Giustizia: una riforma che viola la Costituzione, ma qualcuno proverà a fermarla ?


giustizia2Fissare la scadenza della prescrizione alla conclusione del processo di primo grado viola due articoli della Costituzione: il 27 e il 111. Qualcuno raccoglierà firme per impedirlo?

Le indiscrezioni dicono che oggi il ministro Orlando presenterà al Consiglio dei ministri una proposta di riforma della giustizia mutilata dai veti dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) e che di conseguenza non riforma quasi nulla: perché l’Anm è assolutamente contraria a qualunque tipo di provvedimento che non accresca ulteriormente il potere della magistratura.

È probabile che questa riforma – gentile, impalpabile – troverà robuste opposizioni in Parlamento, proprio per la sua inconsistenza, per il suo carattere di “finzione”, e non sarà approvata. Noi (noi del Garantista) avremo la soddisfazione, magra, di avere predetto il fallimento della riforma.

Il Paese pagherà lo scotto per la vigliaccheria di un ceto politico di governo impreparato e un po’ servile, che in fondo preferisce sopravvivere, seppure agli ordini della magistratura, piuttosto che dover navigare in mare aperto e affrontare i marosi dell’indipendenza. La mancata riforma della giustizia costringerà l’Italia in una condizione che ormai sta diventando di regime: dove il potere politico non è più autonomo, non è più legittimato dal voto popolare, ma è espropriato da una casta, e cioè i magistrati – per essere precisi e giusti: una parte dei magistrati – in grado di influenzare la formazione delle leggi, la gestione dell’economia, la selezione delle classi dirigenti, e naturalmente di poter esercitare la giurisdizione senza nessun controllo e limite.

Quali erano i limiti dentro i quali doveva mantenersi l’ordine giudiziario e quali nuovi limiti la riforma avrebbe potuto introdurre? Il limite, per la verità, era praticamente uno solo: la prescrizione. Che risponde alle indicazioni della Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) e anche della nostra Costituzione (articolo 111) e garantisce la cosiddetta “ragionevole durata del processo”. Tutti gli altri limiti, che esistono in molti altri paesi, o non ci sono mai stati o sono saltati. Non c’è la responsabilità civile dei giudice, non c’è la limitazione agli arresti preventivi, non c’è nessun argine alle intercettazioni (che in un solo giorno in Italia, sono quante ne fanno in un anno intero negli Stati Uniti d’America), né tantomeno alla loro indiscriminata e intimidatoria pubblicazione, non c’è la parità tra accusa e difesa (anche questa prevista dall’articolo 111 della Costituzione, ma inutilmente), non c’è la terzietà del giudice (cioè la separazione delle camere), eccetera eccetera.

Questa assenza di argini ha permesso e permette molti soprusi, che non sono quelli – pur reali – esercitati nei confronti di Berlusconi (che uno, al limite, potrebbe anche fregarsene…) ma sono migliaia e migliaia che si abbattono sulle spalle piccole di tanti poveri cristi. La riforma avrebbe dovuto ripristinare quei limiti o fissarne dì nuovi. Invece sorvola sulla possibilità di porre rimedio a questi guai. E per di più, a quanto dicono le indiscrezioni, attenua e quasi cancella l’unica limitazione esistente, e cioè la prescrizione. Quindi non sarà una riforma che alza l’asticella delle garanzie per l’imputato, ma invece l’abbassa. Non aumenta il grado delle libertà: si innalza il livello dell’autoritarismo, spingendo il nostro paese piuttosto che verso la modernità, verso qualcosa che un pochino assomiglia allo Stato di polizia.

La possibilità che si fissi la scadenza della prescrizione alla conclusione del processo di primo grado, per altro, rende del tutto incostituzionale questa legge. Proviamo a spiegarci bene. Cos’è la prescrizione? È una misura, prevista dal codice penale, che estingue la pena (o addirittura il reato) dopo un certo numero di anni. Gli anni necessari ad ottenere la prescrizione sono proporzionali alla gravità del reato e cioè coincidono con la pena “edittale” prevista dal codice penale, e in ogni caso sono almeno sei peri i reati più piccoli. Non c’è prescrizione per l’ergastolo, visto che l’ergastolo non è quantificabile in anni. La prescrizione interviene se, prima del tempo stabilito, non si arriva alla condanna definitiva. Nella riforma-Orlando, su richiesta dell’Anm (che di solito pubblica su Repubblica i suoi “ordini” al ministro), la prescrizione viene – diciamo così -anticipata, nel senso che scatta solo se i limiti di tempo vengono superati prima della sentenza di primo grado. Dopo la sentenza di primo grado non esiste più prescrizione e il processo d’appello, ed eventualmente di Cassazione, non ha limiti di tempo.

