Quintieri (Radicali): finalmente verrà riaperta la Falegnameria Industriale del Carcere di Rossano


Finalmente, dopo tanti anni, verrà riaperta la falegnameria industriale della Casa di Reclusione di Rossano e verranno assunti, per il momento, due detenuti dell’Alta Sicurezza. Lo dice Emilio Enzo Quintieri, già Consigliere Nazionale di Radicali Italiani e candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Calabria, all’esito di una visita effettuata insieme all’esponente radicale Valentina Anna Moretti, al Carcere di Rossano, attualmente guidato, in missione, dal Dirigente Penitenziario Maria Luisa Mendicino, Direttore della Casa Circondariale di Cosenza.

La falegnameria – fortemente voluta in quegli anni dal Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria Paolo Quattrone – che ha una superficie di 900 mq, venne finanziata dalla Cassa delle Ammende nell’ambito del progetto di Inserimento Lavorativo Detenuti (Ilde) con 1,5 milioni di euro, fu inaugurata il 9 ottobre 2006 dal Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia del II Governo Prodi con delega all’Amministrazione Penitenziaria Luigi Manconi e dall’ex Presidente del Comitato Carceri della Camera dei Deputati, On. Enrico Buemi. All’epoca, tutta l’attività produttiva, fu coordinata e gestita dal Consorzio Magna Grecia sotto forma di cooperativa, e funzionò grazie alla Provincia di Cosenza, Assessorato all’Edilizia Scolastica guidato dall’Avvocato Oreste Morcavallo, che fece un protocollo con l’Amministrazione Penitenziaria per favorire l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti, acquistando tutti gli arredi scolastici prodotti dalle lavorazioni penitenziarie.

L’ex Provveditore Regionale delle Carceri calabresi Quattrone, suicidatosi il 22 luglio 2010, diceva che “la gestione partecipata della vita carceraria, nell’assoluto rispetto delle regole, può creare un clima migliore all’interno della vita nelle strutture” ed è vero continua il radicale Quintieri. Quattrone come Provveditore Regionale si spese molto per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti in tutti gli Istituti Penitenziari della Calabria. Grazie a lui vennero ristrutturate e rinnovate quasi tutte le strutture penitenziarie calabresi che erano in una situazione di degrado assoluto. Tra le tante che vennero ammodernate vi fu Rossano, ma anche Cosenza, Paola, Laureana di Borrello ed altre ancora. Purtroppo, una volta ultimate le commesse per conto della Provincia di Cosenza, quella falegnameria industriale, che è dotata di strumenti ed apparecchiature all’avanguardia sia per la produzione di mobili che per l’antinfortunistica, chiuse e non venne più utilizzata per assenza di commesse, nonostante le continue sollecitazioni provenienti anche da parte nostra.

Attualmente, nell’Istituto di Rossano, è attivo anche un laboratorio per la lavorazione della ceramica, gestito dalla Ditta “Pirri Ceramiche Artistiche” di Francesco Pirri di Bisignano, che ha assunto alle sue dipendenze 4 detenuti dell’Alta Sicurezza. Quindi, adesso, con la falegnameria, i detenuti che saranno impiegati in attività lavorative, assunti e retribuiti da imprese esterne, da 4 passeranno a 6 e, prossimamente, potranno essere ancora di più se ci saranno ulteriori commesse. E’ non sono pochi visto che in Calabria, i “lavoranti” in Istituto alle dipendenze di datori di lavoro esterni sono soltanto 7 di cui 4 per conto di imprese (che sono quelli di Rossano, esclusi quelli della falegnameria) ed altri 3 (donne) per conto di cooperative. A questi si aggiungono 34 detenuti di cui 20 semiliberi (3 dei quali lavorano in proprio e 17 per conto di datori di lavoro esterno) ed altri 17 in lavori esterni ex Art. 21 O.P. Un dato molto basso rispetto a quello nazionale facendo il confronto con i “lavoranti” negli Istituti delle Regioni Veneto (314), Lombardia (274), Lazio (61), Emilia Romagna (42), Piemonte (38), Liguria (33), Trentino Alto Adige (22), Toscana (21), Puglia (20). Peggio della Calabria solo le Regioni Basilicata (0), Molise (1) ed Umbria (2).

