Sabella (Giudice): Provenzano era un vegetale, il 41 bis andava revocato, non può essere strumento di tortura


“Il 41bis è uno strumento indispensabile, non perdiamolo solo perché lo applichiamo per vendetta o, peggio ancora, per gli umori del Paese”. Il magistrato Alfonso Sabella, ex sostituto procuratore del pool Antimafia di Palermo di Gian Carlo Caselli e ora giudice del Riesame a Napoli, queste parole le pronunciava anche due anni fa, quando il boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano era ancora vivo. Ma Provenzano è rimasto al 41bis anche in coma: secondo i giudici era ancora pericoloso. Una decisione ora punita dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo, secondo cui il boss sarebbe stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e che mette a rischio, secondo Sabella, lo stesso strumento.

Dottor Sabella, cosa ci dice questa sentenza?

Provenzano era in stato vegetativo, quindi che abbiamo utilizzato il 41bis come strumento di tortura. Le perizie, non solo quella di parte, ma anche quella del giudice e della Procura, attestavano che non era in condizione di dare nessun tipo di ordine dal carcere o di elaborare un pensiero diverso da “ho fame” e “ho sonno”.

Lei ha sostenuto sin da subito che andasse revocato…

Sì, proprio per salvare lo strumento. Non sono per l’idea che vada abolito, anzi: ritengo sia indispensabile per la lotta alla criminalità organizzata. Ma in quel caso, visto che ci si trovava davanti ad un vegetale, era indispensabile revocarlo. Era scontato l’esito di Strasburgo e basta un altro errore di questo tipo perché la Cedu ci dica che l’Italia usa il 41bis come strumento di tortura e non come strumento di salvaguardia di altri beni costituzionali.

È stata violata la sua dignità?

Provenzano è morto con dignità all’interno di una struttura sanitaria, la cosa però obiettivamente sgradevole è il fatto che si stato impedito ai suoi familiari di avere un contatto fisico con lui nelle ultime settimane della sua vita e di incontrarlo un po’ più frequentemente di una volta al mese e senza vetro divisorio. Non stiamo parlando del problema della detenzione, perché in carcere ci doveva stare, anche per la funzione retributiva della pena nel nostro ordinamento. Il problema è come ci doveva stare e credo che su questo la Corte abbia messo l’accento, soprattutto dopo che è stata accertata la sua condizione. La questione andava affrontata con molta laicità, perché era più che evidente che Provenzano non era capace di dare ordini alla sua cosca.

Perché non è stato revocato?

Si temevano le reazioni, perché era Provenzano. Invece revocare il 41bis a un vegetale è la cosa più normale del mondo. Se fosse stato in grado di dare ordini sarebbe stata un’aberrazione, ma è altrettanto aberrante averlo mantenuto ad un signore incapace di intendere e di volere.

È stato un problema di opinione pubblica più che di ordine pubblico, quindi?

Sì. Ma una cosa è la giustizia privata, una cosa è lo Stato. Uno Stato deve marcare la differenza con le organizzazioni criminali, non fa vendette, applica la legge, i principi fondamentali della nostra Costituzione e della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo. Altrimenti torniamo alla legge del taglione e chiudiamola qua.

Cosa cambierà dopo questa sentenza?

Io mi auguro che si tragga un insegnamento, cioè che il 41bis va limitato ai casi in cui c’è il pericolo che possano essere dati ordini all’esterno e quindi continuare a dirigere l’organizzazione criminale. A differenza di Provenzano, Salvatore Riina, ad esempio, è stato lucido fino all’ultimo istante, quindi è stato giusto mantenere il 41bis, per- ché in quel caso c’erano altri beni costituzionali a rischio.

Perché lo Stato non riesce ad applicare le sue stesse leggi?

Perché questo è un Paese che ragiona di pancia, senza pensare che la revoca del 41bis a Provenzano sarebbe stato un modo per tutelare lo stesso strumento, cioè applicandolo ai casi per cui è stato pensato. Ora, invece, c’è il rischio che la prossima volta in cui non avremo il coraggio di prendere delle decisioni impopolari ma giuste la Cedu dica che l’Italia si maschera dietro la scusa dell’ordine e della sicurezza pubblica per applicare uno strumento di tortura. E allora non potrà più stare nel nostro ordinamento. Se il ministro Orlando, all’epoca, avesse preso questa decisione, ci sarebbero state tante e tali di quelle polemiche da far cadere il governo.

I penalisti si dicono preoccupati in merito all’atteggiamento del nuovo governo sul tema. Qual è la sua opinione?

Non so come si sta muovendo, spero soltanto che non si agisca sempre sulla base delle pulsioni del momento, che forse possono portare qualche voto in più, ma che probabilmente fanno danni al Paese.

Simona Musco

Il Dubbio, 27 ottobre 2018

Paola, il Ministro della Giustizia Orlando risponde in Parlamento sulle morti in Carcere


Il Governo Gentiloni, per il tramite del Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando, nei giorni scorsi ha risposto alle Interrogazioni a risposta scritta presentate il 16 novembre 2016 dai Senatori della Repubblica Peppe De Cristofaro, Loredana De Petris, Francesco Molinari, Ivana Simeoni, Serenella Fucksia e Giuseppe Vacciano. Lo rende noto Emilio Enzo Quintieri, esponente dei Radicali Italiani, da tempo alla guida della delegazione visitante gli Istituti Penitenziari della Calabria.

Con gli atti di sindacato ispettivo n. 4-06659 e 4-06665, scrive il Ministro della Giustizia, si segnalano le vicende di Youssef Mouhcine e di Maurilio Pio Massimiliano Morabito, deceduti rispettivamente il 24 ottobre ed il 29 aprile 2016, mentre si trovavano detenuti presso la Casa Circondariale di Paola. L’argomento investe, evidentemente, su un tema di estrema delicatezza, su cui è concentrato il massimo impegno da parte del Ministero. Sugli episodi segnalati, la competente articolazione ministeriale ha avviato le opportune attività di accertamento ispettivo, parallelamente alle indagini preliminari disposte dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Paola. L’attività ispettiva, secondo quanto comunicato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha consentito di ricostruire la vicenda relativa alla morte di Youssef Mouhcine nei seguenti termini.

Il detenuto, tratto in arresto il 5 marzo 2016, con ingresso presso la Casa Circondariale di Paola il successivo 29 aprile, stava scontando una pena definitiva a 10 mesi di reclusione, con fine pena fissato al 15 novembre 2016. Fin dall’accesso in istituto, il detenuto aveva manifestato problematiche relazionali, su sua richiesta era stato collocato da solo in una camera detentiva e manteneva, sia pur sporadici, contatti telefonici con il padre. Egli è stato seguito dai servizi sanitari e di supporto all’interno dell’istituto e la psicologa ha relazionato i risultati della sua osservazione nei seguenti termini: il detenuto ha riferito un passato di abusi di alcol, eroina e cocaina, in relazione ai quali era stato preso in carico dal Sert di Bassano del Grappa; ha manifestato durante la detenzione, fluttuazioni del tono dell’umore, con fasi di innalzamento dei livelli di ansia nel corso delle quali ha messo in atto gesti autolesionistici che, tuttavia, non sono mai parsi sintomatici di un reale desiderio suicidiario, ma connessi ad un transitorio discontrollo dell’impulsività; in concomitanza di tali eventi è stata intensificata l’attività di supporto e la frequenza delle visite psicologiche e psichiatriche, anche con prescrizione di terapia farmacologica; nel corso dei colloqui più recenti, l’ultimo dei quali del 20 ottobre 2016, aveva raggiunto un buon equilibrio psicoemotivo, anche in vista della prossima scarcerazione. La mattina del 24 ottobre 2016 il personale di Polizia Penitenziaria, aprendo la sua cella e facendovi ingresso, ha rinvenuto Youssef Mouhcine privo di vita, con la testa avvolta in una busta di plastica al cui interno si trovava il fornellino in uso con inserita la bomboletta del gas.  Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, all’esito degli accertamenti ispettivi, ha comunicato che non sono emerse responsabilità in capo al personale. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Paola, dal canto suo, ha comunicato di essere ancora in attesa delle risultanze della consulenza medico-legale disposta per l’accertamento di cause e mezzi del decesso nell’ambito del Procedimento Penale iscritto a carico di ignoti al n. 3385/16 R.G.N.R. Mod. 44. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha riferito che la Direzione dell’istituto penitenziario ha informato dell’evento il Consolato del Marocco, non riuscendo a contattare direttamente al numero disponibile i congiunti, i quali venivano finalmente contattati il 27 ottobre per la partecipazione della notizia. In quella sede, i familiari avrebbero rappresentato difficoltà economiche per il trasporto della salma in Marocco e prestavano assenso alla sepoltura del congiunto in Italia, con oneri sostenuti dal Comune di Paola. Ancora, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha riferito che non risulta che il detenuto sia mai stato sottoposto a maltrattamenti o a trattamenti degradanti o inumani né risulta che presso la Casa Circondariale di Paola siano utilizzate “celle lisce”.

