La Giunta delle Camere Penali Italiane: “C’è un’emergenza carceri e il Governo è l’unico a negare”


unione-camere-penaliPer contrastare la diffusione del coronavirus nelle carceri italiane è necessario diminuire il numero dei detenuti nelle carceri italiane. È quello che dichiara la delibera della Giunta dell’Unione delle Cameri Penali Italiane che esorta il Governo e il Parlamento ad agire in questa direzione.

La Giunta evidenzia più volte la “posizione negazionista” assunta dal “solo Governo”, al contrario di altre istituzioni interessate come il Consiglio Superiore della Magistratura, l’Associazione Nazionale Magistrati, i Presidenti dei più importanti Tribunali di Sorveglianza, l’Università, i Sindacati, il Volontariato e dell’appello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

L’esecutivo è quindi invitato ad adottare misure efficaci provenienti nei confronti della situazione emergenziale nella quale versano le carceri. Criticato anche l’intervento del Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che “ha fornito dati che sconcertano per mancanza di logica e di concretezza di intervento, quali la scarcerazione di 200 detenuti a fronte di 6.000 che si è indicato potrebbero godere delle misure varate, rinviando con noncuranza fino al mese di maggio le possibili applicazioni”.

Posto anche che il “Garante dei detenuti ha ineffabilmente chiarito che il c.d. isolamento all’interno delle carceri dei detenuti portatori di sintomi avviene con una media di tre persone per cella” la Giunta dichiara “che la vera ed indifferibile esigenza di prevenire ed evitare una massiva diffusione del contagio tra la popolazione carceraria può essere soddisfatta solo con una immediata e significativa diminuzione della stessa, in misura tale da eliminare il sovraffollamento rispetto ai posti disponibili e di assicurare anche all’interno degli istituti penitenziari la praticabilità delle misure di prevenzione del contagio che lo stesso Governo impone ai cittadini liberi”.

Tale misura, sottolinea il testo, è stato portato avanti all’estero e invece i provvedimenti adottati dal Governo appaiono (e tali sono ormai unanimemente giudicati) totalmente inadeguati ed addirittura paradossali, come la subordinazione della detenzione domiciliare all’applicazione di braccialetti elettronici che non sono disponibili”.

La Giunta dell’Unione delle Camere Penali chiede allora “con la massima urgenza al Governo ed al Parlamento, anche in sede di conversione in legge del decreto emanato, di adottare ben più incisivi interventi, che l’Unione delle Camere Penali Italiane è in grado di indicare (anche offrendosi per la elaborazione dei testi), ovviamente nei limiti quali-quantitativi che assicurino una applicazione a favore di persone detenute per reati di non rilevante allarme sociale, quali:

– la detenzione domiciliare, indipendentemente dalla disponibilità del braccialetto elettronico, per residui di pena inferiori a 2 anni

– la sospensione fino al 30 giugno della emissione degli ordini di carcerazione di pene fino a 4 anni divenute definitive

– la liberazione anticipata speciale, di 75 giorni a semestre, per buona condotta e l’estensione da 45 a 75 giorni per i semestri già oggetto di concessione

– la concessione di licenze speciali di 75 giorni ai detenuti semiliberi

– per i detenuti in attesa di giudizio, che rappresentano oltre un terzo della popolazione carceraria e che sono presunti innocenti dalla Costituzione, l’attribuzione al giudice competente di un termine di 5 giorni per riesaminare la situazione cautelare in funzione della concessione degli arresti domiciliari, tenendo in considerazione il pericolo alla loro salute in rapporto alla caratteristica di extrema ratio della detenzione cautelare”.

La Giunta auspica infine “un recupero di responsabilità e di umanità, non solo nei confronti della popolazione detenuta, degli agenti di custodia e di tutte le persone che operano nelle carceri, ma anche di tutti i cittadini, perché le strutture sanitarie attualmente sottoposte ad uno sforzo oltre ogni limite immaginabile, non potrebbero sopportare un ulteriore carico di pazienti, peraltro portatori di esigenze di controllo inattuabili”.

Il Riformista, 29 marzo 2020

Droga, Radicali: basta vite spezzate dal proibizionismo. Occorre subito legalizzare


antonella-soldo-e-riccardo-magi-drogaSul suicidio del 16 enne di Lavagna andrà fatta piena chiarezza. La prima ricostruzione dei fatti – tuttavia – lascia supporre che siamo davanti a una nuova vita spezzata dalle politiche proibizioniste. Politiche che in questi decenni non hanno inciso sulla diffusione e il consumo di droghe, ma hanno invece rovinato e rovinano l’esistenza di tantissimi cittadini, per lo più giovani o giovanissimi, come il protagonista di quest’ultima tragica vicenda. Lo afferma Antonella Soldo e Riccardo Magi, Presidente e Segretario del Movimento Radicali Italiani.