Inoltre, l’Amministrazione Penitenziaria, ha assunto 76 detenuti, per i lavori intramoenia (manutenzione ordinaria fabbricato, cuochi, portavitto, addetto alla lavanderia, a tempo determinato, nel rispetto delle graduatorie previste dalla Legge Penitenziaria. In Calabria, invece, i “lavoranti” assunti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, sono 834 (14 donne), di cui 5 impiegati in lavorazioni, 712 in servizi di istituto, 50 nella manutenzione ordinaria dei fabbricati e 67 in servizi extramurari ai sensi dell’Art. 21 O.P.

Oggi, nel Carcere di Rossano, conclude l’ex Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani Emilio Enzo Quintieri, a fronte di una capienza regolamentare di 263 posti, sono ristretti 293 detenuti, 56 dei quali stranieri; 89 appartengono al circuito della media sicurezza e 203 a quello dell’alta sicurezza (183 As3 criminalità organizzata e 20 As2 terrorismo internazionale di matrice islamica), aventi le seguenti posizioni giuridiche : 3 giudicabili, 7 appellanti, 10 ricorrenti, 273 definitivi di cui 31 ergastolani, 26 dei quali ostativi cioè che non usciranno mai dal carcere salvo collaborazione con la Giustizia o nei casi di collaborazione impossibile. A Rossano manca un Direttore titolare, speriamo che al più presto l’Amministrazione Penitenziaria ne nomini uno in pianta stabile perché un’Istituto così importante e complesso non può essere affidato ad un Dirigente in missione per due volte a settimana.

Suicidi dei detenuti e 41 bis, indaga la Commissione Diritti Umani del Senato. Audita la Radicale Bernardini


Cella 41 bis OPAl Senato continuano le audizioni della Commissione straordinaria dei diritti umani, in particolar modo sul regime di detenzione relativo all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, presieduta dal senatore Luigi Manconi. Il 15 ottobre scorso è stata la volta della segretaria dei radicali Rita Bernardini che ha tracciato un bilancio preoccupante in merito alla situazione del nostro sistema penitenziario. “Ci sono intere sezioni detentive esclusivamente in mano alla polizia penitenziaria – ha spiegato la Bernardini – anch’essa sotto organico e sofferente, e lo dimostra il numero di suicidi. Anche sull’aspetto lavoro a me non risulta che i numeri siano notevolmente cambiati. Siamo sempre a una percentuale di non più del 20% di detenuti che hanno accesso alla possibilità di lavoro e questo determina la giornata del detenuto, che viene trascorsa nell’ozio”.


D’altronde, sempre secondo la Bernardini, “in carcere si risparmia su tutto, anche nel materiale di pulizia della cella, tranne che sugli psicofarmaci, che consentono a persone provate dalla detenzione di poter superare questo stato. E molto alta infatti, intorno al 25%, la percentuale di persone detenute che hanno precedenti di tossicodipendenza”. Davanti alla Commissione, la segretaria dei radicali ha anche affrontato il tema, oramai abbandonato dalla politica, dell’amnistia spiegando che “non viene tenuto conto del fatto che avere oltre 5 milioni di procedimenti penali pendenti continua a rallentare la nostra giustizia, quindi fare un’amnistia significa pulire un’arteria intasata per fare quelle riforme strutturali che consentano alla macchina di camminare”.
La segretaria dei radicali spiega anche il ruolo decisivo dell’informazione: “Si martella l’opinione pubblica con i fatti di cronaca nera, facendo intuire che aumentano i reati quando non è vero e solo perché fa audience. In un Paese che così facendo, dal punto di vista del diritto della conoscenza dei cittadini – ha concluso la Bernardini – dimostra di essere fuori da ogni criterio di democrazia”.