Per quanto attiene alla vicenda relativa al decesso del detenuto Maurilio Pio Massimiliano Morabito, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha riferito che, dopo aver fatto ingresso alla Casa Circondariale di Reggio Calabria in data 1 marzo 2016, egli era stato trasferito presso la Casa Circondariale di Paola il 1 aprile, in seguito a spontanee dichiarazioni rese con le quali manifestava timori per la propria incolumità. All’ingresso presso l’istituto di Paola, il detenuto ha confermato i propri timori e, conseguentemente, è stato collocato in una cella singola, con divieto di incontro con il resto della popolazione detenuta. In data 11 aprile Morabito ha dato fuoco al materasso in dotazione, dichiarando poi al Comandante di Reparto che il suo gesto aveva rappresentato il tentativo estremo di attirare l’attenzione sui suoi timori per l’incolumità personale. Il detenuto temeva che i compagni di detenzione avessero intenzione di ucciderlo e di far apparire tale gesto come un suicidio. Dopo tale evento, la direzione della Casa Circondariale aveva avanzato richiesta al Provveditorato Regionale di trasferimento del detenuto per motivi di ordine, sicurezza ed incolumità personale. La competente articolazione ministeriale ha comunicato che Morabito era stato preso in carico dagli Operatori Penitenziari e Sanitari e che durante un colloquio condotto in data 13 aprile 2016, dallo Psichiatra e dallo Psicologo, egli ha manifestato uno stato di ansia diffusa, paura, tensione e un atteggiamento di circospezione e di sospettosità nei confronti dell’ambiente circostante, ha espresso il desiderio di essere trasferito in un istituto dotato di sezioni per appartenenti alla categoria “protetti” ed ha negato l’intenzione di compiere atti di autolesionismo. Contrariamente a ciò, in data 22 aprile 2016 è stato sventato un tentativo di suicidio ed in merito il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha riferito di aver invitato la direzione della Casa Circondariale all’applicazione delle circolari in materia di prevenzione dei suicidi, in particolare nella parte relativa alle corrette modalità di allocazione dei soggetti che manifestano situazioni di criticità o disagi psichiatrici. Riferisce ancora il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che nei giorni antecedenti alla morte il detenuto è stato oggetto di molteplici interventi sanitari quotidiani. Il 29 aprile 2016, alle ore 00,50 circa, tuttavia, il personale penitenziario, durante il giro di controllo, giunto davanti alla camera detentiva, dava l’allarme ed il medico di turno, dopo aver praticato le manovre rianimatorie, non poteva che constatare il decesso per impiccamento di Maurilio Pio Massimiliano Morabito alle ore 01,25. Sul caso dall’Amministrazione Penitenziaria non sono stati riscontrati elementi di responsabilità del personale addetto alla Casa Circondariale. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Paola, per quanto comunicato dalla competente articolazione ministeriale, ha aperto sulla vicenda il Procedimento Penale n. 1167/2016 R.G.N.R. Mod. 44 che, dopo il deposito della relazione di consulenza medico-legale ed all’esito degli accertamenti disposti, è stato oggetto di richiesta di archiviazione non avendo la Procura ravvisato responsabilità di terzi ed essendo emersa una condotta suicidiaria del detenuto. Al 22 febbraio 2017 la richiesta di archiviazione risultava pendente presso l’Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari di Paola.

Con riguardo alle condizioni di vita detentiva presso la Casa Circondariale, l’Amministrazione Penitenziaria ha comunicato che al 16 febbraio 2017 il numero dei detenuti presenti è pari a 219 a fronte di una capienza regolamentare di 182 posti detentivi. Nonostante l’esubero dei presenti rispetto alla capienza regolamentare, risultano rispettati i parametri previsti dalla Cedu per garantire lo spazio vitale di ogni singolo detenuto. Presso l’istituto penitenziario la sorveglianza è garantita così come il servizio di guardia medica, presente 24 ore su 24.

L’elevato tasso di presenza di stranieri detenuti presso il Carcere di Paola (in numero di 83), in maggioranza appartenenti alla comunità islamica, l’Amministrazione Penitenziaria ha riferito che è prossima la realizzazione di un protocollo con il mondo associativo che, oltre al progetto di mediazione culturale, possa offrire ulteriori aspetti di collaborazione. A questo ultimo riguardo ed in un’ottica generale, si rileva che in data 5 novembre 2015 è stato siglato un protocollo d’intesa fra questo Ministero e l’Unione delle comunità ed organizzazione islamiche italiane (UCOII) con l’obiettivo di migliorare il modo di interpretare la fede islamica in carcere, fornendo un valido sostegno religioso e morale ai detenuti attraverso l’accesso negli istituti di persone adeguatamente preparate. Il progetto, attualmente in fase di sperimentazione presso 8 istituti penitenziari, da un lato ha l’obiettivo di agevolare l’integrazione dei detenuti di fede islamica e garantire loro l’esercizio del diritto di culto, dall’altro stabilisce una connessione tra gli operatori volontari e gli operatori penitenziari, anche nella prospettiva del contrasto alla radicalizzazione. Nel mese di settembre 2016, inoltre, è stato rivolto al presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI), alla luce della convenzione appositamente stipulata dal Ministero il 27 gennaio 2016, l’invito ad interpellare gli istituti di arabistica e di scienze islamiche delle università degli studi della Repubblica per raccogliere la disponibilità di ricercatori e dottorandi di ricerca ad operare, quali volontari, negli istituti penitenziari al fine di accrescere la comprensione e migliorare le relazioni umane con i ristretti di lingua e cultura araba.

I casi di Youssef Mouhcine e Maurilio Pio Morabito, pur con le loro specificità, rappresentano tristi manifestazioni di un fenomeno che è alla costante attenzione del Ministro e che lo vede direttamente impegnato in ogni iniziativa necessaria ed utile alla prevenzione del rischio di gesti di autolesionismo in ambiente carcerario. Finalità alla cui attuazione certamente concorre l’istituzione e la nomina, con decreti del Presidente della Repubblica 1° febbraio e 3 marzo 2016, del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Nella consapevolezza della drammaticità di ogni atto di autolesionismo, occorre osservare, sotto il profilo statistico, che a partire dal 2013 il numero di suicidi all’interno degli istituti penitenziari ha avuto un sensibile decremento. Tra il 2009 e il 2012, infatti, il numero di casi è stato sempre annualmente superiore a 55, con un picco di 63 nel 2011, mentre pari a 45 e 46 sono stati gli eventi degli anni 2007 e 2008. Grazie al miglioramento della situazione nei penitenziari, il numero si è ridotto in maniera significativa, registrando 42 casi di suicidio nel 2013, 43 nel 2014, 39 nel 2015, 39 nel 2016 e 10 sino al 28 febbraio 2017. Sul piano comparativo, poi, l’Italia, secondo le statistiche ufficiali del Consiglio d’Europa, registra uno dei tassi più bassi di casi di suicidio. Nell’ultima rilevazione del 2013, si registra un tasso di 6,5 su 10.000 casi in Italia, di 12,4 in Francia, di 7,4 in Germania, di 8,9 nel Regno Unito. I dati restano, in ogni caso, allarmanti e impongono un eccezionale sforzo dell’amministrazione penitenziaria, cui è demandata l’attuazione dei modelli di trattamento necessari alla prevenzione di ogni pericolo.