Lo confermano dati dell’ultima relazione al parlamento sullo stato delle dipendenze: a fronte di oltre 13 mila denunce complessive per derivati della cannabis – molte di più che per le altre sostanze – i consumatori in Italia restano stabili e superano i 6 milioni. Così, mentre dagli Usa giungono notizie di un calo dei consumi a seguito della legalizzazione della cannabis, nel nostro paese le politiche proibizioniste criminalizzano i cittadini, riempiono le carceri, arricchiscono le narcomafie, intasano i tribunali e, soprattutto, espongono i minori ai pericoli del contatto con la criminalità: circa un terzo degli studenti italiani tra i 15 e i 19 anni ha sperimentato il consumo di almeno una sostanza illecita nel corso dell’ultimo anno e la cannabis è quella maggiormente utilizzata.

E’ ora che il legislatore apra finalmente gli occhi e si decida ad approvare una riforma antiproibizionista come quella che come Radicali abbiamo proposto con la legge popolare per la cannabis legale e la decriminalizzazione dell’uso di tutte le sostanze depositata alla camera con le firme di 68 mila cittadini. Radicali Italiani – concludono Soldo e Magi – continuerà a battersi per questo, anche tra i giovani nelle scuole, dove sempre più spesso siamo invitati a parlare di legalizzazione, per confrontarci sulla base di dati e fatti concreti, e non dell’ideologia.

13 Febbraio 2017 – http://www.radicali.it 

Bruno Bossio (Pd) : “Occorre impedire che si ripeta quanto accaduto alla Diaz. Parlamento approvi subito reato di tortura”


Corte Europea Diritti dell'UomoLa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, con voto unanime, questa mattina ha condannato la Repubblica Italiana per violazione dell’Art. 3 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali che proibisce in termini assoluti la tortura, le pene ed i trattamenti inumani e degradanti. Pronunciandosi sul ricorso promosso dal manifestante vicentino Arnaldo Cestaro, 75 anni, che all’epoca dei fatti ne aveva 62 e che rimase vittima, insieme ad altri 87 no global, del violento pestaggio da parte delle Forze di Polizia durante l’irruzione nella sede del Genova Social Forum, i Giudici Europei hanno stabilito che quanto compiuto dalle Forze dell’Ordine italiane alla Diaz quel 21 luglio 2001 “deve essere qualificato come tortura”. Diversamente, tale irruzione, venne definita dalla Polizia di Stato come una “perquisizione ad iniziativa autonoma” finalizzata alla ricerca di armi e black bloc dopo le devastazioni avvenute in mezza Genova durante le proteste contro il G8. 

L’uomo, il 21 luglio 2001, era il più anziano dei manifestanti presenti nella scuola Diaz a Genova. Gli ruppero un braccio, una gamba e dieci costole durante i pestaggi. Nel ricorso l’uomo afferma che quella notte fu brutalmente picchiato dalle forze dell’ordine tanto da dover essere operato e da subire ancora oggi ripercussioni per alcune delle percosse subite. Cestaro sostiene che le persone colpevoli di quanto ha subito sarebbero dovute essere punite adeguatamente ma che questo non è mai accaduto perché le leggi italiane non prevedono il reato di tortura o reati altrettanto gravi. 

La Corte di Strasburgo, presieduta dal Giudice finlandese Paivi Hirvela, gli ha dato ragione ed hanno deciso all’unanimità che l’Italia (anche) in quella occasione ha violato l’Art. 3 della Convenzione che recita “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti” ed ha altresì condannato perché non ha una legislazione adeguata che punisca il reato di tortura. Infatti, nella sentenza, i Giudici sono andati oltre, affermando che se i responsabili non sono stati mai puniti è soprattutto a causa dell’inadeguatezza delle leggi italiane, che quindi devono essere cambiate. La mancata identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti dipende, secondo la Corte, “in parte dalla difficoltà oggettiva della procura a procedere a identificazioni certe, ma al tempo stesso dalla mancanza di cooperazione da parte della polizia”. Nella sentenza si legge anche che la mancanza di determinati reati non permette allo Stato di prevenire efficacemente il ripetersi di possibili violenze da parte delle forze dell’ordine. In particolare per quanto riguarda il caso di Cestaro, “aggredito da parte di alcuni agenti a calci e a colpi di manganello”, la Corte sottolinea “l’assenza di ogni nesso di causalità” fra la condotta dell’uomo e l’utilizzo della forza da parte della polizia nel corso dell’irruzione nella scuola. E i maltrattamenti “sono stati inflitti in maniera totalmente gratuita” e sono qualificabili come “tortura”. L’azione avviata da Cestaro assume particolare rilevanza poiché è destinata a fare da precedente per un gruppo di ricorsi pendenti. L’Italia dovrà versare a Cestaro un risarcimento di 45mila euro. 

On. Enza Bruno Bossio - PDL’aspetto più rilevante è il fatto che la Corte ha condannato il nostro Paese perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura dice la calabrese Enza Bruno Bossio, Deputato del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia. Credo che il Parlamento debba farsi promotore di un’iniziativa in grado di sanare questo vulnus quanto prima perché quello che è successo alla Diaz ha rappresentato una pagina vergognosa per il nostro Paese. Occorre impedire – conclude l’On. Bruno Bossio – che si ripeta ed è per questo necessario dare vita a un provvedimento che preveda pene certe per il reato di tortura. 