rita bernardiniDurante l’audizione ha preso la parola il senatore Peppe De Cristofaro, del gruppo Sinistra ecologia e libertà e membro della commissione, esprimendo sintonia di idee con la Bernardini e ribadendo che “il clima è sfavorevole grazie anche all’informazione, ma il parlamento dovrebbe avviare una riflessione e porre l’argomento della clemenza, accompagnata però dalle riforme che aboliscano leggi che producono carcerazione facile”.
Il senatore De Cristofaro ha voluto anche porre una considerazione sulla vicenda del 41 Bis spiegando che “la vera struttura del 41 bis è quella del non detto. Non si dice chiaramente – ha chiosato De Cristofaro – che è un duro strumento per portare al pentimento i mafiosi”. Il senatore ha concluso con una domanda: “È un esempio di civiltà il fatto che lo Stato utilizzi uno strumento di tortura per portare i mafiosi a collaborare?”. Parole forti, soprattutto dopo l’audizione del 4 Giugno scorso del procuratore Nicola Gratteri, il quale ha confermato la validità del 41 Bis e la proposta di riaprire il carcere dell’Asinara e Pianosa per concentrare tutti i detenuti sottoposti alla carcerazione dura. Parere che si era andato a scontrare con le parole del dottor Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento presso il Dap, ascoltato dalla Commissione sempre nel mese di Giungo: “Nell’assegnazione della misura si evita l’assembramento in pochi istituti di soggetti che facciano parte della medesima associazione o ai organizzazioni fra loro contrapposte. E si evita che soggetti di grande spessore criminale siano ristretti nello stesso istituto. I soggetti in 41 bis sono detenuti rigorosamente in celle singole. Come tutti i detenuti hanno diritto a colloqui e momenti socialità con altri detenuti, in gruppi non superiori a quattro”. La Commissione preseduta da Luigi Manconi, continuerà a svolgere l’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani per poi produrre un dossier entro gennaio prossimo. La prospettiva sarebbe quella di portare la discussione in parlamento.

Damiano Aliprandi

Il Garantista, 18 ottobre 2014

Gerardi (Radicali) : Ministro Orlando revochi subito il 41 bis a Provenzano


Cella 41 bis OPUn paio di anni fa mi recai in visita ispettiva presso il carcere di Parma insieme alla delegazione radicale composta da Rita Bernardini, Irene Testa e Valentina Stella. Dopo aver visitato l’intero istituto penitenziario e parlato con i detenuti, ci recammo anche nella zona dove all’epoca era recluso Bernardo Provenzano.

Non appena l’uomo si alzò dal letto per venirci incontro, ci rendemmo subito conto di trovarci al cospetto di una persona il cui stato psicofisico era ormai irrimediabilmente compromesso: Provenzano, curvo sullo schiena, si muoveva lentamente e con grande fatica e nel corso di quei pochi istanti in cui si è svolto il “colloquio” non ha fatto altro che biascicare parole prive di senso, frasi sconclusionate e del tutto incomprensibili.

Dopo quella visita ispettiva, lo stato di salute di Provenzano, se possibile, si è ulteriormente aggravato. Le certificazioni mediche, infatti, attestano che il detenuto, allettato da dicembre 2012, presenta un quadro clinico profondamente deteriorato e in progressivo peggioramento, uno stato cognitivo irrimediabilmente compromesso, più tutta una serie di gravissime patologie, tra cui il morbo di Parkinson, che gli rendono impossibile persino l’alimentazione spontanea, al punto che qualche tempo fa i medici sono stati costretti a inserirgli il sondino naso-gastrico direttamente nell’intestino, visto che nemmeno lo stomaco gli funziona più.

Quando cominceremo a prendere atto dell’evidenza, ossia del fatto che il potente boss di Cosa Nostra di un tempo oggi non esiste più? Lo ha scritto chiaramente Luigi Manconi sull’Unità di domenica scorsa e non si può certo dargli torto: oggi Bernardo Provenzano è una persona anziana e gravemente malata che dipende dagli altri per ogni minimo aspetto della vita quotidiana, che non riconosce più i familiari che lo vanno a trovare in carcere e che non è nemmeno in grado di ricevere gli atti giudiziari che gli vengono notificati, tanto è vero che il Tribunale di Milano, non più tardi dì qualche settimana fa, gli ha nominato un amministratore di sostegno.

Lo stato di salute mentale dell’uomo è talmente precario che ben tre autorità giudiziarie hanno disposto la sospensione dei processi in cui Provenzano compariva nella veste di imputato, in quanto lo stesso è stato dichiarato incapace di partecipare alle udienze (ossia incapace persino di rendersi conto dì trovarsi in un’aula giudiziaria).

