora chiare. E incombe per di più il rischio che, nel tentativo di trovare una soluzione di compromesso col mantenimento del blocco della prescrizione così come voluto da Bonafede, ne esca fuori alla fine un complessivo pastrocchio.

Affrontare in un articolo di giornale complicate questioni tecnico-giuridiche non è, certo, possibile. Anche limitandosi all’essenziale, non si può peraltro prescindere da una premessa e da qualche rilievo di massima. Cominciando dalla premessa, va ricordato che l’istituto della prescrizione deve la sua genesi alla presa d’atto che la repressione dei reati non può costituire un obiettivo prioritario a ogni costo.

Piuttosto, sono in gioco rilevanti interessi ed esigenze concorrenti, che vengono appunto in rilievo per effetto del decorrere del tempo rispetto al reato commesso, e che vanno perciò bilanciati con l’interesse a punire. Beninteso, si tratta di preoccupazioni concorrenti che si collocano a monte del problema dell’efficiente funzionamento della macchina giudiziaria e dei tempi del processo, che occorrerebbe accorciare perché spesso in Italia troppo lunghi.

Anche se il dibattito corrente si concentra soprattutto sulle lungaggini del processo, non bisognerebbe infatti trascurare che le ragioni “classiche” della prescrizione hanno in primo luogo a che fare col diritto penale sostanziale e con gli stessi fini della pena, come ha sinora più volte riconosciuto pure la Corte costituzionale.

Il punto essenziale è questo: a misura che aumenta la distanza temporale tra il reato commesso e il momento in cui interviene la condanna, decresce la necessità pratica di punire dal duplice punto di vista della prevenzione generale e della prevenzione speciale. Ciò sia perché col passare degli anni sfuma l’allarme sociale, e viene meno il pericolo che altri siano per suggestione imitativa indotti a compiere delitti simili; sia perché col trascorrere del tempo il reo può essere diventato un’altra persona, può essersi spontaneamente ravveduto, per cui non avrebbe più senso e scopo applicargli una pena in chiave rieducativa. Si aggiunga inoltre, da un punto di vista probatorio, che quanto più un caso è lontano nel tempo, tanto più difficile ne risulta la prova nell’ambito del processo.

Questi fondamenti classici della prescrizione sono divenuti, ormai, obsoleti a causa di un riemergente retribuzionismo intransigente e rabbioso, per cui la maggioranza dei cittadini oggi esige che tutti i reati (dai più gravi ai più lievi) vengano perseguiti e sanzionati “senza se e senza ma”?

Certo è che i suddetti fondamenti stanno alla base anche del modello di disciplina della prescrizione così come previsto in origine nel nostro codice penale, e come poi riveduto (in maniera, peraltro, non poco discutibile) con la riforma Cirielli del 2005. Si tratta, invero, di un modello che riflette esigenze repressive modulate sulla differente gravità dei reati, per cui i termini prescrizionali dipendono dalle soglie di pena legislativamente riferite alle diverse figure criminose. (E va esplicitato che esso non viene abrogato dalla riforma Bonafede, che piuttosto vi si sovrappone dall’esterno con effetti – come vedremo tra poco – distorsivi).

È vero che, in anni più recenti, sono andate affiorando preoccupazioni ancorate soprattutto al principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), con un tendenziale spostamento dell’attenzione riformatrice sul terreno processuale. Privilegiato soprattutto dai processualisti e dal mondo della prassi giudiziaria, questo tipo di approccio ha ispirato la riforma Orlando del 2017 nella parte in cui questa ha previsto tempi massimi di sospensione della prescrizione in rapporto a distinte fasi processuali (nella misura di tre anni complessivi nel periodo intercorrente tra la sentenza di primo grado e quelle dei due gradi successivi).