 
Sentenza Cestaro contro Italia – CEDU

Gli orrori delle Carceri e lo scandalo degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari che non chiudono mai


Cella carcere IserniaNelle carceri persiste la problematica dell’ invivibilità nonostante gli appelli del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di Papa Francesco. A dispetto di quello che si dice (e può sembrare), il carcere continua a restare un luogo dove si muore, ci si uccide. Non se ne parla più, è vero: l’impellente urgenza individuata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il suo messaggio solenne al Parlamento, lo hanno gettato alle ortiche.

Pensate: il Parlamento, che pure ha l’obbligo di dibattere il messaggio venuto dal Colle, non lo ha neppure messo in agenda. Sostanzialmente censurato, poi, l’appello di papa Francesco, che ha puntato l’indice sull’ergastolo, definito “morte nascosta”, e ancor meno presa in considerazione la grave denuncia degli ispettori dell’Onu, che ha definito le carceri italiane luogo di tortura; e, come si è detto, si continua a morire, tra la generale indifferenza.

L’ultimo episodio riguarda un detenuto calabrese 56enne, ristretto per omicidio e condannato ad una pena di 30 anni, morto per infarto causato da una embolia nel carcere toscano di Porto Azzurro. Ne da notizia il Sappe, sindacato di Polizia Penitenziaria.

“Il detenuto aveva un fine pena nel 2018 e fruiva regolarmente di permessi premio, avrebbe dovuto fruirne uno proprio il prossimo venerdì” – spiega il segretario del Sappe, Donato Capece. “È deceduto dopo aver accusato alcuni malori e problemi di respirazione. Nonostante i tempestivi interventi del personale di Polizia Penitenziaria, di quello medico e paramedico non c’ stato purtroppo nulla da fare”.

Le stime sulla salute dei detenuti italiani elaborate vedono in testa alla classifica delle patologie più diffuse le malattie infettive (48%); i disturbi psichiatrici (27%); le tossicodipendenze (25%); le malattie osteoarticolari (17%); le malattie cardiovascolari (16%); i problemi metabolici (11%); le Claudiopatologie dermatologiche (10%). Per quanto riguarda le infezioni a maggiore prevalenza, il bacillo della tubercolosi colpisce il 22% dei detenuti, l’hiv il 4%, l’epatite B (dormiente) il 33%, l’epatite C il 33% e la sifilide il 2,3%”. Non solo: i dati raccolti dalla Società italiana di medicina e sanits’ penitenziaria ci dicono che il 60-80% dei detenuti affetto da una patologia. Un detenuto su due soffre di una malattia infettiva, quasi uno su tre di un disturbo psichiatrico, circa il 25% tossicodipendente. Solo 1 detenuto su 4 ha fatto il test per l’Hiv.

Per tornare alle morti in carcere: nei primi mesi del 2014 “è stato raggiunto un nuovo picco di suicidi nelle carceri italiane: il 40% di tutti i decessi in carcere è infatti rappresentato da suicidi”. Lo ha affermato il presidente della Società italiana di psichiatria (Sip), Claudio Mencacci, sottolineando che nel 2013 la quota di suicidi era stata pari al 30%, contro il 40% del 2012 ed oltre il 40% del 2009.

Prima di terminare questa nota. Ricordate gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari? Li si doveva chiudere, abolire. Proroghe a non finire, perché non si era ancora pronti, poi il solenne impegno delle Regioni di istituire strutture alternative e risolvere finalmente questa dolorosissima questione che il presidente Napolitano aveva qualificato come vera e propria barbarie… Ebbene, cos’è accaduto? Un bel nulla. Nella “Relazione sul programma di superamento degli Opg”, trasmessa dal Ministro della Salute Beatrice Lorenzin e dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando si sostiene che, “allo stato, appare irrealistico che possa addivenirsi alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari entro la data del 31 marzo 2015.

La ragione di fondo di tale previsione risiede nell’acclarata impossibilità che le Regioni possano, entro il termine previsto dal decreto legge n. 52 del 31 marzo 2014, portare a compimento l’opera di riconversione delle strutture, con la realizzazione delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza)”.

Di fatto, il Governo ammette che poco o nulla in questi mesi è stato fatto dalle Regioni per realizzare le nuove strutture (Rems) che garantissero ai malati psichiatrici una degenza nel pieno rispetto della loro dignità, secondo quanto stabilito sia dal decreto legge di proroga che dalla risoluzione approvata dalla Commissione Igiene e Sanità.

Insomma: l’avvilente ammissione che la tutela della salute e della dignità umana sono vittime degli inammissibili ed ingiustificabili ritardi della politica. A suo tempo il governo Monti aveva messo a disposizione circa 180 milioni di euro per la realizzazione di nuove strutture. Sarebbe interessante sapere che fine hanno fatto, come sono stati utilizzati, e da chi.