Nella delineata prospettiva e alla luce delle analisi e delle riflessioni svolte nell’ambito degli stati generali dell’esecuzione della pena, il 3 maggio 2016 il Ministro ha adottato una specifica “direttiva sulla prevenzione dei suicidi”, indirizzata al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, prescrivendo la predisposizione di un organico piano d’intervento per la prevenzione del rischio di suicidio delle persone detenute o internate, il puntuale monitoraggio delle iniziative assunte per darvi attuazione e la raccolta e la pubblicazione dei dati relativi al fenomeno. In attuazione della direttiva, il Dipartimento ha predisposto un “piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidiarie in ambito penitenziario”, cui hanno fatto seguito circolari attuative trasmesse ai provveditorati regionali. Le misure adottate dall’amministrazione penitenziaria attengono alla formazione specifica del personale, alla raccolta ed elaborazione dei dati ed all’aggiornamento progressivo dei piani di prevenzione. Sono state, inoltre, impartite istruzioni ai provveditorati regionali ed alle direzioni penitenziarie per la conclusione di intese con Regioni e servizi sanitari locali, al fine di intensificare gli interventi di diagnosi e cura, nonché l’attuazione di misure di osservazione e rilevazione del rischio. L’amministrazione ha anche operato sul piano dell’organizzazione degli spazi e della vita penitenziaria, con incentivazione di forme di controllo dinamico volte a limitare alle ore notturne la permanenza nelle celle, in modo da rendere agevole l’osservazione della persona in ambiente comune e ridurre le condizioni di isolamento. Allo stesso scopo, sono state adottate misure volte a facilitare, anche attraverso l’accesso protetto ad internet, i contatti con i familiari.

Al fine di verificare lo stato di attuazione delle misure intraprese e delle modalità di esecuzione, al livello locale prossimo agli istituti penitenziari, delle disposizioni contenute nella direttiva sulla prevenzione dei suicidi e sollecitarne, ove necessario, la completa e rapida attuazione, il 3 marzo 2017 si è svolta presso il Ministero una riunione nel corso della quale il Ministro ha incontrato, con il capo di gabinetto, tutti i referenti centrali e periferici dell’amministrazione penitenziaria. Sono state, inoltre, programmate attività di monitoraggio e verifica periodica degli interventi di prevenzione delineati, attività che saranno svolte istituto per istituto. Con la riunione si è dato l’avvio ad un tavolo in convocazione permanente che esaminerà costantemente i dati relativi allo stato di attuazione della direttiva che ogni referente è tenuto a raccogliere ed a trasmettere attraverso apposito monitoraggio. Le successive riunioni del tavolo, a partire dalla prima, si svolgono con stringente cadenza periodica. Il tema è stato, inoltre, affrontato anche nella riunione con i referenti dei tavoli tematici degli stati generali dell’esecuzione penale che, nell’ambito delle attività di monitoraggio dell’attuazione delle linee di intervento, si è tenuta il 22 marzo 2017. L’azione sin qui intrapresa risulterà ulteriormente rafforzata dalle misure contenute nella riforma dell’ordinamento penitenziario, appena approvata dal Senato, che permetterà di introdurre strumenti adeguati per garantire una funzione davvero recuperatoria e risocializzante, in chiave costituzionalmente orientata, all’esecuzione penale.

Carceri, Quintieri (Radicali): Finalmente anche la Calabria avrà il suo Provveditore Regionale


Finalmente, dopo circa sei lunghi anni e le nostre continue sollecitazioni unitamente a quelle delle Organizzazioni Sindacali del Corpo di Polizia Penitenziaria, la Regione Calabria avrà un Provveditore Regionale delle Carceri in pianta stabile. Ed infatti, la competente Direzione Generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nei giorni scorsi, ha avviato le procedure per assegnare, in via definitiva, un Dirigente Generale Penitenziario, con incarico di Provveditore, al Provveditorato Regionale per la Calabria con sede in Catanzaro. Lo rivela Emilio Enzo Quintieri, esponente dei Radicali Italiani e capo della Delegazione visitante gli Istituti Penitenziari calabresi. Attualmente alla guida del Provveditorato Regionale, Ufficio periferico del Ministero della Giustizia, vi è la Dott.ssa Cinzia Calandrino, Dirigente Generale Penitenziario con incarico di Provveditore Reggente, già titolare del Provveditorato Regionale per il Lazio, l’Abruzzo ed il Molise. E’ stato già emanato apposito interpello rivolto ai Dirigenti Generali Penitenziari – prosegue il radicale Quintieri – i quali potranno presentare domanda entro il prossimo 22 maggio, indirizzandola al Capo di Gabinetto Reggente del Ministro della Giustizia Dott.ssa Elisabetta Maria Cesqui. L’incarico di Provveditore, che dovrebbe avere durata triennale, sarà conferito con Decreto del Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando.

Per quanto mi riguarda, sino ad ora, la Calabria non è stata tenuta in debita considerazione dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e non solo con riferimento alla mancata nomina del Provveditore in pianta stabile, ma anche per quanto concerne la ridefinizione del circuito detentivo regionale, attraverso una più razionale distribuzione della popolazione detenuta e dell’organizzazione custodiale degli Istituti Penitenziari, ferma ancora a quella tradizionale, ormai quasi sparita in tutte le Carceri della Repubblica. Occorre, infine, una urgente rimodulazione delle piante organiche di tutti gli Istituti Penitenziari della Calabria, al fine di renderle maggiormente rispondenti alle mutate o nuove esigenze ed agli effettivi carichi di lavoro. In modo particolare al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria che in alcune sedi, come ad esempio la Casa di Reclusione di Rossano che ospita 210 detenuti a fronte di una capienza di 206 posti, è particolarmente carente specie nei ruoli intermedi (Ispettori e Sovrintendenti). In questo Istituto, in cui peraltro è presente anche un Reparto di Alta Sicurezza ove sono ristretti detenuti imputato o condannati per terrorismo internazionale di matrice islamica, praticamente non vi sono più sottufficiali nelle ore pomeridiane e notturne. Dovrebbero esserci 14 Ispettori ma c’è ne sono 5 di cui 1 Vice Comandante di Reparto e Coordinatore del Nucleo Traduzioni e Piantonamenti. I Sovrintendenti, invece, non esistono più. La pianta organica ne prevede 16 ma in servizio c’è ne soltanto 1, peraltro distaccato dalla Casa Circondariale di Parma. Gli altri due che risultano assegnati sono da tempo in congedo per malattia e prossimi alla quiescenza. Nei prossimi giorni, conclude Emilio Enzo Quintieri dei Radicali Italiani, effettueremo ulteriori visite ispettive in tutti gli Istituti Penitenziari della Provincia di Cosenza (martedì 9 a Castrovillari, mercoledì 10 a Cosenza, martedì 16 a Paola e martedì 23 a Rossano). A tutte le visite, oltre alla collega radicale Valentina Anna Moretti, sarà presente anche una nutrita delegazione di Studenti di Giurisprudenza accompagnati dal Prof. Mario Caterini, Docente di Diritto Penale dell’Università della Calabria.