La riforma Bonafede approvata quest’anno, che ha invece stabilito il blocco definitivo della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e che è destinata a entrare il vigore il 1° gennaio 2020 (quindi tra meno di un mese), è stata in realtà concepita così affrettatamente, da non lasciare tempo sufficiente per verificare i concreti effetti della ancora recente riforma Orlando. Questo non è certo un modo di legiferare razionale e responsabile. Ma l’obiezione principale è di merito più che di metodo, e fa leva sulle implicazioni gravemente distorsive del sistema penale che la concreta entrata in vigore del blocco recherebbe con sé.

Come si è infatti già rilevato in sede specialistica (alludo, in particolare, ad acuti commenti critici di Domenico Pulitanò), la eguale imprescrittibilità di reati eterogenei rispetto ai quali l’art. 157 del codice penale (destinato comunque a restare invariato) continuerebbe in linea di principio a prevedere, in ragione del corrispondente livello di gravità, tempi di prescrizione differenziati, porrebbe serissimi problemi di compatibilità costituzionale: innanzitutto, col principio di eguaglianza-ragionevolezza; e, in secondo luogo, col principio di rieducazione nelle ipotesi di condanne a parecchi anni di distanza dal reato commesso (problemi di compatibilità che sfocerebbero in ricorsi alla Corte costituzionale nei casi concreti di sentenze divenute, appunto, definitive dopo la scadenza del termine di prescrizione previsto in astratto dal diritto penale sostanziale).

Bene dunque hanno fatto le Camere penali a lanciare un allarmato appello pubblico del seguente tenore: “Il penale perpetuo, che si appresta ad entrare in vigore, appiattisce indiscriminatamente la misura del tempo dell’oblio, uniformando dopo il primo grado tanto i delitti più gravi, quanto le più bagatellari delle contravvenzioni”.

Le proposte correttive del Pd si preoccupano di rimediare in qualche modo alla irrazionalità costituzionalmente sindacabile di un tale indiscriminato appiattimento? Si legge sulla stampa che i dem intenderebbero conciliare il blocco della prescrizione voluto da Bonafede con nuove soluzioni normative finalizzate ad accorciare i tempi del processo. Ma in quali forme si pensa di potere tecnicamente tradurre questo compromesso?

Può essere ragionevole perseguire compromessi funzionali alla tenuta di questo traballante governo. Ma, se il contrasto sulla prescrizione non giustifica forse una crisi governativa, è pur vero che la complessità e la rilevanza anche costituzionale del tema non vanno sottovalutate. Il modo di affrontarlo incide infatti in ogni caso, e in misura assai rilevante, sulle libertà, i diritti e financo le prospettive esistenziali dei cittadini in carne e ossa.

Giovanni Fiandaca – Professore di Diritto Penale presso l’Università di Palermo

Il Foglio, 12 dicembre 2019

Cappato (Radicali) : Inutile inasprire le pene, rappresenta soltanto l’impotenza dello Stato


On. Marco CappatoIn un articolo sugli “Eccessi di riforma” della giustizia italiana, apparso su Il Messaggero di lunedì 25 maggio, Carlo Nordio censura l’incompetenza del legislatore. Ha ragione da vendere, Nordio: nel complesso e articolato quadro dei problemi che affliggono la giustizia nel Paese, l’incapacità professionale di chi ha la responsabilità di dettare le regole viene prima di qualsiasi valutazione politica.

Nel diritto penale sostanziale e processuale, di questi tempi l’incompetenza del legislatore si esprime in una specifica inclinazione a produrre leggi che, da un lato, inaspriscono le pene e, dall’altro, allungano i tempi della prescrizione. In realtà, chi è propenso ad attività delittuose non se ne astiene al pensiero dell’entità della pena che rischia, ma se mai a quello di una giustizia che funziona e che, anzitutto per questo, induce rispetto. L’inasprimento delle pene più che altro esprime dunque l’impotenza dello Stato che, quanto meno sarà in grado di punire, tanto più mostrerà i denti con i quali morderebbe se fosse in grado. In particolare, come ha detto e scritto Mario Baldassarri ad altro proposito, l’aumento delle pene comminabili per il reato di corruzione farà aumentare il prezzo della condotta del reo, ma non modificherà le statistiche della commissione del reato.