In questo modo si violano in modo palese, consapevole e sfacciato due articoli della Costituzione: il 27 e il 111. L’articolo 27 stabilisce che nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva. Dunque la condizione di un imputato non cambia in nessun modo con la sentenza di primo grado, mentre la riforma ne cambia radicalmente la condizione, facendogli perdere il beneficio della prescrizione. L’articolo 111 stabilisce la ragionevole durata del processo, mentre la riforma, ponendo il limite della prescrizione al processo di primo grado (è chiaro che la magistratura tenterà di affrettare i processi di primo grado e poi non avrà più fretta per l’appello) elimina ogni possibilità di ragionevole durata. È grave se la riforma della Giustizia in modo evidente e dichiarato sfida e calpesta i principi costituzionali?

Non so se è grave, certo non è inusuale. Basta dire che da più di un decennio votiamo con una legge incostituzionale e che ora si sta valutando una legge elettorale ancor più incostituzionale della precedente. La Costituzione è considerata abbastanza un optional dal potere italiano. E non vi aspettate però che gli intellettuali – e gli attori, i cantanti, i giocatori di calcio – aderiscano in massa ad una raccolta di firme – tipo quella del “Fatto” a difesa del Senato – contro la violazione della Costituzione da parte del binomio governo-magistratura.

Piero Sansonetti

Il Garantista, 29 agosto 2014

Viaggio nel mondo del Carcere, “la più grande vergogna italiana”


Isernia 1Il libro “Viaggio nel mondo del carcere”, di Davide La Cara e Antonino Castorina, del movimento Giovani Democratici, raccoglie contributi di chi da anni si batte per i diritti dei detenuti e racconta le storie drammatiche dei reclusi vittime del sovraffollamento e delle condizioni di vita degradanti.

Le carceri italiane, nel loro complesso, “sono la maggior vergogna del nostro Paese” e rappresentano “l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si abbia mai avuta”, come sosteneva Filippo Turati. È la realtà che emerge dal libro “Viaggio nelle carceri”, di Davide La Cara e Antonino Castorina, del movimento Giovani Democratici. “Dentro il pacchetto della giustizia Orlando, riteniamo importante focalizzare l’agenda sul tema delle carceri.

Abbiamo chiesto al direttore del quotidiano “Il Garantista”, Piero Sansonetti, di promuovere questa discussione, anche sul suo giornale”, commenta Castorina. E l’appello è stato accolto entusiasticamente dal direttore, che dichiara: ” Se non si parla di riforma delle carceri, è inutile parlare di riforma della giustizia. Nel nostro paese, non è mai stato risolto nulla. Solo negli anni 70, se ne è parlato, perché cominciarono ad esserci delle rivolte. Che aspettiamo? Che i detenuti si ribellino ancora?”.

Il saggio è ricco di contributi da parte di chi, nel corso degli anni, si è battuto per la causa delle carceri e si è interrogato sul senso della loro esistenza, come Rita Bernardini, segretaria dei Radicali Italiani, Roberto Giacchetti, vicepresidente della Camera dei Deputati, l’onorevole Laura Coccia, l’onorevole Enza Bruno Bossio e molti altri. Tante le storie raccolte nel libro, edito da Editori Riuniti Internazionali (Eir), che tracciano il panorama delle carceri italiane – da Rebibbia a Regina Coeli a Roma, da Poggioreale a Napoli a San Pietro a Reggio Calabria, dall’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto a il Coroneo di Trieste – disumano e avvilente, dalla cui visita, è nato il progetto del testo, per denunciarne le carenze strutturali.

“Negli istituti ho incontrato molta gente, migliaia di occhi, ma prima di tutto persone con le loro storie, i loro drammi, le loro speranze (…) – racconta l’onorevole Coccia nel libro. Visitando una sezione sovraffollata, mentre avevo una sensazione opprimente al limite della claustrofobia, ho sentito un urlo “benvenuti allo zoo!”: mi si è gelato il sangue”.

Davide La Cara ha visitato il carcere di Rebibbia e, nel libro, si sofferma sulle condizioni di vita dei detenuti: “(…) Nella cella accanto dormono in undici, su una superficie che potrebbe contenerne massimo quattro, hanno risolto installando vecchi letti a castello in legno a tre piani. Vicino c’è una porta che conduce a una sorta di cucina: un mobiletto col cucinino a gas che sta scaldando l’acqua per la pasta, accanto a questa, il lavandino e il water”. Sono queste le condizioni disumane che hanno portato a varie sanzioni da parte della Corte europea all’Italia, non ultima la sentenza Torreggiani, “che ha giudicato le condizioni dei detenuti una violazione degli standard minimi di vivibilità che determina una situazione di vita degradante”.

Una delle interviste di La Cara, quella a Nobila, madre di Federico Perna – morto a Poggioreale lo scorso anno a causa di un ictus, ma sulle cui cause certe di morte, c’è ancora da fare chiarezza – pone in luce l’aspetto di totale arbitrarietà, che pure vige nelle carceri. “Federico mi aveva raccontato di aver subito abusi sessuali, da parte delle stesse guardie carcerarie a cui avrebbe dovuto denunciare il fatto (…).