Cosenza, 8 Parlamentari interrogano il Governo Gentiloni. L’Asp non garantisce le cure ai detenuti


La Casa Circondariale di Cosenza “Sergio Cosmai” finisce in Parlamento per colpa della condotta omissiva tenuta dai vertici dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza. Era stata una visita dei Radicali Italiani, guidati da Emilio Enzo Quintieri, a riscontrare la grave situazione esistente nell’Istituto Penitenziario, all’esito di una visita effettuata all’interno dello stesso, autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia.

Nei giorni scorsi, il Governo Gentiloni, è stato ufficialmente investito della questione, grazie a delle Interrogazioni a risposta scritta presentate alla Camera dei Deputati ed al Senato della Repubblica da parte degli Onorevoli Serenella Fucksia, Ivana Simeoni, Laura Bignami (Senatori del Gruppo Misto) e Peppe De Cristofaro (Senatore del Gruppo di Sinistra Italiana), Michela Rostan, Carlo Galli, Giovanna Martelli e Davide Zoggia (Deputati del Gruppo Articolo 1, Movimento Democratico e Progressista). Gli atti di sindacato ispettivo sono stati presentati, a Palazzo Madama il 19 aprile durante la 808 seduta (Interrogazione n. 4/07380 a prima firma della Senatrice Fucskia) ed il 20 aprile durante la 811 seduta (Interrogazione n. 4/07403 a prima firma del Senatore De Cristofaro) ed a Palazzo Montecitorio il 20 aprile durante la 782 seduta (Interrogazione n. 4/16369 a prima firma della Deputata Michela Rostan). Tutte le Interrogazioni sono state rivolte ai Ministri della Giustizia e della Salute On. Andrea Orlando e On. Beatrice Lorenzin.

Gli otto Parlamentari, dopo aver illustrato che nella Casa Circondariale di Cosenza, a fronte di una capienza regolamentare di 218 posti, sono ristretti 272 detenuti, 50 dei quali stranieri e 57 con patologie psichiatriche, hanno pesantemente stigmatizzato l’operato dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, per l’inadeguato servizio di assistenza sanitaria specialistica di tipo psichiatrico organizzato nell’Istituto e per la condotta omissiva mantenuta nonostante le reiterate sollecitazioni, tutte rimaste inevase, avanzate dal Direttore dell’Istituto Filiberto Benevento, dal Dirigente del Servizio Sanitario Penitenziario Francesco Strazzulli, dal Provveditore Regionale Reggente dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria Rosario Tortorella, dal Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Paola Lucente, dal Segretario Provinciale del Sindacato Unitario dei Medici Ambulatoriali Italiani Francesco Lanzone e dal Responsabile Provinciale dell’ex Medicina Penitenziaria del medesimo Sindacato Francesco De Marco. Ed infatti a causa della cattiva organizzazione del servizio di psichiatria intramurario che ultimamente prevede solo 6 ore alla settimana, affidate anche a 5 specialisti diversi, vi è stato un crollo verticale di qualsiasi forma di prevenzione, l’inattuabilità di una effettiva presa in carico dei pazienti, la mancanza di continuità terapeutica, il mancato funzionamento dello staff multidisciplinare, nel cui ambito lo psichiatra è elemento decisivo, ed il potenziale innalzamento del livello di rischio suicidario e auto/etero aggressivo. Inoltre, tale problematica, oltre a comportare un aggravio dello stato di sofferenza dei detenuti bisognosi di cure, ha acuito maggiormente le loro problematiche tanto da creare uno stato di tensione che ha reso critico il mantenimento dell’ordine e della sicurezza intramuraria. Per questo motivo, il Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, il Commissario Davide Pietro Romano, aveva finanche proposto lo sfollamento dell’Istituto per i detenuti con problematiche psichiatriche perché non erano gestibili appunto per carenza di psichiatra.

La riduzione del servizio di psichiatria da 30 a 6 ore settimanali e la mancata nomina in pianta stabile di uno o al massimo due specialisti, ha provocato, nei casi più gravi, il ricorso alle strutture sanitarie esterne con tempi di attesa non compatibili con le necessità del disagio psichico nella detenzione, comportando anche gravi ripercussioni per la sicurezza dovute alle traduzioni che devono essere effettuate per l’accompagnamento dei detenuti con enorme dispendio di risorse umane e finanziarie. La Direzione Generale dell’Asp di Cosenza, in numerose occasioni e sistematicamente, è stata invitata a riassegnare all’Istituto 30 ore settimanali per la branca di psichiatria ed a nominare uno o al massimo due professionisti in modo da garantire la gestione dei casi nel rispetto delle esigenze di continuità dell’assistenza sanitaria, attesa la rilevanza che la cura della salute mentale assume negli Istituti Penitenziari, in relazione alla necessità di ridurre il rischio di suicidio e prevenire gesti auto ed etero aggressivi da parte dei detenuti con problematiche psichiatriche. Ma, nonostante gli impegni, anche formalmente assunti, non ha mai provveduto a risolvere la situazione assicurando sia l’integrazione delle ore di psichiatria e sia la nomina degli specialisti, come richiesto.

Pertanto, i Senatori Fucskia, Simeoni, Bignami e De Cristofaro hanno chiesto ai Ministri della Giustizia e della Salute di sapere se siano a conoscenza dei fatti descritti e se questi corrispondano al vero, come ed entro quali tempi intendano adoperarsi, affinché alla popolazione ristretta nella Casa Circondariale di Cosenza venga finalmente reso effettivo il godimento del diritto fondamentale alla tutela della salute, al pari dei cittadini in stato di libertà, come previsto dalla normativa vigente in materia, anche al fine di eliminare tutte quelle situazioni di disagio che determinano gli “eventi critici” e se non ritengano doveroso verificare, con urgenza, anche attraverso un’ispezione ministeriale, le reali condizioni di salute delle persone detenute nella Casa Circondariale di Cosenza e se siano riscontrabili delle omissioni nella condotta tenuta dai dirigenti dell’Azienda Sanitaria Provinciale, ed eventualmente procedere nei confronti dei responsabili per quanto di competenza. Richieste, più o meno, simili quelle avanzate dai Deputati Rostan, Carlo Galli, Martelli e Zoggia che hanno chiesto al Ministro della Giustizia Orlando ed al Ministro della Salute Lorenzin, di conoscere di quali notizie dispongano in ordine ai fatti riferiti, quali iniziative intendano intraprendere affinché ai detenuti venga assicurato il godimento al diritto alla tutela della salute, al pari dei cittadini liberi, come prevede il Decreto Legislativo n. 230/1999 di riordino della Medicina Penitenziaria ed infine, se non ritengano doveroso verificare eventuali omissioni nella condotta tenuta dall’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza e, in caso affermativo, se non ritengano opportuno procedere nei confronti dei responsabili. La risposta agli otto membri del Parlamento, previa istruttoria da parte delle competenti articolazioni dei Dicasteri della Giustizia e dalla Salute, sarà fornita dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando.

Interrogazione 4-07380 – Senato della Repubblica (clicca per leggere)

Interrogazione 4-16369 – Camera dei Deputati (clicca per leggere)

Interrogazione 4-07403 – Senato della Repubblica (clicca per leggere)

Polidoro (Camere Penali) : Orlando è l’unico Ministro ad esser impegnato sulle Carceri


avv-riccardo-polidoroNonostante non vi sia stato un concreto mutamento va riconosciuto all’attuale Guardasigilli di avere posto le basi per un possibile cambiamento culturale. Il 30 novembre, l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali ha visitato la Casa circondariale di Sollicciano a Firenze. Tornava nell’istituto dopo esserci stato il 6 maggio 2015. Un disastro. Al peggio, è vero, non c’è mai fine.