E l’allungamento dei tempi della prescrizione, in parte come effetto legale automatico dell’aumento delle pene, in parte per diretta disposizione, produce come unico risultato che i cittadini imputati di reati possono trovarsi a do-vere attendere tempi ancora più lunghi prima che i processi si concludano – peraltro di frequente non con la pronuncia di una sentenza definitiva, ma, come in precedenza, con il compimento della prescrizione.

Il legislatore sa che dell’inefficienza della giustizia spesso si avvalgono gli avvocati, contribuendo volontariamente a che il processo penale duri fino a che il reato del quale è imputato il cliente si estingua in esito al maturare del termine di prescrizione; al che il legislatore reagisce allungando il tempo a disposizione della magistratura per completare il processo prima che il termine maturi, forse pensando che la paradossale irraggiungibilità della tartaruga da parte di Achille non sia poi tanto irrealistica, se la corsa viene resa praticamente infinita.

Di nuovo, dunque, il legislatore fornisce denti da mostrare, che il magistrato potrà usare proprio sul presupposto dell’abnorme durata dei processi penali, in qualche modo confermato come normale e del quale anzi gli è implicitamente rivolto l’invito ad approfittare. Un paio di settimane addietro, nel corso di un incontro presso l’associazione radicale milanese Enzo Tortora, il parlamentare membro della Commissione giustizia Stefano Dambruoso ha diffusamente parlato, appunto, del progetto relativo all’aumento delle pene e all’allungamento dei tempi di prescrizione del reato di corruzione.

Nell’occasione, alla quale ero presente, ho esposto quanto nuovamente espongo qui, citando anche il pensiero di un bravo giudice che ho conosciuto in tempi ormai lontani, il cui assunto centrale è che, riguardo alla prescrizione del reato nel processo penale, il legislatore dovrebbe adottare una disciplina analoga a quella che vige riguardo alla prescrizione del diritto azionato nel processo civile.

In sede civile, la prescrizione di un diritto è interrotta dall’inizio di un giudizio, o dalla domanda proposta nel corso di un giudizio già iniziato, e dall’interruzione inizia un nuovo periodo di prescrizione che, peraltro, non corre fino al momento in cui il giudizio è definito con sentenza passata in giudicato; dunque, il trascorrere del tempo nel quale si svolge la vicenda processuale non influenza la prescrizione del diritto – salvo rimanendo il caso che il processo si estingua in esito ad abbandono per inattività delle parti, o a loro rinuncia in ragione di intervenuti accordi conciliativi, o ad altro.

In sede penale, invece, dall’interruzione la prescrizione comincia nuovamente a correre e, raggiunti determinati traguardi, si compie determinando l’estinzione del reato; indipendentemente dalla condotta sia dei giudici che degli imputati, per il solo trascorrere del tempo. C’è da chiedersi il perché delle due differenti discipline della prescrizione, quali siano gli effetti di quella in sede penale e cosa, in un’ottica riformatrice, si potrebbe ipotizzare di cambiare.

Alla prima domanda, l’usuale risposta è che il cittadino imputato non può rimanere indefinitamente in attesa di giudizio, mentre l’attore e il convenuto in sede civile se la possono vedere tra di loro, arrangiandosi in qualche modo; alla quale considerazione viene spesso aggiunto che, se venisse meno il rischio del compimento della prescrizione durante lo svolgimento del giudizio penale, verrebbe anche meno qualunque propensione dei giudici ad adoperarsi, lavorando duramente, al fine di sventarlo, con conseguente aumento dell’inefficienza del sistema giudiziario. Lode dunque al Codice Rocco del 1930, che ha dettato i principi ancora oggi vigenti in tema di prescrizione del reato – elaborati, comunque, in epoca nella quale il numero delle prescrizioni era infinitamente minore di quello odierno.

