Giustizia: carceri italiane luogo per reclutare terroristi e Rossano è la nostra Guantánamo


Carcere di RossanoLe carceri italiane, senza volerlo, stanno diventando un luogo di reclutamento dei terroristi islamici. Lo dicono le grida di esultanza registrate in alcune prigioni dopo la strage di Parigi. E lo conferma il Sappe (sindacato autonomo degli agenti penitenziari), che proprio nelle ultime settimane, sul suo sito, ha lanciato ripetuti allarmi sul “rischio fondamentalismo islamico nelle carceri”.

In uno di questi, il segretario del Sappe, Domenico Capece, precisa di avere segnalato il problema al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e fa il punto della situazione. Al 31 ottobre scorso, su 52.400 carcerati, 17.342 risultavano stranieri, dei quali 13.500 extracomunitari e 8 mila provenienti dal Maghreb e dall’Africa. L’indottrinamento e il reclutamento dei terroristi sembra più diffuso tra questi ultimi.

Scrive Capece: “Il carcere è un terreno fertile, nel quale fanatici estremisti, in particolare ex combattenti, possono far leva sugli elementi più deboli e in crisi con la società, per selezionare volontari mujaheddin da inviare nelle aree di conflitto, grazie a un meticoloso indottrinamento ideologico. Non è un caso la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, i quali non avevano manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell’entrata in carcere, ma poi si sono trasformati gradualmente in estremisti”.

I detenuti che, all’ingresso in carcere, si sono dichiarati musulmani sono circa 5.700, e negli ultimi dieci anni hanno ricevuto un trattamento alquanto generoso. Su 202 istituti penitenziari esistenti, in 52 è stato riservato uno spazio adibito a moschea, e in nove prigioni è consentito l’accesso di un imam, accreditato dal ministero dell’Interno. Il terreno per il proselitismo, sembra dunque abbastanza vasto.

Per limitare i danni, da 2009 l’amministrazione penitenziaria ha deciso di concentrare i detenuti condannati per terrorismo in un solo istituto di pena, quello di Rossano, città di 36 mila abitanti, ubicata sulla costa ionica della Calabria. Attualmente questo carcere, costruito nel Duemila, su 231 detenuti (rispetto a una capienza di 215), ne conta 70 di fede musulmana, dei quali 21 sono condannati per terrorismo internazionale.

Una brava giornalista di origine calabrese, Lidia Baratta, ha appurato su Linkiesta che di questi 21, uno è un terrorista dell’Eta basca, uno è ritenuto vicino all’Isis, mentre gli altri 19 sarebbero militanti di Al Qaeda. Tutti con pena definitiva nel 2026. Tra le figure di spicco, l’ex imam di Zingonia (Bergamo), il pakistano Hafiz Muhammad Zulkifal, arrestato l’aprile scorso come capo di una cellula di Al Qaeda con base operativa in Sardegna, dopo essere stato complice nel 2010 di attentati a Stoccolma, in Svezia. A lui, secondo le indagini della Dda di Cagliari, era indirizzata una telefonata in cui si sosteneva di “pensare al loro Papa”. Il carcere di Rossano, è diviso in due sezioni, una di media e l’altra di alta sicurezza. In quest’ultima sono reclusi i terroristi islamici.

Il militante radicale Emilio Quintieri, che sul suo blog si occupa in modo sistematico delle condizioni di vita nelle prigioni, ha definito quella di Rossano “la Guantánamo italiana, dove basta uno sguardo o una parola sbagliata per fare scattare il pestaggio”. Vero o no che sia, l’appellativo di “Guantánamo italiana” è rimasto, proprio per la concentrazione di terroristi islamici detenuti. Non solo.

Dopo la strage di Parigi, questo carcere è considerato un “obiettivo sensibile”. In un vertice tenuto il 18 novembre, cinque giorni dopo il Bataclan, il prefetto di Cosenza, i capi delle forze dell’ordine, il procuratore di Catanzaro e il direttore del carcere hanno deciso di alzare il livello di sicurezza, con maggiori controlli sui visitatori e con un pattugliamento armato 24 ore su 24.

Ma il segretario del Sappe, Capece, dopo una visita al carcere, facendosi interprete delle guardie carcerarie, ha detto chiaro e tondo che “il livello di sicurezza è pari a zero. Il personale che ci lavora è specializzato, ma carente. Ogni giorno nella sezione speciale dovrebbero esserci quattro agenti di polizia penitenziaria, ma purtroppo ne abbiamo uno solo, e i turni sono estenuanti”. Colpa della legge di stabilità, sostiene, che taglia 36 milioni alla polizia penitenziaria (stipendi e straordinari) e 70 milioni all’amministrazione delle carceri. “Per impedire il proselitismo”, sostiene Capece, “è necessario sospendere il sistema della vigilanza dinamica, introdotta nelle carceri dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che consente ai detenuti di stare molte ore al giorno fuori dalle celle, mischiati tra loro, senza fare nulla e con controlli sporadici e occasionali della polizia penitenziaria.

Ora a Rossano sono stati finalmente adottati dei limiti più severi. Ma non capisco perché i terroristi islamici debbano essere ristretti a Rossano, e non all’Asinara o a Pianosa. Questi soggetti devono essere reclusi in posti isolati, e non nelle carceri dei centri abitati”. Difficile dargli torto: per i terroristi, come per i mafiosi, servono carceri di massima sicurezza. Altrimenti, l’indottrinamento e il reclutamento di tagliagole Isis continuerà senza ostacoli.