L’Istituto fu aperto nel 1983. Progettato con velleità artistiche e con grandi ambizioni, avrebbe dovuto ricordare la forma di un giglio, simbolo della città di Firenze, ed ispirarsi all’idea del carcere città, con ampi spazi aperti destinati alle attività ricreative e trattamentali. Ma questa originaria ispirazione illuminata fu abbandonata ancor prima del collaudo, perché ritenuta incompatibile con le concrete esigenze di sicurezza.
Dopo poco più di trenta anni, oggi il muro di cinta è inagibile, vi sono infiltrazioni d’acqua dalla copertura e dappertutto. All’emergenza strutturale si aggiunge il sovraffollamento che non lascia ai detenuti quello spazio vitale e quel minimo di decenza indicato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Apprendere, dopo pochi giorni, che il Presidente del Consiglio ha rassegnato le sue dimissioni, che si è aperta un’ennesima profonda crisi istituzionale, che è stato conferito un nuovo mandato per un Governo di “scopo”, mentre in Parlamento giace la riforma dell’Ordinamento Penitenziario, lascia cadere anche quel minimo di speranza che si poteva nutrire per l’affermazione di diritti da tempo cristallizzati nella Carta Costituzionale.
Intendiamoci, non era la riforma che avrebbe potuto creare aspettative reali – da oltre 40 anni, infatti, molte delle norme in materia non vengono rispettate – ma l’impressione era che finalmente se ne parlasse in termini diversi, come se si fossero compresi valori, principi ed idee sino ad oggi del tutto trascurati.

Nonostante non vi sia stato, infatti, un concreto e sostanziale mutamento delle condizioni di detenzione e Sollicciano ne è la prova, va riconosciuto all’attuale Ministro della Giustizia di avere posto le basi per un possibile mutamento culturale in ordine alle innumerevoli problematiche che affliggono l’esecuzione penale. Un percorso difficile e lungo, appena iniziato e che aveva trovato, negli Stati Generali, la rotta da seguire.
Nessun Ministro aveva, in precedenza, dedicato tanto impegno all’impopolare tema del carcere, nel tentativo di trovare soluzioni praticabili per porre fine agli abusi che l’Europa ci ha contestato. Un solitario impegno istituzionale che aveva finalmente dato ascolto alla voce, o meglio al grido di dolore, dei radicali, delle associazioni e, fra gli addetti ai lavori, degli Avvocati che da sempre hanno denunciato la violazione di diritti fondamentali. In un recente convegno il Ministro ha manifestato la sua “frustrazione” per non vedere ancora presi in considerazione i lavori degli Stati Generali. Delusione che è anche delle oltre 200 persone che all’iniziativa hanno partecipato, mossi esclusivamente da una sana passione civile.
Cosa accadrà ora ? Il vento che spira non è favorevole. La politica internazionale sta percorrendo mari impraticabili per il debole vascello dei diritti dei detenuti, che, appena restaurato e messo a mare, rischia di naufragare ancora.

Riccardo Polidoro, Avvocato, Responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane

Il Dubbio, 15 dicembre 2016

Le Carceri in Italia costano circa 3 miliardi di euro l’anno ma producono uno dei tassi di recidiva più alti d’Europa


Casa CircondarialeIl sistema penitenziario italiano costa al contribuente circa 3 miliardi di euro l’anno, ma produce uno dei tassi di recidiva più alti d’Europa. È un grande paradosso, conseguenza di molteplici fattori che possono essere sinteticamente riassunti in un dato di fatto; la galera è stata pensata più per l’afflizione che per il ravvedimento.

È un carcere punitivo e infantilizzante quello italiano, dove il recupero e la rieducazione passano prevalentemente per l’obbedienza e la sottomissione ai regolamenti e all’istituzione. La Riforma penitenziaria del 1975 aveva cominciato a recepire i principi dell’articolo 27 della Costituzione che, tra l’altro, dichiara che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.
Dopo questa legge non sono stati fatti quegli ulteriori passi in avanti necessari a trasformare le prigioni da luoghi di mera custodia, a occasioni per sviluppare percorsi di cambiamento e riscatto sociale che spingessero a sganciarsi dalle maglie della criminalità. C’è da dire che, mentre in questi anni la società ha subito grandi trasformazioni, il carcere è rimasto uguale a se stesso.

Una istituzione deresponsabilizzante, dove il periodo della detenzione è contrassegnato per lo più da un ozio forzato che fa sprecare il tempo che dovrebbe essere invece impiegato per la risocializzazione, e per un vero ripensamento della propria vita. Nelle nostre prigioni la routine e il linguaggio di tutti i giorni spingono i detenuti verso una dimensione passiva e infantile che riesce al massimo a formare un buon detenuto, ma non certamente un buon cittadino. È uno spaccato che emerge anche dalle lettere scritte da Enzo Tortora alla sua compagna durante i mesi trascorsi in carcere, pubblicate durante l’estate da Il Mattino. È una straordinaria descrizione della quotidianità vissuta all’interno dei penitenziari. “Sapessi – scriveva Tortora – cos’è l’umiliazione di dover scrivere ogni cosa, la più rutile come una lametta da barba, una lozione, un telegramma che verrà letto prima, in fondo a una domandina”. Si dice proprio così – aggiungeva – come all’asilo. E con tanto di “con ossequio” finale.

La “domandina” è il modello attraverso cui i detenuti possono fare ogni tipo di richiesta: il lavoro, i colloqui con i volontari, l’accesso ai corsi professionali, le visite mediche e la spesa settimanale. Sono passati oltre 30 anni ma il carcere è rimasto sempre identico a se stesso, nella terminologia come nei ritmi della vita ordinaria. La conta, le ore d’aria, le giornate sempre uguali nelle celle, dove “il tempo è un gocciolare interminabile, inutile, assurdo”, e solo se sei fortunato puoi partecipare a qualche attività lavorativa o rieducativa. Il detenuto modello è quello che non crea problemi e come i bambini non deve arrecare disturbo. In questo modo, i carcerati vengono deresponsabilizzati e non diventano i protagonisti del loro percorso di riscatto e di reinserimento nella società. C’è una enorme sproporzione tra l’enorme numero di agenti di polizia penitenziaria presenti nelle nostre carceri e quello di educatori, assistenti sociali, per non parlare degli psicologi, specie ormai in estinzione. I premi e i benefici sono concessi solo per la buona condotta e per l’assenza di sanzioni disciplinari.

Si tratta invece di coinvolgere chi ha avuto comportamenti devianti in processi di revisione personale, che devono produrre cambiamenti determinanti, attraverso condotte riparatorie nei confronti di chi ha subito violenza, o nella partecipazione concreta a rendere migliori le condizioni del carcere in cui si vive, solo per fare qualche esempio. Succede che chi è impiegato in una attività retribuita non ha la dignità di lavoratore, diventa un participio e viene chiamato “lavorante”.
Anche le mansioni vengono sminuite nelle prigioni. Chi raccoglie gli ordinativi della spesa dei detenuti assume l’incarico di “spesino”, chi è addetto a spazzare nei luoghi comuni è lo “scopino”. Proprio qualche tempo fa mi è capitata tra le mani una domandina che chiedeva “umilmente alla stimatissima Signoria Vostra di poter effettuare un breve colloquio con il volontario”. Le notizie di cronaca talvolta ci parlano di detenuti modello che usciti in permesso premio o per fine della pena, commettono reati che appaiono poi inspiegabili agli operatori penitenziari. Chi, invece, durante la carcerazione manifesta un disagio, magari con gesti violenti o autolesionistici viene isolato e tanto spesso trasferito in altro penitenziario, per evitare ulteriori problemi, senza capire che dietro quei comportamenti ci potrebbero essere malesseri o domande inespresse. Il clima di paura e la domanda di sicurezza della nostra società hanno avuto una grande influenza nel determinare un approccio esclusivamente punitivo.