Non ho mai capito perché abbia girato 9 carceri in 3 anni. Un ragazzo malato di epatite C e di cirrosi epatica, per quale motivo viene sbattuto da carcere a carcere, per andarsi a prendere altri virus? (…) Federico è morto per le percosse, è stato ammazzato; aveva escoriazioni in tutto il corpo, anche nelle orecchie, e bruciature di sigarette”.

E nel testo, in chiusura, compare anche una intervista a Raffaele Sollecito, condannato a 25 anni in primo grado per l’omicidio di Meredith Kercher, a cui è stata annullata, dalla Cassazione e dalla Corte d’assise d’appello di Firenze, l’assoluzione. Dopo ben 7 anni, il suo processo non è ancora terminato, diventando così un caso mediatico: “Chi è abituato a entrare e uscire di prigione, sente una appartenenza a quella struttura. Ci trovano delle regole, delle figure di riferimento, un’educazione che non hanno mai ricevuto. È un mondo a parte (…) Penso che in carcere pesi molto la questione istruzione. Più del 90% di quelli che ho conosciuto durante la mia pena sono quasi analfabeti. Non hanno alcun tipo di educazione”.

Il testo ha visto anche la collaborazione del mondo delle associazioni e del volontariato. La Cara ha infatti intervistato per la stesura del libro, Paolo Strano, dell’associazione Semi (di) Libertà, che si occupa del reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti degli istituti penitenziari romani, tramite l’attività dei birrai.

“Il progetto nasce a Regina Coeli da una mia esperienza nel carcere. In quanto fisioterapista, sono stato mandato lì a svolgere il mio lavoro poiché i detenuti non posso essere trasferiti da noi(..) Dopo la mia esperienza lavorativa, ho deciso di fare qualcosa (…) fino a due anni fa non sapevo nulla di birra artigianale, ho iniziato ad approfondire e studiare l’argomento. Grazie al Miur, è iniziata la formazione dei detenuti all’Istituto Sereni, che ospita un birrificio. Il tirocinio pratico si svolge invece presso Eataly, dove produciamo birra assieme ad alcuni birrai di Roma”.

Castorina, co-autore del libro, ha svolto la sua ricerca a Reggio Calabria, dove forte, è stato il problema del sovraffollamento:” Il problema del sovraffollamento a Reggio Calabria è stato in parte arginato dalla recente inaugurazione della struttura di Arghillà, ma purtroppo non è stato ancora risolto- commenta la direttrice del carcere, che sostiene pratiche per riabilitare i detenuti- “Può sembrare banale, ma il lavoro nelle carceri è uno strumento obbligatorio per legge (art 20-21-48 dell’ordinamento penitenziario del 1975), è qualcosa che rende il condannato un po’ più libero”.

La collaborazione di Roberto Giacchetti al libro ha fatto emergere una verità importante e inquietante:” Nel carcere non si possono comprare i voti; è per questo che la politica non fa niente per cambiare la situazione”. Ma è importante, secondo il vicepresidente della Camera, assicurare un “dopo il carcere” ai detenuti, reinserendoli in società, previa, preparazione di quest’ultima, alla loro accoglienza.

Maria Panariello

Redattore Sociale, 2 agosto 2014

Presentazione del libro di Davide La Cara e Antonino Castorina (Edizioni EIR). Il saggio è arricchito dai contributi di Rita Bernardini (Segretaria di Radicali Italiani) e Roberto Giachetti (Vicepresidente della Camera dei Deputati) e contiene un’intervista esclusiva a Raffaele Sollecito.

Radio Radicale – Camera dei Deputati 31 Luglio 2014

http://www.radioradicale.it/scheda/417792

 

Giustizia: nessuna riforma è possibile… altrimenti scorrerà il sangue


Giustizia 2I giudici vogliono una vittoria piena. Come quella della Germania sull’Argentina. Questa settimana è la settimana decisiva per l’offensiva contro la politica. Qual è l’obiettivo? A occhio e croce rendere chiaro che nessuna riforma della giustizia è possibile, altrimenti scorrerà il sangue. Ieri i Pm hanno inaugurato la settimana con l’avviso di garanzia a Roberta Maroni. Lo accusano – se ho capito bene – di avere raccomandato a una società privata l’assunzione a termine – sei mesi – di due ragazze che conosceva.

Poi giovedì sarà la giornata clou. La Camera dovrà votare per l’arresto di Galan, nei guai per il Mose di Venezia, e intanto il processo Ruby – l’appello – si avvicinerà alla conclusione, Sono ore decisive, Domenica il partito dei Pm aveva subito una brutto schiaffo, da Dubay, dove la Corte si è messa a ridere quando ha letto “concorso esterno in associazione mafiosa” e ha risposto di non poter concedere l’estradizione dì Matacena per un reato così strampalato. Eppure i codici arabi, talvolta, sono anche loro piuttosto strampalati e medievali, evidentemente non fino al punto da presupporre che uno possa far parte di una associazione senza farne parte. Il voto alla Camera su Galan sarà davvero molto importante.