Lo stesso medico che attualmente ha in cura Provenzano ha inviato una relazione al Tribunale di Sorveglianza di Milano nella quale sostiene che le condizioni di salute del detenuto sono incompatibili con il regime carcerario.

E però a dispetto di tutte le perizie, le relazioni e le certificazioni mediche, Bernardo Provenzano continua non solo a rimanere in carcere, ma persino ad essere sottoposto al 41-bis, il che peraltro sta avvenendo anche contro il parere di tre procure distrettuali antimafia (Firenze, Caltanissetta e Palermo) che da tempo sì sono espresse a favore della revoca del cosiddetto “carcere duro”.

Il ministro della Giustizia Orlando, infatti, basandosi sul parere del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e della Procura nazionale antimafia, ritiene che Bernardo Provenzano possa ancora essere un soggetto “pericoloso”, e ciò sulla base di alcune relazioni del Gruppo operativo mobile (reparto specializzato della Polizia Penitenziaria) dalle quali emergerebbe che “a tratti”, ovvero “sporadicamente”, il detenuto sembra essere ancora in grado di “rispondere” alle domande che gli vengono rivolte.

L’evidente contraddizione fra il riconoscimento del grave stato dì salute dell’imputato, che non gli consente di partecipare validamente al processo, e il suo mantenimento in stato di detenzione, per di più in un regime inumano come il 41-bis, non è stata fin qui meritevole di alcuna attenzione, neppure tra coloro che, d’abitudine, si indignano per le violazioni dei diritti fondamentali; ciò evidentemente perché vi è la consapevolezza che una pubblica presa di posizione che riguardi Provenzano rischia di condannare chi la esprime alla più assoluta impopolarità. Ma i diritti umani sono per definizione universali e inviolabili e pertanto non possono essere negati ad alcuno, sia esso pure un boss di Cosa Nostra.

Lo sanno bene i radicali che in queste ore sono impegnati nell’ennesimo sciopero della fame insieme a circa 200 cittadini proprio per richiamare l’attenzione di Governo e Parlamento non solo sulle morti in carcere e sul diritto alle cure negato ai detenuti, ma anche sulla illegittimità del 41-bis, nato come regime detentivo “provvisorio” e oggi stabilizzato e applicato persino a soggetti ridotti in stato pressoché vegetativo come Provenzano, con buona pace non solo delle Convenzioni internazionali e della Costituzione, ma anche di quel minima senso dì umanità di cui tanto spesso ci si fa vanto.

Se davvero il ministro della Giustizia Orlando vuole dimostrare di avere a cuore questi temi, se veramente intende dar prova all’Europa di aver voltato pagina rispetto ai diritti dei detenuti, specialmente quelli che si trovano in condizioni di salute estreme, può farlo partendo proprio dalla revoca del carcere duro a Bernardo Provenzano.

Sarebbe infatti una sconfitta per tutti quanti noi se un uomo così gravemente malato dovesse morire in carcere, per giunta dopo essere stato sottoposto a un trattamento punitivo così inutilmente severo e senza aver ricevuto il sostegno e il conforto dei propri cari.

Avv. Alessandro Gerardi (Comitato Radicale per la Giustizia Piero Calamandrei)

Il Garantista, 22 luglio 2014

Carceri, le Nazioni Unite richiamano l’Italia. Pannella in sciopero della sete


Nazioni Unite OnuL’Italia dovrebbe fare uno sforzo per “eliminare l’eccessivo ricorso alla detenzione e proteggere i diritti dei migranti”. A chiedere alle autorità italiane “misure straordinarie” sul tema è un comunicato del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria reso noto al termine di una visita di tre giorni nel paese (7-9 luglio).

“Quando gli standard minimi non possono essere altrimenti rispettati, il rimedio è la scarcerazione”, ha detto Mads Andenas, Presidente del Gruppo. Gli esperti ricordano le raccomandazioni formulate dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2013, incluse le proposte in materia di amnistia e indulto, e le considerano “quanto mai urgenti per garantire la conformità al diritto internazionale”.

Per l’Onu le recenti riforme tese a ridurre la durata delle pene detentive, il sovraffollamento carcerario e il ricorso alla custodia cautelare sono positive, ma sussistono preoccupazioni per l’elevato numero di detenuti in regime di custodia cautelare ed il ricorso sproporzionato alla custodia cautelare per gli stranieri e i Rom, minori compresi.

