Mica bisogna essere “amici dei mafiosi” per accorgersi degli eccessi del regime 41 bis


casa-circondariale-di-tolmezzoSecondo la Cassazione ai detenuti per mafia è legittimo limitare il diritto a essere genitori. Giusto. Ma lo è anche dal punto di vista dei figli? Un caso a Trieste.

Questa rubrica si è già occupata del 41 bis: il cosiddetto regime carcerario “duro”, riservato ai mafiosi e ai detenuti ritenuti particolarmente pericolosi.

Lo abbiamo scritto in luglio, poco prima che Bernardo Provenzano morisse in cella anche se da tempo totalmente incapace d’intendere e di volere: se sono più che giustificate le regole che cercano d’impedire contatti esterni a chi dal carcere potrebbe condizionare o guidare gli affiliati di un’organizzazione criminale, pare assai meno corretto imporre altre norme, del tutto vessatorie, che con quella logica non hanno nulla a che spartire. Per esempio il divieto di cucinare. O l’obbligo di andare in bagno sempre e soltanto sotto l’occhio vigile di un agente di polizia penitenziaria. O anche l’isolamento nelle cosiddette “aree riservate”, dove i “41 bis” non possono nemmeno rivolgere la parola agli agenti. Hanno senso?

Perfino la presidente della commissione Antimafia, Rosi Bindi, che non ha mai avuto particolari propensioni garantiste, si è posta il problema, sia pure a livello squisitamente teoretico: “Sul 41 bis – ha detto – siamo disponibili a fare tutte le valutazioni per capire se ci sono regole non rispettose della dignità della persona”.

Questa rubrichetta si è permessa anche di criticare, ma una volta o due soltanto, la Corte di cassazione per alcune sentenze almeno apparentemente illogiche. Ecco, in questo caso i due temi si fondono insieme. Perché una recentissima sentenza della prima sezione penale della suprema corte (la numero 47939 dell’11 ottobre 2016) ha rigettato il ricorso di un boss della camorra, in carcere a Trieste per una sfilza di reati lunga così. Che cosa succede?

Che il boss è separato dalla prima moglie e ha avuto una seconda compagna (mai sposata) in Spagna, dove a lungo è stato latitante ed è stato catturato nel 2012. Da entrambe le relazioni il boss ha avuto figli, e dalla seconda in particolare è nato un figlio che è ancora minorenne. Per questo il recluso ha chiesto di poter dialogare telefonicamente una volta al mese con il ragazzino. Ma il Tribunale di sorveglianza di Trieste ha respinto la richiesta e stabilito che, in base al 41 bis, il recluso abbia diritto a un solo colloquio telefonico mensile con un familiare.

Questione chiusa. O forse no – Così il boss ha sollevato una questione di legittimità costituzionale, lamentando che fossero stati violati gli articoli 3, 29 e 30 (uguaglianza, rapporti familiari e doveri paterni all’educazione), perché la legge fondamentale non prevede “un numero di colloqui maggiore per i detenuti che abbiano figli nati fuori dal matrimonio”. Il Tribunale ha respinto l’eccezione, sostenendo che la vera ragione per cui gli veniva rifiutato il colloquio fosse da cercare nelle “difficoltà logistiche derivanti dal suo essere dimorante in Spagna”.

Il boss ha quindi fatto ricorso in Cassazione. Che ha respinto la richiesta. Confermando che il 41 bis, laddove limita a una sola telefonata mensile i rapporti familiari del recluso, non viola alcun suo diritto costituzionale: “La norma – scrivono i giudici – ha ripetutamente superato il vaglio di legittimità in considerazione delle esigenze di ordine e di sicurezza che giustificano le limitazioni previste”. E pertanto è legittimamente limitato anche l’esercizio del diritto a essere genitori. Fine della questione.