Perché lì toccherà alla politica accettare il diktat, e arrendersi ai Pm, o tentare di combattere, e dì affermare alcuni principi, tipo quello – ormai in disuso – della divisione dei poteri e dell’indipendenza del Parlamento da Palazzo di Giustizia.

Se la politica subirà il comando dei Pm (“lasciateci arrestare un deputato, Galan, anche se non esistono ì presupposti e anche se l’arresto è chiaramente illegale”) dopo avere negli anni scorsi accettato in diverse altre occasioni analoghe di genuflettersi alla magistratura, allora i magistrati potranno ben immaginare di aver vinto la partita, definitivamente, dì avere sotto scacco il sistema democratico e di potere tranquillamente imporre la non riforma della giustizia.

Il passo successivo sarà la condanna di Berlusconi, colpevole di aver fatto sesso senza far sesso con la ragazza Ruby (si potrebbe immaginare eventualmente il reato dì concorso esterno in associazione orgiastica).

La condanna di Berlusconi, che già è ai servizi sociali e – ammonito dal giudice di sorveglianza dì Milano – rischia di finire in cella, sarà l’atto con il quale si mette in stato oggettivo di intimidazione l’unico partito politico che spinge per la riforma, cioè Forza Italia. Era tanto tempo che nella lotta politica non entrava, come strumento di pressione, la minaccia dì arresto. Ora è così.

Il rischio è che la sinistra, come ha fatto tante volte negli anni passati, non capisca che la posta in gioco è l’equilibrio democratico; e immagini che questa offensiva della magistratura possa essere utile per asfaltare definitivamente il centrodestra, e che valga la pena di assecondarla, Matteo Renzi negli ultimi mesi ha dato qualche segno di risveglio, sul piano del garantismo.

Si è spinto fino a pronunciare questa parola senza mostrare sdegno. Però mi sembra ancora molto incerto. Io dubito, francamente che abbia il coraggio di sfidare la magistratura e dì difendere i diritti della politica, cioè della democrazia (cioè nostri) in un momento nel quale difendere la politica vuol dire perdere consenso. Non mi aspetto che il Pd voti contro l’arresto di Galan. Mi accontenterei se qualche deputato di sinistra, coraggioso, intrepido, dichiarasse apertamente il suo dissenso dal partito. Sarebbe come un segnale, un lampo nella notte buia delle manette.

Piero Sansonetti

Il Garantista, 15 luglio 2014

Carcere e trattamenti disumani: se è Provenzano si può ?


Bernardo Provenzano 41 bisPoche righe di agenzia: l’ “ANSA” riferisce che i legali di Bernardo Provenzano, Rosalba Di Gregorio e Maria Brucale, hanno “reiterato la richiesta di revoca del 41 bis per il loro assistito davanti al tribunale di sorveglianza di Roma, competente su tutto il territorio nazionale sulle istanze di revoca del carcere duro. Di Gregorio e Brucale hanno ribadito le gravissime condizioni di salute del boss, e depositato la decisione del giudice tutelare di Milano che ha nominato il figlio di Provenzano, Angelo, “amministratore di sostegno del padre”. Per i legali, questo atto ne certifica l’incapacità. La Procura generale, facendo riferimento ad alcune relazioni del Dap, ha invece sostenuto che il detenuto ha dei momenti, seppur rari, di lucidità. Il giudice si è riservato di decidere”.

Di questa vicenda si è occupato solo “il Garantista” di Piero Sansonetti, e tra le forze politiche, i radicali. Tutti gli altri preferiscono ignorarla, far finta di nulla. E invece se di qualcuno bisogna occuparsi e preoccuparsi, è proprio di Provenzano.

Già due anni fa i radicali, con Rita Bernardini e Alessandro Gerardi, nel corso di una visita ispettiva nel carcere di Parma, trovarono Provenzano gravemente debilitato e sofferente dal punto di vista fisico, e denunciarono come avesse irrimediabilmente perso il lume della ragione, incapace perfino di articolare anche una semplice frase di senso compiuto, e inascoltati pubblicamente chiesero come fosse possibile sottoporre a un regime detentivo così duro una persona anziana ridotta in quelle condizioni.

Nel maggio del 2013 la trasmissione “Servizio pubblico” ha mandato in onda immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza cinque mesi prima: mostravano il boss irriconoscibile, rispetto alle solite immagini diffuse e note, con un berretto di lana in testa, e incapace di comprendere quanto la moglie e il figlio gli dicevano, mentre lo visitavano in carcere.

Nella passata legislatura, quando alla Camera c’era anche una pattuglia di parlamentari radicali, si cercò di fare luce sui molti punti oscuri che contraddistinguevano (e contraddistinguono ancora) la detenzione di Provenzano. Vennero presentate numerose interrogazioni, tutte rimaste senza risposta. Quelle “domande”, quelle questioni, a due anni di distanza, sono ancora di urgente e drammatica attualità. Sul caso dell’ex boss di Corleone ancora non si è fatta la necessaria chiarezza: una quantità di detenuti continuano a essere sottoposti alle inumane misure previste dal 41 bis, misure che le convenzioni internazionali definiscono “tortura”, e che spesso, come nel caso di Provenzano, si trasformano in atti di vera e propria bestialità.