L’Italia – spiega il gruppo dell’Onu – non ha una politica generale di detenzione obbligatoria per tutti i richiedenti asilo e migranti irregolari, ma restiamo preoccupati per la durata della detenzione amministrativa e per le condizioni detentive nei Centri di identificazione ed espulsione”.

Gli esperti si dicono inoltre preoccupati per i resoconti dei rimpatri sommari e per il fatto che “il regime detentivo speciale previsto dall’articolo 41 bis” per i mafiosi non è ancora stato allineato agli obblighi internazionali in materia di diritti umani. Composto da cinque esperti, il gruppo di lavoro dovrebbe presentare un rapporto al Consiglio Onu dei diritti umani nel settembre 2015.

Monica Ricci Sargentini

Corriere della Sera, 12 luglio 2014

http://www.radioradicale.it/l-onu-all-italia-carceri-troppo-affollate-trovate-alternative-alla-detenzione

Carceri/Giustizia : Intervista al Sen. Luigi Manconi (Pd)


radioradicale (1)Carceri, dopo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo anche l’Organizzazioni delle Nazioni Unite giudica inaccettabili le condizioni dei detenuti italiani. Per il Senatore del Partito Democratico Luigi Manconi, Presidente della Commissione per i diritti umani del Senato, “Il Parlamento ha perso troppe occasioni e la classe politica ha allestito una impermeabile e organizzata indifferenza per difendersi da un obbligo morale”.

Claudio Landi

Radio Radicale, 16 Luglio 2014

http://www.radioradicale.it/scheda/416640

Manconi (Pd) : Assistenza sanitaria per i detenuti… se l’Italia sembra la Guinea


Leggo dello sciopero della fame iniziato il 30 giugno scorso, da Rita Bernardini, Segretaria di Radicali Italiani e vengo preso da un senso di smarrimento.

Lei nel proporre ancora una volta il tema del carcere – con tutta la sapientissima follia che è virtù propria delle persone razionali e pragmatiche – ha dedicato particolare attenzione alla questione dell’assistenza sanitaria per i reclusi.

Si tratta di un problema gigantesco, che non sembra presentare differenze troppo acute tra gli standard di cura e di terapia garantiti nelle carceri del nostro Paese e quelli presenti, per esempio, nella prigione di Bata, città della Guinea equatoriale, dov’è rinchiuso Roberto Berardi, un prigioniero italiano che ho iniziato a conoscere. Da qui quel mio senso di smarrimento.

A scanso di equivoci, il nostro è un Paese di solida democrazia pur afflitto da una grave crisi di rappresentanza politica e da un antico deficit di garanzie nel processo penale, mentre la Guinea equatoriale è dominata dal 1979 da un despota di nome Teodoro Obiang.

Di conseguenza lo stato dei diritti nel nostro Paese e lo stato dei diritti in quella nazione dell’Africa centrale sono incomparabilmente diversi. Ci mancherebbe. Ma qui si verifica un atroce paradosso: la profonda differenza tra i due sistemi e la superiore qualità della vita sociale, dei diritti individuali e collettivi, delle tutele e delle libertà in Italia tendono via via ad attenuarsi se osserviamo alcuni particolari gruppi sociali e alcuni particolari luoghi.

Per un verso le condizioni degli strati più vulnerabili di popolazione e, per l’altro, la debolezza delle garanzie negli istituti del controllo e della repressione sembrano rassomigliarsi qui e in Guinea. In altre parole, per quanto sia doloroso riconoscerlo, a un derelitto recluso in una cella dell’Ucciardone o internato nell’Opg di Aversa e affetto da una qualche patologia può accadere di non essere trattato in modo troppo diverso (ovvero migliore) di come viene trattato Berardi nella sua cella nel carcere di Bata dove la temperatura è stabilmente sui 40 gradi e dove le condizioni igienico-sanitarie determinano il cronicizzarsi della malaria.