Tutto bene, tutto giusto. E nessuno prova particolare simpatia per un boss della camorra, ci mancherebbe. Ma i supremi giudici, così come la Corte costituzionale nelle valutazioni pregresse cui fa riferimento la Cassazione, hanno visto la questione dal punto di vista di un bambino? Hanno provato a immedesimarsi nella sua lontananza da un padre? Chissà…

Maurizio Tortorella

Tempi, 11 dicembre 2016

L’Unione delle Camere Penali Italiane boccia la “Riforma della Giustizia” programmata dal Governo Renzi


Avv. Valerio SpigarelliValerio Spigarelli, Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, boccia la proposta in 12 punti del governo Renzi: “Serve molto altro”.

“Mettiamola così: il progetto contiene alcune enunciazioni condivisibili. Ma nell’insieme è decisamente “pochino” per definirlo una vera riforma”. A Valerio Spigarelli, avvocato romano e dal 2010 presidente dell’Unione delle camere penali, basta questa breve premessa per colorare di scetticismo i 12 punti del “progetto di riforma della giustizia” presentato il 30 giugno dal Guardasigilli Andrea Orlando e sbandierato dal premier Matteo Renzi come “svolta epocale”.

Insomma, avvocato Spigarelli: ancora una volta… non arriverà la svolta?

Questa non è una riforma strutturale della giustizia. Da anni si parla di “grandi svolte”, ma qui non c’è nulla che attenga alla struttura costituzionale, al titolo IV: per esempio, non si propone nulla di veramente incisivo sul Consiglio superiore della magistratura; nulla sulla terzietà del giudice rispetto ad accusa e difesa; nulla sulla favola dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Anzi, semmai noto che c’è una piccola marcia indietro: i “saggi”, convocati nel 2013 da Giorgio Napolitano, avevano proposto un’Alta corte di disciplina separata per tutte le magistrature, mentre al punto numero 7 della “riforma” il ministro oggi pare volerla creare esclusivamente per la magistratura amministrativa e contabile.

Però ai punti 4 e 5 si parla del Csm: si dice che la carriera dei magistrati dev’essere basata sul merito e non sulle correnti, e che nel Consiglio dev’essere separato il ruolo di chi fa le nomine delle toghe e di chi applica le sanzioni.

Non basta. Il vero problema della giustizia italiana è che la terzietà del giudice non solo non è garantita, non c’è proprio. Il giudice resta contiguo al magistrato inquirente, ne condivide la istanze volte ad affermare la pretesa punitiva dello Sato e anzi se ne fa spesso carico in prima persona. A dimostrarlo è anche l’altissimo numero di provvedimenti di custodia cautelare: l’Italia è il solo paese europeo dove i detenuti in attesa di giudizio superano il 40% del totale. E la motivazione prevalente è quella del pericolo della reiterazione del reato: proprio perché il giudice condivide in pieno l’idea che il processo sia uno strumento di difesa sociale, non di risoluzione di una singola vicenda che contrappone lo Stato a un singolo imputato.

Lei sa, vero, che gli avvocati milanesi sciopereranno giovedì 17 luglio proprio perché in udienza un giudice ha dichiarato che, se fossero continuate le convocazioni di testi della difesa a suo parere “inutili”, in caso di condanna sarebbe stato “più duro” con gli imputati?

E hanno ben ragione di protestare. Questo problema emerge con forza anche dal saggio “I diritti della difesa nel processo penale e la riforma della giustizia” (Cedam, 224 pagine, 22 euro), curato dal grande giurista bolognese Giuseppe Di Federico e sponsorizzato dall’Unione delle camere penali. Nel corso del 2013 sono stati intervistati 1.265 penalisti italiani e il libro è appena uscito. Sa che cosa racconta?

Un disastro?

Che nel 72,9% dei casi il giudice accoglie “sempre o quasi sempre” una richiesta d’intercettazione avanzata dal pm, e un altro 26% dice che questo accade “di frequente”. Che il giudice è “più sensibile alle sollecitazioni del pm rispetto a quelle del difensore”: per gli avvocati è così nel 58 per cento dei processi “ordinari” e la quota sale al 71 nei procedimenti “rilevanti”, quelli più importanti e più seguiti dai mass media. Ne esce che l’iscrizione ritardata nel registro degli indagati è una pratica lamentata dal 65,9 per cento degli avvocati. Si scopre che molti di loro denunciano di essere non soltanto intercettati mentre parlano con i loro clienti (e questo accade “sempre” o “di frequente” nel 28,9 per cento dei casi, e “a volte” nel 42,2 per cento), ma che l’intercettazione, pur se totalmente illegale, viene perfino trascritta ed utilizzata negli atti. Si scopre che il 92,1 per cento degli intervistati sostiene che, nell’esame in aula dei testimoni, il giudice pone “domande suggestive”: una pratica espressamente vietata dal codice di procedura penale a tutela del diritto di difesa.