Valter Vecellio

http://www.lindro.it, 6 novembre 2014

Ospedali Psichiatrici Giudiziari….. la tortura continua. Chiesta una nuova proroga


OPGLa relazione sugli Opg dei ministri Lorenzin e Orlando, dice che è “irrealistico pensare di eliminare le strutture” a breve. Si prospetta quindi un’ulteriore proroga per la chiusura definitiva degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg).

Secondo la relazione sul Programma di superamento degli opg trasmessa al Parlamento dai ministri della Salute, Beatrice Lorenzin, e della Giustizia, Andrea Orlando, aggiornata al 30 settembre, sarebbe irrealistico pensare di chiudere le strutture entro il 15 marzo del 2015, come previsto dall’ultimo decreto legge.

“Nonostante il differimento al 31 marzo 2015 del termine per la chiusura degli Opg, sulla base dei dati in possesso del ministero della Salute – si legge nella relazione – appare non realistico che lo Regioni riescono a realizzare e riconvertire le strutture entro la predetta data. In caso di mancato rispetto dell’anzidetta data, ovvero in caso di mancato completamento delle strutture nel termine previsto dai programmi regionali, è ferma intenzione dei ministri attivare la procedura che consente al governo di provvedere in via sostitutiva. È quindi di nuovo auspicabile un ulteriore differimento del termine di chiusura degli Opg”.

Inizialmente dovevano essere 38 i milioni predisposti dallo Stato affinché le Regioni presentassero i programmi di conversione degli Ospedali psichiatrici giudiziari in strutture sanitarie alternative. Oggi, secondo l’ultimo aggiornamento del ministero della Salute e del ministero della Giustizia, la spesa è salita a 88,5 milioni di euro. I costi, dunque, continuano incredibilmente a lievitare. Tutta colpa della lentezza della macchina burocratica regionale che è da anni che dovrebbe chiudere quelli che Amnesty International ha definito “luoghi di tortura”, senza però ancora riuscirci. La vicenda è drammatica perché ci sono stati rinvii su rinvii.

Dapprima si pensava al 31 marzo 2013 come termine ultimo concesso alle Regioni per presentare appunto il programma di conversione. Ma non era stato sufficiente. E allora si va di proroga in proroga, Fino all’ultimo decreto firmato dal governo che ha posticipato il termine al 31 marzo 2015. L ‘ultima proroga aveva sollevato reazioni, in particolare quella del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel firmare il decreto legge aveva espresso “estremo rammarico, per non essere state in grado le Regioni di dare attuazione concreta a quella norma ispirata a elementari criteri di civiltà e di rispetto della dignità di persone deboli”.

Il Capo dello Stato aveva comunque “accolto con sollievo interventi previsti nel decreto legge per evitare ulteriori slittamenti e inadempienze, nonché per mantenere il ricovero in ospedale giudiziario soltanto quando non sia possibile assicurare altrimenti cure adeguate alla persona internata e fare fronte alla sua pericolosità sociale”. Il decreto legge del marzo scorso, infatti, prescrive che “il giudice disponga nei confronti dell’infermo o del seminfermo di monto l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dal ricovero in Opg o in una casa di cura e di custodia, a eccezione dei casi in cui emergano elementi dai quali risulti che, ogni altra misura diversa dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario non sia idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale”.

La nuova proroga che secondo la relazione ministeriale si renderà necessaria, “tuttavia dovrebbe essere accompagnata dalla previsione di misure normative finalizzate a consentire la realizzazione e riconversione delle anzidette strutture entro tempi certi; a tal fine si ritengono tuttora valide le proposte formulate nella precedente Relazione inviata al Parlamento: misure normative volte a semplificare e razionalizzare le procedure amministrative; possibilità di avvalersi del silenzio-assenso per le autorizzazioni amministrative richieste a livello locale”.

Con la nuova relazione trasmessa al Governo, quindi, si apprende che passera ancora molto tempo affinché gli Opg chiudano definitivamente. Se si considera che attualmente la regione Piemonte ha già previsto che dovranno passare altri 24 mesi per la realizzazione della struttura sanitaria alternativa, si arriverà dunque a fine 2016. Ancora peggio per la struttura sanitaria di Abruzzo e Molise: sono stati stimati 2 anni e 9 mesi. Si arriverà, in questo caso, all’estate del 2017. Nel frattempo gli internati continuano a vivere negli opg. Abbandonati e prigionieri.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 1 novembre 2014

Giustizia : il 1992 fu un anno di giustizia sommaria… come fanno a dimenticarsene ?


Giustizia 2E proprio una storia di patacche e pataccari quella del circo equestre giudiziario che, imbarcatosi a Palermo, si è spinto fino alle stanze del Quirinale a celebrare il trionfo degli storiografi della “trattativa Stato-mafia”. Ma per fare gli storiografi bisogna conoscere la storia, o perché la si è vissuta o perché la si è studiata. Se si è invece spacciatori di patacche, si vendono solo fandonie, addomesticando la realtà a proprio piacimento.