Chiudere in cella chi ha commesso reati e buttare la chiave non è solo uno slogan, ma è tutto un modo rassicurante e liberatorio di concepire l’esecuzione della pena. Tuttavia il carcere che umilia i detenuti aumenta la recidiva e non la sicurezza. Questo strabismo sociale è stato colto negli Stati generali dell’esecuzione penale, promossi dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Una discussione articolata in 18 tavoli tematici a cui hanno partecipato operatori del mondo penitenziario, accademici, volontari, intellettuali. Questo confronto dovrebbe produrre alcune proposte di modifiche legislative in materia di esecuzione delle pene. Perché non lo dimentichiamo, la Costituzione parla di pene al plurale, ricordando così che la detenzione non è l’unico modo per scontare una sanzione penale. Il dibattito dovrà continuare nei prossimi mesi per contribuire a quel cambiamento culturale che dovrà trasformare chi è recluso da buon detenuto a buon cittadino. Guai a fare passi indietro sulle carceri. È un’utopia ? Edoardo Galeano, intellettuale uruguaiano, ricordato proprio negli Stati generali, diceva che “l’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo, serve per continuare a camminare”. Ma nel frattempo perché non cominciare a modificare subito il linguaggio delle nostre galere?

Antonio Mattone

Il Mattino, 19 ottobre 2016

“Bambinisenzasbarre”: la “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti” si rinnova


bambini-senza-sbarreIl Ministro della Giustizia Andrea Orlando, la Garante Nazionale per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano e la presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus Lia Sacerdote hanno siglato lo scorso 6 settembre 2016 presso il Ministero della Giustizia il rinnovo per altri due anni del Protocollo d’Intesa Carta dei figli di genitori detenuti, avviato il 21 marzo 2014. Durante il biennio di applicazione, il protocollo è diventato un modello per la rete europea Children of prisoners Europe con la quale la onlus firmataria sta conducendo una campagna di sensibilizzazione perché venga adottata nei 21 Paesi membri della rete.

L’intesa sottoscritta oggi intende individuare nuovi strumenti di azione e rafforzare e ampliare i risultati fin qui ottenuti: la tutela dell’interesse superiore del minore, al quale deve essere garantito il mantenimento del rapporto con il genitore detenuto, in un legame affettivo continuativo, riconoscendo a quest’ultimo il diritto/dovere di esercitare il proprio ruolo genitoriale; la promozione di interventi e provvedimenti normativi che regolino questa relazione, contribuendo alla rimozione di discriminazioni e pregiudizi attraverso la creazione di un processo di integrazione socio-culturale, nella prospettiva di una società solidale e inclusiva; l’agevolazione ed il sostegno dei minori nei rapporti con il genitore detenuto, sia durante sia oltre la detenzione, cercando di evitare che eventuali ricadute negative possano incidere sul rendimento scolastico o sulla salute. Il nuovo Protocollo, tenendo conto dell’esperienza acquisita durante il biennio di applicazione, individua come necessaria l’offerta di percorsi di sostegno alla genitorialità sia alle madri sia ai padri sottoposti a restrizione della libertà personale.

L’articolo 1 detta le linee di comportamento che l’autorità giudiziaria dovrà tenere nei confronti di arrestati o fermati che siano genitori di minori: se possibile, in caso di applicazione di misura cautelare, dare priorità alla misura alternativa alla custodia in carcere; in caso di detenzione del genitore, non violare il diritto del minore a rimanere in contatto con lui; disciplinare i permessi di uscita, con particolare riguardo per le “giornate particolari” come compleanni, primi giorni di scuola, recite e diplomi, e per situazioni di emergenza, quali i ricoveri ospedalieri. L’articolo 2 individua in 12 punti una serie di azioni necessarie a proteggere il legame tra minore e genitore che garantisca da un lato lo sviluppo psico-affettivo del bambino, e dall’altro preservi il vincolo familiare, ritenuto importante anche in relazione alla prevenzione della recidiva e nel successivo reintegro sociale del detenuto. Si è ritenuto quindi fondamentale regolamentare: i tempi di visita, privilegiando i pomeriggi per non creare ostacoli alla frequentazione scolastica, che in situazioni del genere è una delle realtà del minore destinate ad essere compromesse; i luoghi, creando spazi attrezzati per il gioco, la conversazione, l’intrattenimento, i momenti di privacy. La Carta chiede comunque di accompagnare i minori con informazioni adeguate all’età e che, ove possibile, siano organizzati gruppi di esperti a sostegno, in una esperienza che potrebbe rivelarsi traumatica.

L’articolo 3 è un’ulteriore passo verso la semplificazione del rapporto figlio-genitore detenuto e impegna le parti a sviluppare linee specifiche che coadiuvino gli incontri, laddove più difficoltosi, anche utilizzando i mezzi che la nuova tecnologia mette a disposizione come conversazioni in chat o webcam. L’articolo 4 impegna il sistema penitenziario ad affrontare il tema dell’accoglienza non solo in termini strutturali, ma soprattutto culturali, attraverso una formazione adeguata del personale dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità, che prepari all’accoglienza di minori e famiglie. L’articolo 5 intende assicurare ai detenuti, ai loro parenti e ai loro figli tutte le informazioni appropriate (all’età), aggiornate e pertinenti (alla fase del processo o della detenzione); offrire programmi di assistenza alla genitorialità, per aiutare allo sviluppo e al consolidamento del rapporto genitori-figli e una guida all’utilizzo dei servizi socio-educativi e sanitari messi a disposizione dagli enti locali.

L’articolo 6 regolamenta la raccolta sistematica di informazioni relative al numero di colloqui e all’età dei soggetti coinvolti. L’articolo 7, pur ribadendo l’obiettivo di evitare la permanenza in carcere dei bambini, ne regolamenta la presenza, cercando di garantire loro una quotidianità il più possibile vicina a quella dei coetanei all’esterno, anche attraverso la frequentazione di aree all’aperto, asili nido e scuole al di fuori dell’Istituto, in modo che la loro crescita non abbia a subire eccessive ripercussioni psico-fisiche.
L’articolo 8 conferma il Tavolo permanente, già istituito con il protocollo precedente, composto da rappresentanti del Ministero della Giustizia, dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e dell’Associazione Bambinisenzasbarre che, convocato ogni tre mesi, svolgerà azione di monitoraggio sull’applicazione del protocollo appena prorogato.

Protocollo d’Intesa tra l’Amministrazione Penitenziaria, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e l’Associazione Bambinisenzasbarre (clicca per scaricare)

Fatta la riforma, gabbato il Ministro. Italia resta Paese della carcerazione preventiva


arresto-manetteFin dall’inizio, uno si domanda se la vera vergogna siano i dati in sé, oppure il fatto che appena un tribunale su tre abbia deciso di rispondere al ministero della Giustizia. Perché la richiesta del ministro Andrea Orlando era sacrosanta: Orlando aveva chiesto agli uffici giudiziari di tutta Italia di raccontare come abbia funzionato la custodia cautelare nell’ultimo anno.

Non era una curiosità peregrina. Il ministro voleva sapere quali effetti avesse avuto la legge 47 del 16 aprile 2015, entrata in vigore lo scorso 8 maggio, che ha introdotto significative modifiche al codice di procedura penale rendendo più stringenti le regole che stabiliscono la custodia in carcere. Ed è la stessa legge 47 che prevede l’analisi di funzionamento, perché il governo deve presentare una relazione al Parlamento entro il 31 gennaio di ogni anno. Ebbene, a Orlando hanno (vergognosamente) risposto appena 48 uffici giudiziari su 136: prevalentemente si tratta di tribunali piccoli, l’unica eccezione la fa Napoli. E soltanto sette uffici corrispondono a direzioni distrettuali antimafia.
Passando poi ai dati, la vergogna aumenta. Sulle 12.959 misure cautelari personali disposte da questi 48 tribunali, la custodia cautelare in carcere è stata decisa in 6.016 casi: il 46 per cento del totale. Gli arresti domiciliari sono stati 3.704 (il 29 per cento dei casi), l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria ha riguardato altri 1.430 casi, l’11 per cento. Gli avvocati penalisti, associati nell’Unione delle camere penali, sono più che delusi: “Il risultato dell’indagine – protesta Beniamino Migliucci, che dell’Ucpi è presidente – è così parziale da non consentire, anche per via della natura del tutto casuale della selezione del campione, di conferire a quel dato un significato in qualche modo rappresentativo della realtà”.