Berardi sta in quel carcere dal gennaio del 2013 e si trova in stato di isolamento da oltre sette mesi, sottoposto a percosse, violenze e sevizie, dopo una condanna a due anni e quattro mesi e al pagamento di un milione e 400mila euro. Gli è stata promessa la grazia dal presidente Obiang, ma l’atto di clemenza potrebbe sospendere l’esecuzione della pena senza rimetterlo in libertà, perché quella sanzione pecuniaria costituisce la vera merce di scambio. L’integrità del suo corpo (e la stessa possibilità di salvezza) “vale” oggi un milione e 400mila euro.

E quanto vale la vita – e quanto valgono i corpi malati, febbricitanti, affetti dalle più diverse patologie, debilitati dalla cattiva alimentazione, scossi da infermità mentali o annichiliti dalla follia – di migliaia di detenuti italiani? Per questo Rita Bernardini ha intrapreso lo sciopero della fame finalizzato a interrompere la tragedia delle morti in carcere e a denunciare la carenza di cure che riguarda anche i reclusi incompatibili con la detenzione.

Alla Bernardini si sono affiancati nel digiuno altri 200 cittadini: e condividono il suo allarme tantissimi giuristi, sindacati della polizia penitenziaria, cappellani e direttori di carcere, tutte le associazioni che operano nel sistema penitenziario, alcuni (purtroppo pochi, pochissimi) parlamentari e quel Giorgio Napolitano che, alla bella età di 89 anni, conserva tutta intera la capacità di scandalizzarsi.

Le prime parole e i primi atti del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, fanno ben sperare: e i provvedimenti presi dagli ultimi governi – che alcuni irresponsabilmente hanno annunciato come “svuota carceri” – hanno ridotto il sovraffollamento. Ma non in misura sufficiente: siamo ancora ben oltre la capienza regolamentare.

E rimaniamo lontani dal garantire alla gran parte dei reclusi quelle otto ore di “celle aperte” che costituiscono una indispensabile opportunità di socializzazione e di libertà di movimento. Ciò comporta – oltre alla sofferenza di corpi ristretti in spazi angusti, addensati entro perimetri soffocanti, abbracciati loro malgrado e promiscui per necessità, allo stesso tempo intimi e ostili – anche la decadenza di tutti i servizi, a partire proprio da quelli della salute.

Oggi i detenuti italiani che si trovano in questo stato sono oltre 58mila. A essi vanno sommati i 3.300 nostri connazionali reclusi in prigioni di Stati stranieri. Si tratta di Paesi che, fortunatamente, non assomigliano sempre alla Guinea equatoriale, ma ci sono anche quelli che ne rappresentano una versione ancora più feroce.

Ciò che, invero, appare non troppo dissimile è, come si è detto, la condizione dei penitenziari. E di quei connazionali che si trovano detenuti all’estero nulla, o quasi nulla, sappiamo. Quanto ci viene raccontato a proposito di Roberto Berardi non può che inquietarci. E costituisce una ragione in più per sostenere l’iniziativa di Rita Bernardini e di quanti credono nella giustizia giusta.

Luigi Manconi (Senatore Pd)

L’Unità, 10 luglio 2014

Mauro Palma: Bisogna rivedere il 41 bis per evitare degrado psicofisico detenuti


Mauro PalmaL’isolamento dei detenuti – secondo gli standard europei – va compensato con misure che evitino il degrado psico-fisco del soggetto. Per questo il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti ha chiesto, con riferimento ai detenuti sottoposti al regime detentivo del 41-bis, che le due ore d’aria attualmente previste vengano raddoppiate.

A dirlo Mauro Palma – presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale e per sei anni (fino al 2011) presidente del Comitato per la prevenzione della tortura – durante l’audizione svolta il 25 giugno davanti alla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani proprio in relazione al regime del 41-bis.

Palma ha spiegato che il Comitato ha mosso alcuni rilievi rispetto a questo regime detentivo: il primo relativo all’applicazione non omogenea nei diversi istituti penitenziari; il secondo connesso al sistema di reclutamento e formazione degli agenti appartenenti al gruppo operativo mobile; il terzo legato alla presenza all’interno del circuito penitenziario, nelle sezioni destinate ai detenuti in regime di 41-bis, di aree riservate in cui vengono adottate misure ancora più restrittive.