Il succo della patacca “trattativa Stato-mafia” racconta che nel biennio 1992-93 i vertici dello Stato (presidente della Repubblica, ministri degli Interni e della Giustizia, presidenti di Camera e Senato) minacciati di morte e ricattati dalla mafia, decisero di salvare la propria vita e di sacrificare quella di magistrati e di cittadini innocenti. La mafia avrebbe così cambiato la direzione degli attentati, spostandoli dai palazzi del potere ad altri obiettivi.

E in che modo i vertici dello Stato avrebbero “pagato” il pizzo alla mafia? Eliminando dagli incarichi di potere i “duri”, i repressori della criminalità organizzata, sostituendoli con persone più morbide e disponibili nei confronti della criminalità organizzata. Fino a non prorogare il provvedimento di carcere duro per un notevole gruppo di mafiosi.

Qualunque testimone dell’epoca dovrebbe essere in grado di smentire la Grande Patacca, se tanta smemoratezza non avesse colpito i protagonisti del tempo. Spremiamo allora un po’ le meningi. Di garantisti ne circolavano ben pochi, in quegli anni, stretti come erano governi e parlamento tra il massacro (giudiziario e carcerario) di tangentopoli e quello cruento delle stragi di mafia. Tanto che provvedimenti spesso incostituzionali (come il decreto Scotti-Martelli) o autolesionistici (come l’abrogazione dell’immunità parlamentare) venivano votati a grande maggioranza e alla velocità delle luce.

Così anche un ministro socialista come il guardasigilli Claudio Martelli divenne protagonista di leggi speciali e fautore del regime di 41-bis che introdusse un regime di vera tortura nei confronti di persone in attesa di giudizio (di cui la metà verrà assolta) nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Gli aspiranti storiografi pataccari hanno persino detto che Martelli a un certo punto si dimise (o addirittura fu fatto dimettere) per lasciare il posto al duttile Conso, più propenso a trattare con la mafia.

Allora va precisato prima di tutto che il ministro socialista si dimise il 10 febbraio 1993 in seguito a una telefonata del procuratore capo di Milano Saverio Borrelli il quale gli comunicava di aver emesso nei suoi confronti un avviso di garanzia. In secondo luogo che il suo successore Conso non fu affatto più “morbido”.

Basterebbe agli apprendisti storiografi andare a leggere il resoconto dell’audizione del ministro alla commissione giustizia della Camera il 3 novembre del 1993, quando sostenne con forza l’uso indiscriminato dell’articolo 41-bis proprio perché, diceva, attraverso questa forma di repressione si otteneva più facilmente che i mafiosi “si pentissero”.

Certo, gli fu obiettato, sappiamo tutti che basta torturare per far parlare le persone. Che importa se magari inventano?

L’altra Grande Patacca degli apprendisti storiografi è quella della sostituzione al vertice del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) del presidente Nicolò Amato, nel giugno 1993, con la coppia Capriotti-Di Maggio. Il dottor Amato fa torto a se stesso e alla propria storia di vero garantista dicendo di esser stato cacciato dalla mafia che avrebbe preferito Di Maggio perché più “morbido”.

Bisognerebbe chiederlo ai detenuti dell’epoca se ci fu morbidezza nel colloqui investigativi, inventati e santificati proprio da Di Maggio, che divennero il pentitificio e crearono mostri come Domenico Scarantino, il falso pentito dell’omicidio Borsellino. La verità è il contrario di quella raccontata da pataccari e travaglini.

Amato non voleva i trasferimenti dei detenuti alle isole e aveva chiesto la revoca dei provvedimenti di 41-bis addirittura in un documento del 6 marzo 1993. Fu il presidente Scalfaro in persona a sollecitarne l’allontanamento per far spazio a quel Francesco Di Maggio che creò pentiti e patacche. Questi sono pezzetti di storia vissuta, cari apprendisti storiografi.

Tiziana Maiolo

Il Garantista, 30 ottobre 2014

Il Governo chiede l’ennesima proroga per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari


opgÈ irrealistico pensare di chiudere gli Ospedali Psichiatrici giudiziari entro il 15 marzo 2015, come previsto dal decreto legge approvato nel marzo scorso. Servirà quindi un’ulteriore proroga. A lanciare l’allarme è la relazione sul Programma di superamento degli Opg trasmessa al Parlamento dai ministri della Salute, Beatrice Lorenzin, e della Giustizia, Andrea Orlando, aggiornata al 30 settembre.

“Nonostante il differimento al 31 marzo 2015 del termine per la chiusura degli Opg, sulla base dei dati in possesso del ministero della Salute – si legge nel documento – appare non realistico che le Regioni riescano a realizzare e riconvertire le strutture entro la predetta data.

In caso di mancato rispetto dell’anzidetta data, ovvero in caso di mancato completamento delle strutture nel termine previsto dai programmi regionali, è ferma intenzione dei ministri attivare la procedura che consente al governo di provvedere in via sostitutiva. È quindi di nuovo auspicabile un ulteriore differimento del termine di chiusura degli Opg”.