Ma i penalisti correttamente lamentano che resta altissimo (nonostante il commento favorevole del ministero), il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Del resto, che anche dopo le restrizioni della legge 47 poco meno della metà del totale delle misure porti un cittadino in cella è statistica letteralmente impensabile per gli altri paesi europei: e questo avviene nonostante il legislatore abbia sempre inteso l’adozione del carcere da parte del giudice come extrema ratio.

E il braccialetto elettronico? A leggere le tabelle del ministero, inoltre, si comprende che tra le oltre 6 mila custodie cautelari disposte in carcere quelle determinate da una condanna definitiva sono state soltanto 845, una su cinque. Quindi i detenuti che in questi ultimi mesi sono andati a occupare una cella sono in stragrande maggioranza imputati in attesa di giudizio: presunti innocenti. E sempre interpretando le tabelle si capisce che in un solo anno (con durate che non è dato conoscere) sono maturate le condizioni per quasi 200 ingiuste detenzioni presso il solo tribunale di Napoli.
In tutto questo, viene da domandarsi che fine abbia fatto il mitico “braccialetto elettronico” di cui si favoleggia da decenni. In base alle ultime statistiche, in Italia dovrebbero esisterne 2 mila, ma non si sa se vengano tutti utilizzati, né come. Aveva fatto scalpore, a metà del 2015, il caso di un detenuto: il giudice aveva ordinato di farlo uscire di prigione e dargli gli arresti domiciliari, ma la carenza di braccialetti lo aveva inesorabilmente respinto in cella. In compenso, i braccialetti costano 11 milioni di curo l’anno (5.500 euro l’uno), che vanno a sommarsi ai 110 milioni circa che dal 2001 al 2011 lo Stato aveva versato a Telecom, titolare del servizio, per la “sperimentazione” su 114 braccialetti.

Maurizio Tortorella

Tempi, 9 settembre 2016

Rossano, Quintieri (Radicali): Gli ergastolani non hanno diritto alla cella singola


CARCERE ROSSANOAlla luce di quanto accaduto nei giorni scorsi presso la Casa di Reclusione di Rossano ove un detenuto, C.D., napoletano, condannato alla pena dell’ergastolo, ha aggredito il Medico Psichiatra ed un sottufficiale del Corpo di Polizia Penitenziaria, poiché voleva essere collocato in cella singola, ritenendo di averne diritto per il suo status di ergastolano, nell’esprimere la mia convinta solidarietà alle vittime, intendo precisare quanto peraltro già sostenuto durante numerose visite circa l’insussistenza di tale diritto in capo agli ergastolani. Infatti, numerosi detenuti in espiazione della pena dell’ergastolo, in virtù di quanto disposto dall’Art. 22 comma 1 del Codice Penale che prevede l’isolamento notturno, sono convinti che spetti loro il diritto di essere collocati in una camera singola mentre in realtà l’isolamento notturno, a differenza di quello diurno, non costituisce una vera e propria sanzione penale, ma soltanto una modalità esecutiva della pena, peraltro, affidata alla discrezionalità dell’Amministrazione Penitenziaria.

Invero, la Corte Suprema di Cassazione, chiamata ripetutamente a pronunciarsi in merito ad ordinanze emesse dalla Magistratura di Sorveglianza, con le quali venivano rigettati i reclami proposti dai detenuti per la omessa attuazione dell’isolamento notturno, ha affermato il seguente principio di diritto : «l’isolamento notturno del condannato all’ergastolo, che rappresenta un inasprimento sanzionatorio e non una sanzione vera e propria come quello diurno, non può considerarsi oggetto di un diritto soggettivo giuridicamente azionabile dall’interessato. Ne consegue, che è legittimo il rigetto di istanza presentata da condannato alla pena dell’ergastolo e mirante ad ottenere, in costanza della sua esecuzione, l’isolamento notturno.».

Inoltre, allo stato, tuttavia, l’isolamento notturno, quale istituto generalizzato collegato alla pena dell’ergastolo con finalità segregante, non può considerarsi più previsto dall’ordinamento giuridico positivo, giacche gli Artt. 22, 23 e 25 del Codice Penale che lo menzionavano, devono ritenersi implicitamente modificati in parte qua in seguito all’entrata in vigore dell’Art. 6 comma 2 dell’Ordinamento Penitenziario approvato con Legge nr. 354/1975. Dispone, infatti, tale norma che i locali destinati al pernottamento dei detenuti consistono “in camere dotate di uno o più posti”, senza distinguere la pena da eseguire. Ed il Regolamento di Esecuzione Penitenziaria approvato con Decreto del Presidente della Repubblica nr. 230/2000, nel dare attuazione al disposto legislativo, ribadisce all’Art. 110 comma 5 che l’esecuzione della ergastolo debba essere effettuata nelle Case di Reclusione. Peraltro, l’Ordinamento Penitenziario, contempla l’Art. 89, norma di coordinamento, in forza del quale deve ritenersi abrogata “ogni altra norma incompatibile con la presente legge”. E’ del tutto evidente, quindi, che i provvedimenti assunti dall’Amministrazione Penitenziaria – che non ammettano il detenuto ergastolano (che lo richieda) ad essere “isolato” durante la notte con collocazione in cella singola, specie in presenza di ragioni ostative come il sovraffollamento – siano conformi alla Legge, non essendo un diritto soggettivo del condannato, giuridicamente azionabile.

Per completezza di informazione evidenzio che, durante gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale voluti dal Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando e, più precisamente, durante i lavori del Tavolo 2 “Vita detentiva, responsabilizzazione, circuiti e sicurezza” coordinato dal Dott. Marcello Bortolato, Magistrato di Sorveglianza di Padova, è stata proposta la cella singola per gli ergastolani mediante la modifica dell’Art. 6 dell’Ordinamento Penitenziario, inserendo dopo il comma 3 il seguente : “3.bis. Al condannato alla pena dell’ergastolo è garantita nell’istituto di assegnazione la camera ad un posto a meno che egli richieda di coabitare con altri detenuti.”

Con l’occasione, intendo dissociarmi dalle critiche mosse alla Casa di Reclusione di Rossano, all’esito di una visita effettuata da una delegazione del Partito Radicale Transnazionale guidata da Giuseppe Candido il 15/08/2016 perché diverse criticità che sono state raccontate sulla stampa non rispondono al vero (ad esempio, assenza di un Mediatore Culturale per i detenuti stranieri, assenza di attività trattamentali, etc.).

Emilio Enzo Quintieri, Esponente di Radicali Italiani

Provenzano ridotto a vegetale : niente pietà per il Breivik italiano. Resta al 41 bis


Casa Circondariale di Milano OperaCos’è un diritto umano ? L’interrogativo, da ieri, è molto meno ozioso di quanto possa sembrare a prima vista. Accade infatti che un tribunale norvegese riconosce come fondate le rivendicazioni Anders Behring Breivik, nella causa intentata allo Stato per trattamento “inumano” durante la detenzione. Breivik, come certamente tutti ricordano, è l’autore delle stragi di Oslo e Utoya nel luglio 2011, una carneficina che provoca la morte di 77 persone e un numero imprecisato di feriti. Una corte di Oslo ha concluso che le condizioni di detenzione di Breivik “costituiscono un trattamento inumano”; questo perché questo pazzo nazistoide è tenuto in regime di isolamento per quasi cinque anni; e questo sembra violi l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. Il giudice Helen Andenaes Sekulic ha stabilito che il diritto di Breivik alla corrispondenza non è stato violato (come invece sosteneva l’autore della strage) e che in questo caso è stata garantita l’applicazione dell’Articolo 8 della stessa Convenzione.