Valter Vecellio

Notizie Radicali, 23 Giugno 2014

 

Magistrati, una casta intoccabile che vuole Silvio in galera


Silvio Berlusconi - TribunaleBerlusconi rischia grosso. Potrebbe finire in cella, nonostante i suoi 77 anni e nonostante il fatto che è il capo di uno dei tre grandi partiti italiani. E se così fosse, sarebbe il primo leader politico di tutta la storia della Repubblica ad andare in prigione per un reato d’opinione. L’ultima volta fu prima del 25 luglio del 1943.
E’ successo, come avete letto ieri su questo giornale, che giovedì al Tribunale di Napoli si è verificato, in aula, uno scontro verbale tra l’ex primo ministro e il Presidente della Corte. Ora la Procura di Napoli sta valutando l’ipotesi che nel corso di quell’incidente, Berlusconi, con le sue parole aggressive verso la magistratura, abbia nientepopodimenoché commesso il reato di oltraggio all’ordine giudiziario. Deciderà lunedì se aprire o no un procedimento e se trasmettere le carte al tribunale di sorveglianza di Milano perché possa decidere se revocare il beneficio dei servizi sociali e spedirlo in galera.

La scelta tra archiviare o procedere è affidata al Procuratore Giovanni Colangelo e a due Pm: Vincenzo Piscitelli e…Henry John Woodcock. C’è bisogno di scrivere qualche riga su Henry John Woodcock? È un giovane magistrato molto noto e del quale tutto si può dire ma non che non abbia qualche inimicizia verso Berlusconi. Naturalmente questa evidente incompatibilità potrebbe persino giovare a Berlusconi: Woodcock, sentendosi troppo esposto, potrebbe finire per evitare lo scontro frontale. Woodcock però non è un tipo che evita gli scontri frontali. Gli sono sempre piaciuti, li ha sempre cercati, generalmente senza un grande successo visto che moltissime delle sue inchieste più spettacolari, contro imputati famosi, si sono risolte con un flop.

Cosa potrebbero decidere i giudici di Napoli? Di aprire un procedimento per oltraggio, e le voci di corridoio dicono che si stanno orientando in quel senso. E poi potrebbero decidere di trasmettere la registrazione dello scontro tra Berlusconi e la dottoressa Ceppaluni al tribunale di sorveglianza di Milano. A quel punto Berlusconi si troverebbe sotto due fuochi: a Napoli dovrebbe affrontare un nuovo processo per un nuovo reato (di opinione, ma che prevede pene severe); a Milano potrebbe aspettarsi che il tribunale gli revochi l’affidamento ai servizi e lo mandi in cella. Il Tribunale di sorveglianza, quando decise di assegnare Berlusconi ai servizi sociali ( e precisamente all’assistenza ai malati di Alzheimer) lo aveva ammonito: non parlare male della magistratura o ti sbattiamo dentro. Berlusconi si è fatto tutta la campagna elettorale tappandosi la bocca per evitare che gli sfuggisse qualche sciabolata contro i giudici. L’altra sera però non ha retto. Ci sono stati due minuti di scintille. La presidente della Corte, la dottoressa Ceppaluni, gli ha chiesto qualcosa sui suoi rapporti con il finanziere Ponzellini. Lui ha risposto: «Non capisco il senso di queste domande». E lei, gelida, ha replicato: «Non c’è nessun bisogno che lei capisca». A quel punto Berlusconi è sbottato e ha parlato di irresponsabilità e impunibilità della magistratura.

Che un capo politico definisca irresponsabile e impunibile la magistratura, è un’offesa o è critica politica? Se avesse definito irresponsabile Grillo, o Renzi, o Obama nessuno avrebbe avuto niente da dire. La magistratura in Italia è un luogo sacro? Può criticare e anche condannare ma non può essere criticata né tantomeno giudicata? Eppure in qualunque paese libero è legittimo criticare la magistratura. Forse è meno legittimo che un giudice, in tribunale, sbeffeggi e cerchi di umiliare un imputato. E affermi con protervia e arroganza la sua superiorità quasi divina.«Non c’è bisogno che lei capisca», che significa? Significa: qui c’è una sola persona che deve capire e comandare: io. Lei si sottoponga a me e obbedisca.
Siamo sicuri che il Consiglio superiore della magistratura non debba valutare se l’atteggiamento assunto in aula dalla dottoressa Ceppaluni non fosse offensivo e violasse l’etica della magistratura? Se io ascoltassi un giudice rivolgersi con quella arroganza a un povero cristo (e temo che succeda molto spesso) mi indignerei parecchio. Per Berlusconi invece non bisogna indignarsi?