Già l’ultima proroga decisa aveva sollevato reazioni, in particolare quella del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel firmare il decreto legge aveva espresso “estremo rammarico, per non essere state in grado le Regioni di dare attuazione concreta a quella norma ispirata a elementari criteri di civiltà e di rispetto della dignità di persone deboli”.

Il Capo dello Stato aveva comunque “accolto con sollievo interventi previsti nel decreto legge per evitare ulteriori slittamenti e inadempienze, nonché per mantenere il ricovero in ospedale giudiziario soltanto quando non sia possibile assicurare altrimenti cure adeguate alla persona internata e fare fronte alla sua pericolosità sociale”.

Il decreto legge del marzo scorso, infatti, prescrive che “il giudice disponga nei confronti dell’infermo o del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dal ricovero in Opg o in una casa di cura e di custodia, ad eccezione dei casi in cui emergano elementi dai quali risulti che, ogni altra misura diversa dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario non sia idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale”.

La nuova proroga che secondo la relazione ministeriale si renderà necessaria, “tuttavia dovrebbe essere accompagnata dalla previsione di misure normative finalizzate a consentire la realizzazione e riconversione delle anzidette strutture entro tempi certi; a tal fine si ritengono tuttora valide le proposte formulate nella precedente Relazione inviata al Parlamento: misure normative volte a semplificare e razionalizzare le procedure amministrative; possibilità di avvalersi del silenzio-assenso per le autorizzazioni amministrative richieste a livello locale”.

“Le misure normative di semplificazione appaiono necessarie in quanto l’iter procedurale richiesto per la progettazione e la realizzazione delle strutture si distanzia notevolmente dai termini previsti dalle precedenti proroghe”.

“Fermi restando i profili di sicurezza, il presupposto sostanziale perché questo percorso politico e amministrativo prosegua – sottolinea ancora la relazione ministeriale – è la maturazione di una nuova cultura, un nuovo modo di guardare alla chiusura degli Opg e delle problematiche connesse, una attenzione qualificata degli attori politici e dei mezzi di informazione. Si cercherà di lavorare con interventi volti a contrastare il pregiudizio nei confronti dei soggetti affetti da malattia mentale, pur se autori di fatti costituenti gravi reati”.

Dopo l’approvazione del decreto del marzo scorso, spiega ancora la relazione trasmessa al Parlamento, “si è rilevata una leggera ma costante diminuzione delle presenze” negli Opg, “che alla data del 9 settembre 2014 vede 793 internati presenti a fronte degli 880 alla data del 31 gennaio 2014. Questo dato va comparato con quello dei flussi degli ingressi che nell’arco di un trimestre si è valutato attestarsi mediamente intorno a circa 10 pazienti per ciascun Opg, per un totale di 67 persone a trimestre”. Nel periodo che va dal primo giugno 2014 (dopo la conversione in legge del decreto), al 9 settembre 2014 si è avuto l’ingresso di 84 persone”. Attualmente gli ospedali psichiatrici giudiziari sono 6: Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Montelupo fiorentino, Napoli, Reggio Emilia.

– LEGGI LA RELAZIONE AL PARLAMENTO (PDF)

Carceri, le Nazioni Unite richiamano l’Italia. Pannella in sciopero della sete


Nazioni Unite OnuL’Italia dovrebbe fare uno sforzo per “eliminare l’eccessivo ricorso alla detenzione e proteggere i diritti dei migranti”. A chiedere alle autorità italiane “misure straordinarie” sul tema è un comunicato del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria reso noto al termine di una visita di tre giorni nel paese (7-9 luglio).

“Quando gli standard minimi non possono essere altrimenti rispettati, il rimedio è la scarcerazione”, ha detto Mads Andenas, Presidente del Gruppo. Gli esperti ricordano le raccomandazioni formulate dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2013, incluse le proposte in materia di amnistia e indulto, e le considerano “quanto mai urgenti per garantire la conformità al diritto internazionale”.

Per l’Onu le recenti riforme tese a ridurre la durata delle pene detentive, il sovraffollamento carcerario e il ricorso alla custodia cautelare sono positive, ma sussistono preoccupazioni per l’elevato numero di detenuti in regime di custodia cautelare ed il ricorso sproporzionato alla custodia cautelare per gli stranieri e i Rom, minori compresi.

L’Italia – spiega il gruppo dell’Onu – non ha una politica generale di detenzione obbligatoria per tutti i richiedenti asilo e migranti irregolari, ma restiamo preoccupati per la durata della detenzione amministrativa e per le condizioni detentive nei Centri di identificazione ed espulsione”.

Gli esperti si dicono inoltre preoccupati per i resoconti dei rimpatri sommari e per il fatto che “il regime detentivo speciale previsto dall’articolo 41 bis” per i mafiosi non è ancora stato allineato agli obblighi internazionali in materia di diritti umani. Composto da cinque esperti, il gruppo di lavoro dovrebbe presentare un rapporto al Consiglio Onu dei diritti umani nel settembre 2015.