Breivik aveva chiesto la revoca delle restrizioni sulle sue comunicazioni con l’esterno, per poter tenere contatti con i simpatizzanti; richiesta che le autorità avevano respinto per motivi di sicurezza a causa della sua “estrema pericolosità”, e per prevenire attacchi da parte di qualche suo sostenitore. Giova ricordare che Breivik è stato condannato nell’agosto del 2012 a 21 anni di carcere (il massimo della pena in Norvegia). Insistendo sulla durezza della detenzione, l’avvocato di Breivik, Oystein Storrvik accusa la Norvegia di violare due disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e parla di trattamenti “inumani” e “degradanti”.
Breivik o c’è, o ci fa; forse entrambe le cose. L’altro giorno, salutando come usano fare i nazisti, e rivendicando di essere un seguace ammiratore di Hitler, si è contemporaneamente paragonato a Nelson Mandela. Per l’avvocato Storrvik sono “segni di vulnerabilità mentale” legati al regime carcerario a cui è sottoposto. Una disumanità, detto per inciso, che prevede 31 metri quadrati di cella divisi in tre settori: area notte, area studi, area per esercizi fisici; un televisore, un lettore dvd, una console per i giochi, macchina per scrivere, libri, giornali. Poi, certo: ci sono inconvenienti, come i caffè serviti freddi, e piatti cucinati in modo che Breivik definisce “peggiori del waterboarding” (e chissà come si fonda questa sua affermazione: improbabile che abbiano praticato su di lui questa tecnica di tortura).

Fin qui Oslo, i suoi giudici, la sua giurisdizione. Ora il caso di un altro “mostro”, di cui si interessano Marco Pannella, alcuni radicali (Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Maurizio Turco, Elisabetta Zamparutti di “Nessuno tocchi Caino”), e pochissimo i giornali (e tra i pochi, meritoriamente, questo). È il caso di Bernardo Provenzano, soprannominato “Binnu ù Tratturi” per la violenza e la determinazione con cui ha eliminato i suoi nemici, chiunque gli faceva ombra.
Condannato a svariati ergastoli, tutti meritati per una caterva di delitti, “Binnu”, da oltre due anni giace in un letto d’ospedale del reparto ospedaliero del carcere San Paolo di Milano. Immobile da mesi, il cervello, dicono le perizie, distrutto dall’encefalopatia; si deve nutrire con un sondino nasogastrico; pesa 45 chili. Ha 83 anni; il suo cuore ? si citano sempre le perizie mediche ? continua a battere, ma ha perso la cognizione dello spazio e del tempo. In una parola, è un vegetale. Chi lo ha visto, parla di un boss fisicamente irriconoscibile, mentalmente confuso, non riesce a prendere in mano la cornetta del citofono per parlare con il figlio. Non riesce neanche a spiegare al figlio l’origine di un’evidente ferita alla testa: prima dice di essere stato vittima di percosse, poi di essere caduto accidentalmente.

La richiesta di differimento pena sollecitata dal magistrato di sorveglianza dopo che i medici avevano definito incompatibili le condizioni del boss con il carcere, viene respinta dal tribunale di sorveglianza di Milano; respinta anche la subordinata dell’avvocato di Provenzano: lasciarlo in regime di carcerazione nello stesso ospedale, però nel reparto di lunga degenza, invece che in quello del 41bis. Il no dei giudici, a differenza del passato, non è motivato con la pericolosità del detenuto, ma nel suo interesse. Si sostiene che “non sussistano i presupposti per il differimento dell’esecuzione della pena, atteso che Provenzano, nonostante le sue gravi e croniche patologie, stia al momento rispondendo ai trattamenti sanitari attualmente praticati che gli stanno garantendo, rispetto ad altre soluzioni ipotizzabili, una maggior probabilità di sopravvivenza”. Notare: sono gli stessi giudici a parlare, per Binnu, di “sopravvivenza”.

Binnu può contare su terapie più adatte nel reparto in cui si trova, spostarlo significherebbe garantirgliene di meno efficaci. Di più: i giudici sostengono che spostarlo, anche solo per 48 ore, potrebbe essergli fatale; ad ogni modo l’attuale condizione è di “carcerazione astratta”, lo tengono lì solo per curarlo. Nella relazione medica si legge: “Il paziente presenta un grave stato di decadimento cognitivo, trascorre le giornate allettato alternando periodi di sonno a vigilanza. Raramente pronuncia parole di senso compiuto o compie atti elementari se stimolato. L’eloquio, quando presente, è assolutamente incomprensibile. Si ritiene incompatibile col regime carcerario”. Il primario della V divisione di Medicina protetta del San Paolo, dottor Rodolfo Casati, nell’ultima relazione con cui Provenzano è dichiarato incapace di partecipare a un processo penale, scrive che il detenuto “è in uno stato clinico gravemente deteriorato dal punto di vista cognitivo, stabile da un punto di vista cardiorespiratorio e neurologico; allettato, totalmente dipendente per ogni atto della vita quotidiana? Alimentazione spontanea impossibile se non attraverso nutrizione enterale. Si ritiene il paziente incompatibile con il regime carcerario. L’assistenza di cui necessita è erogabile solo in struttura sanitaria di lungodegenza”.

Per il ministro della Giustizia Andrea Orlando “non risulta essere venuta meno la capacità del detenuto Provenzano Bernardo di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione criminale di appartenenza, anche in ragione della sua particolare concreta pericolosità non sono stati rilevati dati di alcun genere idonei a dimostrare il mutamento né della posizione del Provenzano nei confronti di Cosa nostra, né di Cosa nostra nei confronti di Provenzano”. Un capomafia a tutti gli effetti, insomma; per questo il 24 marzo scorso il ministro firma una proroga del ’41 bis nei suoi confronti per altri due anni. Paradossi su paradossi. Le Procure di Caltanissetta e Firenze conferma l’assenso alla revoca del 41 bis, già espresso nel 2014; la Procura di Palermo invece cambia idea: due anni fa era favorevole al “regime ordinario”, oggi non più. Perché? Nelle sedici pagine del provvedimento ministeriale, si legge: “Seppure ristretto dal 2006, Provenzano è costantemente tuttora destinatario di varie missive dal contenuto ermetico, cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa”. Anche la Superprocura è d’accordo al mantenimento del “carcere duro”. Il ministro si è uniformato. Ad ogni modo, delle due, l’una: o Provenzano è un “vegetale”, e non ha senso tenerlo al 41 bis; oppure è tutta una mistificazione, e a questo punto lo si dica.
E infine: Alfonso Sabella, magistrato non certo sospettabile di indulgenze, e fama di “cacciatore di mafiosi”, giorni fa si dichiarato convinto assertore della validità del “regime” carcerario 41-bis. Proprio per questo, sostiene, per evitare che “si getti discredito su questo strumento che può servire solo se applicato nei casi necessari si devono evitare “rischi” come quello che si sta correndo con l’insistenza su un ex padrino ormai alla fine”. Provenzano, appunto. Giornali e televisioni hanno parlato diffusamente, del “caso” Breivik, e con toni, spesso, scandalizzati. Del “caso” Provenzano neppure un inciso. Una ragione ci sarà, ma la risposta è bene se la dia il lettore.

Valter Vecellio

Il Dubbio, 22 aprile 2016