Nell’ultimo rapporto pubblicato il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, in merito al regime del 41-bis, ha indicato alcuni punti su cui intervenire: lo svolgimento di maggiori e più estese attività nonché il raddoppio delle ore d’aria; la possibilità di cumulo delle visite mensili; modalità più agevoli per le telefonate ai detenuti. Sullo stesso argomento, la Commissione straordinaria del Senato il 26 giugno ha ascoltato Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia.

Piscitello (Dap); sono 715 i detenuti al 41bis, di cui 648 per associazione mafiosa


Cella 41 bis OPI detenuti in 41 bis, cioè in regime di carcere duro, sono complessivamente 715. Di questi 648 sono in carcere per associazione mafiosa (rispetto a un totale di detenuti per 416 bis pari a 6.009). Sono inoltre 295 i condannati all’ergastolo a cui è stato applicato il 41 bis. Sono i dati forniti da Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), nel corso di un’audizione alla commissione Diritti umani.

Sono in tutto 12 gli istituti in cui viene applicato il 41bis. Il regime di carcere duro viene disposto “con decreto del ministro della Giustizia a seguito di un’istruttoria della mia direzione”, ha spiegato Piscitello; e anche le proroghe “non sono mai automatiche”, ma seguono analoghe verifiche.

Nell’assegnazione della misura si evita l’assembramento in pochi istituti di soggetti che facciano parte della medesima associazione o di organizzazioni fra loro contrapposte. E si evita che soggetti di grande spessore criminale siano ristretti nello stesso istituto. I soggetti in 41 bis sono detenuti rigorosamente in celle singole. Come tutti i detenuti hanno diritto a colloqui e momenti socialità con altri detenuti, in gruppi non superiori a quattro”.

Riguardo ai colloqui, su cui il presidente della Commissione, il senatore Luigi Manconi, ha chiesto approfondimenti, “la normativa – ha detto Piscitello – stabilisce che i detenuti possono fare un colloquio al mese in sale attrezzate con vetri divisori per evitare passaggio di oggetti”.

Nel tempo “ci sono stati interventi per rendere più umani i rapporti con la famiglia e per tutelare i minori”: è stata prima “prevista possibilità che figli con meno di 16 anni potessero svolgere colloquio senza vetro divisorio”. Successivamente “una circolare ha ridotto da 16 a 13 anni la soglia, a seguito di alcune segnalazioni da parte delle procure distrettuali antimafia di minori che, in non pochi casi, venivano utilizzati per veicolare messaggi fraudolenti e in alcuni casi ordini di morte”.

I colloqui “sono videoregistrati, ma non registrati a meno che non lo chieda la magistratura”. Riguardo alle telecamere, “sono presenti nelle aree comuni, e in alcuni casi anche in aree riservate”, ha spiegato Piscitello, che ha anche rilevato di aver avuto “più volte interlocuzioni con procure distrettuali” e di aver “risposto negativamente all’uso surrettizio delle telecamere come sistema di intercettazione”.

 

Giustizia: tortura, arriva il reato, ma è devitalizzato. Nessun aggravante per i Pubblici Ufficiali


Palazzo Montecitorio Roma“Forti sofferenze fisiche o mentali ovvero trattamenti crudeli, disumani o degradanti” allo scopo di ottenere informazioni, di punizione o discriminazione. È questa la tortura secondo il disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale”. E non appena la Camera lo avrà vagliato, il ddl registrato al n. 849 entrerà finalmente nell’ordinamento italiano. Al Senato, infatti, il ddl è già passato a marzo con la quasi unanimità.

Quasi, perché in tre si sono astenuti dal voto: Maria Rizzotti e Francesco Aracri (Fi-Pdl) e il leghista Roberto Calderoli. Il provvedimento, proposto dal senatore Luigi Manconi (Pd), è stato però modificato ampiamente dalla commissione Giustizia del Se-nato, tanto da “devitalizzarlo”, come spiega lo stesso presidente della commissione sui Diritti umani di Palazzo Madama: nell’attuale testo “la tortura non è qualificata come reato proprio ma comune, quindi imputabile a qualunque cittadino e non solo ai titolari di funzione pubblica”.