Monica Ricci Sargentini

Corriere della Sera, 12 luglio 2014

http://www.radioradicale.it/l-onu-all-italia-carceri-troppo-affollate-trovate-alternative-alla-detenzione

Intercettazioni, un abuso. Per bloccarlo serve la separazione delle carriere


giustizia1-640x436Da uno studio elaborato qualche tempo fa dall’Eurispes sui dati forniti dal ministero della Giustizia, emerge che ogni anno in Italia si eseguono circa 181 milioni di intercettazioni. Il fenomeno è in costante aumento – basti pensare che il numero delle utenze intercettate è cresciuto negli ultimi otto anni quasi del 30% – e non si riferisce unicamente alle conversazioni, ma ad “eventi” telefonici genericamente intesi ovvero chiamate in uscita, chiamate senza risposta, messaggistica e localizzazioni (tutte informazioni comunque “sensibili”).

Sempre secondo i dati forniti dall’Ufficio statistico del ministero della Giustizia, tra le diverse tipologie di intercettazione quelle telefoniche rappresentano il 90% del totale (125 mila) quelle ambientali l’8,4% (quasi 12 mila), mentre quelle informatiche e telematiche solo 11,6% (poco più di 2 mila). Tutto questo ovviamente ha un costo per i cittadini, visto e considerato che solo di intercettazioni telefoniche lo Stato spende circa 220 milioni di euro all’anno.

Di fronte a questi dati allarmanti, i vari governi che si sono succeduti nel corso di queste ultime tre legislature – attuale esecutivo compreso – hanno più volte preannunciato di voler intervenire per arginare l’uso smodato e dilatato di questo delicato strumento di indagine. Il numero esorbitante delle intercettazioni solleva infatti l’enorme problema dei processi che si fanno sui giornali, tramite la pubblicazioni di conversazioni telefoniche estrapolate dal contesto, di cui sono pubblicate solo poche righe tolte da una conversazione molto più ampia, il che spesso fa venire meno la presunzione di innocenza. Per non parlare poi dei discorsi privati o di persone estranee alle indagini che vengono indebitamente pubblicati da una stampa più attenta al gossip che ai diritti della persona. Sicuramente sul fronte degli abusi nella pubblicazione delle intercettazioni sarebbe auspicabile l’intervento del legislatore, purché sia chiaro che il problema non può essere affrontato come è stato fatto finora ossia assumendo come premessa che i giornalisti possono pubblicare tutto, sia ciò che è frutto di intercettazioni illecite, e quindi non utilizzabili nel processo, sia le notizie irrilevanti ai fini dell`inchiesta. Ma, a parte questo aspetto della indebita pubblicazione delle conversazioni telefoniche sui mezzi di comunicazione, sono davvero indispensabili nuovi interventi legislativi per rimediare agli abusi commessi dalla magistratura mediante lo strumento delle intercettazioni telefoniche?

Il dubbio non è affatto campato per aria, visto che in teoria il regime processuale vigente, regolante le intercettazioni telefoniche, già rappresenta la migliore soluzione tecnica possibile di tutti i problemi che la materia pone per sua natura (bilanciamento tra il diritto alla riservatezza ed alla privatezza e la potestà statuale di indagine; conseguenti limiti di divulgazione e pubblicazione). Il problema seminai sta nella interpretazione, letteralmente eversiva, che di quelle norme hanno dato i giudici nel corso degli anni. Lo snodo centrale è quello della motivazione dei decreti autorizzativi (e di proroga) delle intercettazioni. Sul punto la giurisprudenza soprattutto quella di legittimità – ha vanificato il senso dell’obbligo di motivazione da parte del giudice per le indagini preliminari (gip) rendendo legittime motivazioni puramente stereotipe ed apparenti.

L’esperienza dimostra infatti come i pubblici ministeri tendano ad “assecondare” le pressanti sollecitazioni che provengono dalla polizia giudiziaria e se ne facciano carico presso il gip, che a sua volta si limita spesso sostanzialmente a “vistare” la richiesta. Una prassi che è degenerata al punto di registrare con intollerabile frequenza motivazioni “per relationem di secondo grado”, che si risolvono in un “richiamo nel richiamo, ossia nel rinvio all’atto di polizia giudiziaria”.

Sarebbe insomma sufficiente che i giudici facessero un serio vaglio di controllo sulle richieste del pubblico ministero e subito la quantità delle intercettazioni disposte si avvicinerebbe alla quantità di intercettazioni effettivamente indispensabili. Ecco perché noi radicali insieme all`Unione delle Camere Penali Italiane – continuiamo a ritenere poco utile immaginare modifiche che rendano più cogente l`obbligo di motivazione dei decreti con i quali vengono disposte le captazioni telefoniche, se poi alle stesse non si accompagna il recupero di terzietà del Giudice chiamato ad autorizzare le intercettazioni richieste dal PM, recupero che può essere garantito solo attraverso le ormai improcastinabili riforme ordinamentali e costituzionali della magistratura che conducano a separare radicalmente le carriere ed i ruoli di giudici e pubblici Ministeri.