La replica viene in primo luogo dalla Carta costituzionale: il cui art. 111, nel dettare ai commi I e II che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” la quale “ne assicura la ragionevole durata”, non si riferisce, come invece distintamente fanno i commi che seguono, al processo penale, ma al processo tout court e quindi non solo al processo penale, ma anche a quello civile; né tanto meno attribuisce all’imputato una tutela “privilegiata” rispetto a quella della parte di un processo civile.

Dunque, sul piano dei principi, è sensato concepire che la ragionevole durata di ogni tipo di processo (anche amministrativo, tributario, eccetera) sia regolata in modo omogeneo anche per quanto concerne la prescrizione dei diritti che in esso si facciano valere, compresi quelli dello Stato. Inoltre, a sostegno dell’opportunità di una conforme disciplina degli effetti del decorso del tempo nei vari tipi di processo, sul piano pratico non va trascurato il fatto che l’estenuante durata di un importante processo civile può rappresentare per un cittadino un problema non meno grave della perdurante pendenza di un importante processo penale e, anzi, molto più grave di quella di un processo penale per fatti di modesto rilievo o, comunque, senza carcerazione preventiva.

Né, con riferimento al preteso aumento dell’inefficienza del sistema giudiziario, sembra potersi immaginare qualcosa di peggio di una situazione come quella che si produrrebbe con l’entrata in vigore di una legge come quella allo studio sul reato di corruzione, nella quale il corso dei nuovi termini prescrizionali coprirebbe in molti casi una porzione fondamentale della vita dell’imputato, poco distinguibile da una situazione caratterizzata dall’assenza di termini.

L’attuale disciplina della prescrizione in sede penale, ha innegabilmente l’effetto di indurre gli imputati ad adottare una linea difensiva che spesso ha il centrale obbiettivo di fare trascorrere il tempo necessario affinché maturi la prescrizione del reato. Tale risultato è perseguibile in quanto un termine di prescrizione che possa maturare durante il processo esista, per quanto lontano: se tale termine mancasse, come manca nel diritto civile, le difese dilatorie perderebbero la loro ragione di essere.

L’assenza di un termine di prescrizione del reato che possa maturare durante il processo penale, in primo luogo, consentirebbe ai magistrati di disporre di tempo per la gestione dei processi senza essere “incalzati” dal termine di prescrizione, evidentemente ancor più che potendo contare su un termine di prescrizione di grande lontananza; in secondo luogo, l’assenza del corso della prescrizione dei reati durante i processi accelererebbe la speditezza di quelli pendenti e ne ridurrebbe notevolmente il numero.

In altri termini, se divenisse operativo il principio per cui, come il diritto fatto valere in un processo civile, anche il reato oggetto di un processo penale non si può prescrivere durante il relativo corso, avrebbe luogo senza alcun costo un importante effetto deflattivo sia delle condotte difensive dilatorie nei processi di primo grado, che della promozione dei processi di secondo grado e di legittimità avanti alla Corte di cassazione, alle quali gli imputati che mirano alla prescrizione del reato loro ascritto non avrebbero più alcun interesse.

Al che il legislatore potrebbe aggiungere la previsione di depenalizzazioni, di sanzioni alternative, di nuovi tipi di “patteggiamento” e di altri riti alternativi attuabili in qualunque stadio anche avanzato del processo, unitamente a una completa riorganizzazione dei servizi: così indicando e iniziando a percorrere una strada riformatrice ben più promettente di quella, velleitaria e inconcludente, dell’inasprimento delle pene e dell’allungamento dei termini di prescrizione.

Marco Cappato

Il Garantista, 3 giugno 2015

L’Unione delle Camere Penali Italiane boccia la “Riforma della Giustizia” programmata dal Governo Renzi


Avv. Valerio SpigarelliValerio Spigarelli, Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, boccia la proposta in 12 punti del governo Renzi: “Serve molto altro”.