Un reato ordinario, quindi. Ma sono previste, in compenso, delle aggravanti nel caso in cui il colpevole sia “un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio”, come si legge nel provvedimento. Depotenziato ma almeno ci sarà. Il disegno di legge si va a inserire tra i delitti contro la persona già previsti nel nostro ordinamento, più esattamente in aggiunta all’art. 613 del codice penale “Stato di incapacità prodi rato mediante violenza”, con gli articoli 613-bis e 613- ferii reato è punibile con una pena da 3 a 12 anni.

Pena che raddoppia in caso di lesioni gravi o gravissime e che diventa ergastolo in caso di decesso. Inoltre, ne beneficeranno anche gli stranieri che non potranno essere espulsi o estradati verso un Paese in cui esistano motivi di ritenere che corrano il rischio di essere sottoposti a tortura. Prima di sanare definitivamente la lacuna rispetto alla Convenzione Onu manca solo un passo: il vaglio della Camera. Diversi parlamentari avevano assicurato che la discussione sarebbe cominciata entro la fine del mese, di maggio. Siamo arrivati a giugno.

di Tiziana Barìllà

Left, 9 giugno 2014

Carceri, l’Europa dà un voto d’incoraggiamento. Ma il problema rimane


carcere regina coeli 4Il giudizio del comitato europeo è positivo sui provvedimenti presi dall’Italia. Il ministro Orlando però non cede all’entusiasmo: “C’è ancora moltissimo da fare”.

Prima viene lo stupore: l’Italia passa a pieni voti l’esame dell’Europa sul tema delle carceri, titolano i giornali. Dopo, ritorna il principio di realtà: “Da Strasburgo arriva una notizia positiva – dice il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Michele Vietti – ma continuiamo a essere sotto osservazione, e tutti gli allarmi lanciati, a cominciare da quelli del capo dello stato, rimangono drammaticamente attuali”.

Il fatto è che il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha valutato positivamente i primi passi mossi dagli ultimi governi italiani (Monti, Letta, Renzi) per la risoluzione di uno dei problemi più imbarazzanti del nostro paese – quello delle condizioni di detenzione – riscontrando “significativi risultati”.

Il giudizio espresso dalle istituzioni europee, però, è solo una prima e preliminare valutazione della situazione. E bisognerà aspettare sino al giungo 2015 (entro quella data è attesa la pronuncia) per ricevere una valutazione approfondita e dettagliata dei risultati ottenuti.

Nel frattempo, la discussione è aperta: “Quello che si è realizzato in Italia è ancora insufficiente”, dice a Europa Luigi Manconi, senatore, e presidente della commissione per la tutela dei diritti umani. Spiegando che “il numero dei detenuti italiani è sceso, ma il sovraffollamento rimane altissimo rispetto alla capienza ordinaria”.

I dati forniti dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dicono che le persone che scontano una pena in galera sono passati dai 66.028 del gennaio 2013 ai 58.925 di oggi. È questa la prova che “misure intelligenti sono state prese in questo anno e mezzo” ragiona Manconi. Sottolineando che è proprio questo ciò che “l’Europa ha apprezzato nell’azione dei governi italiani”. Tuttavia – e qui torna il tono amaro – “sono dei provvedimenti ancora non all’altezza di rispondere alla straordinarietà della situazione carceraria italiana. Per questo – conclude Manconi – io e un’altra sessantina di parlamentari di tutti gli schieramenti abbiamo scritto la scorsa settimana al ministro Orlando per dirgli: “Coraggio, avanti con audacia”.

Al guardasigilli del resto non manca la consapevolezza. Tanto è vero che mentre altri ieri si lasciavano trasportare dall’entusiasmo lui ha commentato la notizia dicendo “c’è ancora tantissimo da fare”. Frase su cui non può non essere d’accordo Rita Bernardini, radicale, da anni in prima fila sulla battaglia per la legalità delle prigioni italiane. Che a Europa spiega che “la valutazione europea non cancella affatto la condanna che l’Italia ha ricevuto per il trattamento che riserva ai suoi detenuti”. Parlando di continue “violazioni dei diritti umani”, espedienti “burocratici” per rispettare criteri didascalici e di un giudizio (quello espresso dal comitato europeo) che “fa inorridire” per le cose che non vede. Il problema delle carceri, insomma, rimane. Anche se non ce lo chiede più l’Europa.

di Nicola Mirenzi

Europa, 6 giugno 2014