La verità è che uno può anche indignarsi, ma poi non gli resta altro che abbozzare. La potenza assoluta e incontrollabile della magistratura è ormai fuori discussione e sembra inarrestabile. Il governo ha annunciato che giovedì presenterà la riforma della Giustizia. C’è da scommettere che in questa riforma non ci sarà di niente di sgradito ai magistrati: né la separazione delle carriere, né la responsabilità civile, né la riforma del carcere preventivo, né la limitazione delle intercettazioni, nè la riforma del processo.

Piero Sansonetti

Il Garantista, 21 Giugno 2014

Europee, i Radicali non partecipano al voto Ma finché ci sono loro c’è speranza


Parlamento Europeo 1Mentre cala il silenzio elettorale e si aspetta l’esito della sfida a tre – fra Renzi, Grillo e Berlusconi – i radicali restano fuori dal voto. E così si realizza il paradosso che, se vuoi parlare di politica, devi uscir fuori dalla contesa elettorale. La politica ufficiale, di Palazzo, è tutta racchiusa in una sfida personalistica, di abilità comunicativa, fra tre leader privi di programmi e di valori ideali; la politica marginale trova sbocco nell’attività radicale che pone sul tappeto grandi questioni come la giustizia, i diritti, il carcere, l’amnistia, la lotta al giustizialismo, il ripristino dello stato di diritto.

Tutto ciò è ancora più paradossale se si pensa che fino a vent’anni fa l’impressione, nell’opinione pubblica, era esattamente opposta alle sensazioni di oggi: c’era Pannella, istrione, grande comunicatore, maestro della politica spettacolo – e che per questo veniva criticato da tutti – contrapposto alla tetraggine delle burocrazie e degli anonimi apparati collettivi di partito.

Come è avvenuta questa metamorfosi? Bisogna tenere conto di tante cose. La prima – essenziale – è quella che ci interessa oggi: non è vero che negli anni ottanta la contrapposizione fosse tra “l’istrione” e “il collettivo” . Succedeva semplicemente che la grande politica dei partiti di massa era sorda alla modernità delle questioni che il partito radicale gettava nell’arena della lotta politica, non riusciva a sentirle né a vederle, e perciò reagiva concentrando lo sguardo sui metodi clamorosi e nuovi, di lotta politica, inventati da Pannella, senza accorgersi della modernità della lotta politica che proponeva. La modernità dei contenuti. Provate oggi a correre con la memoria a quegli anni. Il divorzio e poi l’aborto, la lotta alla fame nel mondo, i diritti dei soldati, dei carcerati, degli omosessuali, delle donne, la battaglia antiproibizionista, l’antimilitarismo… Come si faceva a pensare che fossero questioni marginali, e che nessuna battaglia politica potesse essere condotta – a sinistra – se non in funzione dei diritti sindacali, oppure – a destra – senza rispettare i principi del cristianesimo Vaticano o della grande ideologia conservatrice e post fascista (ordine, disciplina, merito, rispetto)?

I partiti politici di massa, in quegli anni, non colsero in nessun modo il radicalismo profondo del partito radicale. Non capirono che era un radicalismo di sostanza e non di forme, e che poneva due grandi questioni: entrare a pieno titolo nella modernità ed entrare nella democrazia compiuta. Perché in quegli anni, la modernità era considerata un disvalore, e nessuno vedeva i limiti della “democrazia realizzata” con lo Stato Repubblicano e la necessità di farle compiere un salto in avanti, superando le paure, le ragioni di stato, le burocrazie, i barocchismi, gli ideologismi. Paure di che? Semplicemente della libertà. La macchina politica – socialmente formidabile – della prima Repubblica, lodava la libertà ma la temeva, riteneva che avesse bisogno di un involucro, di un sistema collettivo di limitazione e di organizzazione. Amava la libertà organizzata e finalizzata, non concepiva nemmeno la “libertà libera”.

Allora, probabilmente, nacque una frattura profondissima tra politica e modernità. E quella frattura portò la politica a vivere in una dimensione che era interamente interna “al patto di Yalta” e ai suoi automatismi. Caduta l’Europa di Yalta, nell’89, e caduti gli automatismi, la fortezza della politica si sgretolò e fu divorata, in pochi mesi, da nuovi poteri – molto più moderni e molto più spregiudicati, e molto più feroci – tra i quali, prima di tutto, il potere giudiziario.

La crisi politica di oggi nasce da lì. Da quegli errori. E la seconda Repubblica è venuta su riproducendo tutti gli errori della prima. Né la destra di Berlusconi, né la sinistra di Prodi, né quella di D’Alema, né la sinistra radicale, si sono davvero posti il tema dell’ingresso nella modernità. E cioè la necessità di uno sviluppo della civiltà in senso liberale, fuori dagli automatismi del socialismo e fuori dagli automatismi del mercatismo. Anzi, la nuova classe politica ha cercato una mediazione tra socialismo e mercatismo, immaginando che fosse quella mediazione – e dunque la moltiplicazione di difetti e sciagure – la porta per entrare nella modernità.