E quali sono le soluzioni che proponete voi avvocati penalisti?

Separare le carriere. E separare il Csm: due Consigli che decidono su carriere in modo separato per giudici e magistrati inquirenti. Poi un’Alta corte di disciplina, competente sulle violazioni disciplinari dei magistrati e anche degli avvocati in grado di appello. E perché non una Scuola superiore delle tre professioni giudiziarie, dopo la laurea? Alla fine, chi ne esce sceglie se fare il pm, il giudice o l’avvocato. Servirebbe anche per dare una qualche ventilazione alla magistratura e creare una comune cultura delle regole.

Altri elementi di debolezza della proposta in 12 punti del governo?

Al punto 9 leggo: “accelerazione del processo penale e riforma della prescrizione”. Ecco: chi non è d’accordo con lo slogan sui tempi? Ma il problema è proprio questo: in questi 12 punti io vedo soltanto slogan, se non battute. Il punto è che per tanti anni abbiamo avuto un premier che faceva battute e poi, purtroppo, non faceva le riforme che vagheggiava. Quello era l’originale: non vorrei che Renzi fosse l’imitazione. Slogan per intercettare la voglia di cambiamento e poi nessun atto concreto Ma torniamo al processo penale e alla prescrizione: lei sa dov’è che si prescrivono, soprattutto, i processi italiani?

Dove: in primo grado? In Corte d’appello?

Sorpresa. Nelle indagini preliminari: il 60% delle prescrizioni avviene lì, quando il fascicolo è ancora sul tavolo del pm! Il problema è che la stessa obbligatorietà dell’azione penale è una favola: a Bologna, Milano, Napoli, Roma, Torino, i procuratori hanno stabilito regole discrezionali per la gestione dell’arretrato, con canali preferenziali per questo o per quel tipo di reati. Ma perché ogni Procura deve andare per la sua strada? Non sarebbe meglio che la fosse la politica a indicare i reati da perseguire in modo prioritario, assumendosene la responsabilità in modo trasparente, davanti agli elettori?

Poi, a complicare ancora le cose e a garantire la prescrizione, c’è la lentezza della burocrazia tribunalizia…

Già. Lei sa a Roma quanto ci mette in media un fascicolo a passare dal Tribunale alla Corte d’appello?

No, quanto?

Sono appena 50 metri a separare i due uffici: ma la durata media per la trasmissione degli atti è 8 mesi. La prescrizione avviene nell’8% dei casi per “colpa” dell’avvocato o dell’imputato, ma nel restante 92% dei casi arriva per défaillance dello Stato. Per questo servirebbe davvero una riforma, non banali enunciazioni di principio.

Intanto la magistratura associata è comunque sul piede di guerra: ma la politica ce la farà mai a varare una riforma della giustizia veramente autonoma?

Per troppi anni la politica ha affidato le chiavi di ogni riforma in materia all’ordine giudiziario: è ovvio che quell’ordine apre e chiude le porte a seconda delle proprie convenienze. Oggi che la sinistra è al governo, però, il problema emerge. Lo stesso Giovanni Fiandaca, il giurista siciliano che il Pd ha candidato alle ultime elezioni europee (e che ora potrebbe andare al Csm, ndr) dice che vorrebbe un paese dove chi fa le leggi fa le leggi, e chi fa il giudice si limita ad applicarle. Ecco, io spero che la politica riaffermi il suo primato, uscendo dalla tutela dell’ordine giudiziario. Ma deve fare meglio di così. Molto, molto meglio.

Maurizio Tortorella

Panorama, 15 luglio 2014