Tino Oldani

Italia Oggi, 24 novembre 2015

La proposta: “Benefici anche per gli ergastolani che non collaborano”


cella detenuti 1«Anche i detenuti ergastolani ostativi che non collaborano con la giustizia hanno diritto ai benefici e alle misure alternative alla detenzione». È destinata a far discutere la proposta di legge firmata dalla deputata del Pd e membro della Commissione antimafia Enza Bruno Bossio, che in poco più di dieci giorni ha ricevuto l’adesione di 23 parlamentari tra Partito democratico, Partito socialista e Sinistra ecologia e libertà.

L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, introdotto all’inizio degli anni Novanta dopo le stragi di mafia, stabilisce che i condannati per alcuni reati gravi definiti “ostativi” non possano accedere alle misure di rieducazione e reinserimento nella società in caso di mancata collaborazione con la giustizia. «Divieto che, nel caso dei condannati all’ergastolo, si traduce in una “pena di morte occulta”come l’ha definita di recente Papa Francesco», dice Emilio Quintieri, esponente dei Radicali e collaboratore di Enza Bruno Bossio.

A fine 2014 i condannati all’ergastolo in Italia erano 1.584, di cui 86 stranieri, molti dei quali reclusi da oltre 26 anni, altri da più di 30. Tra di loro, i cosiddetti “ostativi”, molti dei quali coinvolti in reati legati all’associazione mafiosa, sono circa un migliaio. «Secondo l’ordinamento penitenziario se l’ergastolano ostativo non collabora, non avrà più accesso ai permessi premio né tantomeno alla detenzione domiciliare, affidamento in prova o libertà condizionale di cui godono invece gli altri ergastolani dopo 26 anni», spiega Quintieri. Se sei condannato per un reato grave che “osta” all’accesso di alcuni benefici, puoi accedere ai benefici, ai percorsi di rieducazione e alle misure alternative al carcere solo se collabori e fai i nomi dei tuoi complici.

Nel 2008 ben 700 ergastolani ostativi chiesero al presidente della Repubblica la sostituzione della loro pena con la pena di morte. Carmelo Musumeci, ergastolano del carcere di Spoleto, la chiama “pena di morte viva”. Oltre ai boss di mafia come Totò Riina e Bernardo Provenzano, tra gli ergastolani c’è chi è in carcere dal 1979, finito dietro le sbarre all’età di 18 anni. «Va detto», ricorda Quintieri, «che molti degli ergastolani ostativi non sono dentro per omicidio. A Catanzaro, ad esempio, Giovanni Farina è recluso da 35 anni per due sequestri di persona, ma non ha mai ucciso nessuno. In molti casi tra l’altro l’associazione mafiosa è presunta, non certa. Molti ergastolani per crimini efferati riescono invece ad accedere ai benefici perché non hanno il 4 bis, anche se sono molto peggio».

La domanda che viene da porsi: perché non collaborare con la giustizia? «Molti rifiutano di collaborare», risponde Quintieri, «perché, come mi ha detto un detenuto, “sarei il mandante dell’omicidio dei miei figli e dei miei familiari”. Il problema è che il diritto al silenzio riconosciuto in fase di procedimento non viene però concesso dopo».

La proposta di legge prevede di modificare l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario allargando i benefici anche in caso di mancata collaborazione purché ci siano i requisiti per accedere ai benefici e “siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”, oltre che l’assenza della pericolosità sociale. «È assolutamente necessario che dopo un lungo periodo di detenzione debbano prevalere le esigenze umanitarie ponendo un limite temporale assoluto alla pena dell’ergastolo che, in caso di reato ostativo ai sensi dell’articolo 4-bis della legge n.354 del 1975, la rende ineluttabilmente perpetua», ha detto Enza Bruno Bossio in aula.

L’8 maggio la proposta di legge è stata assegnata in sede referente alla Commissione Giustizia, dove si sta discutendo il disegno di legge anticorruzione, che contiene anche misure sul sistema penitenziario in linea con quanto chiesto dalla Corte Costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che più volte ha condannato l’Italia. Il testo è approdato anche in Commissione affari costituzionali e affari sociali per un parere.

Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, durante un convegno a Roma, si è dichiarato favorevole. Ma tutto andrà calibrato, soprattutto davanti a una opinione pubblica solitamente giustizialista. «Non può e non deve essere smantellato l’articolo 4 bis dell’ordinamento giudiziario», ha precisato Orlando. «La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella decisione del 25 novembre 2014 sul caso Vasilescu contro il Belgio, ha affermato che, quando manca una prospettiva di liberazione anticipata per l’ergastolano, il trattamento è inumano e viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Se è vero che attualmente l’ordinamento contempla dei correttivi che permettono anche ai condannati all’ergastolo, a determinate condizioni, di poter uscire dal carcere e rientrare nella collettività – quali la semilibertà o la liberazione condizionale – sono moltissimi i casi di detenuti in espiazione della pena dell’ergastolo per reati ostativi; è indispensabile sul punto una adeguata riflessione, che assicuri il raccordo di tutte le istanze complessivamente coinvolte».

Lidia Baratta

http://www.linkiesta.it – 15 Maggio 2015