Così oggi ci troviamo dinnanzi alla politica-immagine, al solito governo di emergenza, e alla presunta opposizione – i grillini – incapace di indicare la prospettiva di una società diversa da quella autoritaria e fondamentalista che è nella mente del loro leader. Mentre la destra berlusconiana e la sinistra renzista non sanno a trovare fra loro nessuna differenza che non sia una differenza nella scelta del personale e del ceto dirigente.

E al margine di questo circo, che ha tirato a fondo e quasi annullato la democrazia politica, resta il drappello coraggioso dei radicali. Ce la faranno? Non so: so che finché loro esistono esiste anche la speranza.

Piero Sansonetti

Gli Altri, 23 Maggio 2014

Giustizia: il detenuto più “pericoloso”? è quello che conosce e sa far valere i suoi diritti


Carcere Frosinone“Ce lo chiede l’Europa”, il mantra che i tutti i Governi che sono succeduti usano per giustificare le politiche di “lacrime e sangue”. Questa è l’Europa del mercato unico, dei tecnocrati e dell’esautorazione del potere politico al quale gli rimane esclusivamente la gestione repressiva dello Stato.

La crisi democratica è evidente, e per questo come reazione aumentano i nazionalismi e populismi di matrice xenofoba e securitaria.

Ma c’è anche l’altro volto dell’Europa che mira però a difendere la concezione del diritto, e per questo, attraverso la Corte di Strasburgo, ci bacchetta e condanna in continuazione. In questo caso i nostri governanti, per questioni vigliaccamente elettorali, fanno orecchie da mercante o, nel caso migliore, prendono provvedimenti insufficienti.

Adriano Sofri , in un suo prezioso scritto, cita un’intervista apparsa su Le Monde nei confronti di Jean-Marie Delarue, “Controllore generale dei luoghi di privazione della libertà”, carica istituita in Francia nel 2008 (in Italia ancora stiamo aspettando l’istituzione del garante nazionale dei detenuti).

Illustrandone il sesto rapporto, all’ultimo anno del suo mandato, Delarue spiega che il detenuto che oggi “bisogna far tacere a tutti i costi” è il “procedurista”, quello deciso a far uso di tutte le procedure, consentite dalla legge, quello che presenta esposti e denunce contro tutto ciò che nella condizione del carcere viola i suoi diritti.

In Italia, grazie soprattutto agli interventi dei Radicali, alcuni detenuti hanno imparato ad utilizzare l’arma non violenta: quella di rivendicare i propri diritti attraverso le vie legali. Sono loro i più pericolosi per il sistema visto che riescono a colpire la parte più sensibile dello Stato: i soldi dei contribuenti. E grazie alle loro denunce, il problema vergognoso delle nostre carceri è diventato una questione europea.

In questo mese c’è una scadenza importante perché il 28 maggio termina l’anno concesso all’Italia dalla stessa Corte di Strasburgo per cancellare la condizione “inumana” delle sue 205 carceri. Nel maggio 2013 la Cedu aveva condannato l’Italia a risarcire con 100 mila euro ben sette detenuti a Busto Arsizio e a Piacenza, sottoposti a “condizioni inumane e degradanti, e assimilabili alla tortura”: i reclusi disponevano di soli 3 metri quadrati a testa.

L’allora governo italiano riuscì ad ottenere una proroga ottenendo la sospensione di altri 8mila ricorsi pendenti contro il sovraffollamento. Ora il tempo è scaduto e i dati sono sconfortanti visto che i decreti contro il sovraffollamento sono stati insufficienti (altro che svuota carceri come paventavano i giustizialisti creando allarmismo in cattiva fede) e recentemente il Consiglio d’Europa ha denunciato che l’Italia, quanto a sovraffollamento, è seconda solo alla Serbia.

Questa è la nostra situazione vergognosa del sistema carcerario, e se vogliamo evitare l’ulteriore condanna (che ci andrà a costare dai 100 ai 300 milioni di euro) l’unica strada immediata è quella di varare l’amnistia e l’indulto, accompagnandoli con riforme strutturali: quando una situazione è in stato comatoso, prima si pensa a salvare la vita (amnistia) e subito dopo la terapia (riforme). Ma il Governo Renzi non lo farà mai, soprattutto quando c’è un’altra imminente scadenza: quella elettorale. E si sa, difendere le condizioni inumane delle persone confinate nelle celle, non porta voti.

di Piero Sansonetti

Gli Altri, 16 maggio 2014

Giustizia: cara sinistra… ecco perché non c’è modernità senza garantismo


Può esistere il garantismo di sinistra? Può esistere, per una ragione storica: è esistito, ha pesato, ha avuto una influenza notevole sulla formazione degli intellettuali di sinistra.

Tutto questo è successo molto, molto tempo fa.