Alessandro Gerardi

Notizie Radicali, 30 Giugno 2014

 

Giustizia. L’ennesima riforma truffa firmata Renzi, Orlando, PD


Andrea Orlando Ministro GiustiziaDunque, appuntamento a lunedì, quando il Consiglio dei Ministri discuterà le proposte di riforma della Giustizia. Comunque il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha già voluto rassicurare la magistratura associata incontrandone i vertici. Già questo è un mattino che fa capire che tipo di “buongiorno” sarà. C’è una coda infinita di processi, circa nove milioni, tra penale e civile. Se non si parte di qui, questo il ragionamento di Orlando, “non ci si raccapezza più”. Per raccapezzarci, ben cinque mosse: snellimento, con interventi sia sul codice di procedura civile e che quello di procedura penale; potenziamento della magistratura ordinaria e onoraria; sterzata ai tempi del CSM; punizioni e responsabilità; garanzia effettiva che i processi non cadano nel vuoto con la prescrizione, come avviene ora.

A parte il merito delle proposte –bisognerà vigilare sui prevedibili pasticci che saranno capaci di combinare con gli interventi sui codici di procedura penale e civile– siamo a programmi da mille e passa giorni. E cosa si vuole fare, per esempio, per evitare le prescrizioni? Si allungheranno i tempi. Bingo!

E per quanto la responsabilità civile dei magistrati? Il Governo esclude quella diretta, e avrebbe già pronto un ddl che riscrive la responsabilità civile per i magistrati: via il filtro e una rivalsa dello Stato sulla toga non più di un terzo, ma della metà; e dunque chissenefrega di quanto ha approvato pochi giorni fa la Camera dei deputati accogliendo l’emendamento Pini. Del resto lo si è fatto tranquillamente con il referendum Tortora, i cui risultati erano inequivocabili, e venne varata una normativa che andava in senso opposto…

Nel frattempo che accade in città? Che viene presentato il quinto Libro Bianco sulla legge Fini-Giovanardi. Se ne ricava che il 38,6 per cento dei detenuti presenti nelle carceri italiane sono imputati-condannati per reati di droga. Il rapporto conferma gli effetti nefasti di 8 anni illegittimi di legge Fini-Giovanardi. Nel 2013, su un totale di 59.390 ingressi negli istituti penitenziari, il 30,56 per cento era per violazione dell’art.73 Dpr 309/90 mentre quasi il 40 per cento delle presenze in carcere al 31.12.2013 sono dovute direttamente alla legge sulle droghe.

Nonostante i ripetuti proclami gli affidamenti terapeutici dei tossicodipendenti restano al di sotto del dato precedente all’approvazione della legge, ed oggi avvengono perlopiù dopo un periodo di detenzione. Resta irrisolto il grave problema dei detenuti che stanno scontando pene ritenute illegittime dalla Corte Costituzionale: in assenza di un intervento legislativo si rischia il collasso dei Tribunali, costretti ad esaminare una per una le richieste di ricalcolo delle pene o peggio si rischia di lasciare scontare alle persone pene ingiuste.

Per quanto riguarda il sistema di repressione se si sommano le denunce per hashish, per marijuana e per le piante si raggiunge la cifra di 15.347 casi (45,37 per cento del totale). La “predilezione” del sistema repressivo per la cannabis è confermata dal numero di operazioni che aumentano, in controtendenza con tutte le altre sostanze, del 35,24 per cento rispetto al 2005.

Insomma, la mancata distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere”, abrogata poi dalla Consulta, e il carcere anche per il piccolo spaccio, sono la combinazione che in sette anni di applicazione della Fini-Giovanardi ha ingolfato il sistema carcerario di “pesci piccoli”, pusher tossicodipendenti a loro volta, che vendono droga per procurarsi la dose.

Sono 18mila i detenuti per il solo articolo 73 delle legge sulle droghe, che punisce la coltivazione, la detenzione e lo spaccio, mentre pochi, solo 810, scontano la pena o sono imputati del ben più grave articolo 74, l’associazione finalizzata al traffico; circa 5.400 rispondono di entrambe le imputazioni. Si tratta di cifre ufficiali, numeri forniti dal Dap. Negli anni di applicazione della Fini-Giovanardi c’è stato un aumento continuo degli ingressi in carceri per droga, passati in percentuale dal 28 al 30,6 per cento tra il 2006 e il 2013, e delle presenze, aumentate nello stesso periodo da 14.640 a 23.346, annullando rapidamente l’effetto dell’indulto.

Come si vede, la questione giustizia riguarda sì le carceri e le indegne condizioni in cui versano, ma non solo; e sempre più diventa centrale e urgente, affare che riguarda tutti, non solo i detenuti; i provvedimenti annunciati dal Governo Renzi sono motivo di inquietudine. L’unica preoccupazione del presidente del Consiglio, del ministro della Giustizia e del PD è quella di non entrare in rotta di collisione con la magistratura associata. Possono essere molte le ragioni alla base di questa scellerata scelta di campo; quello che è certo è che si tratta di riforme che non riformeranno nulla, anzi…

Valter Vecellio

Notizie Radicali, 27 Giugno 2014