“Mettiamola così: il progetto contiene alcune enunciazioni condivisibili. Ma nell’insieme è decisamente “pochino” per definirlo una vera riforma”. A Valerio Spigarelli, avvocato romano e dal 2010 presidente dell’Unione delle camere penali, basta questa breve premessa per colorare di scetticismo i 12 punti del “progetto di riforma della giustizia” presentato il 30 giugno dal Guardasigilli Andrea Orlando e sbandierato dal premier Matteo Renzi come “svolta epocale”.

Insomma, avvocato Spigarelli: ancora una volta… non arriverà la svolta?

Questa non è una riforma strutturale della giustizia. Da anni si parla di “grandi svolte”, ma qui non c’è nulla che attenga alla struttura costituzionale, al titolo IV: per esempio, non si propone nulla di veramente incisivo sul Consiglio superiore della magistratura; nulla sulla terzietà del giudice rispetto ad accusa e difesa; nulla sulla favola dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Anzi, semmai noto che c’è una piccola marcia indietro: i “saggi”, convocati nel 2013 da Giorgio Napolitano, avevano proposto un’Alta corte di disciplina separata per tutte le magistrature, mentre al punto numero 7 della “riforma” il ministro oggi pare volerla creare esclusivamente per la magistratura amministrativa e contabile.

Però ai punti 4 e 5 si parla del Csm: si dice che la carriera dei magistrati dev’essere basata sul merito e non sulle correnti, e che nel Consiglio dev’essere separato il ruolo di chi fa le nomine delle toghe e di chi applica le sanzioni.

Non basta. Il vero problema della giustizia italiana è che la terzietà del giudice non solo non è garantita, non c’è proprio. Il giudice resta contiguo al magistrato inquirente, ne condivide la istanze volte ad affermare la pretesa punitiva dello Sato e anzi se ne fa spesso carico in prima persona. A dimostrarlo è anche l’altissimo numero di provvedimenti di custodia cautelare: l’Italia è il solo paese europeo dove i detenuti in attesa di giudizio superano il 40% del totale. E la motivazione prevalente è quella del pericolo della reiterazione del reato: proprio perché il giudice condivide in pieno l’idea che il processo sia uno strumento di difesa sociale, non di risoluzione di una singola vicenda che contrappone lo Stato a un singolo imputato.

Lei sa, vero, che gli avvocati milanesi sciopereranno giovedì 17 luglio proprio perché in udienza un giudice ha dichiarato che, se fossero continuate le convocazioni di testi della difesa a suo parere “inutili”, in caso di condanna sarebbe stato “più duro” con gli imputati?

E hanno ben ragione di protestare. Questo problema emerge con forza anche dal saggio “I diritti della difesa nel processo penale e la riforma della giustizia” (Cedam, 224 pagine, 22 euro), curato dal grande giurista bolognese Giuseppe Di Federico e sponsorizzato dall’Unione delle camere penali. Nel corso del 2013 sono stati intervistati 1.265 penalisti italiani e il libro è appena uscito. Sa che cosa racconta?

Un disastro?

Che nel 72,9% dei casi il giudice accoglie “sempre o quasi sempre” una richiesta d’intercettazione avanzata dal pm, e un altro 26% dice che questo accade “di frequente”. Che il giudice è “più sensibile alle sollecitazioni del pm rispetto a quelle del difensore”: per gli avvocati è così nel 58 per cento dei processi “ordinari” e la quota sale al 71 nei procedimenti “rilevanti”, quelli più importanti e più seguiti dai mass media. Ne esce che l’iscrizione ritardata nel registro degli indagati è una pratica lamentata dal 65,9 per cento degli avvocati. Si scopre che molti di loro denunciano di essere non soltanto intercettati mentre parlano con i loro clienti (e questo accade “sempre” o “di frequente” nel 28,9 per cento dei casi, e “a volte” nel 42,2 per cento), ma che l’intercettazione, pur se totalmente illegale, viene perfino trascritta ed utilizzata negli atti. Si scopre che il 92,1 per cento degli intervistati sostiene che, nell’esame in aula dei testimoni, il giudice pone “domande suggestive”: una pratica espressamente vietata dal codice di procedura penale a tutela del diritto di difesa.