Soprattutto, naturalmente, quando la sinistra era all’opposizione, o addirittura era “ribelle”, e quando i magistrati – qui in Italia – erano prevalentemente legati ai partiti politici conservatori o reazionari, e in gran parte provenivano dalla tradizione fascista. Allora persino il Pci, che pure aveva delle fortissime componenti staliniste, e quindi anti-libertarie, coltivava il garantismo.

Il grande limite del garantismo, in Italia – e il motivo vero per il quale oggi quasi non esiste più alcuna forma vivente di garantismo di sinistra – sta nel fatto che non è mai stato il prodotto di una battaglia di idee – di una convinzione assoluta – ma solo di una battaglia politica (questo, tranne pochissime eccezioni, o forse, addirittura, tranne la unica eccezione del Partito Radicale). La distinzione tra garantismo e non garantismo oggi si determina calcolando la distanza tra un certo gruppo politico – o giornalistico, o di pensiero – e la casta dei magistrati.

Il “garantismo reale”, diciamo così, non è qualcosa che si riferisce a dei principi e a una visione della società e della comunità, ma è soltanto una posizione politica riferita a un sistema di alleanze che privilegia o combatte il potere della magistratura. Per questo il garantismo non riesce più ad essere un “valore generale” e dunque entra in rotta di collisione con il corpo grosso della sinistra – moderata, radicale, o estremista – che vede nella magistratura un baluardo contro il berlusconismo, e al “culto” di questo baluardo sacrifica ogni cosa.

Tranne in casi specialissimi: quando la magistratura, per qualche motivo, diventa nemico. Per esempio nella persecuzione verso il movimento no-tav. Allora, in qualche caso, anche spezzoni di movimenti di sinistra diventano “transitoriamente” garantisti, e contestano il mito della legalità, ma senza mai riuscire a trasformare questa idea in idea generale: quel garantismo resta semplicemente uno strumento di difesa. Di difesa di se stessi, del proprio gruppo delle proprie illegalità, non di difesa di tutta la società.

Il garantismo può essere di sinistra, per la semplice ragione che il garantismo è una delle poche categorie ideal-politiche che non ha niente a che fare con le tradizionali distinzioni tra sinistra e destra. La sinistra e la destra – per dirla un pò grossolanamente – si dividono sulle grandi questioni sociali e sulla negazione o sull’esaltazione del valore di eguaglianza; il garantismo con questo non c’entra, è solo un sistema di idee che tende a difendere i diritti individuali, a opporsi alla repressione e a distinguere tra “legalità” e “diritto”.

Può essere indifferentemente di destra o di sinistra. A destra, tradizionalmente, il garantismo ha sempre sofferto perché entra in conflitto con le idee più reazionarie di Stato-Patria, Gerarchia-Ordine, Obbedienza-Legalità. A sinistra, in linea teorica, dovrebbe avere molto più spazio, con il solo limite della scarsa “passione” della sinistra per i diritti individuali, spesso considerati solo una variabile subordinata dei diritti collettivi. E quindi, spesso, negati in onore di un Diritto Superiore e di massa.

Ed è proprio in questa morsa tra destra e sinistra – tra statalismo di destra e di sinistra – che il garantismo rischia di morire. Provocando dei danni enormi, in tutto l’impianto della democrazia e soprattutto nel regime della libertà. Perché il garantismo ha molto a che fare con la modernità. Ormai si stanno delineando due ipotesi diverse di modernità. Una molto cupa, iper-capitalistica. Quella che assegna al mercato e all’efficienza il potere di dominare il futuro. E questa tendenza -che a differenza dalle apparenze non è affatto solo di destra ma attraversa tutti gli schieramenti, compreso quello grillino – passa per una politica ultra-legalitaria, che si realizza moltiplicando a dismisura le leggi, i divieti, le regolazioni, le punizioni, le confische e tutto il resto.

L’idea è che moderno significhi “regolato”, “predeterminato” e che per fare questo si debba separare libertà e organizzazione. E anche, naturalmente, libertà e uguaglianza (uguaglianza sociale o uguaglianza di fronte alla legge, o pari opportunità eccetera). E che la libertà sia “successiva” agli altri valori.

Poi c’è una seconda idea, del tutto minoritaria, che vorrebbe che il mercato restasse nel mondo dell’economia, e non pretendesse di regolare e comandare sulla comunità; e vorrebbe organizzare la comunità su due soli valori: la libertà piena, in tutti i campi, e il diritto, soprattutto il diritto di ciascuno. Questa idea qui è l’idea garantista.

E non ha nessuna possibilità di decollare se non riesce a coinvolgere la sinistra. Rischia di ridursi a un rinsecchito principio liberista, o individualista, che può sopravvivere, ma non può volare, non può prendere in mano le redini del futuro. È la sfida essenziale che abbiamo davanti. Chissà se prima o poi qualcuno se ne accorgerà, o se continuerà a prevalere la sciagurata cultura reazionaria di sinistra dei girotondi.

di Piero Sansonetti

Gli Altri, 3 maggio 2014