E quali sono le soluzioni che proponete voi avvocati penalisti?

Separare le carriere. E separare il Csm: due Consigli che decidono su carriere in modo separato per giudici e magistrati inquirenti. Poi un’Alta corte di disciplina, competente sulle violazioni disciplinari dei magistrati e anche degli avvocati in grado di appello. E perché non una Scuola superiore delle tre professioni giudiziarie, dopo la laurea? Alla fine, chi ne esce sceglie se fare il pm, il giudice o l’avvocato. Servirebbe anche per dare una qualche ventilazione alla magistratura e creare una comune cultura delle regole.

Altri elementi di debolezza della proposta in 12 punti del governo?

Al punto 9 leggo: “accelerazione del processo penale e riforma della prescrizione”. Ecco: chi non è d’accordo con lo slogan sui tempi? Ma il problema è proprio questo: in questi 12 punti io vedo soltanto slogan, se non battute. Il punto è che per tanti anni abbiamo avuto un premier che faceva battute e poi, purtroppo, non faceva le riforme che vagheggiava. Quello era l’originale: non vorrei che Renzi fosse l’imitazione. Slogan per intercettare la voglia di cambiamento e poi nessun atto concreto Ma torniamo al processo penale e alla prescrizione: lei sa dov’è che si prescrivono, soprattutto, i processi italiani?

Dove: in primo grado? In Corte d’appello?

Sorpresa. Nelle indagini preliminari: il 60% delle prescrizioni avviene lì, quando il fascicolo è ancora sul tavolo del pm! Il problema è che la stessa obbligatorietà dell’azione penale è una favola: a Bologna, Milano, Napoli, Roma, Torino, i procuratori hanno stabilito regole discrezionali per la gestione dell’arretrato, con canali preferenziali per questo o per quel tipo di reati. Ma perché ogni Procura deve andare per la sua strada? Non sarebbe meglio che la fosse la politica a indicare i reati da perseguire in modo prioritario, assumendosene la responsabilità in modo trasparente, davanti agli elettori?

Poi, a complicare ancora le cose e a garantire la prescrizione, c’è la lentezza della burocrazia tribunalizia…

Già. Lei sa a Roma quanto ci mette in media un fascicolo a passare dal Tribunale alla Corte d’appello?

No, quanto?

Sono appena 50 metri a separare i due uffici: ma la durata media per la trasmissione degli atti è 8 mesi. La prescrizione avviene nell’8% dei casi per “colpa” dell’avvocato o dell’imputato, ma nel restante 92% dei casi arriva per défaillance dello Stato. Per questo servirebbe davvero una riforma, non banali enunciazioni di principio.

Intanto la magistratura associata è comunque sul piede di guerra: ma la politica ce la farà mai a varare una riforma della giustizia veramente autonoma?

Per troppi anni la politica ha affidato le chiavi di ogni riforma in materia all’ordine giudiziario: è ovvio che quell’ordine apre e chiude le porte a seconda delle proprie convenienze. Oggi che la sinistra è al governo, però, il problema emerge. Lo stesso Giovanni Fiandaca, il giurista siciliano che il Pd ha candidato alle ultime elezioni europee (e che ora potrebbe andare al Csm, ndr) dice che vorrebbe un paese dove chi fa le leggi fa le leggi, e chi fa il giudice si limita ad applicarle. Ecco, io spero che la politica riaffermi il suo primato, uscendo dalla tutela dell’ordine giudiziario. Ma deve fare meglio di così. Molto, molto meglio.

Maurizio Tortorella

Panorama, 15 luglio 2014